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Notizie su Israele 469 - 12 agosto 2009

1. Così vivono gli avamposti d'Israele
2. Un fatto che dovrebbe preoccupare tutti
3. Costretti ad emigrare
4. La singolare storia ebraica del Birobidzhan
5. Libri
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Salmo 94:14-15. "Poiché il Signore non ripudierà il suo popolo e non abbandonerà la sua eredità. Il giudizio sarà di nuovo conforme a giustizia e tutti i retti di cuore lo seguiranno."
1. COSÌ VIVONO GLI AVAMPOSTI D'ISRAELE




«Siamo tornati a casa»

di Giulio Meotti

L'ingresso di Givat Assaf
Siamo tornati a casa", proclama il cartello all'ingresso di Givat Assaf, un avamposto israeliano che prende il nome da un colono ebreo ucciso dai palestinesi. "In questo punto preciso, 3.800 anni fa, la Terra d'Israele fu promessa al popolo ebraico". Il segretario della comunità, Benny Gal, spiega così la loro presenza: "Se ci portano via di qui, in pericolo sarà l'aeroporto internazionale Ben Gurion". Givat Assaf è uno dei quartier generali della "Hilltop Youth", la gioventù delle colline, la seconda generazione di coloni che sta organizzando la resistenza all'evacuazione degli insediamenti giudicati illegali, i cosiddetti outpost, al centro delle trattative fra Netanyahu e Obama.
Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all'inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli arabi. Le leggi del processo di pace non sembrano scalfirli. I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli via a forza quando arriva l'ordine di evacuazione da Gerusalemme. Chi resta, vive palmo a palmo con la morte. Lo scorso aprile uno di questi giovani è stato ucciso a colpi di ascia. In caso di conflitto non conta la legge dello stato, ma quella del Signore. E' come la frontiera americana dell'epopea western. Anche se ora il delegato americano Mitchell e Netanyahu stanno forse per presentare una sospensione nella crescita interna degli insediamenti, molti villaggi e comunità sono bloccati da anni. E' per questo che nascono gli outpost. Israele ha rimosso numerosi di questi accampamenti negli ultimi due anni.
Uno degli ultimi, Maoz Ester, consisteva in sette baracche di lamiera e cinque famiglie. "Rifaremo tutto da capo, loro distruggono e noi ricostruiremo", annuncia il leader Avraham Sandak. Altri outpost sono già stati programmati. Il movimento che li guida è la "Gioventù per la Terra d'Israele". Ne fanno parte anche ufficiali dell'esercito e dei servizi segreti. Il guru degli avamposti è Avri Ran, il teorico
Avri Ran
dell'Avoda Ivrit, l'ideologia sionista del lavoro riattualizzata come ritorno alla terra. E' noto come "lo sceriffo".
Guai a pensare che sia un fenomeno di estrema destra, categoria priva di senso in Israele. Con Ariel Sharon primo ministro sono nati 44 avamposti, "correte a costruire" diceva il generale del Likud. Altri 39 (secondo i dati di Peace Now) furono edificati sotto Rabin, Peres e Barak, i protagonisti di Oslo. Gli esecutivi laburisti non hanno fatto quasi nulla per impedire che gli avamposti si moltiplicassero. Israele non li considera enclave ribelli. Almeno a giudicare dalle cospicue forze di sicurezza a loro protezione. Così molte comunità hanno strade pavimentate, fermate degli autobus, sinagoghe, perfino campi sportivi. Si va dal semplice container appoggiato in cima a una collina o qualche fascia di baracche, sino a veri e propri insediamenti realizzati con prefabbricati tipo post terremoto.
Per la preghiera del sabato serve un minyam, il quorum necessario di dieci uomini. Basta questo per fare un outpost. Così si trovano dieci famiglie di peruviani convertiti all'ebraismo in un avamposto appena fuori l'insediamento di Efrat, tra Betlemme e Hebron. Uno dei
Givat Assaf
leader delle colline vive a Kfar Tapuach. Il villaggio è celebre per il miele che vi si produce, ma soprattutto per essere citato nella Bibbia, Giosuè 12. E' una delle trenta città conquistate dagli ebrei all'arrivo migliaia di anni fa. Oggi è uno degli insediamenti più ideologici della Cisgiordania, che i coloni chiamano con i nomi biblici di "Giudea e Samaria". Fondata da immigrati yemeniti, a Kfar Tapuach abita con moglie e figli David Ha'ivri, uno dei leader della gioventù delle colline. "Abbiamo chiamato Obama una delle nostre comunità", ci dice ridendo David Ha'ivri, originario di Long Island e oggi a capo dello Shomron Liaison Office. Non è uno scherzo, esiste davvero Givat Obama fra Gerusalemme e Beit El.
Della "Hilltop Youth" fanno parte giovani nati e cresciuti nelle colonie, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno nei grandi conglomerati per andare ad annidarsi in cima alle colline. Pregano in sinagoghe spesso fatte di terracotta. Si costruiscono la casa con le proprie mani, sono single o appena sposati, da pochissimo genitori. Si ritengono la nuova avanguardia dei coloni. Il loro motto è essenziale: "Costruiamo e il permesso arriverà". Vivono a un tiro di schioppo dagli arabi. Si muovono a cavallo o con un asino. Il quotidiano Haaretz dice che hanno un look "neo-hassidico", sono la "versione sionista del New Age occidentale". I loro padri sono diventati coloni soltanto dopo molti anni di vita negli insediamenti. Loro qui ci sono nati e cresciuti. E' una nuova generazione imbevuta di un nazionalismo mistico che si coniuga al pionierismo e all'ascetismo, rigetta il consumismo delle grandi città sulla costa e vive di ideologia e ardore. Le donne
Kfar Tapuach
indossano il "mitpahat", l'equivalente ebraico, meno avvolgente e più delicato del chador islamico. Gli uomini hanno capigliature al vento, lunghi riccioli laterali e camicie a quadri. "Sono giovani che incarnano l'ideologia della Torah e l'autosacrificio", ci spiega Ha'ivri. "La salvezza di Israele e del popolo ebraico non può venire da politicanti che pensano che la battaglia per la Terra sia un gioco tattico. Dieci anni fa abbiamo iniziato a creare avamposti. Sono giovanissime coppie che hanno deciso di essere pionieri come i genitori, vogliono costruire, credono nel sionismo, sono idealisti, pronti a lasciare ogni esistenza confortevole nelle grandi città o nelle grandi colonie. Vogliono essere autosufficienti, con tutti i limiti che questo comporta. Costruire piccoli paradisi"
Shani Simkovitz dirige la Gush Etzion Foundation. E' americana e ha cinque figli. "Questa è terra contesa, da patteggiare, non terra occupata", ci spiega Shani. "Più di tremila anni fa i nostri padri ci hanno dato una terra, che non è Roma, non è New York, ma questa. La terra ebraica. Ci hanno mandato qui a costruire, a coltivare, a vivere, ci hanno sostenuto sempre, soprattutto Rabin, Peres e gli altri laburisti. Fino a oggi. I miei figli sono nati qui, ma non c'è più terra legale su cui costruire, il governo da tempo non concede più permessi per una casa, per questo nascono gli outpost. Gli avamposti sono estensioni delle comunità esistenti. Ma lo stesso è a Gerusalemme, dove migliaia di israeliani vivono al di là della Linea verde".
Shani Simkovitz

Eera Ungar abita a Tekoa 2, un outpost vicino all'insediamento più grande nel deserto della Giudea. "Gli outpost sono parte di una domanda politica, non giuridica", ci spiega Eera. "Abbiamo il diritto di vivere nella terra dei nostri padri? Abbiamo diritto a una famiglia?". Un altro leader delle colline vive in un agglomerato di roulotte abbarbicate sul monte Artis, chiamato Pisgat Yaakov, che significa la "collina di Giacobbe". Un luogo isolato d'inverno, tanto nevica.
Tra queste trenta famiglie c'è Yishai Fleischer, il fondatore di Kumah, un'organizzazione che promuove alyah, immigrazione, e conduce un programma radiofonico di grande successo. "Abbiamo una vita idilliaca e naturalistica, è una regione bellissima, in mezzo alle montagne", dice al Foglio Yishai. "I nostri padri hanno camminato qui tremila anni fa, siamo un po' come i nuovi hippy. Lavoriamo la terra. C'è molta musica, religione, è una vita felice. Preghiamo, meditiamo, conduciamo un'esistenza spirituale. Siamo il popolo aborigeno. Ero a New York, da studente credevo nel sionismo e decisi che questo era il posto dove avrei dovuto vivere. Abbiamo quello che ci serve. Ci sentiamo pionieri, siamo dei veri sionisti. Molti miei amici sono religiosissimi e lavorano nel settore high tech. I nostri figli crescono con valori autentici". E' una vita, ammette Yishai, molto pericolosa. "Giro armato, odio le pistole, non significa che debba usarle, ma devo proteggere la mia famiglia. Il nostro villaggio è citato più volte nella Bibbia, per questo attrae molte persone. Lei vive a Roma, una città sacra per il suo popolo, il mio è nato e cresciuto in Israele. Qui senti di essere parte della terra e del cielo. Siamo cresciuti sapendo che il prossimo passo sarebbe stato il nostro". Yishai sa bene che i settlers non sono amati dagli israeliani che vivono sulla costa. "Siamo isolati nell'opinione pubblica, ma lavoriamo ogni giorno per migliorare. Oggi il nazionalismo non è cool, non è
David Ha'ivri
politicamente corretto. Non mi aspetto di conquistare i cuori delle persone che non vivono qui. E' semplice: questa è la nostra terra. Secondo le norme internazionali, secondo la Bibbia, secondo la storia. Viviamo in tempi eccitanti in cui il popolo ebraico torna a casa. Siamo di nuovo qui. Quando ci svegliamo la mattina non pensiamo alla pace, ma a condurre una vita felice, dignitosa e piena di amore. Dobbiamo essere vigili, ci sono persone qui che vogliono ucciderci in quanto ebrei. Hanno la stessa ideologia dei nazisti. Gli europei non si sono interessati alla sorte degli ebrei sessant'anni fa, stiano lontani da noi oggi. Sappiamo perché siamo qui, abbiamo una missione che portiamo avanti tutti i giorni. Gli ebrei italiani dovrebbero venire a vivere qui. Non fa differenza dove, a Tel Aviv o nella collina di Giacobbe. Ma è qui il nostro posto".
David Ha'ivri li descrive così. "Molti sono contadini o pastori, ci sono studenti, tutti pionieri che vivono in zone desertiche, vuote, senza abitanti, non ci sono palestinesi cui venga sottratto alcunché, i coloni piantano alberi, coltivano la terra, portano acqua, cibo, elettricità. Nelle grandi comunità la sicurezza è ben organizzata, ma in queste comunità di poche famiglie il peso della sicurezza è enorme. La seconda generazione è molto più attaccata alla terra della prima, sono nati qui, il loro sangue viene da qui. Sono persino più religiosi dei padri". Molti di questi avamposti sono creati negli anni proprio lì dove i palestinesi avevano ammazzato un colono. Loro, le giovani leve, li chiamano "monumenti viventi". Come Itay Zar, che oggi vive in un outpost intitolato al fratello ucciso. Venti famiglie, una dozzina di scatole di metallo, quaranta bambini e un maneggio per cavalli. "Non siamo venuti qui per divertirci. C'era il deserto, oggi la terra fiorisce". Il leader spirituale dell'outpost, Arie Lipo, dice che hanno il compito di costruire "piccoli paradisi". "Siamo il popolo della Bibbia e la domanda è: chi è il boss? Dio? Oppure Obama?". David Ha'ivri la mette così: "Siamo i continuatori di una storia interrotta dai Romani che esiliarono il popolo ebraico. Il nostro motto recita: Hashem Melech, Dio è il re". Ieri è nato un altro avamposto, Tzur-ya. Una capanna e un manifesto: "La salvezza è vicina".

(Il Foglio, 8 agosto 2009)



2. UN FATTO CHE DOVREBBE PREOCCUPARE TUTTI




Antisemitismo in aumento in Gran Bretagna

di Elena Lattes

Nei primi sei mesi di quest'anno è stato rilevato in Gran Bretagna un numero più che raddoppiato, rispetto allo stesso periodo del 2008, di attacchi antisemiti. Con oltre seicento (609 per la precisione) aggressioni, molte delle quali solo verbali (minacce dirette, e-mail cariche d'odio, graffiti razzisti e altro ancora) ma tra cui ben 77 sono consistite in violenze fisiche (in Francia se ne sono verificate 96), incluso un tentato omicidio, si è superato il record precedente risalente al 2006, quando nell'arco dell'intero anno si verificarono 598 attacchi, raggiungendo il più alto numero in assoluto negli ultimi 25 anni.
    I dati sono stati resi noti dal Community Security Trust (CST), un'associazione non governativa che si occupa della sicurezza e della salvaguardia delle Comunità ebraiche del Regno Unito e che ogni anno stila un rapporto sulla situazione nel Paese.
    Il picchio più alto delle aggressioni è stato registrato all'inizio del 2009 durante l'operazione israeliana "Piombo fuso" condotta per difendere le cittadine del centro sud dai missili di Hamas a Gaza.
    Solo nel mese di gennaio, infatti, si sono verificati 286 incidenti, in media più di 9 al giorno, un livello che si è mantenuto comunque alto fino a tutta la primavera. Diversi analisti hanno individuato la causa principale nella demonizzazione di Israele da parte dei media, in particolare il Guardian e la BBC, ma anche l'Indipendent, che hanno paragonato lo Stato di Gerusalemme alla Germania nazista.
    La maggior parte degli attacchi, infatti, proviene da arabi o musulmani, ma la situazione non è così semplice e netta. Nella demonizzazione di Israele o comunque nella diffusione dell'odio verso gli ebrei, sono attivi anche le ONG, la Chiesa anglicana e le organizzazioni cristiane, oltre a destare preoccupazione anche la recente alleanza per il Parlamento Europeo tra i conservatori britannici e un politico polacco che ha strette relazioni con estremisti di destra e neonazisti.
    Una delle più forti condanne per l'aumento dell'antisemitismo, invece, è arrivata proprio dalle comunità islamiche, i cui leaders hanno emesso un comunicato congiunto in cui si esprimeva il timore che questi attacchi provenissero proprio da elementi interni e in cui Shahid Malik, uno dei due ministri musulmani di Sua Maestà, affermava che: "l'aumento dell'antisemitismo non riguarda solo le comunità ebraiche, ma tutti coloro che si considerano degli esseri umani onesti. La lotta all'antisemitismo dovrebbe coinvolgerci tutti. Questo Paese non tollererà coloro che cercano l'odio diretto verso una parte della nostra società. È legittima la critica o irritarsi per le azioni compiute dal governo israeliano, ma non dobbiamo mai permettere che questa rabbia giustifichi l'antisemitismo".
    E la condanna è arrivata anche dal Ministro degli Esteri Ivan Lewis che ha affermato: "Sono profondamente preoccupato per l'aumento del numero di incidenti antisemiti... Il governo britannico è fermamente impegnato a combattere e ridurre tutte le forme di razzismo compreso l'anti-semitismo. Non possiamo tollerare coloro che cercano di utilizzare i conflitti esteri per giustificare razzismo e atti criminali nei confronti di qualsiasi cittadino del Regno Unito... la comunità ebraica... deve essere in grado di vivere libera dalla paura dell'attacco verbale o fisico".
    Anche altri leaders hanno espresso le loro preoccupazioni, Robin Shepherd, per esempio ha ammonito che le tenebre si stanno avvicinando, così come David Weinberg, consigliere di Nathan Sharansky, ha affermato che i record britannici sono particolarmente irritanti, visto che il Regno Unito è un Paese amico di Israele e il suo governo prende l'antisemitismo in seria considerazione.
    Altri invece tendono a sminuire come Vivian Wineman, presidente del Board of Deputies of British Jews e Presidente del Jewish Leadeship Council, nonché ex presidente dell'Associazione degli amici inglesi del movimento pacifista israeliano "Peace Now", che sul Jerusalem Post, fa il confronto tra la situazione inglese e quella di altri Paesi, ricordando che il Regno Unito è il primo in Europa a proporre sanzioni per l'Iran; che il Primo Ministro Gordon Brown è stato il promotore di una partnership per scambi accademici e che nel suo Paese, per esempio, Ahmadinejad non è mai stato invitato a parlare come è successo invece per la statunitense Columbia University; che è vero che il boicottaggio del sindacato dei docenti universitari UCU (University and College Union) ha causato problemi, ma ciò non vuol dire che tutti gli accademici inglesi odino Israele e infine che l'antisionismo del Guardian non è molto differente da quello di altri giornali di estrema sinistra.
    Qualunque sia la situazione, sta di fatto, che il tasso inglese di emigrazione ebraica verso Israele è, in Europa, secondo solo a quello della Francia, Paese che detiene attualmente il triste record degli attacchi contro obiettivi ebraici.

(Agenzia Radicale, 2 agosto 2009)





3. COSTRETTI AD EMIGRARE




Gli ultimi ebrei in Libano

In Libano una volta c’era una fiorente comunità ebraica. Ufficialmente adesso di ebrei ne sono rimasti circa cinquanta. Il regresso è cominciato con la guerra civile del 1958, e nel 1980 gli Hezbollah le hanno dato il colpo di grazia decisivo.

Era una comunità fiorente, una volta. Negli anni quaranta contava ancora 20.000 membri. Oggi gli ebrei rimasti in Libano sono circa 50. Sono gli ultimi discendenti di una comunità ebraica che può guardare indietro a quasi 1.900 anni di storia. Le prime comunità ebraiche che sono vissute nel territorio dell’attuale Stato del Libano sono state fondate nel 132 d.C., al tempo della rivolta dell’ebreo Bar-Kochba. Nel settimo secolo si è formata una grande comunità ebraica a Tripoli, nel 922 a Sidone e nel 1071 a Tiro. Nel corso dei secoli sono sorte diverse comunità ebraiche nell’attuale Libano, il cui centro però è stato sempre il quartiere Abu Jmil di Beirut, in cui una volta si trovavano 17 sinagoghe.
    La regione del Libano è stata popolata da diversi gruppi di popolazioni. Una esplicita identità libanese si è formata soltanto nel diciannovesimo secolo. In quel tempo il Libano era una provincia ottomana governata da un cristiano armeno. Nel 1920 il Libano cadde sotto il Mandato di governo francese. In questo periodo la comunità ebraica prosperò e acquistò molta influenza sul paese. Nella guerra d’indipendenza del Libano nel novembre 1943 gli ebrei svolsero una parte notevole alleandosi con il Partito dei Falangisti di Pierre Gemayel. Nonostante la vicinanza con Eretz Israel, gli ebrei dei Libano in quel tempo erano ben integrati, tanto che, per esempio, rimandarono a casa a mani vuote gli ebrei sionisti di Eretz Israele che erano venuti per raccogliere soldi. Le cose cambiarono dopo la fondazione dello Stato ebraico.
    E’ interessante il fatto che il Libano è l’unico paese arabo in cui la popolazione araba, anche dopo la fondazione dello Stato d’Israele, in un primo tempo ha continuato a crescere. Un bel taglio c’è stato con la guerra dei sei giorni del 1967, quanto gli ebrei, temendo per la loro sicurezza, lasciarono il Libano. Un’altra ondata di emigrazioni si è avuta nel 1975, quando nella guerra civile allora scoppiata proprio il quartiere ebraico di Beirut fu fortemente coinvolto. Ma anche negli Usa, in Canada, in vari paesi europei e in Israele gli ebrei emigrati ci ricostruirono una nuova vita.
    Il colpo di grazia finale alla comunità ebraica è stato dato negli ultimi tempi dalla milizia Hezbollah. Negli anni ottanta ha rapito alcune eminenti personalità ebraiche. In seguito diverse di loro furono trovate uccise. Da questo momento gli ebrei in Libano non potevano più presentarsi come tali. Ufficialmente, soltanto 50 persone si sono fatte registrare come ebrei, anche se si stima che la cifra non ufficiale sia di 1.500. La maggior parte di loro ha contratto matrimoni misti. Dal 1978 nessun rabbino esercita più in Libano. E il più grande cimitero ebraico del paese, che si trova a Beirut e contiene circa 4.500 tombe, è accudito da una donna musulmana sciita.
    
(Nachrichten aus Israel, agosto 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





4. LA SINGOLARE STORIA EBRAICA DEL BIROBIDZHAN




Nella Sion di Stalin colonizzata dai cinesi

di Piotr Smolar

I bambini portano una candela in mano. Rispettano una specie di coreografia: «Ti canto, o mio paese natale», intona il coro, in russo. I genitori, con gli occhi umidi, battono le mani e immortalano l'istante con le macchine fotografiche. È la festa di fine anno nella piccola sala dove si soffoca dal caldo, al primo piano del centro della comunità ebraica. Per settimane i bambini hanno giocato, ballato, e soprattutto imparato i rudimenti della cultura locale. Sui muri ci sono i loro disegni colorati che mostrano le glorie di Birobidzhan.


Siamo nell'Estremo Oriente russo, a 180 chilometri da Khabarovsk, sette ore e mezzo di aereo da Mosca. La Regione autonoma ebraica, che copre 36 mila kmq lungo il fiume Amur, che fa da confine con la Cina, festeggerà quest'autunno i suoi 75 anni di vita. Ma di ebrei, tra i 190 mila abitanti, ce ne sono pochini, secondo il censimento appena l'1,22%. «Nessuno sa quanti siamo - sorride Valerij Gurievich, vicecapo del governo locale, la più alta autorità tra gli ebrei della regione -. Dopo la caduta dell'Urss sono partiti in 13 mila, mentre ne erano censiti soltanto 9 mila».
    Fondata nel 1934, la Regione è stata la prima avventura sionista del Ventesimo secolo, ma temprata nel piombo sovietico. È una storia di ucraini, lituani o polacchi, a costruire fattorie collettive in un ambiente ostile, alla conquista dell'Estremo Oriente, paludoso, immenso. Era la volontà di Stalin: far crescere la popolazione in questa frangia dell'Urss per contrastare le ambizioni cinesi e giapponesi.
    Le differenze culturali sono state all'inizio incoraggiate. Nei primi anni '30, le scuole ebraiche si sono moltiplicate. Poi, come ovunque in Russia, l'antisemitismo di Stato ha colpito. Nel 1948 le scuole sono state chiuse, così come il teatro. I visitatori della sinagoga erano schedati, a volte arrestati dal Kgb, finché l'edificio venne incendiato alla fine degli anni '50. La rivendicazione dell'identità religiosa veniva considerata controrivoluzionaria.



Una cultura e una lingua sono scomparse - spiega Alexandr Shliufman, direttore del giornale Birodidzhaner Stern, che ha due pagine in yiddish -. Mi si riscaldava il cuore, al cinema, quando vedevo nomi ebraici nei titoli di coda. Cercavamo la conferma che avevamo il diritto di esistere». Negli anni '70 gli ebrei erano ormai solo il 6% della popolazione.
    Si è dovuto aspettare la fine dell'Urss perché le origini ebraiche non fossero più un motivo di discriminazione ma di fierezza. Dopo il 1991 ci si riscopre ebrei. I racconti in yiddish prima sussurrati dalle nonne, con un nodo in gola per la paura della repressione, vengono detti e cantati a pieni polmoni. Ma la distruzione della cultura è stata profonda. Non bisogna fidarsi dei cartelli e delle insegne: sono rarissimi quelli che ancora parlano davvero yiddish, anche se gli scolari lo studiano per parecchie ore alla settimana.
    «Quando finiscono gli studi, lo capiscono e lo leggono un po' - sospira Lilia Komissarenko, 42 anni, preside di una scuola comunale. Lei stessa non parla yiddish, e neppure i suoi figli -. Le nostre nonne non ce lo hanno insegnato. Non ne vedevano lo scopo. Per la maggior parte delle persone queste tradizioni sono folclore. Solo il rabbino ci mostra che dietro c'è la fede».
    Dal suo arrivo da Israele, sei anni fa, il rabbino Mordechai Shainer, 38 anni, è diventato un personaggio del posto. Ultraortodosso lubavitch, è l'unico a rispettare con rigore i precetti, anche nel vestirsi. Officia in una sinagoga tutta nuova, a due passi dal centro. È un missionario, non approva il patriottismo giocoso degli abitanti. «Tutti debbono capire che questa regione era un tentativo artificiale, politico, voluto da Stalin. Birobidzhan è opera dell'uomo, Israele è opera di Dio».
    Figlio di una famiglia ultraortodossa scappata dall'Urss nel 1967, Shainer ha dovuto cambiare i suoi metodi di predicazione, di fronte all'abisso culturale. «Ho capito che non potevo cominciare con la preghiera - riconosce -. Mi serviva un linguaggio più accessibile». Ha lanciato una trasmissione settimanale alla tv locale, per parlare di folclore e cucina ebraica. Ha curato un libro di racconti basato sul Talmud e una raccolta di barzellette ebraiche.
    La principale preoccupazione degli abitanti non è però di ordine spirituale ma economico. Isolata, la regione sogna scambi commerciali. La città si è un po' modernizzata negli ultimi anni. Ma tutti gli sguardi sono ormai volti verso la Cina, vicina, temuta e ammirata. «Ai cinesi viene dato in affitto il 16% delle terre agricole - spiega Gurievich -. Non abbiamo altra scelta, per via del calo della popolazione». Quasi 4 mila cinesi vengono ogni anno a lavorare a buon mercato nell'industria della trasformazione del legno, o a coltivare i campi o nei cantieri. «Costano meno e sono più professionali - conferma Iosif Brenier, imprenditore e storico -. Sono i nostri alleati, non nemici».
    Il progetto che suscita le più grandi speranze è la costruzione di un ponte attraverso l'Amur. Il più contento di tutti è Wan Baolin, proprietario del ristorante Teatralny. Dice di essere più ebreo degli ebrei, porta la kippah e si fa chiamare Nikolai Vladimirovitch, per ragioni che i suoi biografi un giorno forse spiegheranno. L'assimilazione continua.

(La Stampa, 4 agosto 2009)

Ved. articolo seguente





5. LIBRI




Un esperimento fallito di apartheid sovietico

Alessandro Vitale, La regione ebraica in Russia, Giampiero Casagrande Editore, pp. 287, € 20.

Questo libro è forse il primo in Italia ad essere dedicato esclusivamente alla curiosa e singolare (anzi unica) esperienza della regione autonoma ebraica in URSS. Quindi colma una lacuna, anche se la prospettiva da cui muove l'autore è anch'essa, per molti versi, singolare.
    È noto che nel marzo 1928 una risoluzione governativa sovietica stabilì un "Distretto nazionale" riservato all'insediamento ebraico in una regione dell'estremo oriente siberiano, alla confluenza di due fiumi: il Bira (un affluente del grande Amur) e il Bidzhan. Questa scelta avvenne dopo che un apposito comitato aveva esaminato la possibilità di creare un insediamento ebraico nel Caucaso settentrionale e in Crimea. Nel 1927 fu inviata una spedizione che esaminasse il territorio, le sue risorse e le sue possibilità di sviluppo. "La relazione della spedizione descriveva il luogo come difficilmente abitabile , a causa delle condizioni climatiche, l'assenza di strade, lo straripamento frequente dei fiumi, la proliferazione di malattie e tuttavia rilevava la possibilità di coltivare grano, riso , lino ortaggi e patate." Fu quindi deciso di stabilire proprio in questa zona, chiamata appunto Birobidzhan, dalle condizioni proibitive anche se attraversata dalla ferrovia Transiberiana, una entità amministrativo-territoriale ebraica. Il progetto, ci dice Vitale, incontrò l'approvazione delle alte gerarchie sovietiche, da Stalin a Kaganovich a Kalinin. E a questo proposito cito una interessante nota: "secondo Kalinin era del tutto naturale che gli ebrei trovassero il loro posto in URSS e potessero preservare la loro nazionalità con una vita economica stabile basata sull'agricoltura e su un insediamento localizzato. Inoltre Kalinin rinveniva la causa della persistenza dell'antisemitismo nell'eccesso di funzionari e di impiegati ebrei nelle città. Per combattere l'antisemitismo, in attesa della assimilazione a partire dalla terza generazione sovietica mediante i matrimoni misti, sarebbe stato necessario l'insediamento degli ebrei nelle campagne".

Insegna ebraica alla stazione di Birobidzhan
La situazione degli ebrei che vivevano nella parte europea dell'Urss intorno al 1928 stava peggiorando sensibilmente sia dal punto di vista materiale (erano in molti a dover dipendere dai sussidi delle organizzazioni di solidarietà europee ed americane) sia per il risorgere di forme di antisemitismo. Erano in molti ad appoggiare il sionismo e ad auspicare una emigrazione verso Eretz Israel. Ma questa soluzione piaceva pochissimo ad un governo preoccupato per la possibile perdita di forza lavoro qualificata e preoccupato dell'affermarsi del sionismo, considerato una incontrollabile forma di identificazione nazionale, per di più definita "di origine borghese". La dirigenza sovietica si opponeva dunque ad un insediamento ebraico in Palestina, ma appoggiava quello nell'estremo oriente siberiano, fondato su una base territoriale e di una lingua autonoma: lo yiddish. Era, da un lato, una applicazione concreta del principio staliniano delle nazionalità, dall' altro una forma di contrasto con la nascita di un possibile Stato di Israele e anche con l' ivrìt, considerato "tipico della borghesia ebraica".
    Prima dell'arrivo degli ebrei il Birobidzhan era una regione scarsamente popolata, con una presenza di cosacchi, trapiantati forzatamente nel corso dell'800 e da gruppi di Vecchi Credenti, ortodossi russi che non avevano accettato la riforma liturgica del 1655 e potevano godere in queste terre lontane dall'Europa della possibilità di praticare liberamente il loro culto. L'autore del libro ci fa notare che circa 170.000 coreani che si erano stabiliti nel territorio, furono forzamene trasferiti nelle steppe dell'Asia centrale al momento della formazione della Regione.
    Questo è lo sfondo su cui si sviluppa la vicenda di quella che l'autore del libro, nel sottotitolo definisce la prima Israele. Egli definisce il Birobidzhan "un esperimento fallito di apartheid sovietico" , ma vede anche in questa vicenda un "possibile modello di convivenza". Egli nota come "in questa parte del mondo non solo gli ebrei sono riusciti a salvarsi due volte dalla fame degli anni Venti e Trenta e dalla Shoah negli anni Quaranta, ma è accaduto qualcosa che nella storia moderna degli ebrei d'Europa non ha avuto paragoni: la formazione di una convivenza originale".
    Ecco perché definivo prima la prospettiva di Vitale come singolare. Egli vede infatti nella convivenza fra una minoranza ebraica quasi completamente secolarizzata e assimilata, la cui identità culturale è quella della yiddishkeit (nel senso di una minoranza etnica russo-ucraina in cui il retaggio ebraico è un dato più che altro antropologico) e altre minoranze etniche lontane migliaia di chilometri dai loro insediamenti originali, il modello possibile di soluzione per i conflitti mediorientali.
    A quale prezzo? Quello di una perdita quasi totale dell'identità ebraica, ridotta a patrimonio quasi solo folklorico, e sottolineata ripetutamente con la sostituzione dello yiddish all' ivrìt.
    Egli sostiene infatti che "il Birobidzhan non è stato un tentativo di risolvere la questione ebraica, ma possedeva caratteristiche favorevoli per la sua reimpostazione, almeno in Russia". A parte questo, il libro è comunque una interessante fonte di conoscenze su una vicenda molto poco conosciuta.
    Oggi rimane poco: nel 1989 la popolazione ebraica della città capoluogo era di 9.000 ebrei, ma nel 1996 la maggior parte è emigrata in Israele. E quindi vengono promosse iniziative per impedire che il patrimonio culturale di questa esperienza possa essere dimenticato.

(da mosaico, sito ufficiale della Comunità ebraica di Milano)





MUSICA E IMMAGINI




Ten Bi Meorcha




INDIRIZZI INTERNET




Jewish National Fund

Yad Hashmona




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