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Notizie su Israele 479 - 23 gennaio 2010

1. Intervista al Presidente israeliano
2. Cambierà l'immagine che il mondo ha di Israele?
3. Intervista a Saul Friedländer
4. La storia di Irin Ahmed
5. I collegamenti tra nazismo e mondo arabo
6. I Falasha
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 46:12-13. "Ascoltatemi, o gente dal cuore ostinato, che siete lontani dalla giustizia! Io faccio avvicinare la mia giustizia; essa non è lontana, la mia salvezza non tarderà; io metterò la salvezza in Sion e la mia gloria sopra Israele."
1. INTERVISTA AL PRESIDENTE ISRAELIANO




A colloquio con Shimon Peres

Con i suoi 86 anni, il Presidente israeliano Shimon Peres costituisce certamente un "pezzo da novanta" politico di cui Israele si può vantare di fronte alla comunità internazionale - e sempre di più con il passare degli anni. Il giubbotto antiproiettile per l'estero è Benjamin Netanyahu, e, se si vuole, il Ministro degli Esteri israeliano. Il discusso architetto degli accordi di Oslo e premio Nobel per la pace è in Israele qualcosa come l'ultimo dei Moicani, uno degli ultimi uomini politici che nel tempo dei pionieri ha preso parte alla fondazione dello Stato. La pensione, Peres non la conosce. Nel novembre scorso ha visitato in otto giorni l'Argentina e il Brasile. Ha parlato davanti alle due camere parlamentari in Brasile, ha sottoscritto cinque accordi e ha presenziato 33 appuntamenti con presidenti, capi di governo, ministri, conferenze stampa e, non da ultimo, rappresentanti delle comunità ebraiche della diaspora. Peres, che ama rappresentare Israele all'estero, si è dichiarato disposto a rispondere alle domande di israel heute [mensile evangelico in lingua tedesca stampato a Gerusalemme].

israel heute: Signor Presidente, la situazione oggi è matura per una pace?
Shimon Peres: Non siamo mai stati così vicini come oggi ad un accordo con i palestinesi. Le differenze tra le due parti rappresentano forse il 5%, non di più(1). I coloni ebrei sanno che la maggioranza di loro continuerà ad abitare negli insediamenti in Giudea e Samaria, e a questo scopo scambieremo parti di terra con i palestinesi. Non ne dubito, sono ottimista! Lei sa qual è la differenza tra un ottimista e un pessimista? Tutti e due un giorno moriranno, ma vivono in modo del tutto diverso. Che cosa dovrebbe obbligarmi ad essere negativo e non positivo? Io dico: la pace con i palestinesi è possibile.

israel heute: Come fa a credere che una pace sia possibile dopo che gli accordi di Oslo sono falliti e al loro posto Israele si è trovato inondato di attacchi terroristici?
Shimon Peres: Abbiamo cominciato a trattare con i palestinesi nonostante che uno stato palestinese non esista ancora. La Cisgiordania era governata dalla Giordania e la striscia di Gaza dall'Egitto. Israele invece ha riconosciuto il diritto dei palestinesi ad avere uno stato. Ancora una volta invito Mahmud Abbas a riprendere immediatamente i colloqui di pace con noi. Israele ha già fatto dolorose concessioni per uno stato palestinese. So bene che la posizione di Abbas nel popolo palestinese non è facile, ma anche dalla parte nostra non è facile. Hamas si è proposto di dominare tutta l'Autonomia con il suo fanatismo. Ma il fanatismo non vincerà. Io vedo che a piccoli passi ci stiamo avvicinando alla pace.

israel heute: Che cosa pensa della decisione di Netanyahu di congelare la costruzione degli insediamenti ebraici?
Shimon Peres: E' una decisione importante e storica. Questo dimostra, come ho sempre detto, che Netanyahu vuole davvero una pace.

israel heute: Ma questo non deve attribuirsi piuttosto alla pressione esercitata su Israele dal presidente Barack Obama?
Shimon Peres: Entrambe le parti hanno commesso errori. Ma credo che il modo di procedere di Washington e Gerusalemme sia giusto. Obama capisce i nostri problemi, e credo anche che abbia la forza di portare noi e i nostri vicini ad un trattato di pace(2). Abbiamo rapporti straordinari con gli USA, fondati sugli stessi valori e sullo spirito della Bibbia.

israel heute: Washington e l'Europa criticano Israele per la sua attività edilizia nel quartiere Gilo di Gerusalemme, che secondo loro è un insediamento ebraico.
Shimon Peres: La critica di Obama e degli stati europei è ingiusta verso Israele. Gilo è un quartiere di Israele sovrano. Un arresto delle costruzioni in Gerusalemme non è competenza di Netanyahu. Su questo può decidere soltanto il Parlamento israeliano. Ma è stato sempre questo l'atteggiamento americano, e ciò nonostante abbiamo continuato a costruire in Gerusalemme.

israel heute: Criticate il giudice sudafricano Richard Goldstone per il suo rapporto all'Onu?
Shimon Peres: Goldstone ha accusato Israele dei più gravi deitti, come se nella striscia di Gaza noi avessimo voluto uccidere intenzionalmente i palestinesi. Ha falsificato i fatti e ci ha danneggiato enormemente. La dichiarazione che Israele uccide apposta gli arabi non ha niente a che vedere con il diritto. Nessun giudice può impressionarmi con cose di questo genere. Richard Goldstone è un piccolo uomo, un avvocato senza senso della giustizia. Per lui si trattava soltanto di mettere in cattiva luce Israele di fronte all'opinione pubblica mondiale. Era prevenuto contro Israele. Ai suoi occhi non esisteva nemmeno la possibilità dell'errore.

israel heute: Ogni tanto si sente parlare della Siria. Quante sono le chance di una pace con la Siria?
Shimon Peres: Per una pace con l'Egitto, con la Giordania e con il Libano Israele ha già dato della terra. Nello stesso spirito cerchiamo una soluzione di pace con la Siria e i palestinesi. Tre primi ministri israeliani hanno già offerto alla Siria le alture del Golan per una pace.

israel heute: Cioè Yitzhak Rabin, Ehud Barak e Benjamin Netanyahu, ma Netanyahu smentisce questo.
Shimon Peres: Sì, lo so che Netanyahu smentisce questo, ma so anche che cosa ha offerto allora ai siri. Invito Assad a trattare con Israele senza precondizioni. E' una cosa che non dobbiamo procrastinare. Una guerra arriva sempre troppo presto e in ogni caso è tragica, e un accordo di pace non deve mai arrivare troppo tardi o deludere. Ma quale che sia la forma di un trattato di pace, l'Iran e Hezbollah non devono andare sulle alture di Golan.

israel heute: Signor Peres, da dove prende la forza per il suo lavoro politico quotidiano?
Shimon Peres: Ho il profondo sentimento di servre il mio paese. Fin da piccolo sono stato educato ad asssumermi delle responsabilità. E lo faccio. Il popolo ha bisogno di me, e quindi io esercito il mio incarico.

israel heute: Signor Presidente, grazie per il colloquio.

(israel heute, gennaio 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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  1. Aveva detto qualcosa di simile anche al tempo degli accordi di Oslo (ndt).
  2. In un'intervista al Time di questo mese Barack Obama ha detto di aver capito che raggiungere un accordo di pace tra israeliani e palestinesi non è un "problema" solo "estremamente difficile" ma quasi "insolubile". Ha riconosciuto di aver "sottovalutato le difficoltà" e di aver puntato troppo in alto. "Il processo di pace non ha fatto un passo avanti", ha ammesso, e "malgrado i nostri sforzi non siamo dove volevamo essere" (ndt).




2. CAMBIERÀ L'IMMAGINE CHE IL MONDO HA DI ISRAELE?




Uno dei momenti migliori di Israele

di Michael Freund

Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sul fatto che Israele è capace di grandi cose, gli eventi dell'ultima settimana dovrebbero aver sciolto ogni residua perplessità. Da un'estremità all'altra del mondo, i migliori ideali dell'ebraismo e del sionismo hanno trovato evidente espressione, nel momento in cui Israele prendeva parte non a una, ma a due straordinarie missioni cariche di significato.
    Al di là dell'oceano, in mezzo alle strade di Port-au-Prince cosparse di macerie, le squadre di soccorso delle Forze di Difesa israeliane sono andate scrupolosamente alla ricerca di eventuali sopravvissuti, fra le rovine della capitale di Haiti dopo il devastante terremoto del 12 gennaio. In corsa contro il tempo, questi giovani israeliani in uniforme accompagnati da cani specificamente addestrati, si sono stoicamente sistemati fra cumuli di detriti e rottami per mettere al sicuro i feriti. Durante lo scorso fine settimana i soccorritori in divisa verde hanno estratto un uomo di 58 anni da sotto le rovine della sua casa; lunedì hanno salvato la vita a una studentessa che era rimasta intrappolata per sei giorni sotto l'edificio distrutto dell'università. Nel frattempo l'ospedale da campo creato dalle Forze di Difesa israeliane per curare le vittime del disastro si faceva rapidamente conoscere come il meglio condotto ed equipaggiato nell'area. Montato venerdì scorso in un campo di calcio, il complesso vanta 40 dottori e 24 infermieri specializzati oltre a paramedici, attrezzature e personale per i raggi X, unità di terapia intensiva, reparti pediatrico e maternità, persino una farmacia. Nessun altra missione, nemmeno quella degli Stati Uniti, ha messo in funzione così rapidamente un complesso così avanzato. Non stupisce che la tv americana CBS si sia spinta a definire l'ospedale delle Forze di Difesa israeliane "la Rolls-Royce della medicina ad Haiti". In effetti le squadre mediche israeliane hanno fatto un lavoro così formidabile che persino la CNN (vale a dire, una tv che non perde occasione di descrivere negativamente Israele) non è riuscita a trovare nulla da criticare nell'opera delle Forze di Difesa israeliane. Benché un'enorme distanza separi Israele da Haiti, con più di 10.500 chilometri di oceano fra i due paesi, il popolo ebraico ha dimostrato che la sua mano tesa può scavalcare qualunque lontananza e attraversare qualunque divario quando si tratta di salvare vite umane.
    Ma gli abitanti dell'isola caraibica non sono stati gli unici a beneficiare dell'intervento umanitario di Israele questa settimana. Più vicino a casa abbiamo assistito all'arrivo in Israele di 82 membri della comunità Falash Mura, i discendenti di ebrei etiopici convertiti al cristianesimo secoli fa. Al loro arrivo all'aeroporto Ben-Gurion, all'alba di martedì scorso, i nuovi immigrati sono stati accolti dal ministro degli interni Eli Yishai e dal ministro per l'assorbimento degli immigrati Sofa Landver. È stata una scena che non può che riempire di orgoglio il cuore di ogni ebreo: i superstiti dell'ebraismo etiopico hanno terminato il loro viaggio millenario facendo ritorno alla terra dei loro progenitori. Centinaia di altri ne arriveranno, nei prossimi mesi, dal momento che il governo israeliano si è infine mosso per mantenere la promessa di permettere a ciò che rimane di quella comunità di realizzare la aliyà (ristabilirsi in patria). E così, mentre i nemici di Israele continuano a proclamare rumorosamente che il sionismo è razzismo, Israele si presenta come uno dei pochissimi paesi che accoglie a braccia aperte un'intera comunità di neri africani.
    Dunque è stata una settimana davvero speciale per la nobiltà d'animo degli israeliani. Nell'arco di pochi giorni lo stato d'Israele ha salvato vite umane di ebrei e non ebrei, da un estremità all'altra del pianeta. È stato, sotto ogni aspetto, uno dei momenti migliori di Israele.
    Tutto questo servirà a cambiare l'immagine che il mondo ha di noi? Ne dubito. Ma per lo meno dovrebbe contribuire a modificare l'immagine che abbiamo di noi stessi, così spesso presi dalla negatività che sembra inondare i notiziari di ogni giorno, tanto che tendiamo a non vedere trascurare ciò che c'è di bello e di splendido in questo paese e nelle sue imprese. È in momenti come questo che dovremmo fermarci un momento, e dire: grazie al cielo, esiste lo stato di Israele. Senza di esso il mondo sarebbe un posto assai meno nobile.

(Jerusalem Post, 20 gennaio 2010 - da isarele.net)





3. INTERVISTA A SAUL FRIEDLÄNDER




Non esiste la banalità del male

di Susanna Nirenstein

Saul Friedländer
Nato a Praga pochi mesi prima che Hitler prendesse il potere, nascosto in un convento in Francia fino alla fine della guerra mentre i genitori venivano deportati e uccisi ad Auschwitz, battezzato e, infine, dopo aver capito di essere ebreo, emigrato clandestinamente in Israele nel '48, Saul Friedländer è il maestro dei maestri viventi della ricerca sulla Shoah, premio Pulitzer 2008: la sua opera più importante (i due volumi La Germania nazista e gli ebrei.1933-'39 e Gli anni dello sterminio. 1939-'45, ambedue usciti con Garzanti, ma non si può non menzionare il suo stupendo e autobiografico A poco a poco il ricordo) con un metodo del tutto innovativo, ha dipinto un affresco corale che non lascia nel silenzio nessuno dei protagonisti del periodo: non solo la leadership del III Reich e i loro provvedimenti dunque, ma i tedeschi nel loro complesso, governi e popolazioni delle nazioni intorno, le vittime, i loro atti, i loro pensieri riportati dai diari in tutto il continente. Ora, in un piccolo libro edito da Laterza (Aggressore e vittima, pagg.153, euro 15), in una serie di lezioni, tira le fila dei suoi studi e afferma, a dispetto di altri storici, la centralità dello sterminio nella politica nazista, constata la partecipazione attiva alla Shoah dei paesi conquistati dal III Reich (salvo l'Italia, ci tiene a dire), non è d'accordo su alcuni aspetti del lavoro di Hilberg e della Arendt né con chi vede nello sterminio un prodotto estremo della modernità ma invece lo inquadra come il prodotto principale dell'antisemitismo "redentivo", apocalittico, di Hitler e quindi di una ossessione pseudoreligiosa che fa molto pensare, in chi scrive, al fondamentalismo di oggi. Il volume contiene anche la storia di due storici ebrei, uno tedesco, Ernst Kantorowicz, l'altro il notissimo Marc Bloch, fondatore delle Annales, morto nella Resistenza: ambedue increduli della persecuzione a fronte del loro patriottismo, e disposti in un certo senso, in modo molto diverso l'uno dall'altro, a mettere da parte la propria identità: un focus speciale e conturbante.
    Telefoniamo a Saul Friedländer, oggi professore all'Ucla di Los Angeles (ma anche all'università di Tel Aviv), e lui ci risponde con mille accenti, slavo, francese, anglosassone, israeliano... una summa della storia del Novecento.
    Professore, il principio che lei ha adottato è l'ascolto di tutte le voci. Non si può limitare lo studio alle decisioni naziste e alle cifre della morte, ribadisce in questo libro. Una critica implicita ad altri storici, a chi?
    «La storia in genere tende ad addomesticare gli eventi trovando delle spiegazioni logiche per tutto. Io invece volevo una narrazione precisa, erudita, in cui fossero però presenti le vittime che, col loro dolore, illusioni, paure, procurassero dei veri e propri momenti di incredulità, spezzassero l'autocompiacimento del distacco scientifico. Fare una storia "integrata", significa mostrare come ogni aspetto interagisce con l'altro, i tedeschi, gli altri paesi europei, e soprattutto gli ebrei e i loro comportamenti, le parole, che nel passato sono stati analizzati solo a parte. Solo con le testimonianze che arrivano dai diari e interferiscono con gli altri attori si riesce a dipingere il quadro così com'era. E solo così la storia diventa non addomesticabile».
    Anche Raul Hilberg con La distruzione degli ebrei d'Europa (1961) ha addomesticato la storia?
    «Sì, anche se il suo lavoro è meraviglioso, il primo, il più importante, ma in realtà è la storia della macchina burocratica nazista. Gli ebrei come soggetti ne stanno fuori. Poi ha aggiunto altri studi, ha attaccato i Consigli ebraici, gli Judenrät, ma non scrisse davvero cosa stava succedendo agli ebrei. Il cuore della ricerca rimase la politica nazista. Invece nel racconto devi sentire improvvisamente un bambino polacco di 12 anni che nel suo diario chiede a Dio cosa sta succedendo. Quello smarrimento è parte fondamentale della storia».
    Tra le sue conclusioni, c'è quella sulla decisa partecipazione, o al massimo sul silenzio, di tutte le popolazioni laddove ci furono deportazione e sterminio. Come fu possibile?
    «In Polonia, l'antisemitismo era profondo; perfino alcuni leader della resistenza antitedesca non furono scontenti che la Germania stesse risolvendo il "problema degli ebrei". In generale l'antisemitismo, che aveva origini religiose, creò indifferenza per la sorte del popolo ebraico».
    Gli italiani, lei scrive, sono un enigma.
    «Furono un'eccezione. Eppure doveva essere il contrario vista la forte influenza della Chiesa. Invece nel complesso gli italiani, compresi molti alti ufficiali di Mussolini, aiutarono gli ebrei, come ad esempio, ma non solo, nel Sud Est della Francia finché l'Italia ebbe il controllo della regione».
    Hitler giocò un ruolo fondamentale, lei dice, non furono i tedeschi a chiedergli lo sterminio. Lei non la pensa come lo storico Goldhagen.
    «Hitler non salì al potere per il suo antisemitismo, ma per motivi economici. Però era ossessionato dall'idea che gli ebrei fossero alla base della sconfitta della I Guerra Mondiale e, in quanto liberali e rivoluzionari al tempo stesso, corrodessero dal di dentro il paese, l'intera Europa. Portò avanti con sistematicità prima il progetto di escluderli dalla società, poi di spingerli fuori dal territorio, infine, quando la Russia contrattaccò e gli americani entrarono in guerra (anche Roosevelt secondo Hitler era controllato dagli ebrei) si convinse che se non fossero stati uccisi, avrebbero causato di nuovo la disfatta. L'ho definito antisemitismo redentivo, significa credere che per salvare il mondo devi liberarti degli ebrei. Prima fu il credo di un piccolo gruppo di nazionalisti: una volta al potere i nazisti, divenne la dottrina ufficiale di un paese, amplificata da una propaganda martellante».
    Era un'ossessione ideologica, quasi religiosa.
    «Esattamente. Se fosse stata solo la macchina burocratica a portare avanti lo sterminio, se Hilberg avesse ragione, allora il meccanismo si sarebbe fermato quando la guerra iniziò ad andare male. Tutto allora divenne difficile, pensi allo sforzo che richiedevano anche solo i trasporti verso i lager. Eppure, al contrario, i tedeschi più perdevano, più andavano veloci nella distruzione degli ebrei. In Ungheria, pochi mesi prima della caduta, lo stesso Hitler spiegò ad Antonescu che doveva liberarsi dei suoi 700 mila ebrei. Ne furono sterminati 400 mila».
    Quindi lei non è d'accordo con Hannah Arendt e la sua "banalità del male".
    «Il male non era affatto banale, gli uomini forse. Ma che il paese più avanzato del continente abbia concepito di sterminare in modo industriale tutti gli ebrei d'Europa e l'abbia fatto, è quanto di più estremo e inumano si possa immaginare. Gli altri stermini, e tanti ce ne sono stati, non hanno mai visto questa ricerca fino all'ultimo uomo, dietro ogni angolo. Hannah Arendt scrisse delle cose giuste, ma sono quelle che ha preso da Hilberg: il tono invece che ha usato verso gli Judenrät, quell'ironia... non sono affermazioni che vogliono capire, compatire. La sua tesi sugli Judenrät poi, che rendeva gli ebrei collaboratori della distruzione del loro stesso popolo, è largamente infondata, ogni loro influenza fu marginale».
    Non è d'accordo nemmeno con gli storici, come Gotz Aly, che giudicano la Shoah un aspetto non primario rispetto agli obiettivi principali del Reich.
    «È una scuola di ottimi storici, però considerano le politiche antiebraiche tedesche non secondarie, ma comunque come conseguenze automatiche della colonizzazione a Est e la redistribuzione del potere economico. Io penso che la persecuzione degli ebrei non fu l'unico scopo di Hitler ma certo fu centrale, e con la guerra lo divenne ancora di più. Il suo



testamento è chiaro: quello è il tema fondamentale».
    Crede anche che la Shoah non sia figlia della modernità, un'opinione invece largamente condivisa.
«Non si sarebbe potuta compiere senza l'industrializzazione della morte, è chiaro. Ma non fu la modernità a portare tanta inumanità. Non ha prodotto niente del genere in nessun paese sviluppato. È una forzatura. Fu invece l'aspetto ossessivo, ideologico, apocalittico a partorire questo abominio».

(la Repubblica, 14 gennaio 2010)





4. LA STORIA DI IRIN AHMED




L'aspirante terrorista suicida che è diventata una volontaria per la pace

di Michael Sfaradi

Nonostante diversi esponenti di Al Fatah abbiano più volte dichiarato che la seconda intifada, quella per intenderci del 2002, era stata programmata da Arafat e dai suoi fin nei minimi particolari e si aspettava soltanto il momento giusto per farla scattare, la stragrande maggioranza dei media internazionali continua a raccontare la favola che si trattò di un'insurrezione spontanea dovuta alla famosa passeggiata, dell'allora capo dell'opposizione al Parlamento israeliano Ariel Sharon, sulla spianata del Tempio di Gerusalemme.
    Si tratta di un falso che continua ad essere citato come un'assoluta verità. Nel maggio dello stesso anno, con la rivolta all'apice della sua violenza, la vita in Israele e nei territori palestinesi era diventata estremamente difficile per tutti. La popolazione israeliana era arrivata al punto di dover sopportare la media di un attentato al giorno, con i notiziari serali che erano un continuo bollettino di guerra, alla fine si contarono centinaia di morti e migliaia di feriti la stragrande maggioranza dei quali civili e di tutte le età.
    Quella palestinese, dal canto suo, si ritrovò a fare i conti con nuove difficoltà che andavano ad aggravare la già precaria situazione in cui viveva, e vive ancora, nonostante centinaia di milioni di dollari di aiuti internazionali. Il problema più grave che dovette affrontare fu la disoccupazione, giacché la maggioranza dei datori di lavoro israeliani rinunciarono, per motivi di sicurezza, alla manovalanza arabo palestinese in conseguenza a gravi atti di aggressione con morti e feriti sui posti di lavoro.
    Poi, a completare l'opera c'era anche la quasi impossibilità di movimento fra i territori e Israele, difficoltà dovuta ai continui controlli da parte della polizia e delle unità antiterrorismo israeliane.
    Questo era il quadro della situazione quando accadde ciò che vogliamo raccontare, cioè la storia di Irin Ahmed, una studentessa universitaria palestinese che all'epoca dei fatti abitava in uno dei sobborghi di Ramallah in Cisgiordania.
    Stanca di questa situazione Irin decise di entrare a far parte di uno dei gruppi terroristici che istruivano gli aspiranti suicidi nell'uso degli esplosivi e, dopo un breve periodo di addestramento, arrivò anche per lei il momento di entrare in azione e diventare una martire in nome di Allah; Il 22 maggio 2002 era per lei il giorno della verità. Vestita all'occidentale con pantaloni jeans, camicia colorata, capelli al vento e occhiali da sole, fu accompagnata, insieme ad Is Abadir di 16 anni, anche lui pronto a morire, al centro di Rishon le Zion, importante città a sud di Tel Aviv. Is indossava, sotto la camicia un giubbetto con 22 kg di esplosivo, biglie metalliche e chiodi per rendere più devastante i danni dell'esplosione, mentre Irin aveva con sé una borsa esplosiva del peso di 30 kg. Il loro compito era di trovare un punto affollato per portare a compimento l'operazione.
    Una volta individuato l'obbiettivo Is si sarebbe fatto esplodere mentre Irin avrebbe atteso l'arrivo dei soccorsi per entrare in azione e mietere vittime fra i paramedici e i poliziotti che sarebbero arrivati, mettendo a segno un doppio attentato; uno schema che, purtroppo, abbiamo visto ripetersi più di una volta. I due ragazzi, in preda a un caos psicologico che noi non possiamo minimamente immaginare, girarono indisturbati, per circa tre ore con il loro carico di morte, sulle strade del centro cittadino mescolandosi alle persone che in quel momento, occupate negli acquisti e ignare di ciò che si stava preparando, rischiavano la vita. Irin, improvvisamente, decise che non era pronta a morire.
    Qualcosa era cambiato e le sue convinzioni cominciarono a vacillare. Come lei stessa ha raccontato si ritrovò seduta su una panchina nel giardino comunale sentendosi come uno zombi. In quel momento il suo sguardo si incrociò con quello di un bambino che da un passeggino la vide e le sorrise, "Non avevo il diritto di sacrificare vite innocenti" dichiarò poi ai poliziotti che la interrogarono. Il sorriso di quel bimbo le salvò la vita e la salvò a chissà quante altre persone che, da lì a poco, sarebbero rimaste vittime del gesto che stava per compiere. Il suo essere donna, e futura mamma, ebbe la meglio sulle insane idee che la propaganda le aveva instillato nella mente, e dopo aver capito che quello che stava per fare avrebbe colpito soltanto dei civili innocenti, senza portare alcun vantaggio alla causa del suo popolo, decise di rinunciare e di chiamare i due accompagnatori per essere recuperata e riportata a casa.
    Quando riuscì a contattarli, dopo diversi tentativi, si accese fra loro una discussione dai toni aspri, pieni di minacce e intimidazioni sia nei suoi confronti che in quelli della sua famiglia, ma per lei non era ancora arrivato il momento di morire.
    Cercò anche di convincere Is, il suo compagno di sventura, a fare altrettanto, i due parlarono a lungo, ma quando fu il momento di risalire in macchina e tornare verso Ramallah il ragazzo decise di rimanere ancora un po' in città e al momento di separarsi la rassicurò dicendo che sarebbe tornato da solo. Lei era convinta che anche Is avrebbe desistito dal suo intento, ma si sbagliava. Apprese, a distanza di meno di un'ora dall'edizione straordinaria del telegiornale israeliano, che un attentato terroristico era stato compiuto proprio nel posto dove lei era stata seduta per tutto il pomeriggio. Is Abadir si fece esplodere, venti minuti dopo che Irin era stata recuperata, in un angolo del parco cittadino dove persone anziane s'incontravano per giocare a scacchi o a carte, e il risultato del suo gesto costò la vita a tre persone, lui compreso, e causò decine di feriti, alcuni anche gravi. Irin Ahmed fu arrestata dalla polizia israeliana a distanza di due giorni dall'attentato e condannata a sette anni di carcere per tentata strage.
    Oggi, dopo essere tornata in libertà, ha deciso di raccontare la sua storia; come era arrivata a decidere di suicidarsi in quel terribile modo e, soprattutto, cosa e quali pensieri positivi l'avevano convinta a desistere. Per fare ciò gira il mondo, soprattutto l'Europa, l'ultima conferenza in ordine di tempo è stata tenuta all'Università di Lisbona in Portogallo. Si definisce una "Missionaria della Pace" e cerca di rendere partecipi al dramma suo, del suo popolo e di tutto il Medioriente, il maggior numero di persone spiegando che non sarà la violenza la via per arrivare a una soluzione e, soprattutto, quanto sia dannoso il terrorismo per gli interessi stessi del popolo palestinese. Per il suo gesto di rinuncia Irin Ahmed è stata in qualche modo "punita" dai vertici palestinesi, il suo nome, infatti, non ha mai fatto parte delle liste, che l'autorità palestinese inoltrava al governo israeliano, dei prigionieri da scambiare o di cui si chiedesse la liberazione, ed è per questo che ha scontato la sua condanna fino all'ultimo giorno. Dopo il 22 maggio 2002, visto "l'insuccesso" registrato con Irin, il "Modus Operandi" degli attentatori suicidi cambiò drasticamente; si registrarono infatti casi in cui la detonazione di pacchi o giubbetti esplosivi non era più comandata dal "suicida", ma da un altro terrorista che lo seguiva a distanza di sicurezza. Questo per evitare improvvisi ripensamenti. La storia di Irin Ahmed ci racconta comunque che la ragione può ancora prendere il sopravvento sulla violenza e sull'odio. Si tratta però di un caso unico perché decine sono stati gli attentatori che si sono fatti esplodere mietendo centinaia di vittime, senza il minimo tentennamento. E questo non è successo solo in Israele, ma anche negli USA (11 settembre) e in Europa (metropolitana di Londra e ferrovia di Madrid). Siamo consapevoli che la strada che porterà a una pacifica coesistenza fra i popoli è ancora lunga e che molte saranno ancora le vittime che pagheranno il prezzo di quest'odio assurdo, ma la speranza che ripensamenti e voglia di vivere, come quelli che portarono Irin a prendere la decisione che prese possano caratterizzare un futuro migliore del presente, non deve mai morire. Vorrei aggiungere a quest'articolo una nota di carattere personale; Rishon le Zion è la città di chi vi scrive, e il luogo dove Is Abadir si fece esplodere dista meno di quattrocento metri dalla mia casa. Dopo l'esplosione fui uno dei primi ad arrivare sul posto e, insieme ad altri, portai, in attesa delle ambulanze che non tardarono ad arrivare, un primo soccorso alle persone che erano rimaste a terra ferite. Se Irin Ahmed avesse portato a termine la sua missione, probabilmente, il mio nome figurerebbe sulla lista delle vittime di quest'assurdità che si chiama terrorismo.

(l'Opinione, 16 gennaio 2010)

Ved. Notizie su Israele 456





5. I COLLEGAMENTI TRA NAZISMO E MONDO ARABO




Quando la mezzaluna abbracciò la svastica

di Andrea Tornielli

I rapporti del nazismo con il mondo arabo sono poco conosciuti, così come è poco conosciuta l'influenza che l'ideologia hitleriana ebbe in alcuni partiti e organizzazioni politiche che lottarono per l'indipendenza dei paesi arabi dal dominio coloniale. Un'influenza i cui echi si fanno ancora sentire «in alcuni settori del mondo arabo», mentre «alcuni importanti leader sia religiosi sia politici dell'islam fondamentalista se ne fanno tuttora propagatori».
    Lo sostiene lo storico de La Civiltà Cattolica, il gesuita Giovanni Sale, in una ricerca che sarà pubblicata in un volume edito Jaka Book.
    Sale ricorda che inizialmente, la «soluzione» scelta dalla Germania hitleriana per allontanare gli ebrei dal suolo tedesco, fu quella di facilitarne in tutti i modi l'emigrazione. In particolare in Palestina, dove, credevano i tedeschi, essi sarebbero stati «liquidati» dagli arabi. L'atteggiamento tedesco mutò poco dopo, quando a Berlino si resero conto che l'immigrazione ebraica in Palestina avrebbe favorito la nascita di uno Stato ebraico. È in questo momento, spiega lo storico, che il governo di Berlino ordina a tutte le sedi diplomatiche tedesche in Medio Oriente di tenere «un atteggiamento più comprensivo verso le aspirazioni del nazionalismo arabo».
    Dopo l'invasione tedesca della Cecoslovacchia nel marzo 1938, l'indirizzo filoarabo assunto dal governo del Reich per contrastare le ragioni del sionismo internazionale, viene espresso dalla propaganda nazista in modo più diretto. In questo periodo viene anche attivata dal governo tedesco una trasmissione radio di propaganda nazista in lingua araba, che avrà «ascoltatori entusiasti in tutto il Medio Oriente». E gli intellettuali arabi, in quel periodo, scrive padre Sale, «consideravano più vicine alla loro cultura e sensibilità le ragioni ideologiche del nazionalismo tedesco, definito in base alla lingua, alla cultura e alla stirpe di un popolo e di una nazione; insomma tra pangermanismo e panarabismo vi erano a quel tempo diversi punti di contatto».
    Alcuni arabi tedeschi cercheranno, ma invano, di persuadere i capi nazisti a modificare la clausola razziale nello statuto del partito, restringendola ai soli ebrei. Le autorità tedesche tenteranno però in tutti i modi di correggere il tiro circa il «semitismo» delle popolazioni arabe, sostenendo che non era vero che gli arabi fossero «semiti puri» come gli ebrei, ma che, al contrario di questi, essi furono in buona parte arianizzati. «L'ideologia nazista - scrive lo storico gesuita - attraverso la sua martellante propaganda antiebraica e antidemocratica, non soltanto raggiunse la maggior parte delle popolazioni arabe, ma influì anche sulle sue élite intellettuali; in diversi Paesi furono fondati addirittura partiti politici di matrice nazista, che ebbero poco seguito a livello popolare, ma che esercitarono un forte influsso politico anche negli anni successivi alla guerra. Ricordiamo il Partito Nazionalsocialista Siriano, che esercitò una grande forza di attrazione sulla gioventù siriana e libanese di quegli anni, e il Partito Giovane Egitto, le cosiddette "camicie verdi", formato da una gerarchia paramilitare sul modello delle SA e delle SS. Esso si distinse per un acceso antisemitismo e per l'adesione all'ideologia nazista».
    All'inizio degli anni Quaranta, il Gran Muftì di Gerusalemme al Husayni, capo del supremo comitato della Palestina araba, per promuovere le ragioni dell'indipendenza dei Paesi arabi, organizzò una «missione» a Berlino per prendere contatti con i capi militari nazisti. Affermò di essere a capo di un'organizzazione nazionalista araba segreta con diramazioni in diversi Stati che, disse, erano disposti a unirsi alle forze dell'Asse nella guerra contro l'Inghilterra, «alla sola condizione che tali forze riconoscano il principio di unità, l'indipendenza e la sovranità di uno Stato arabo a carattere fascista, comprendente l'Irak, la Siria, la Palestina e la Transgiordania».
    Il sentimento filo-tedesco e le simpatie verso il nazismo, furono così forti, «in questi Paesi, in particolare in Egitto e Siria - osserva Sale - che esso non svanì neppure dopo la sconfitta e la completa distruzione del Terzo Reich. Le simpatie verso il nazismo e verso Hitler, addirittura, non solo non venivano nascoste, ma venivano pubblicamente manifestate e questo fino agli anni Sessanta del secolo scorso». Lo storico ricorda uno scritto del 1953 di Anwar Sadat, futuro presidente della repubblica egiziana, il quale scrisse in un giornale del Cairo, riferendosi idealmente a un Hitler che si credeva ancora vivo e nascosto da qualche parte: «Mi congratulo con voi con tutto il cuore perché, sebbene sembri che siate stato sconfitto, il vero vincitore siete voi. Siete riuscito a seminare la discordia tra il vecchio Churchill e i suoi alleati da una parte, e il loro alleato il diavolo, dall'altra. La Germania è vittoriosa perché è necessario, per l'equilibrio nel mondo, che essa sia di nuovo creata, qualsiasi cosa possano pensare l'Occidente o l'Oriente. Non ci sarà pace fino a quando la Germania non sarà riportata a quello che è stata».
    Così, mentre in Occidente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il nazismo veniva identificato con il «male assoluto», nel mondo arabo, scrive padre Sale, «esso continuava a raccogliere l'entusiasta simpatia di molti».
In larghi settori del mondo arabo, in particolare quelli legati al fondamentalismo islamico, il ricordo di Hitler rimane dunque ancora vivo e le sue opere vengono ancora tradotte e divulgate. Alcuni fatti recenti, inoltre, dimostrano chiaramente, secondo lo storico gesuita, «che una certa mentalità, diremmo filonazista e antisemita, è condivisa anche da alcuni leader politici e religiosi del mondo islamico». Come attestano le dichiarazioni antisemite e riduzioniste sulla Shoah più volte espresse dal presidente iraniano Ahmadinejad, o come, conclude Sale, «le farneticanti dichiarazioni di alcuni capi religiosi islamici, che ritengono che l'Europa, anziché aborrire il nazismo, dovrebbe lodarlo per il fatto di aver allontanato il pericolo ebraico dal vecchio continente».

(il Giornale, 21 gennaio 2010)

Ved. Notizie su Israele 126





6. I FALASHA




Gli ebrei neri dell'Abissinia

di Monica Genovese

Villaggio etiope falasha
Nell'Etiopia settentrionale, nel bel mezzo delle montagne, si scorge il minuto villaggio degli ebrei etiopi, i falasha, termine il cui significato amarico è straniero o esilio. Un popolo africano di religione ebraica.
I falasha, chiamati anche Beta Israel, ovvero Casa Israele, vivono qui dall'era pre-cristiana e, fino ad alcuni anni fa, hanno rappresentato una fiorente comunità di artigiani. Oggi, però non restano che pochissime persone a dedicarsi a questa attività, ridotta, ormai ad un mero lavoro di attrattiva turistica.
Secondo alcuni storici sono il frutto della mescolanza tra popoli locali e gli ebrei fuggiti dal proprio paese durante vari periodi, non ultimo la diaspora ebraica. Secondo il punto di vista religioso, invece nascono dall'unione di re Salomone e della regina di Saba.
Le vicinanze del villaggio alla città di Gondar, ricca di castelli medievali africani, consente ai falasha di vendere, ai pochi viaggiatori passanti, qualche oggetto in argilla o in legno. Le capanne di paglia, fango e sterco di animale, le casine si riversano sulla strada principale lungo la quale i ragazzini, alla vista di un farangi, uno straniero, corrono colmi di monili e articoli di ogni genere nella speranza di fare qualche piccolo affare.
Sul lato opposto della strada si trova un'associazione culturale che supporta le donne nel lavoro, cercando di insegnare loro un mestiere. La vita semplice, povera, difficile in questa zona è diventata ancora più arida dopo la partenza di molti ebrei falasha al richiamo di Israele.
In tanti hanno lasciato l'Etiopia per la Terra Promessa, in rispetto al movimento sionista e qui, ora non resta che l'eco di ciò che fu. Molti, invece attendono, ancora in Africa, il definitivo trasferimento in Medio Oriente.
In ogni caso, il villaggio è molto caratteristico, surreale e, a tratti, folkloristico. La gente è accogliente, ospitale e, persino curiosa. Mostra la propria casa o invita lo straniero occidentale a sorseggiare una tazza di caffè con loro.
Alcuni ebrei etiopi vivono nei pressi del Lago Tana, nel nord ovest del Paese e continuano a rispettare le antiche tradizioni basate su un misto di giudaismo, paganesimo indigeno e cristianesimo.
Questa terra, così distante dall'Occidente, non solo fisicamente, è ricca di storia, di cultura, di curiosità, di tradizioni affascinanti e suggestive e non finisce mai di stupire se, poco alla volta, ci si avvicina ad essa per conoscerla. Per apprezzarla.

(il reporter, 14 gennaio 2010)





MUSICA E IMMAGINI




El Mekutonim Aheym




INDIRIZZI INTERNET




Centro di documentazione ebraica contemporanea

Keren Hayesod




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