1. LE SHADIDE
La guerra delle «fidanzate di Allah»
di Roberto Bongiorni
|
Wafa Idris |
Avvolte nella loro abaya, la lunga veste nera che indossano le donne irachene, riuscivano a passare quasi ovunque con il loro carico di morte, senza essere perquisite. Qualcuna, simulando una gravidanza, superava con facilità i checkpoint, fino a salire le scale degli uffici governativi, luoghi impensabili per un kamikaze uomo. Chi appoggiava la loro missione suicida le definì le "fidanzate di Allah". Qualcuno le chiamò invece le donne invisibili. Perché di loro non restava che qualche resto umano e qualche oggetto: un rossetto, una scarpa. Spesso nessun nome, né video di rivendicazione. Come se non fossero mai esistite.
Le cose ora sono cambiate. Davanti a un inquietante aumento delle donne "martiri", dall'estate del 2008 nella capitale Baghdad in molti checkpoint c'è una donna addetta alla perquisizione delle donne. Fa parte del team "Figlie dell'Iraq". Il suo compito: fermare le fidanzate di Allah. Eppure, ancora oggi, nell'immaginario del mondo arabo è molto difficile accettare che chi dona la vita possa toglierla trasformandosi in ordigno umano. Pensare che chi dovrebbe nutrire un naturale istinto di protezione verso i bambini non si curi di farne strage. «Gli estremisti islamici, in particolare i salafiti, proibivano alle donne di svolgere un ruolo attivo nella Jihad. Dovevano accudire i figli e sostenere i mujaheddin», spiega Murad Batal al-Shishani, esperto di terrorismo dell'Istituto Jamestown Fondation. «La svolta avvenne con l'entrata in campo di al-Qaeda, che in Iraq è la maggiore, se non esclusiva fonte di reclutamento delle shahide (le martiri). I vantaggi sono evidenti: danno meno nell'occhio e l'eco mediatica è molto più forte».
In Iraq le shahide hanno cominciato a colpire prima gli "invasori", i marines. Poi caserme e checkpoint dell'esercito e della polizia irachena, rei di essersi schierati con loro. Nel 2005, quando le violenze interconfessionali spingono il paese sul baratro della guerra civile, sono impiegate per far strage di pellegrini sciiti. L'ultimo episodio lo scorso primo febbraio, sulla strada tra Baghdad e Kerbala. La donna bomba si porta dietro la vita di 50 iracheni, tra cui diversi bambini.
Per quanto oggi l'Iraq sia il paese con più episodi, il fenomeno delle donne kamikaze affonda le radici negli anni 80. Quando è nato aveva poco a che fare con la religione, piuttosto con la lotta di liberazione. La prima donna kamikaze si chiamava Sana'a Youcef Mehaidli. Aveva appena 15 anni, era membro del Partito nazionale pro-siriano, laico. Guidò un'auto imbottita di esplosivo contro un convoglio israeliano in Libano, uccidendo due soldati. Era il 1985. Ne seguirono parecchie. Di molte non si saprà mai nulla, altre saranno ricordate per sempre. Come Thenmozhi Rajaratnam, la giovane militante legata al movimento separatista, e indù, delle Tigri Tamil, in Sri Lanka. Si fece esplodere uccidendo il premier indiano Rajiv Ghandi insieme a 14 persone. Era il maggio del 1991. Le Tigri Tamil, in guerra contro il governo singalese, fecero delle donne kamikaze una colonna della loro milizia. Su 200 attentati, si stima che il 30% circa fu portato a termine da loro.
Il fenomeno delle shahide si diffuse presto in altri teatri di guerra, dal Kurdistan turco alla Cecenia. Le vedove nere cecene fecero la loro apparizione nel 2000. Prima colpirono i convogli russi e poi seminarono il terrore a Mosca. Su 63 kamikaze, 25 erano donne. Meno che in Iraq, ma l'impatto mediatico è stato impressionante. «Le vedove nere - continua Murad - presentano delle peculiarità. Spesso a determinare la loro azione non è la jihad ma una grave lesione dei diritti umani, la perdita di un fratello o di un marito. Tanto che alcune hanno pianificato l'attentato da sole. Una cecena ha ucciso un ufficiale russo senza che nessuno, fino alla fine, sapesse nulla delle sue intenzioni». «Pare che lo stupro costituisca una buona motivazione per l'azione delle kamikaze cecene. In una cultura che enfatizza il valore della verginità e della purezza, nel senso di non contaminazione, lo stupro rappresenta l'estrema perdita», scriveva nel 2006 la psicologa italiana Carla Selvestrel.
Le donne martiri iniziano a seminare il terrore anche in Israele. Il 27 gennaio del 2002 Wafa Idris entra in un negozio di Gerusalemme, chiede il prezzo di un paio di scarpe, e poi aziona il detonatore. È la prima donna kamikaze del conflitto israelo palestinese. Una ragazza comune. Aveva 28 anni, si occupava dei ragazzi handicappati per la Mezza luna rossa. Fu il gruppo delle brigate martiri di al-Aqsa, braccio armato del movimento secolare Fatah, a rivendicare l'attentato. Nulla a che vedere con la jihad. I movimenti salafiti erano contrari. Lo era anche lo sceicco Ahmed Yassin, il leader spirituale del movimento islamico Hamas ucciso in un raid israeliano a Gaza nel marzo del 2004. Due anni prima Yassin criticò aspramente la seconda donna bomba palestinese. «Hamas è tutt'altro che entusiasta dell'impiego delle donne in guerra. Per ragioni di pudore». affermò. Nel gennaio del 2004, Reem al-Reyashi, madre di due bambini di tre e cinque anni, si fa saltare al checkpoint tra Israele Gaza. È la prima shahida di Hamas. Yassin cambia idea: «È un'evoluzione significativa nella nostra lotta. I combattenti uomini stanno affrontando molti ostacoli. Le donne sono come l'esercito di riserva e quando è necessario le usiamo».
Dai Territori Palestinesi all'Iraq il passo fu breve. La prima martire risale all'aprile del 2003, pochi giorni prima della caduta di Baghdad. Poi due anni di tregua, seguiti da un crescendo impressionante «In Iraq l'ideatore delle martiri fu al-Zarqawi. Organizzò una rete clandestina, quasi impenetrabile, di kamikaze, figura pressoché sconosciuta in Iraq», continua Murad. Nel 2006 il ministro degli Interni iracheno diffonde un elenco di aspiranti kamikaze fermate per tempo: sono 122, quasi tutte irachene. Un numero che lascia a bocca aperta. Nonostante gli arresti, gli attentati delle shahide raggiungono il picco tra il 2007 e il 2008, investendo anche le carovane di pellegrini sciiti. Nel febbraio del 2008 due shahide si fanno saltare in aria in due affollati mercati di Baghdad: 99 le vittime. Due mesi dopo un'altra kamikaze compie una strage nella città santa di Kerbala: 50 morti. In luglio altre tre kamikaze uccidono 30 pellegrini. Tre mesi dopo la più giovane attentatrice irachena, una disabile di 13 anni. La provincia di Diyala, roccaforte della guerriglia sunnita, è la fucina delle fidanzate di Allah.
In assenza di dati precisi, gli esperti hanno provato a ricostruire l'identikit della donna kamikaze: l'età media varia dai 17 ai 26 anni. La maggior parte non era ancora sposata. Diverse erano vedove di un uomo ucciso in guerra o avevano perso figli. Sarebbero di più quelle con una certa istruzione e una situazione economica agiata. Come l'avvocato Hamady Jaradat, che si fece esplodere a Tel Aviv nel 2004 per vendicare il fratello. I pochi dati raccolti indicano che in Iraq nel 2007 sono morte otto donne kamikaze, nel 2008 30. I dati del 2009 non si conoscono. Ma l'arresto nel gennaio di quell'anno di Samira Jassim, 52 anni, fece scalpore. Avrebbe reclutato 82 donne, e, dopo averne fatte stuprare parecchie dagli uomini della sua cellula, comunicava loro che l'unica via per recuperare l'onore era il martirio. Pochi mesi prima un'altra arruolatrice di shahide, Itisam Adwan, aveva dichiarato: «Ve ne sono ancora molte pronte a eseguire la missione». Propaganda. Ma l'allerta resta molto alta. L'ultimo allarme, lanciato sei giorni fa dall'intelligence britannica, è inquietante. Sarebbe venuto a conoscenza di impianti esplosivi, non rilevabili ai raggi x degli aeroporti, da innestare nelle protesi al seno.
(Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2010)
2. UNA FALSIFICAZIONE STORICA EURABICO-AMERICANA
La Cisgiordania non è e non è mai stata territorio "palestinese"
di Enzo Nahum
La Cisgiordania non e' e non e' mai stata territorio "palestinese" e soltanto l'inettitudine e la "dhimmitudine" dei molti governi israeliani laburisti dal 1967 ha permesso al mondo di considerare il West Bank/Cisgiordania "territorio palestinese occupato".
La Cisgiordania e' stata militarmente occupata per 19 anni (1948-1967) da quello che si chiamava nel 1948 il Regno di Transgiordania, entita' artificiale creata dagli inglesi nel 1922 con il nome di Sheikdom of Transjordan, a seguito di una guerra di aggressione e pertanto illegale secondo il diritto internazionale ed i principi delle Nazioni Unite. I villaggi e le magnifiche cittadine che Israele ha costruito in quella parte del paese che storicamente si chiama Giudea e Samaria, sono dal mondo che "ignora" chiamati erroneamente "insediamenti", ma secondo il diritto internazionale sono a tutto diritto villaggi e cittadine facenti parte dello Stato di Israele.
Che ai filo-arabi piaccia o no, il diritto internazionale non e' una cosa che uno possa tirare come la gomma o possa essere oggetto di opinioni ed in quella regione il diritto internazionale e' rappresentato dalle due risoluzioni della Societa' delle Nazioni alla Conferenza di San Remo del 1920 e del 1924. Nella prima si istituisce il Mandato di Palestina che comprendeva l'area del presente Stato di Israele, incluso il West Bank (del Giordano) e la Transgiordania con il preciso ed unico obbiettivo di preparare la creazione di uno Stato degli Ebrei (di tutto il mondo) e ahime' la Societa' delle Nazioni nomina come Mandataria la perfida Albione (l'Inghilterra) e le affida in amministrazione fiduciaria la Palestina.
Nella Risoluzione di San Remo nel 1920 la Societa' delle Nazioni ingloba la Dichiarazione Balfour del 1917 che dopo aver dichiarato che il Governo di Sua Maesta' (britannica) fara' di tutto per facilitare la creazione di una "national home" in Palestina per il popolo Ebraico ("for the Jewish people") aggiunge che "... niente sara' fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunita' non-ebraiche in Palestina, o i diritti e lo status di cui godono gli Ebrei in qualsiasi altra nazione". ("... nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country").
Questo e' piu' importante di quello che sembri a prima vista, perche' il corpo supremo che allora creava e rappresentava la legge internazionale, la Societa' delle Nazioni, sentenzia che di tutte le popolazioni nel Mandato di Palestina, l'unico popolo ad avere diritti politici e quindi diritto ad avere uno stato ("national home per tutti gli Ebrei che vogliano stabilirvisi) e' solo ed esclusivamente il popolo Ebraico, mentre gli altri non-ebrei, avranno garantiti tutti i diritti "civili e religiosi". E nessuno puo' dire che lo Stato di Israele al giorno d'oggi non onori questi obblighi.
Nel 1922, la "perfida Albione", proditoriamente e alla faccia dei suoi obblighi come nazione fiduciaria del Mandato di Palestina, sottrae il 76% del territorio del Mandato, la Transgiordania, e lo consegna al figlio del suo amico Hussein, Sceriffo della Mecca e capo della tribu' degli Hashemiti, che fuggiva dall'Arabia incalzato dal predone Ibn Saud che finira' per prendersi tutta l'Arabia. Pertanto, Abdallah, uno straniero dell'Arabia diviene Sceicco di Transgiordania ed il territorio viene battezzato Sceiccato di Transgiordania mentre suo cugino Feisal viene insediato dalla stessa Inghilterra in quello che diviene Iraq. Nel 1946 lo Sceiccato cambiera' nome in Regno Hashemita di Transgiordania, ma ciononostante verra' riconosciuto solo dalla Gran Bretagna e nel 1947 dal Pakistan!
A seguito del furto della maggior parte del Mandato di Palestina da parte della Gran Bretagna, la Societa' delle Nazioni, sollecitata dalla ladra, (ma maggior vincitrice della Grande Guerra), emette una seconda risoluzione nel 1924 sempre a San Remo, in cui si ribadiscono tutti i principi ed i punti della prima Risoluzione, salvo per la correzione che il confine orientale del Mandato di Palestina e' la riva sinistra del Giordano e che per quanto riguarda il territorio ad est del Giordano una diversa soluzione e' stata trovata.
I principi, le risoluzioni e le responsabilita' della Societa' delle Nazioni sono stati ereditati, assorbiti ed inglobati nella carta costituente delle Nazioni Unite e mai abrogati. Fanno quindi parte del diritto internazionale compresa anche la realta' che la Cisgiordania/West Bank/Giudea e Samaria non sono territori palestinesi o territori occupati, ma parte integrante dello Stato di Israele, voluto e riconosciuto dalle Nazioni Unite. La spartizione dell'area votata nel 1947 dall'Assemblea dell' ONU in uno stato ebraico ed uno arabo, in primis non e' vincolante in quanto e' una risoluzione dell'Assemblea e non del Consiglio di Sicurezza, e in secundo e' stata nullificata dalla non accettazione degli stati arabi e dall'aggressione militare al neonato Stato di Israele del 15 Maggio 1948 da parte di 5 eserciti arabi.
E' solo la stupidita' e la sottomissione alla prepotenza eurabica ed americana dei governi di sinistra israeliani, dal tempo dei tragici e fallimentari Accordi di Oslo (1993-1995) che i diritti di Israele sono calpestati e capovolti.
Chiamare i villaggi e le cittadine israeliani in Giudea e Samaria, "insediamenti" e' una falsificazione storica, per non parlare della parte est di Gerusalemme. Purtroppo tutto il mondo ha abbracciato la narrativa araba e rifiuta di leggere la storia di quella martoriata regione e di informarsi veramente. Ciononostante tutti vogliono parlare della questione palestinese e sentenziare con auto-assegnatasi autorita'.
(Informazione Corretta, 29 marzo 2010)
3. PREGIUDIZIALE DI TRATTATIVA ISLAMICA: CHIEDERE TUTTO
Le condizioni di pace dei palestinesi
di Gianni Pardo
Un giornale ha riassunto in un riquadro le richieste palestinesi per siglare un accordo di pace:
1) Gerusalemme capitale dello Stato palestinese;
2) problema (eliminazione?) degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati;
3) ritorno ai confini del 1967;
4) ritorno dei rifugiati;
5) redistribuzione delle risorse idriche;
6) liberazione dei prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane.
1) Gerusalemme è almeno dal 1980 la capitale di Israele e poco importa il mancato riconoscimento internazionale. Si può biasimare l'invasione cinese del Tibet, cionondimeno non si può contestare che la Cina eserciti la propria sovranità su quella regione. E non si può nemmeno dire che Gerusalemme sia stata la capitale palestinese prima del 1967: infatti in quel momento tutta la regione faceva parte della Giordania. Ma soprattutto non è facile concepire che, senza esservi costretto, un Paese accetti la capitale di uno altro Stato all'interno del perimetro della propria capitale. Il caso del Vaticano è particolare: qui era il Papa ad essere a casa sua, non i Savoia: e questi che si sono imposti con la forza.
2) Gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati sono certamente un problema ma nulla impedirebbe che essi rimangano, anche se il territorio passa sotto amministrazione palestinese. Forse che nei confini di Israele non c'è più di un milione di palestinesi, per giunta con diritto di voto alle elezioni politiche? Comunque è un problema secondario, anche se richiedere la loro eliminazione sarebbe una dimostrazione di razzismo.
3) Il ritorno ai confini del 1967 è una richiesta stupefacente. I palestinesi dimenticano che sono stati loro e i loro alleati, Nasser in particolare, a violarli, con l'intenzione di appropriarsi l'intero territorio di Israele. Ora, avendo fallito, pretendono che tutto torni come prima. È come se qualcuno obbligasse un altro a giocare una partita di poker, perdesse l'intera posta e alla fine ne chiedesse la restituzione. Gli israeliani chiedono solo piccoli aggiustamenti dei confini, mentre per diritto di guerra si sarebbero potuto annettere tutto il territorio. Questo non andrebbe dimenticato: la Russia non si è forse annessa Königsberg, su cui non vantava nessuna rivendicazione storica?
4) Il ritorno dei rifugiati è un'assurdità. Costoro hanno abbandonato l'attuale territorio di Israele volontariamente: lo prova il fatto che centinaia di migliaia di altri palestinesi sono invece rimasti e sono ancora lì, vivi e vegeti. Inoltre i rifugiati non si sono integrati nei posti in cui sono andati a vivere (il Libano per esempio) e sarebbe strano che si integrassero in Israele. E tutto questo mentre i palestinesi non li accolgono, loro, sul proprio territorio. Infine, se è vero che si tratta di quattro milioni di persone, sarebbe come se proponessero a noi di accogliere quaranta milioni di cittadini islamici, di origine e lingua diversa, allevati per giunta ad odiare mortalmente l'Italia.
5) La redistribuzione delle risorse idriche è un problema poco noto ma gli israeliani non hanno certo deviato il corso del Giordano. Se esso passa nel loro territorio, non è merito loro e non è neppure colpa loro. Ogni regione si ritrova con vantaggi e svantaggi geografici. L'Iraq condivide forse le proprie risorse petrolifere con la Giordania, sprovvista di petrolio? Lo stesso concetto di "redistribuzione" è falso: non c'è mai stata una distribuzione ingiusta cui ora dovrebbe seguire una distribuzione giusta.
6) La liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane è una richiesta inammissibile perché queste persone non sono incarcerate per motivi politici ma per reati comuni. Se poi i palestinesi li reputano eroi perché hanno ammazzato dei civili israeliani, non possono pretendere che gli israeliani condividano questo punto di vista.
Una nota finale riguarda il fatto che i palestinesi non parlino affatto delle condizioni militari di un eventuale accordo. Gli israeliani infatti non potranno mai e in nessun caso permettere una totale indipendenza bellica del nuovo Stato. Non concederanno mai ai palestinesi la possibilità di detenere armi pesanti o di accettare eserciti stranieri sul loro territorio: sono stati attaccati troppe volte. Dunque è strano che i palestinesi - che pure non dimostrano buon senso negli altri campi - non si lamentino del fatto che si discute solo di una larga autonomia, non di una vera indipendenza. La Palestina non sarebbe un vero Stato sovrano.
I palestinesi e la comunità internazionale si ostinano a chiudere gli occhi su una semplice realtà: contro Israele gli arabi hanno perso tutte le guerre che essi stessi hanno voluto.
(Il Legno Storto, 27 marzo 2010)
4. MERITI EXTRASPORTIVI DI UN GRANDE CAMPIONE
Un albero anche per Ginettaccio
Al via una mobilitazione per conferire il riconoscimento di Yad Vashem al campione che aiutò tanti perseguitati
di Adam Smulevich
L'eroismo può avere tanti volti. Anche quello di un uomo dagli occhi tristi e dal naso spigoloso. Insomma il ritratto di Gino Bartali, toscano doc e campionissimo della bicicletta negli anni gloriosi del ciclismo. Gli anni delle rivalità genuine e delle infinite battaglie su strade disastrate e polverosi viottoli di campagna, ma anche gli anni della guerra e delle persecuzioni razziali. E fu proprio in quel contesto drammatico che l'eroe dal naso importante decise di dare tutto se stesso per salvare il popolo ebraico. La storia è nota, ma neanche troppo: Bartali partiva da Firenze con destinazione Assisi, quasi 400 chilometri tra andata e ritorno, non di rado percorsi nel giro di poche ore. Nella canna della bicicletta nascondeva documenti da falsificare che recapitava alle suore clarisse del monastero di San Quirico. Le religiose provvedevano a smistarli ad alcuni tipografi della zona, che li restituivano pronti per essere consegnati ai gruppi di ebrei in fuga ospitati nel monastero. Era questo il funzionamento della rete clandestina organizzata dal cardinale Dalla Costa, che vedeva eminenti personaggi del clero combattere in prima linea contro i crimini del nazifascismo.
Ginettaccio non agiva per interesse, ma per pura bontà di cuore. Racconta suo figlio Andrea: "Ha percorso quella tratta almeno 40 volte". Lungo il tragitto incontrava molto spesso pattuglie di soldati tedeschi, che insospettiti dal suo frequente vagare per quei luoghi non esitavano a fermarlo. Ma Bartali era pur sempre il vincitore di un Tour de France. La scusa che percorreva quelle strade per allenarsi gli salvò più di una volta la vita, i tedeschi non smontarono mai il suo veicolo e lui poté ogni volta portare a termine la missione affidatagli: circa 800 ebrei furono salvati in questo modo avventuroso.
Il campione di Ponte a Ema non parlava mai con nessuno di quello che era stato il suo ruolo nell'organizzazione. "Perchè mio padre non voleva farsi pubblicità sulle disgrazie altrui", ricorda Andrea. Toscano chiacchierone, scelse la via del silenzio. Bartali ci ha lasciati nella primavera del 2000. Dalla sua morte in poi le onorificenze che gli sono state conferite hanno fatto luce su aspetti meno conosciuti di un mito, sportivo e non solo, del Novecento. Anche le istituzioni si sono mobilitate. Il 25 aprile del 2006 l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha consegnato alla moglie la Medaglia d'oro al valore civile per il "mirabile esempio di grande spirito di sacrificio e di umana solidarietà" del defunto marito. Il Comune di Firenze ha voluto piantare un albero in suo onore nel Giardino dei Giusti di via Trento.
E c'è un altro albero che meriterebbe di essere piantato. Dove? A Yad Vashem. Recentemente Sara Funaro aveva lanciato un appello sulle pagine del bimestrale Toscana Ebraica, chiamando a raccolta i testimoni di quella straordinaria prova di coraggio per far ottenere a Gino il massimo riconoscimento conferito dallo Stato d'Israele. Il tempo, per evidenti ragioni anagrafiche, stringe. L'appello viene riformulato su Pagine Ebraiche. Chi sa qualcosa, parli: c'è un eroe silenzioso che se lo merita.
E mentre il mondo ebraico prova a mobilitarsi per uno dei suoi salvatori, a Gino arriva lo schiaffone postumo della sua Firenze, dove nei mesi scorsi il museo a lui dedicato ha chiuso per problemi di gestione. Il Comune ha indetto una gara di appalto, ma tutto tace. E molti si chiedono come possa la città che si
|
|
candida ad ospitare i Mondiali di ciclismo nel 2012 condannare il suo più grande campione all'oblio.
(Pagine Ebraiche, aprile 2010)
5. ITALIANI BRAVA GENTE?
Maurizio Valenzi e gli ebrei italiani davanti al «razzismo»
Un pamphlet «anonimo» uscito sul finire degli anni trenta è opera del primo sindaco comunista di Napoli. Oggi quel libro è pubblicato nuovamente a cura di Nico Pirozzi .
di Massimiliano Amato
|
Maurizio Valenzi |
Nel tardo autunno del 1938 dai barconi di pescatori che facevano la spola tra le due sponde del Canale di Sicilia cominciarono a sbarcare nell'isola le copie di un pamphlet, Ebrei italiani di fronte al «razzismo». Era, naturalmente, diffusione clandestina, che riuscì tuttavia a dribblare le maglie della rigidissima vigilanza del regime. Per i poco più di 50mila ebrei italiani ufficialmente censiti nell'agosto dello stesso anno dal fascismo, che proprio in quelle settimane cominciavano a vivere sulla propria pelle gli effetti della sciagurata legislazione antisemita voluta da Mussolini e promulgata da un sovrano imbelle, quel pamphlet rappresentò una luce inaspettata nel buio di un tunnel fatto di discriminazioni, vessazioni, umiliazioni, persecuzioni. L'autore, celato sotto lo pseudonimo di Andrea Mortara, trentasette anni dopo, nel 1975, sarebbe diventato il primo sindaco comunista della storia di Napoli. Maurizio Valenzi, mancato a 99 anni nel giugno scorso nella bella casa sulla collina di via Manzoni, trasfuse in quel libretto tutta la sua passione politica, forgiata al fuoco di un'adesione al Pcd'I clandestino all'inizio degli anni Trenta, e temprata dalle attività antiregime promosse dall'esilio volontario di Tunisi, dove i Valensi (la zeta sarebbe arrivata per un errore di trascrizione), facoltosa famiglia di ebrei livornesi, erano approdati alla fine dell'Ottocento. Stamattina [18 gennaio 2010] quel libello, in cui Valenzi analizzava con criteri "scientifici" la deriva razzista del fascismo, sottolineando l'ormai conclamata subalternità politica e culturale dell'italietta del duce al reich hitleriano, sarà sugli scaffali delle principali librerie italiane, per i tipi della Centoautori, casa editrice napoletana. L'operazione di recupero di una testimonianza che sorprende per la lucidità con cui anticipava la successiva precipitazione degli eventi, che avrebbero definitivamente conferito al Secolo Breve la sua caratterizzazione più sanguinosa e inconfessabile, si deve all'impegno e alla passione di Nico Pirozzi, giornalista napoletano e studioso della Shoah, a cui ha dedicato finora tre volumi di ricerca storica e analisi. «Venni a conoscenza dell'esistenza di questo pamphlet quasi per caso, nel 2004, quando nel corso di un colloquio, Maurizio Valenzi mi consegnò la fotocopia di un vecchio libro scritto da Andrea Mortara - scrive Pirozzi nella premessa. - Mi confessò anche che Mortara era in realtà uno pseudonimo, dietro il quale si celavano l'incontenibile rabbia di un convinto antifascista, le ansie di un giovane ebreo che aveva percepito la dimensione di una tragedia non lontana dal manifestarsi, la delusione di un italiano tradito nelle aspettative di uomo e cittadino».
(l'Unità, 18 gennaio 2010)
*
Quell'Italia razzista che tradì gli ebrei - Nico Pirozzi
Quando, sul finire del 1938, anche in Italia fecero la loro apparizione alcune copie clandestine di un pamphlet scritto da un giovane intellettuale ebreo d'Oltremediterraneo che trentasette anni dopo sarebbe diventato il primo sindaco comunista di Napoli, l'ultimo diaframma che per anni aveva reso diverse la Germania di Hitler e l'Italia di Mussolini era stato definitivamente rimosso. Ad azzerare le dissonanze politiche fino ad allora esistenti tra i due regimi era stata la questione razziale che, come in quegli stessi anni andava denunciando lo scrittore tedesco Heinrich Mann, tendeva a rovesciare sugli ebrei tutto il potenziale di odio e di violenza di cui era intriso il nazismo e anche il fascismo.
Quel disperato e inascoltato grido di dolore che Maurizio Valenzi, alias Andrea Mortara, lanciò da Tunisi per denunciare la corsa verso il "macello universale" a cui il Führer e il Duce avevano irrimediabilmente dato il via, approda in libreria con l'originale titolo "Ebrei italiani di fronte al razzismo" (Edizioni Cento Autori, pagg. 128, euro 10), su iniziativa di una piccola casa editrice napoletana che l'ha sdoganato settantadue anni dopo la sua uscita. Che si trattasse di qualcosa di diverso dalla solita campagna diffamatoria contro i perfidi iudaei - di cui anche la cultura cattolica di inizio Novecento era profondamente impregnata - Maurizio Valenzi come molti altri intellettuali della sua generazione, lo percepì con sufficiente anticipo, ricomponendo le tessere di un mosaico complesso, non certamente scevro da contraddizioni, che in Italia aveva iniziato a prendere forma già alla metà degli anni Trenta, in concomitanza con la violenta campagna antisemita intrapresa da alcuni giornali di cui era nota la vicinanza all'inquilino di Palazzo Venezia.
A dar fiato agli istinti antisemiti di una minoranza di italiani non furono solo i giornali di Roberto Farinacci (Il regime fascista) e di Telesio Interlandi (Il Tevere e La difesa della razza) e i menzogneri e calunniosi fondi di Julius Evola e Giovanni Preziosi, ma anche una serie di iniziative editoriali, prima tra tutte la ristampa dei Protocolli dei «Savi Anziani» di Sion, un libello ideato dalla polizia segreta zarista che aveva lo scopo di "svelare" un ipotetico progetto di dominio del mondo ordito da una setta ebraica segreta. Insomma, se nell'autunno 1938 non eravamo ancora in presenza di un progetto assassino come lo sarà il programma di soluzione finale del problema ebraico (endlösung), anche in Italia si erano creati i presupposti - perlomeno teorici - per arrivare a qualcosa di simile a quello che era successo in Germania dopo il varo delle leggi «per la protezione del sangue tedesco» del 15 settembre 1935. Ciò, allo stesso identico modo in cui l'Europa andava creando quel fossato sempre più profondo e ampio che divideva il continente ariano e libero dagli ebrei (Judenfrei) da quello popolato dai subumani (Untermenschen). Un progetto che, in quell'ultimo autunno di pace, aveva già trovato l'entusiastica adesione della Romania di Alexandru Cuza e Octavian Goga, dell'Ungheria dell'ammiraglio Miklós Horthy e dell'Austria del dopo Anschluss.
L'addensarsi di nuove e inquietanti nubi che andavano a offuscare ancor di più l'orizzonte politico e culturale dell'Italia fascista fu chiaramente percepito dal maggiore dei due figli di Amedeo Valensi, un grana «di religione ebraica laicamente vissuta» nato in Tunisia da una famiglia di livornesi emigrati nel Protettorato francese d'oltremare a metà dell'Ottocento. A turbare il giovane Maurizio sarà la rapidità, la quantità e la brutalità dei provvedimenti antiebraici, che scandiranno l'estate e l'autunno del 1938. In poco più di cinque mesi - dal 14 luglio, giorno del parto del "decalogo" razzista, alla fine dell'anno - il governo fascista aveva, infatti, concesso il disco verde a sette decreti legge (il n. 1381 del 7 settembre, i numeri 1390 e 1539 del 5 settembre, il n. 1630 del 23 settembre, il n. 1728 del 17 novembre, il n. 1779 del 15 novembre e il n. 2111 del 22 dicembre), puntualmente trasformati in legge nei mesi successivi, e a due decreti ministeriali (il n. 1531 del 5 settembre e il n. 2154 del 21 novembre). Ventitré settimane di barbarie sociale e culturale, che non solo cancelleranno i più elementari principi di civiltà giuridica, ma che segneranno in maniera indelebile il presente e il futuro della maggioranza dei 58.412 italiani, nati da almeno un genitore ebreo o ex ebreo, discriminati dal lavoro e dalla scuola, progressivamente e irrimediabilmente ridotti al rango di bestie. Probabilmente - afferma con una punta di sarcasmo Valenzi - il neo antisemita Mussolini aveva dimenticato che i due soli biografi ai quali aveva accordato la sua collaborazione erano stati l'amante e confidente di «razza ebraica» Margherita Sarfatti, e l'ebreo tedesco Emil Ludwig «al quale, nel 1932, colui che ha sempre ragione fece le storiche dichiarazioni antirazziste». Ebrei e fascisti, dunque. Come Teodoro Mayer, fondatore, direttore e proprietario del quotidiano Il Piccolo di Trieste, e Giuseppe Toeplitz, il fondatore della Banca Commerciale Italiana, che attraverso il suo istituto di credito finanziò molte delle iniziative del Duce.
Ma perché proprio gli ebrei e non altre e più numerose minoranze, i cui atteggiamenti non erano certamente da considerarsi in linea con le aspettative del regime? Per quale oscuro motivo - si domanda con malcelata ironia il futuro sindaco di Napoli - Mussolini ha dimenticato, o ha finto di dimenticare, il milione di croati e sloveni di Trieste, Udine, Treviso e Gorizia, e i circa trecentomila tedeschi del sud Tirolo? Considerazioni non del tutto campate in aria, a cui Valenzi cercò di fornire anche delle risposte. Lo fece individuando tre variabili interpretative: una di carattere politico (il rafforzamento dell'alleanza con Hitler, attraverso l'azzeramento di ogni forma di dissonanza politica esistente tra Italia fascista e Germania nazista), l'altra di natura socio-economica (una valvola di sfogo al crescente malcontento popolare, derivante anche dal terremoto delle Borse del 1929), l'ultima di tipo psicologico (preparare gli italiani a una nuova guerra, che la Germania di Hitler si apprestava a scatenare con il consenso di Mussolini, dopo la costituzione dell'Asse Berlino-Roma).
Quello che di lì a poco scoppiò fu un conflitto terribile. Peggiore di quello combattuto un quarto di secolo prima sulle sponde del Piave e della guerra civile spagnola. Un conflitto, che gli ebrei del Vecchio continente furono chiamati a pagare sin da subito ad un prezzo altissimo, che alla fine della guerra assommerà a sei milioni di morti. Un massacro organizzato e preordinato con scientificità. Anche nei più piccoli e marginali dettagli, portato a termine con maniacale determinazione e teutonica efficienza. Una mattanza, in termini di dimensione e organizzazione, mai conosciuta fino ad allora, di cui il regime fascista di Mussolini è stato corresponsabile. Non solo moralmente, ma anche materialmente dopo l'8 settembre 1943, quando a partecipare alle retate antiebraiche ed arrestare uomini, donne e bambini non furono solo i tedeschi, ma anche agenti di Pubblica Sicurezza, uomini dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia Nazionale e delle Brigate Nere, della ex Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) e della ex Polizia dell'Africa Italiana (PAI). Un orrore che Maurizio Valenzi e la moglie Litza Cittanova, sposata nel dicembre 1939, ebbero a toccare con mano varie volte, ma per loro fortuna mai con il marchio di ebreo. Le loro disavventure ebbero inizio all'indomani del 10 giugno 1940, quando assieme ad altre migliaia di italiani anche il futuro sindaco di Napoli fu deportato in un campo di internamento ubicato nei pressi del deserto, tra scorpioni e altre insidie. A rimetterlo in libertà fu, paradossalmente, il nuovo Stato francese di Vichy, nato sulle ceneri di una nazione che si era illusa che la sola linea Maginot fosse sufficiente ad arginare le mire espansionistiche di Hitler. Con l'instaurazione del regime collaborazionista del maresciallo Pétain, nel giugno 1940, per Maurizio il clima si fece più pesante e pericoloso. Sospettato di essere un attivista comunista - partito a cui il futuro sindaco di Napoli aveva aderito nei primi anni Trenta - venne arrestato il 28 novembre 1941 e, subito dopo, internato nel campo di concentramento di El Kef assieme ad altri esponenti di primo piano del Partito Comunista Tunisino. Un mese dopo venne trasferito nella prigione di Ferryville, nei pressi del lago di Biserta, dove fu interrogato e «sottoposto a una doppia tortura, in una sala dominata dalla doppia ascia simbolo di Pétain. Strane manette ai polsi, scosse dovunque - dai genitali alla testa - originate da un ago collegato alla corrente elettrica». Dopo un sommario processo per sabotaggio industriale e attentato alla sicurezza dello Stato, il 28 febbraio 1942, un mese dopo la nascita del primogenito Marco, venne condannato all'ergastolo. Un anno terribile, il 1942, non solo per gli antifascisti tunisini ma anche per gli ebrei francesi. In particolare per quelli parigini, che il 16 e 17 luglio incapparono nella più grande caccia all'uomo della storia della capitale francese. In quella che sarà ricordata come la retata del "Velodromo d'inverno", rimasero intrappolati 3.118 uomini, 5.119 donne e 4.115 ragazzi. Avanguardia di un più consistente contingente di 41.911 ebrei che, nei cinque mesi successivi, con 43 convogli, dai campi di internamento francesi furono deportati ad Auschwitz-Birkenau e nei Vernichtungslager della Polonia del Governatorato Generale.
Ma non era finita. A metà autunno, in concomitanza con l'intensificarsi del programma di sterminio degli ebrei europei e l'avvio dell'Operazione Torch, i tedeschi occuparono la Tunisia. Il futuro degli ottantamila Juifs del Protettorato francese sembrava a questo punto segnato. Il 6 novembre 1942 un provvedimento a firma del generale Walter Nehring, comandante del contingente tedesco, ordinò la mobilitazione della manodopera ebraica per dei lavori di fortificazione a Biserta e Tunisi. Dal provvedimento, come era accaduto a Fiume e in Costa Azzurra, nell'alta Savoia e a Salonicco, vennero esonerati gli ebrei italiani sui quali le autorità consolari e militari avevano provveduto a stendere un vero e proprio mantello protettivo, che finì con il rendere ancor più tesi e difficili i rapporti con gli alleati tedeschi. Eventi di cui Maurizio Valenzi venne a conoscenza solo successivamente, trovandosi, una settimana dopo il colpo di mano dei tedeschi, già rinchiuso in una fetida cella della Dar el Scitan, la casa del diavolo: il terribile nomignolo con il quale gli arabi avevano ribattezzato la prigione algerina di Lambèse. La stessa dove Napoleone III aveva mandato a morire i suoi oppositori.
Se sofferenze e privazioni per Maurizio ebbero a cessare con l'arrivo degli inglesi nella primavera del 1943, il peggio per gli ebrei italiani doveva ancora venire. Sopraggiungerà, infatti, dopo l'8 settembre e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, quando l'alleanza tra Hitler e Mussolini era già degenerata in qualcosa di diverso, che assomigliava più al rapporto tra servo e padrone, che non a quello che, di solito, la politica e la diplomazia riservano ai rappresentanti di due Stati sovrani. Era il triste epilogo di una sporca e malaugurata avventura che, nell'autunno del 1938, era più facile prevedere che escludere. Guardando anche dalla sponda africana del Canale di Sicilia.
(Avanti!, 8 marzo 2010)
6. LALLUCINANTE CRONACA DEI SINGOLI
Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini
Nel libro "Ebreo, tu non esisti", l'autrice Paola Prandini raccoglie diverse lettere scritte al Duce nelle settimane seguenti la promulgazione delle leggi razziali. Nellintroduzione scrive:
«Primo Levi ha scritto che non è possibile capire i campi di sterminio, senza esserci stati. Da parte mia, confesso di non averli mai capiti. L'orrore, se orrore assoluto, è fuori la misura umana. Credevo che le Leggi razziali dessero una grandezza del male più rapportabile all'uomo. Invece, sia pure nelle debite proporzioni, queste lettere hanno reso incomprensibili, a me almeno, le stesse Leggi razziali. Perché fuori scala, anche loro. Alla vergogna delle leggi antiebraiche, libri, programmi di divulgazione e di fiction ci hanno abituato in qualche modo. Siamo in grado di collocarle in dati anni, di spiegarle come sinistra conseguenza di un regime ecc. Sembra tutto chiaro, tutto ben inquadrato. A posto. Eppure, non è così. Produce un effetto straniante trovarsi sotto gli occhi le vicissitudini dei singoli. Perché tornano a vivere. E allora dimentichiamo la storia, che mette una lapide sulle vicende umane, che annulla le persone. La storia torna ad essere cronaca, l'allucinante cronaca dei singoli.»
Effettivamente, leggendo una dopo l'altra tutte quelle accorate e imploranti, ma quasi sempre composte e dignitose, richieste di comprensione per la propria situazione personale e familiare nella speranza di ottenere una dispensa dall'attuazione di leggi che non si osa definire imfami per non vanificare ogni speranza di successo, il lettore può arrivare ad una sorta di leggera vertigine, provocata dallo sguardo su un abisso oscuro di irragionevole follia che si avvita su se stessa, perde il contatto con la realtà e diventa disumana assurdità.
Qui di seguito due esempi.
A S.E. BENITO MUSSOLINI
CAPO DEL GOVERNO - ROMA
Eccellenza,
in questo per me doloroso momento, quale "Orfana di Guerra" non mi resta che rivolgermi a CHI ho sempre creduto.
In qualità d'insegnante sono colpita dalle presenti disposizioni relative alla protezione della razza, perché di origine ebraica.
Le attuali disposizioni oltre che privarmi del mezzo di sostentamento, mi colpiscono anche nei miei più cari affetti quali la memoria di mio Padre "Caduto sul campo" per l'Italia durante la grande guerra ed il mio naturale e fortemente sentito sentimento d'italianità, dimostrato quando non era ciò né necessario né sospetto. Unisco uno schema comprendente i fatti che possono testimoniare questo mio sentimento.
Eccellenza,
dal 1915, vincendo le conseguenze di quella che fu una gloriosa ma pur dolorosa volontà del Fato, vincendo le materiali difficoltà della vita, mia madre, in memoria del Papà mio, volle educarmi, inculcarmi, avviarmi a quello che fu il primo sentimento del suo scomparso Consorte: la Patria, la nostra Italia, da noi allora tanto lontana, ma vicinissima ai nostri cuori.
Non mi sarà difficile dimostrare quali furono i sacrifici sostenuti da mia madre per arrivar ad una onorevole sistemazione in Patria. Sacrifici in parte sostenuti anche dalle generose Istituzioni del Regime che, nella nostra qualità di Italiani all'Estero, ci permise di farci ritornare in Italia anziché accettare altre sistemazioni in luogo straniero.
Eccellenza,
è possibile che solamente per "l'amore verso la Terra bagnata dal sangue di mio Padre" debba ora trovarmi in una strada? In una strada come un tempo si trovò mia madre allorché il suo Consorte la lasciò per ritornare in Patria quando questa fece l'Appello di tutti i suoi Figli?
Non posso credere a questo come non ho mai creduto ad una indifferenza dell'Italia verso chi, con le opere, con il sangue o con la vita abbia voluto onorarla, farla rispettare quando era il caso e diffenderla fino a morire per Essa.
Come chi sente di essere al suo onesto posto, non posso fare a meno di rivolgermi all'E.V. affinché il mio caso venga tenuto in considerazione, per evitare questa dolorosa situazione.
Certa che V.E. vorrà particolarmente esaminare questo caso, ringrazio ed ossequio.
[f.to] Alba Bonometto
*
St. Margherita, 5.9.38
Duce! È una povera madre che si rivolge a Voi nel momento in cui vede spezzata la propria esistenza per un provvedimento che la colpisce nei suoi più sacri affetti.
Eccessiva è la libertà ch'io mi prendo, ma m'incoraggia la certezza di trovare comprensione e pietà in chi ha nutrito tanto affetto per i suoi cari e tanto religiosamente ne venera la santa memoria. La mia è un'invocazione di dolore e di disperazione, è un grido di angoscia che parte dal profondo del cuore! Duce! lo sono israelita di origine tedesca e rimasta vedova nel 1927, nel 1925 mi sono stabilita in Italia con la mia unica figlia. Sono ora 14 anni ch'io vivo a St. Margherita ligure e dal 1929 la mia figliola è unita in matrimonio con un italiano cattolico residente a Rapallo. Nessuna vicenda della vita ha mai separato le nostre esistenze ed è superfluo ch'io vi dica, o Duce, che mia figlia è il mio unico bene ed il solo conforto della mia vecchiaia.
Attratta dalla bellezza del paese che mi ospita, dalla squisita gentilezza dei suoi abitanti e piena d'entusiasmo per il fascismo, fin dal mio giungere in Italia ho sinceramente desiderato di essere italiana e non vi dico con quale gioia - dopo anni di attesa - ho salutato il giorno in cui ho ottenuto la cittadinanza. Ora tutto è finito; per la mia condizione di israelita e per la revoca della ottenuta concessione di cittadinanza italiana, entro sei mesi io dovrei separarmi definitivamente da mia figlia e sola, priva di sostegno e sofferente di cuore, abbandonare questa nobile terra, senza ben sapere dove dirigere i miei passi.
Duce! Voi che avete figli pensate al dolore di una vecchia madre nel momento in cui dovrà separarsi da sua figlia, pensate allo strazio della mia creatura il giorno in cui dovrà salutare forse per l'ultima volta, l'adorata sua mamma! Voi che tante opere di bontà avete compiuto, Voi che sempre avete esaltato la figura della madre e l'unità della famiglia, non vogliate colpire chi non fa male alla patria e soltanto vive nell'intima quiete della sua casa!
Duce, vi supplico, non allontanatemi da mia figlia, non distruggete la pace della nostra famiglia, non affrettate la fine di una povera vecchia.
"Per la sacra memoria dei vostri cari, ascoltate questa mia invocazione, che rispecchia l'angoscia di una madre costretta a lasciare la sua creatura.
Sono la vostra devota ed obbedientissima
Ida Brunhild
(Notizie su Israele 483, 6 aprile 2010)
7. RIFLESSIONI
Lantisemitismo è come lacqua
MUSICA E IMMAGINI
Ha'Laila Ha'Zeh
INDIRIZZI INTERNET
European Coalition for Israel
Messianic Jewish Communications
Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse
liberamente, citando la fonte.
|