Inizio ยป
<- precedente        seguente ->


Notizie su Israele 488 - 24 giugno 2010

1. Appello di Alain Elkann
2. Utile provocazione
3. Provocazione controproducente
4. Sogno irrealizzabile
5. «Chi non crede nei miracoli non è realista»
6. Una questione di verità
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 46:28. «Tu non temere, Giacobbe, mio servitore», dice l'Eterno; «poiché io sono con te, io annienterò tutte le nazioni fra le quali ti ho disperso, ma non annienterò te; però ti castigherò con giusta misura e non ti lascerò del tutto impunito».
1. APPELLO DI ALAIN ELKANN




«Gli ebrei diventino tutti cittadini di Israele»

"La règle du jeu", sito- rivista di letteratura, filosofia, politica e arte legato a Bernard Henri Lévi (nel comitato editoriale ci sono nomi come Mario Vargas LLosa , Claudio Magris ed Amos Oz) pubblica oggi [10 giugno 2010] un appello dello scrittore Alain Elkann, Tutti gli ebrei dovrebbero diventare cittadini di Israele.

di Alain Elkann

Alain Elkann
Se noi ebrei vogliamo esistere ed essere forti, dobbiamo capire che c'è uno Stato ebreo di cui Gerusalemme è la capitale. Non siamo più un popolo errante che viene dal deserto o dalla Diaspora. Siamo ebrei con una nazione dove ci sono dei politici, dei rabbini, dei professori , degli artisti, dei medici, degli operai, e poi commercianti, marinai, attori, cantanti, ballerini, giuristi, soldati, contadini, tutti ebrei e cittadini israeliani.
    Israele è un Paese minacciato da numerose nazioni ostili, con dei detrattori e qualche amico. Spesso, anche gli ebrei della Diaspora condannano la politica degli israeliani e le loro attività belliche. Ciononostante, i nostri figli nel mondo intero dovrebbero sentirsi toccati, e diventare soldati in Israele, all'età richiesta e quando la necessità si fa sentire.
    Tutti gli ebrei dovrebbero conoscere le stesse paure e le stesse speranze per i loro bambini. Significa che tutti gli ebrei della Diaspora dovrebbero lasciare le loro case e stabilirsi in Israele? Sì, forse non per sempre, ma almeno per un certo periodo. Gli ebrei dovrebbero prevedere di mandare i loro bambini in Israele per un anno di "parentesi utile", l'anno generalmente utilizzato per un periodo decisivo di formazione.
    Gli ebrei possono non condividere la politica israeliana a condizione che si considerino come israeliani. Ma è pericoloso per tutti gli ebrei appartenere alla stessa nazione o avere lo stesso passaporto? Per 2000 anni, l'essere ebrei significava qualcosa di più di una religione, una legge morale, dei libri, una sinagoga e una tradizione orale del "popolo di una nazione". Durante un passato recente, gli ebrei sono stati obbligati a indossare una stella gialla con su scritto "Juden" o "ebreo". Adesso, gli ebrei possono essere fieri di essere cittadini israeliani, che parlano l'ebraico, leggono giornali, guardano la televisione e ascoltano la radio nella propria lingua. E' un cambiamento radicale per persone che non potevano diventare cittadini influenti nei Paesi dove vivevano ed erano pienamente accettati. Spesso parlano e scrivono molto bene nella loro lingua d'adozione. Conrad, un ebreo polacco, è diventato un grande scrittore di lingua inglese; Canetti, Musil, Zweig o Kafka scrivevano in tedesco e Bellow, Mailer e Roth in inglese. Svevo, Moravia e Bassani scrivevano in italiano, Sabato in spagnolo. Proust era uno dei maggiori scrittori del suo tempo. Ciascuno di questi autori era inestricabilmente legato alla sua lingua e alla sua cultura. Dunque Roth, Appelfeld, Oz, Grossman, Levitt, Wiesel, Glucksmann, Piperno, Levy sono tutti scrittori ebrei che scrivono in lingue differenti di cui anche l'ebraico fa parte. Dovrebbero essere tutti cittadini israeliani.
    Anche se gli ebrei sembrassero cittadini del Paese in cui sono andati a scuola o dove vivono, non dimenticano mai che sono una minoranza, considerata diversa perché ebrea. Non approfitterò di questa occasione per dilungarmi sui numerosi pregiudizi di cui gli ebrei di tutti i tempi sono stati vittime.
    Se la mia lingua materna è l'italiano, il francese, l'inglese, lo spagnolo, il russo, il tedesco, il polacco, perché dovrei diventare un israeliano che parla l'ebraico? Perché 62 anni fa, il mondo è cambiato quando Israele è diventato lo Stato degli ebrei. Questa idea utopica s'è concretizzata in una realtà a volte pericolosa, a volte entusiasmante. Come un ebreo potrebbe ignorare il fatto che questo paese, il paese dei suoi antenati, quello da cui è stato esiliato per 2 mila anni, è di nuovo governato da ebrei?
    Senza dubbio la maggioranza degli ebrei non ha voglia di abbandonare la propria posizione sociale, acquisita nella Diaspora, e di rinunciare al proprio lavoro, ma devono capire che non hanno più scelta. Hanno un paese che appartiene loro, e se lo desiderano possono acquisire la doppia nazionalità. Se un ebreo vuol veramente diventare un ebreo autentico, deve diventare israeliano.
    Questo può turbare la quiete degli ebrei che hanno vissuto felici per generazioni nei loro Paesi, ma è accaduto un avvenimento straordinario e inatteso (e forse non sempre desiderato): l'esistenza dello stato ebraico di Israele.
    Non penso che questa trasformazione si debba produrre nell'immediato, ma è un passo necessario per scoraggiare i detrattori e i nemici degli ebrei. Se gli ebrei finissero per sentirsi realmente cittadini israeliani, diventerebbero più forti, perché accetterebbero il loro destino. Certamente, questo implicherebbe di perdere i numerosi vantaggi acquisiti nei loro Paesi, soprattutto quello di essere diversi,strani, a volte unici, e dunque interessanti. Al posto di tutto questo, diventerebbero ebrei fra altri ebrei con un passaporto israeliano, un numero di sicurezza sociale e un partito politico.
    Ciò che scrivo non sarà molto apprezzato, perché la maggior parte della gente adora lamentarsi e restare così com'è. Per natura, non ama il cambiamento. Dunque se sono russo o francese, perché dovrei diventare israeliano? Se sono un uomo del Nord o dell'Ovest perché diventare un cittadino dell'Est? Se mio padre e mio nonno erano soldati in Italia o in Francia, perché diventerò un soldato israeliano?
    Gli ebrei hanno sofferto l'Olocausto, la stella gialla e la soluzione finale, in questa stessa Europa dov'erano così ben accettati e assimilati. E' in questa Europa che si sono creati i ghetti e li si sono aboliti, in questa Europa che gli ebrei sono stati uccisi a milioni e in cui solo una piccola minoranza coraggiosa ha reagito. Ricordiamoci che ci sono ancora persone con un numero tatuato sulle braccia, perché sono stati disumanizzati e marchiati per essere uccisi. Gli ebrei avrebbero potuto sparire per sempre. Come possiamo dimenticarlo? Quindi anche se gli israeliani sono criticabili, è una fortuna che esistano. E' loro dovere lottare per la sicurezza, per il diritto di esistere e di permettere a tutti gli ebrei di vivere insieme, e di prendere coscienza della loro appartenenza ad Israele, quale che sia il luogo in cui vivono.
    Scrivo questo perché sono stanco di essere diverso, di pregare solo o di ascoltare le preghiere degli altri. Vivo in Italia, un Paese dove si chiamano gli esseri umani cristiani. E gli altri? Nessuno qui conosce le feste ebraiche. E' vero che fino alla creazione dello Stato di Israele non avevamo altra scelta che essere una minoranza, a volte tollerata e a volte perseguitata. Ma adesso che abbiamo un territorio ebraico, perché non approfittare dei piaceri di un'identità ben definita? So che è difficile cambiare destino, abitudine e Paese, ma gli ebrei devono prendere una decisione. Siamo una religione monoteista che attende il messia o siamo il popolo di una nazione? Saremo ebrei come altri sono greci, italiani o tedeschi?
    Gli ebrei prima erano un popolo che dipendeva da una nazione con un'unica religione, legge e lingua. Poi quando sono stati costretti a dividersi hanno mantenuto la loro religione e le loro tradizioni in famiglia e in sinagoga. Con la creazione dello Stato di Israele le cose sono cambiate e siamo diventati un popolo con un Paese e un lingua. Ovviamente, non è molto semplice comprendere l'idea di essere ebrei e israeliani, da almeno 2000 anni, siamo abituati a considerarci solo ebrei. Ripeto, non credo che dovremmo vivere tutti in Israele, ma credo che dovremmo tutti essere israeliani.
    E' molto importante immaginare un futuro e il modo in cui dovremmo collocarci nel mondo. Alcuni ebrei vorranno seguire la tradizione e sceglieranno di non diventare cittadini di Israele, ma personalmente credo che saranno una minoranza. I nostri nemici e i nostri detrattori ci rispetterebbero di più, se fossimo uniti nel credere che israeliani ed ebrei sono la stessa cosa. In quanto popolo monoteista più antico meritiamo rispetto. Noi ebrei dovremmo essere orgogliosi delle nostri tradizioni, della nostra storia e della nostra posizione nel mondo. Il mondo di oggi è umanamente debole perché ha concentrato tutti gli sforzi nella tecnologia, nella scienza, nelle vacanze e nel fare soldi. I veri valori sembrano essere scomparsi e tutto è diventato immediato, veloce, rapido, giovane, salutare, facile e comodo. Solo i fanatici hanno una visione del mondo che usa le strategie di potere, l'omicidio e la paura in nome di Dio.
    A partire dalla Seconda guerra mondiale l'America è stata l'unica vera amica degli ebrei. Mi ricordo bene una volta in cui due anziani ebrei stavano discutendo metà in ungherese e metà in yiddish in una lavanderia di New York. Ho chiesto a uno di loro: "Da dove venite?", mi ha risposto sorpreso "Che cosa intendi? Siamo americani". Perché un cittadino americano di successo, rispettato nel suo paese e felice della sua vita, dovrebbe sentirsi come un cittadino israeliano solo perché è ebreo? Forse lui o lei potrebbe rispondere che non c'è mai stato un presidente israeliano negli Stati Uniti, considerando che Shimon Peres è il presidente dello Stato di Israele.
    Perché qualcuno che vive tranquillo e felice in California o a Boston dovrebbe sentirsi israeliano? Dovrebbe perché è ebreo e in Israele c'è uno stato ebraico basato su principi ebraici. Essere ebrei in Israele non significa essere una minoranza in un paese sicuro, ma appartenere ad una maggioranza che affronta delle responsabilità e dei pericoli. Gli intellettuali nella Diaspora considerano che hanno il diritto in quanto ebrei di criticare la politica del primo ministro israeliano. Se questi intellettuali fossero cittadini di Israele, potrebbero votare contro il primo ministro e il suo partito, potrebbero combattere per le loro opinioni ed eventualmente cambiare la politica di Israele dall'interno.
    E' difficile per me scrivere questo perché io stesso sono una contraddizione vivente. I vivo tra Italia e Francia e passo parecchio tempo negli Stati Uniti e in altri Paesi. Ho sia il passaporto francese che quello italiano, e faccio da consigliere ad importanti politici italiani. Come giornalista intervisto le persone per una televisione italiana, come scrittore ho scritto libri in italiano. Quindi, che autorità morale ho per invitare gli ebrei a diventare israeliani, se io stesso non rinuncio alle mie occupazioni e ai miei vantaggi nella Diaspora? Forse scrivendo questo "pamphlet" ho iniziato il processo di avvicinamento ad Israele , per cambiare la mia vita e ad accettare la vita ebraica. Forse avvicinandomi maggiormente ai miei amici Appelfeld, Oz and Grossman mi sentirò a casa e sarò in grado di discutere con loro in modo uguale di Israele, politica, letteratura, famiglia, bellezza, hotel, sogni, desideri, passato, futuro, Dio, e di molti altri aspetti della vita. Forse vivere a Gerusalemme significherebbe adottare una normale vita ebraica e finalmente accettarmi per chi sono. Non credo che Israele potrebbe rappresentare solo il luogo dove potrei essere sepolto. Potrebbe esser il posto dove potrei amare, pensare e scrivere.
    Naturalmente rimarrò il figlio, nato a New York, di un francese ebreo e di un'italiana ebrea, e uno scrittore italiano ingaggiato per scrivere in italiano. Per questa ragione ho scritto queste pagine nel mio trascurato inglese, perché volevo esprimere i mie sentimenti sulla mia condizione di ebreo oggi in una sorta di "Esperanto", che non è il mio italiano letterario o l'ebreo.
    In altri termini, volevo esprimere dei sentimenti profondamente personali sul fatto che un ebreo non può più esistere senza sentire, pensare e sapere che Israele è di nuovo il Paese degli ebrei. Un ebreo che vive in Italia con un passaporto italiano non è un esiliato, è qui per scelta. Può in qualunque momento diventare un ebreo israeliano, cosa che può contribuire a cambiare il destino del popolo ebreo dopo 2000 anni di esilio forzato.
    Non so perché ma sento che gli israeliani sopravviveranno e prospereranno. Finiranno per diventare un Paese del Medio Oriente governato da ebrei, come altri Paesi confinanti sono governati da arabi. Alla fine troveranno un modo per vivere insieme, in pace. Non bisogna dimenticare che gli ebrei sono un popolo del deserto, che Abramo ha lasciato il suo focolare per partire nel deserto. Allora perché non torneremo alle nostre radici e alle nostre origini? Gli arabi, gli ebrei e i cristiani troveranno un "modus vivendi". Servirà del tempo, scorrerà ancora sangue e ci saranno anche delle guerre, ma sopravviveremo.
    Dovremmo essere molto fieri, d'avere un paese nostro, e dunque dovremmo sostenerlo e restare uniti. E' sempre un errore sottolineare le differenze. Dobbiamo rispettare le differenti tradizioni accumulate nei paesi della diaspora, considerarle come un'eredità e una diversità culturale. Non dobbiamo rifiutare queste differenze, ma celebrarle. Ascolta Israele, questa è la via! Ma come impegnarci quando siamo gravati di pesanti responsabilità e differenti progetti in altri Paesi. Si dice che gli ebrei sono intelligenti, che hanno prodotto grandi eruditi, filosofi, scrittori, poeti, giuristi, politici e rabbini. So che è difficile, ma bisogna lavorare insieme a trovare una via per essere uniti in quanto ebrei, fieri e senza paura. E' solo una questione di tempo prima che l'antisemitismo venga totalmente sradicato. Abbiamo la grande opportunità di diventare come gli altri popoli, con religione e tradizioni proprie. Lasciatecelo fare, ma ricordate di farlo come israeliani, perchè Israele è ancora il Paese degli ebrei.
    Dio ci benedica.

(La Stampa, 10 giugno 2010)





2. UTILE PROVOCAZIONE




Cittadini d'Israele tutti gli ebrei? Utile provocazione

di Francesca Paci

A leggere oggi l'appello di Alain Elkann, il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha l'impressione che si compia un ciclo. «Non solo sottoscrivo la proposta d'estendere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei al punto che ne parlerò al Congresso nazionale il 5 dicembre, ma mi ricorda piacevolmente la strada percorsa da quando nel '93 fondai il gruppo "Per Israele" per emancipare la vecchia leadership dalla paura di pronunciarsi su Israele», spiega. Sebbene l'idea sia «di complicata fattibilità», lo convince per due ragioni: «Da una parte scioglierebbe il nodo della doppia lealtà di noi ebrei che potremmo così essere fedeli a Israele e all'Italia, di cui siamo fieri. Dall'altra ci consentirebbe d'intervenire, con il diritto di voto e il dovere di pagare le tasse, nella vita d'Israele, nelle cui sorti la diaspora è quotidianamente coinvolta».
    La provocazione intellettuale di Elkann accende il dibattito nel mondo ebraico, italiano e non solo.
    Da Israele Aharon Appelfeld, memoria storica e letteraria della Shoah, accoglie con favore la «bella intuizione d'assimilare le identità ».
    A Parigi, il filosofo Bernard-Henri Lévy, che ha rilanciato la proposta sulla rivista online «La règle du jeu», riconosce al suo autore «il merito d'aver messo a fuoco il problema». Qualcuno deve pur gridare che l'imperatore è nudo: «Ho pubblicato l'appello perché, sebbene controverso, è bello, coraggioso e sintomatico dei tempi difficili che vivono gli ebrei d'Europa. Personalmente non sono d'accordo, credo che ci siano altri mezzi per esprimere i propri legami con Israele, ma rivela un malessere reale». La comunità italiana annuisce: davanti all'abitudine diffusa di criticare con Israele l'intero popolo ebraico, chissà che non valga davvero la pena unificare le cose.
    Mentre però Pacifici ipotizza che accanto ai deputati arabi «non proprio nazionalisti» della Knesset sieda qualcuno della diaspora, altri si fermano un passo indietro. «Premessa la sacrosanta difesa d'Israele, sono perplesso perché diventare israeliani significherebbe interferire in questioni interne sulle quali, da fuori, sono impreparato» ammette il presidente della comunità di Milano Roberto Jarach. Un parere condiviso dal leader dell'Unione Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, che apprezza «il pungolo» di Elkann ma ne obietta la realizzabilità «anche rispetto al diritto degli israeliani d'essere artefici della realtà in cui sono immersi».
    Molto meglio cominciare dall'abc, aggiunge il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni: «Colgo nell'appello l'antica passione ebraica di collezionare passaporti contro la paura genetica che qualche porta si chiuda, ma suggerirei d'imparare prima la lingua ebraica».
    Le provocazioni favoriscono il confronto, sostiene Tobia Zevi, fondatore dell'associazione di cultura ebraica Hans Jonas: «La comunità ebraica italiana ha una storia millenaria e una vicinanza sentimentale a Israele, ma non bisogna mescolare i ruoli: la diaspora serve a Israele in modo dialettico e l'esperienza degli ebrei italiani è tanto più utile in una società che diventa multietnica».
    Anche perché, nota lo storico David Bidussa, «è riduttivo confondere la politica di un paese con la cultura che produce per chi è dentro e per chi è fuori». Troppo facile? «Nel caso d'Israele non si giudica mai la responsabilità di uno stato sovrano ma gli ebrei» chiosa Sarah Kaminski, israeliana trapiantata a Torino, dove insegna letteratura ebraica. Per questo, «grazie Elkann».

(La Stampa, 14 giugno 2010)





3. PROVOCAZIONE CONTROPRODUCENTE




Una provocazione stimolante, ma irrealizzabile e controproducente

di Francesco Lucrezi, storico

La provocatoria e stimolante proposta di Alain Elkann, di estendere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei del mondo, ha suscitato molteplici reazioni, richiamando l'attenzione sul particolare, complesso rapporto tra Israele e la diaspora, la cui interrelazione anima e alimenta, in modo intenso e problematico, l'essere e il divenire della moderna identità ebraica. La proposta risponde evidentemente allo scopo di rinsaldare il legame tra l'ebraismo "di dentro" e "di fuori", superando ogni ambiguità ed esitazione riguardo al senso di appartenenza e di solidarietà, da parte degli ebrei, nei confronti della comune patria ebraica, e va senz'altro lodata per il suo forte messaggio di sostegno nei confronti dello Stato di Israele, tanto più da apprezzare in quanto formulato in un momento delicato e difficile come quello attuale.
    Ciò detto, appare doveroso ricordare per quali motivi tale proposta, oltre che giuridicamente irrealizzabile, potrebbe anche rivelarsi controproducente ai fini della stessa sicurezza di Israele, a cui essa vorrebbe invece contribuire.
    Com'è noto, la Legge del Ritorno, approvata nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle successive Leggi della Cittadinanza e dell'Ingresso, del 1952), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del suo trasferimento, attraverso la 'aliyà', nella Terra Promessa, acquisti immediatamente, in quanto 'olè', 'salito', la cittadinanza israeliana. Tale legge - che deriva direttamente dalla Dichiarazione di Indipendenza, che stabilisce che lo stato ebraico "aprirà le porte della patria a ogni ebreo" che vi faccia ritorno (6o c.), e "sarà aperto all'immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati" (12o c.) -, con la sua incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei, pone già le basi di una naturale estensione della cittadinanza nei confronti dell'intero popolo mosaico, i cui componenti sono tutti eletti a 'potenziali' cittadini dello stato. Ma la cittadinanza israeliana, evidentemente, non viene estesa automaticamente a tutti, ma solo a coloro che esercitino concretamente tale facoltà, scegliendo di vivere in Israele. Trasformare tale cittadinanza da potenziale a effettiva, con tutti i connessi diritti e doveri (voto, tasse, servizio militare ecc.), indipendentemente dalla aliyà, sarebbe evidentemente impossibile, e non solo perché la grande maggioranza degli ebrei del mondo, verosimilmente, non vorrebbe farlo (né sarebbe giusto che coloro che rifiutassero di 'promuovere' l'identità ebraica a cittadinanza israeliana si vedessero perciò accusare di incoerenza, infedeltà o scarso patriottismo), o non potrebbe (ci sono ebrei anche in Paesi, come l'Iran, che mai permetterebbero una cosa simile), ma anche perché ciò sposterebbe impropriamente, e forse pericolosamente, il baricentro della responsabilità delle scelte da assumere per il destino dello stato ebraico (scelte, non dimentichiamo, che assumono spesso un carattere di assoluta urgenza e drammaticità). Chi mai potrebbe avere l'autorità e il coraggio di dire "sì o no", di fronte, per esempio, a una grave opzione di pace o guerra, se non coloro che sono chiamati a sopportare direttamente (anche con la propria vita o morte) le conseguenze della stessa? Chi mai potrebbe dire "facciamo così o così", comodamente seduto in poltrona, al sicuro nella propria casa di New York o di Roma? Sono problemi che sono già stati motivatamente sollevati in Israele, di recente, riguardo alla proposta di estendere il diritto di voto ai cittadini israeliani residenti soltanto all'estero (di numero, ovviamente, molto inferiore a quello di tutti gli ebrei del mondo), e la giusta richiesta di permettere a tutti i cittadini l'esercizio di un fondamentale diritto di cittadinanza si è scontrata con la forte obiezione che la responsabilità del voto non può essere disgiunta dalla sopportazione delle ricadute pratiche dello stesso: un principio forse non tanto avvertito da chi viva tranquillamente in pace, ma fondamentale per un Pese in continuo, reale pericolo.
    Anche con tutti gli ebrei del mondo come cittadini, d'altronde, Israele resterebbe pur sempre un Paese molto piccolo, circondato da miliardi di non ebrei. Il compito storico della golà, al momento attuale, non è quello di 'diventare' Israele, ma di difendere le ragioni di Israele nel modo dei gentili, facendo capire quanto esse coincidano con le ragioni della civiltà, del diritto, della pace, dell'uguaglianza nella diversità. Che è, poi, lo stesso compito anche dei molti, tanti non ebrei che amano Israele. Al punto, a volte, da considerarla propria "patria ideale", senza con ciò desiderare di diventare israeliani, né ebrei.

(Notiziario Ucei, 16 giugno 2010)





4. SOGNO IRREALIZZABILE




Ebrei senza patria ma col diritto di voto: sogno irrealizzabile

di Angelo Pezzana

Tutto si potrà rimproverare ad Alain Elkann, quando sul sito francese di Bernard- Henri Lévy ha invitato gli ebrei della diaspora a diventare cittadini di Israele, tranne l'accusa di aver voluto evitare un problema che riguarda un po' tutti gli ebrei che vivono fuori dallo Stato ebraico, quello della appartenenza. A differenza di quello che abitualmente si crede, gli ebrei non hanno soltanto una religione in comune - poco importa se osservanti o meno - ma, ancora più determinante e identitaria è l'appartenenza al popolo ebraico, non conta dove uno vive e che passaporto ha in tasca. Gli ebrei sono un popolo, con in più il fatto che dal 14 maggio 1948, hanno di nuovo il proprio Stato, Israele.

LA SALITA A SION - Chi sostiene che tutto si risolverebbe con il ritorno in massa degli ebrei in Terra d'Israele, dice una mezza verità. Teoricamente è possibile, in pratica no, dopo duemila anni di dispersione in tutto il mondo, un nuovo sradicamento presenta, per coloro che continuano a viverne lontano, problemi che richiedono diverse generazioni per poter essere risolti con una alià (la salita a Sion, il ritorno) di massa. Israele ha oggi circa sette milioni di abitanti, dei quali circa sei ebrei, nel resto del mondo il numero è quasi eguale, preponderante negli Stati



Uniti con circa cinque milioni. È indubbio che Israele ha un posto particolare in ogni ebreo, poco importa chi è al governo della Knesset, persino le divisioni tra laici e religiosi, così forti da mandare all'aria i governi, si ricompongono quando un pericolo minaccia la sicurezza di tutti, e il sentirsi ebreo, qui o là, ritorna ad essere il collante che tiene unito un popolo.

IL PESO DEI NUMERI - Ma, ha scritto Elkann, sei milioni sono la metà di dodici, se i cittadini d'Israele fossero il doppio, anche il peso dello Stato raddoppierebbe, chi vive in altri Stati potrebbe continuare a viverci, ma con un diverso senso di responsabilità, «i nostri nemici e detrattori ci rispetterebbero di più, se fossimo tutti uniti nell'idea che Israele e gli ebrei sono una cosa sola», ha dichiarato, aggiungendo che non è indispensabile che tutti debbano andare a vivere in Israele, potrebbero andarci ogni tanto, ma intanto potrebbero esercitare, tra gli altri, anche il diritto di voto, sentendosi così parte integrante della società israeliana. È stato sicuramente per amore di Israele che Elkann ha pensato a questo progetto, quasi un omaggio ai forti sentimenti sionisti di sua madre, al cui ricordo ha dedicato l'ultimo libro dal titolo "Nonna Carla", ma l'amore, quando affronta la realtà, rischia grosso. Come si può votare per il governo di uno Stato, quando si vive in un altro? Gli ebrei della diaspora vivono in Stati nei quali il servizio militare è da tempo non più obbligatorio, e l'ultimo ricordo di una guerra è fermo al 1945. In Israele no, tutti, uomini e donne, fanno il militare, dal '48 più di ventimila giovani non hanno fatto in tempo a vivere la loro vita perchè sono stati uccisi dagli arabi per difendere la loro patria. Chi vive in un paese dove la guerra la vede solo al cinema, imbraccerà un fucile se Israele chiama? Da lontano, pur con tutta la dedizione e l'amore possibile, le parole hanno un significato diverso. Ha scritto Amos Oz in quel bellissimo romanzo "Storie di amore e tenebra": «Noi gli spareremo, se verranno a spararci addosso, non perché sono un popolo di assassini, ma per la semplice ragione che anche noi vogliamo vivere, e per la altrettanto semplice ragione che non solo loro, ma anche noi vogliamo una patria».

SACROSANTO ORGOGLIO - Il dialogo è una gran bella cosa, ma se qualcuno minaccia di ucciderti, non hai scelta, devi difenderti, ed allora devi conoscere bene quelli ai quali dovrai delegare il tuo futuro e quello dei tuoi figli. Accetterà Israele di farsi guidare politicamente da un 50% che vive al di fuori dei suoi confini? La proposta è però provocatoriamente interessante, come l'ha definita anche Bernard- Henri Lévy, pur senza condivderla, questo voler sentire più forte il legame con Israele, potrebbe contribuire a rendere meno ambiguo il rapporto degli ebrei della diaspora con lo Stato ebraico. Invece di cercare spesso elementi che ne specifichino le differenze, allontanando anche il solo sospetto che si tratti di una patria comune, il "siamo tutti israeliani" di Elkann può riportare a galla quel sacrosanto orgoglio che tutti hanno provato quando David Ben Gurion, nell'ormai lontano 14 maggio 1948, proclamò la nascita dello Stato di Israele.

(Libero, 19 giugno 2010)





5. «CHI NON CREDE NEI MIRACOLI NON È REALISTA»




Israele

Israele è una nazione antichissima e contemporaneamente un paese nuovo.
    È il frutto più audace di un sogno che si è realizzato dopo duemila anni di vicende storiche, a volte molto dolorose. Forse è questo il motivo della passione e del fervore che accompagnano le visite in questa piccolissima parte della tormentata regione mediorientale. Quando si dice "Israele" la prima associazione che si fa è quella di un interminabile e sconfortante conflitto che sembra non dare speranza ad una reale e definitiva pace. Ma se ci si sofferma a vedere e considerare gli obiettivi raggiunti in Israele negli ultimi sessanta anni, il discorso è ben diverso.
    David Ben Gurion, padre fondatore dello Stato e suo primo leader, soleva dire "chi non crede nei miracoli non è realista" e Israele è esattamente il risultato di questa profetica espressione. Qui è stata riportata in uso una lingua, viva solo nella tradizione religiosa, che rimase addormentata per secoli e che ha donato al mondo una letteratura moderna di alto livello senza mai dimenticare le origini bibliche dalla quale nasce. Qui si sono riuniti gli ebrei che hanno trovato un porto sicuro introducendo le loro culture d'origine con il risultato di una grande fioritura nei vari campi della cultura, letteratura, filosofia, cinema, musica e arte, senza dimenticare l'enorme sviluppo demografico accompagnato da un altrettanto sorprendente sviluppo economico. Qui è stato fermato il deserto e trasformato in giardino.
Il Mar di Galilea
Ogni visitatore che arriva da queste parti non può non essere affascinato dai luoghi, colori, rumori e dai sapori di questa terra che unisce all'esperienza di una qualsiasi visita, quella di una sorta di viaggio introspettivo in cui ciascuno trova la sua dimensione e le sue risposte anche se nella maggioranza di casi, questo viaggio, rappresenta l'inizio di una ricerca che pone più quesiti che certezze.
    Israele è un paese che mostra con grande orgoglio il suo passato, il suo presente e non nasconde le sfide a cui è chiamato nel futuro.
    È un paese dalle mille sfaccettature, dinamico e produttivo che dimostra quanto vere siano state le parole di David Ben Gurion che ostinatamente affermava: "le cose difficili le facciamo velocemente, l'impossibile ci prenderà un po' più di tempo!"

(Fondo Ambientale Italiano, marzo 2010)





6. UNA QUESTIONE DI VERITÀ




Politica e destino

di Marcello Cicchese

I commenti di parte ebraica all'appello di Alain Elkann sono quasi tutti del tipo: bello ma irrealizzabile. E naturalmente non mancano le analisi dettagliate delle molte difficoltà che nell'immediato si presentano. Ma la realizzabilità pratica delle proposte fatte rappresenta davvero l'elemento essenziale dell'appello?
    Nel 1879 un ebreo lituano, allora poco più che ventenne, pubblicò un articolo sulla rivista mensile ebraica "Hashahar", ("L'alba"), edita a Vienna. "Una questione degna di nota" era il titolo dell'articolo, ed era un accorato appello ai suoi confratelli ebrei, simile per certi aspetti a quello di Elkann:
    "Se è vero che tutti i singoli popoli hanno diritto di difendere la loro nazionalità e proteggersi dall'estinzione, allora anche noi, ebrei, dobbiamo avere lo stesso diritto. Perché il nostro destino dovrebbe essere più misero di quello di tutti gli altri? Perché dovremmo soffocare la speranza di un ritorno, la speranza di divenire una nazione nella nostra terra abbandonata, che ancora piange i suoi figli cacciati in terre remote duemila anni fa? Perché non dovremmo seguire l'esempio delle altre nazioni, grandi e piccole, e fare qualche cosa per proteggere il nostro popolo dallo sterminio? Perché non dovremmo sollevarci e guardare al futuro? Perché restiamo con le mani in mano e non facciamo nulla che possa gettare le basi su cui costruire la salvezza del nostro popolo? Se ci importa che il nome di Israele non si cancelli dalla faccia della terra, dobbiamo creare un centro per tutti gli israeliti: un cuore dal quale il sangue scorra lungo le arterie di tutto il corpo e lo richiami a nuova vita. Soltanto il ritorno a Eretz Israel può rispondere a questo scopo. [...]
    Oggi, come nei tempi antichi, questa è una terra benedetta dove mangeremo il nostro pane senza umiliazioni, una terra fertile cui la natura ha donato gloria e bellezza; una terra che ha solo bisogno di forti mani laboriose per farne il più felice dei paesi. Tutti i turisti che visitano quei luoghi lo dichiarano all'unanimità.
    E ora è venuto il tempo per noi - ebrei - di fare qualcosa di costruttivo. Creiamo una società per l'acquisto di terra a Eretz Israel; per comperare tutto quello che occorre per l'agricoltura; per dividere la terra fra gli ebrei che sono già residenti e quelli che desiderano emigrare, e per provvedere fondi per coloro che non possono trovare una sistemazione indipendente".
Si possono immaginare le "realistiche" obiezioni che in quel momento della storia, diciotto anni prima che avesse inizio ufficialmente il sionismo politico di Theodor Herzl (1860-1904), si sarebbero potute fare, e probabilmente furono fatte, a un appello di questo tipo. Quell'ebreo è poi passato alla storia con il nome di Eliezer Ben Yehuda (1858-1922), il creatore della lingua ebraica moderna che oggi si parla in Israele, uno Stato che a quel tempo non esisteva neppure in forma di progetto.
    Dopo quell'articolo Ben Yehuda decise, per coerenza, di trasferirsi a Gerualemme, dove arrivò circa due anni dopo con sua moglie, che aveva sposata durante il viaggio. Pochi mesi dopo il loro arrivo a Gerusalemme, la coppia ricevette la visita inaspettata di un gruppo di giovani ebrei provenienti dall'Europa orientale. Erano sbarcati a Giaffa e avevano percorso a piedi ottanta chilometri per arrivare a Gerusalemme e incontrare Ben Yehuda. Erano giovani idealisti ebrei, quasi tutti studenti universitari che avevano letto l'appello di Ben Yehuda sulla rivista viennese Hashahar" e avevano deciso di lasciare tutto e di stabilirsi in Palestina per collaborare alla rinascita dello Stato ebraico. Si chiamavano Biluim, cioè appartenenti a un gruppo denominato Bilu, dalle iniziali di un'espressione ebraica che significa ""Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo". Nel programma del loro gruppo si poteva leggere:
    "[Gli ebrei] hanno dormito, immersi nel sogno menzognero dell'assimilazione... Ora, grazie a Dio, si sono svegliati... I pogrom vi hanno destati... Vogliamo... una dimora nel paese che ci appartiene... perché registrato come nostro negli archivi della storia".
Uno di loro appena arrivato a Giaffa scrisse una lettera a suo fratello:
    "Credi dunque che lo scopo della mia partenza sia soltanto quello di stabilirmi qui, e quindi che, se ci riesco, lo avrò raggiunto e altrimenti sarei degno di commiserazione? No! L'obiettivo finale mio e di molti altri è un obiettivo importante, generoso, nobile ma non impossibile da raggiungere. L'obiettivo finale è di occupare col tempo il paese per restituire agli ebrei l'indipendenza nazionale, della quale sono stati privati da quasi duemila anni. Non ridere, non è un'utopia. Questo obiettivo sarà raggiunto con la creazione di centri agricoli e di artigiani, e con l'installazione di numerose industrie e la loro progressiva espansione, in breve, attraverso uno sforzo per portare tutta la terra e tutta l'economia nelle mani degli ebrei. E' necessario inoltre addestrare i giovani all'uso delle armi (e nella Turchia libera e indisciplinata tutto è possibile). In questo modo - e qui comincio a sognare - arriveremo a vedere il giorno magnifico annunciato da Isaia nelle sue appassionate profezie. Gli ebrei si proclameranno (se necessario, armi alla mano) ad alta voce padroni della loro antica terra. Non importa se questo giorno verrà tra cinquant'anni o ancora più tardi; voi converrete, amici, che si tratta di un'idea meravigliosa e sublime".
Il giorno magnifico annunciato da Isaia non è ancora arrivato, ma il Signore, come spesso ha mostrato di fare nella storia del suo popolo, ha permesso, anzi ha voluto che con la fondazione dello Stato d'Israele si realizzasse uno stralcio anticipatorio del suo progetto, che da una parte servisse come preannunciatore del destino da Lui preparato per Israele e per il mondo, e dall'altra come elemento di valutazione delle scelte compiute dagli individui e dalle nazioni davanti alla manifestazione della sua volontà.
    I fatti clamorosi che oggi continuano ad avere come centro, per motivi a prima vista inspiegabili, la nazione di Israele pongono ad ognuno due domande: tu da che parte stai? e perché?
    La minoranza delle persone che rispondono alla prima domanda schierandosi in favore di Israele si suddivide poi in almeno due parti davanti alla seconda. La differenza fra le due parti, che per comodità chiameremo semplicemente "laica" e "biblica", è determinata dal modo in cui ci si pone davanti al destino futuro di Israele: per i primi è la politica che determina il destino; per i secondi è il destino che ispira la politica.
    Per i politici il destino di Israele è nelle mani degli uomini: è importante quindi fare o consigliare la politica giusta perché da questa dipenderà il destino di Israele. Così, se i primi sionisti hanno lavorato, faticato e sofferto per far nascere lo Stato ebraico, gli ultimi sionisti lavorano, faticano e soffrono per impedire che questo muoia. La cosa infatti appare spaventosamente possibile. L' ebreo laico Furio Colombo ha scritto un libro dal titolo "La fine di Israele", prospettando la concreta possibilità "politica" che questa avvenga.
    Per i biblici (in senso lato) il destino futuro di Israele è nelle mani del Dio e gli uomini non hanno alcun potere di modificarlo: Israele vive e continuerà a vivere come nazione sulla sua terra; Gerusalemme diventerà il centro del mondo e da Gerusalemme Dio regnerà su tutte le nazioni. Non è quindi il destino di Israele ad essere oggetto di preoccupazione, ma le persone che oggi sono coinvolte in questo destino, ivi compresi noi stessi per la posizione che prendiamo e le scelte che facciamo.
    Ma se il destino di Israele è nelle mani di Dio, a che serve interessarsi di poltica? Non sarebbe meglio lasciare tutto nelle mani di Dio, anche la politica, e interessarsi soltanto degli affari propri? E' un ragionamento che sono in molti a fare, anche tra i cristiani, e magari con il supporto di qualche pezza teologica.
    A due cose serve la politica quando un destino è stato chiaramente rivelato da Dio: 1) a determinare modi e tempi in cui quel destino si compie; 2) a manifestare, in vista del giudizio finale, la posizione che ognuno prende davanti alla volontà rivelata di Dio.
    Può accadere che su determinate questioni politiche riguardanti Israele, laici e biblici abbiano le stesse idee politiche e si muovano nella stessa direzione. Non è una cosa da rigettare o da guardare con sospetto, ma è chiaro che rimane sottaciuta la divaricazione fondamentale legata alla considerazione del destino. Perché se la politica riguarda il comportamento, su cui in molti casi si può trovare un'utile convergenza, il destino riguarda la verità, su cui è molto più impegnativo trovare un accordo.
    I primi sionisti, e oggi anche Alain Elkann, pur provenendo personalmente dal mondo laico hanno assunto di fatto posizioni di tipo biblico perché hanno fatto scaturire le loro proposte politiche da considerazioni di verità. La questione ebraica è una questione di verità, prima che di politica: riguarda in primo luogo il "chi", e solo secondariamente il "come". E se il come può dipendere in parte da noi, il chi dipende soltanto da Dio. Soltanto Dio può rispondere in modo veritiero alla domanda "chi è il popolo ebraico?" Perché è Lui che è intervenuto nella politica del faraone chiamando "mio popolo" quella massa informe di persone che il monarca egiziano considerava un'accozzaglia di esseri subumani da usare come bestie da lavoro; è Lui che ha fatto conoscere al politico faraone il compito che aveva affidato al suo popolo: "Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto" (Esodo 5:1), "Lascia andare il mio popolo perché mi serva" (Esodo 8:1); è Lui che al monarca orientale che si considerava "figlio di Dio" ha fatto sapere chi era veramente suo figlio: "Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito", aggiungendo una severa minaccia: "Lascia andare mio figlio, perché mi serva; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito" (Esodo 4:22-23).
    Si potrebbe dunque dire, usando un orrendo linguaggio filosofico, che la questione ebraica è di tipo ontologico: riguarda l'essere, prima che il fare.
    "Il nocciolo della questione ebraica sta nel fatto che gli ebrei ci sono. L'esserci degli ebrei è il problema. Ma è un problema delle altre nazioni, che nel loro rifiuto di Israele manifestano la loro profonda, radicale ribellione a Dio. Perché Dio ha scelto Israele".
Con l'avvento del sionismo l'esserci degli ebrei nel mondo si è indissolubilmente legato all'esistenza di una nazione, conformemente al destino che fin dall'inizio era stato preparato da Dio e rivelato ad Abramo: "Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione" (Genesi 12:2).
    Oggi Israele c'è, esiste come nazione e come destino, un destino che nulla può cambiare e a cui - dice Elkann - faremmo bene tutti ad adeguarci. Essere ebrei è un fatto, non una scelta: questo gli ebrei l'hanno sempre saputo, anche se molti hanno cercato di sfuggire a questa realtà. Elkann fa un'affermazione esplosiva che non è una proposta, ma la dichiarazione di un fatto: "Se un ebreo vuol veramente diventare un ebreo autentico, deve diventare israeliano".
    Nell'appello sono contenute diverse altre affermazioni che non sono proposte, ma presentazione di situazioni di fatto. Eccone un elenco:

"... c'è uno Stato ebreo di cui Gerusalemme è la capitale."
"Anche se gli ebrei sembrassero cittadini del Paese in cui sono andati a scuola o dove vivono, non dimenticano mai che sono una minoranza, considerata diversa perché ebrea."
"... 62 anni fa, il mondo è cambiato quando Israele è diventato lo Stato degli ebrei."
"Come un ebreo potrebbe ignorare il fatto che questo paese, il paese dei suoi antenati, quello da cui è stato esiliato per duemila anni, è di nuovo governato da ebrei?"
"Gli ebrei prima erano un popolo che dipendeva da una nazione con un'unica religione, legge e lingua."
"Con la creazione dello Stato di Israele le cose sono cambiate e siamo diventati un popolo con un Paese e un lingua.
"Perché qualcuno che vive tranquillo e felice in California o a Boston dovrebbe sentirsi israeliano? Dovrebbe perché è ebreo e in Israele c'è uno stato ebraico basato su principi ebraici."
"... Israele è ancora il paese degli ebrei."

Sono tutte affermazioni che possono essere discusse, ma è la loro verità che deve essere messa in discussione, non la loro immediata fattibilità.
    Israele c'è perché Dio c'è. E' chiaro allora che un Israele staccato dal Dio d'Israele diventa un idolo. Il Dio della Bibbia è un Dio che parla, ben distinto per questo dagli idoli muti dei pagani.

"Non a noi, o Eterno, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per la tua bontà e per la tua fedeltà! Perché le nazioni dovrebbero dire: «Dov'è il loro Dio?» Il nostro Dio è nei cieli; egli fa tutto ciò che gli piace. I loro idoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno naso e non odorano, hanno mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, la loro gola non emette alcun suono. Come loro sono quelli che li fanno, tutti quelli che in essi confidano" (Salmo 115:1-8).

Molti secoli dopo la stesura di questo salmo, un ebreo, rivolgendosi ad altri ebrei, ha scritto:

"Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato l'universo. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi" (Ebrei 1:1-3)

Se il problema di Israele è una questione di verità, anche questa solenne affermazione deve essere discussa come una questione di verità. E nel 1882, l'anno stesso in cui i Biluim andavano a trovare Ben Yehuda a Gerusalemme, la luce della verità penetrò nel cuore dell'ebreo moldavo Joseph Rabinowitz (1837-1899) mentre camminava sul Monte degli Ulivi:
    "Improvvisamente una parola del Nuovo Testamento, una parola che aveva letto 15 anni prima senza porvi particolare attenzione, penetrò nel suo cuore come un fascio di luce: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Giovanni 8:36). Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, e che soltanto Lui può salvare il suo popolo, prese possesso della sua anima. Profondamente commosso, ritornò immediatamente al suo alloggio e tirò fuori il Nuovo Testamento. Mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: «Senza di me non potete fare nulla» (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza dell'Onnipotente Dio, fu illuminato dalla luce del Vangelo. Yeshua Achinu (Gesù nostro fratello) fu da quel momento la parola d'ordine con cui ritornò in Russia".
Da quel momento fu convinto che la chiave della questione ebraica sta nelle mani "del nostro fratello Gesù".
    Purtroppo una simile convinzione non emerge nell'appello di Elkann. Per quanto riguarda il futuro, l'autore si limita ad esprimere un sentimento, che tuttavia certamente troverà attuazione perché corrisponde anch'esso a verità: "... sento che gli israeliani sopravviveranno e prosperanno".
    "Dio ci benedica", è l'invocazione con cui si conclude l'appello.
    E a questo non si può che rispondere: "Amen".

(Notizie su Israele, 24 giugno 2010)





MUSICA E IMMAGINI




O Lord of All




INDIRIZZI INTERNET




WeJew Jewish Video Sharing Megasite

Elder of Ziyon




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.