1. ASHKENAZITI CONTRO SEFARDITI IN ISRAELE
Non toccate il mio Messia!
di Aviel Schneider
Una lite scoppiata nel centro della nazione in una scuola ortodossa per ragazze non manifesta soltanto la profonda spaccatura tra l'ebraismo laico e quello ortodosso, ma per la prima volta rivela anche la disarmonia esistente all'interno dell'ortodossia ebraica, e precisamente tra gli ebrei ashkenaziti e sefarditi. Più che il consueto tiro alla fune fra Torah e Stato, ha suscitato particolare attenzione il battibecco tra queste due direzioni ortodosse. Le controversie sull'interpretazione biblica ricordano i tempi del Nuovo Testamento, quando Farisei e Sadducei erano in lite. Gli ortodossi ashkenaziti (ebrei di origine europea) si considerano, nei confronti degli ortodossi sefarditi (ebrei di origine orientale), come un'aristocrazia teologica. All'osservatore si presenta un dramma avvincente fatto di discriminazioni, autogiustizia, osservanza della Torah, tradimenti. Ma la domanda nascosta è: a chi spetta il potere spirituale nel popolo?
Metà giugno 2010
Più di 100.000 ebrei ultraortodossi sono scesi in strada per protestare contro un giudizio della Corte Suprema in Gerusalemme. Nella contestata delibera la Corte ha imposto ad una scuola per ragazze di ebrei ashkenaziti, situata nell'insediamento Immanuel in Samaria, di accogliere anche ragazze di famiglie sefardite. Per protesta contro la decisione, i genitori ashkenaziti non hanno più mandato i loro figli alla scuola Beit Jakov, cosa per cui la Corte ha inflitto due settimane di arresto a 86 padri e madri per violazione di obblighi scolastici. A questo punto i combattenti ultraortodossi sono scesi tutti insieme in strada. Ai "carcerati" è stato dato appoggio con cartelloni dove si poteva leggere: "La Torah governa", "Noi scegliamo la Torah", "Non toccate il mio Messia" , "La Torah sta sopra la legge civile":
Attorniati da un simile spettacolo, i genitori ashkenaziti si presentano davanti alla porta del luogo di arresto dell'Istituto di giustizia di Gerusalemme. La Corte Suprema mantiene fermamente la sua posizione: la divisione degli studenti è razzismo. I genitori ashkenaziti ribattono che gli ebrei sefarditi hanno usanze religiose che non si accordano con la loro propria tradizione. Per esempio, quelli hanno la radio e la televisione, cosa che per l'ortodossia ashkenazita è severamente vietata.
Il silenzio del partito Shas
L'incidente ha mostrato ancora una volta quanto siano distanti le visioni del mondo degli ortodossi e dei laici. Ma questa volta si è scoperto qualcosa di più. E' venuta pubblicamente alla luce la dissonanza in Israele tra l'ortodossia europea e quella orientale. Da più di trent'anni il partito sefardita ortodosso Shas (attualmente 11 deputati alla Knesset) denuncia la supposta o reale discriminazione degli ebrei orientali. Ma ora che le famiglie ortodosse sefardite in Immanuel si sono opposte alla discriminazione da parte delle famiglie ashkenazite, tutti i politici sefarditi dello Shas tacciono, ivi compreso il loro leader di partito spirituale Rabbi Ovadja. Nessuno ha detto una parola contro la posizione dell'ortodossia ashkenazita, eccetto il Rabbi dello Shas Haim Amsalem, che di questo è stato chiamato a rendere conto, e dopo di che ha taciuto anche lui.
Nella sua predica il sabato successivo Rabbi Josef ha ammonito: "Chi si rivolge all'autorità giudiziaria non ha alcun posto in cielo!" In questo si è trovato d'accordo, come rabbino sefardita, con l'ortodossia ashkenazita, lasciando in asso i suoi elettori sefarditi che si erano appellati alla Corte Suprema. "Per queste cose l'unico competente è l'Alto Rabbinato (il Sinedrio)!" L'aspetto piccante della cosa è che a presentare il ricorso contro la discriminazione in Immanuel delle famiglie orientali era stato proprio suo figlio, Rabbi Jakov Jsef. La domenica, primo giorno della settimana ebraica, Rabbi Jakov Josef ha annunciato alla radio israeliana di aver ritirato il suo ricorso, con la motivazione di aver ricevuto minacce di morte. Dissidio nell'autorevole famiglia sefardita di rabbini?
"Dov'è Babilonia? A Varsavia?"
"Più di ogni altro, quelli che mi hanno fatto male sono gli elettori dello Shas", ha scritto in un suo articolo il commentatore laico Yair Lapid. "Centomila ingenui cittadini hanno votato Eli Yishai e i suoi colleghi dello Shas perché volevano partecipare al grido contro la discriminazione orientale. Come ricompensa sono stati condannati al silenzio!"
Il governo israeliano si è tenuto fuori. Temeva di commettere passi falsi. Alcuni elettori dello Shas della zona di Gerusalemme e di Maale Adumim hanno comunicato a israel heute che alle prossime elezioni non voteranno più lo Shas. "Che ipocriti!", ha detto infervorato Eres Alfasi a israel heute. "Più che arrabbiato, sono deluso. Che cosa insegnano gli ebrei ashkenaziti? Il Talmud babilonese? E dov'è Babilonia? A Varsavia? Di chi ha paura la direzione dello Shas?" Babilonia sta in oriente, non in Europa. A degli amici Rabbi Amsalem ha detto: "Non abbiamo nessun motivo di vergognarci della nostra ortodossia sefardita":
La trappola
Il partito Shas si trova in trappola: ha dovuto scegliere tra la lotta alla discriminazione e la pace con l'ortodossia ashkenazita. "E' incredibile che dalla parte delle ragazze ortodosse sefardite si sia messo il laico Yair Lapid e non lo Shas, che proprio per questo è stato votato", ha scritto il commentatore di Ynet Avi Shoshan.
Il fatto è questo: a causa della concorrenza ashkenazita lo Shas ha tradito i suoi elettori sefarditi. E perché? La risposta è semplice: tutti e cinque i rabbini sefarditi, perfino l'ex leader di Shas Rabbi Arie Deri, sono cresciuti nello scuole di Torah ashkenazite, perché agli occhi dell'ortodossia orientale queste sono considerate come le migliori scuole di Torah. Cinque figli dell'attuale leader di Shas Eli Yishai, tra i 5 e i 17 anni di età, frequentano scuole di Torah ashkenazite. La stessa cosa vale per quattro figli del ministro di Shas Ariel Atias.
"Che cosa capiscono gli elettori? che le scuole di Torah ashkenazite sono migliori di quelle sefardite? o che le nostre scuole di Torah non valgono niente?", ha chiesto a israel heute un membro eminente di Shas."La direzione del partito non nega la discriminazione dei suoi elettori da parte dell'ortodossia ashkenazita, ma il leader di partito Eli Yishai ha paura di loro!"
Per questo motivo, secondo una recente inchiesta di Dachaf il 47 percento degli elettori dello Shas è deluso per il silenzio della direzione del partito. Questo ha riferito il giornale Yediot Ahronot in un articolo dal titolo "L'ira degli elettori". Nell'articolo si dice che gli elettori di Shas ritengono possibile perfino la formazione di un nuovo partito sefardita che si opponga anche alla discriminazione da parte dell'ortodossia ashkenazita e non si limiti a inveire a gran voce contro la popolazione laica di Israele.
Dramma nei media
Nei titoli dei media, sia laici che nazionalreligiosi o ortodossi, il tema è stato presente per settimane. Nei giornali religiosi e alla radio la Torah è stata posta sopra la legge civile e la Corte Suprema. Nei resoconti dei laici avveniva il contrario. Proprio su questo si divide il popolo ebraico. Gli uni attribuiscono a Dio tutta l'autorità, gli altri agli organi dello Stato.
(israel heute, agosto/settembre 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
2. IPOCRISIA DEI MOVIMENTI PRO PALESTINA
Solidarietà apparente
di Francesco Lucrezi
Il popolo palestinese ha ricevuto dalla storia, negli ultimi decenni, la singolare condizione di destinatario di un apparente movimento di solidarietà straordinariamente vasto e radicato. Cortei e manifestazioni pro Palestina si sprecano, nei cinque continenti, la bandiera palestinese appare sventolata di continuo, anche in adunate convocate per tutt'altre ragioni, riprodotta sui muri di scuole, mense, collettivi, Università, documenti di solidarietà al popolo palestinese sono votati e approvati in assise di ogni formato, dalle Nazioni Unite al più sperduto Consiglio municipale, le sofferenze palestinesi sono continuamente evocate, con toni accorati, da esponenti politici e intellettuali di tutti i generi. Ed è un appoggio assolutamente trasversale, in nome del quale appaiono affiancati rappresentanti delle più diverse e opposte aree di pensiero, che mai potrebbero trovare, in nessun modo, un qualsiasi altro punto di possibile convergenza: estrema destra ed estrema sinistra, zelanti sacerdoti e atei anticlericali, trasgressivi antisistema e benpensanti perbenisti. Tutti uniti, tutti insieme, tutti amici della Palestina.
Solidarietà apparente, abbiamo detto, perché di aiuti concreti, in genere, c'è ben poco. Tutti, soprattutto, anche i bambini, sanno che, dietro tale imponente mole di finto amore, c'è qualcos'altro. E tutti sanno di che si tratta. Sarebbe pertanto offensivo, nei confronti dei palestinesi, ritenerli non consapevoli della natura decisamente falsa e pelosa di tale simpatia, puntuale dimostrazione del vecchio principio secondo cui "i nemici dei miei nemici sono miei amici".
La domanda che si pone, però, è se i palestinesi, diretti destinatari di tale strombazzata solidarietà, ritengano di poter ricevere da essa un qualche, sia pur indiretto, beneficio sul piano delle loro aspirazioni ed esigenze. La domanda non riguarda quei palestinesi - che, purtroppo, non sono pochi - che praticano o appoggiano il terrorismo, giacché è evidente che costoro si sentono legittimati e incoraggiati dai vari movimenti pro Palestina, dal momento che questi ultimi non distinguono mai, ma proprio mai, tra palestinesi 'semplici' e terroristi; né coloro - anche in questo caso, numerosi - che paiono rassegnati a voler recitare, in eterno, la parte delle vittime, ai quali la grancassa della solidarietà mondiale dà certamente protagonismo e visibilità. Ma la domanda va rivolta a quella terza categoria di palestinesi - e vogliamo credere che siano la maggioranza - fatta da persone normali, che desidererebbero semplicemente vivere in pace e in dignità, uguali fra uguali, in un loro pacifico stato, in rapporti di buon vicinato con Israele. Si chiedono, costoro, se la pace in Medio Oriente, secondo l'abusata formula dei "due popoli in due stati", sia, per lo sterminato esercito dei loro dichiarati 'amici' (o "nemici dei loro nemici"), un reale obiettivo da perseguire, o non piuttosto qualcosa da impedire a ogni costo, per non precipitare in una gigantesca crisi d'identità?
Attendiamo il giorno in cui un giovane palestinese strapperà la bandiera del suo Paese dalle mani di un partecipante a un corteo pro Palestina, dicendogli: "è la mia bandiera, lasciala". Sarebbe un piccolo, grande passo sulla strada della pace.
(Notiziario Ucei, 4 agosto 2010)
3. INTERVISTA A BRUNO SEGRE
Segre: «Io ebreo tra Kafka e Isaia»
di Brunetto Salvarani
«Sono stato allevato in una famiglia a-religiosa, senza ricevere alcuna educazione alla fede. Ho saltato la prima classe elementare, frequentando invece la seconda e la terza, in una scuola comunale milanese; la quarta, per me, sarebbe cominciata nell'autunno del 1938, ma non l'ho mai frequentata, in quanto di razza ebraica
». Incontrare Bruno Segre è sempre un piacere. Da molti anni questo signore distinto, dalla bella barba bianca e l'eloquio sicuro, è una presenza fissa agli incontri di dialogo nel nostro Paese (e non solo).
Nato a Lucerna nel 1930, studiò filosofia a Milano, occupandosi poi di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del Movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti. Dopo aver insegnato in Svizzera dal 1964 al '69, per oltre un decennio ha fatto parte del Consiglio del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Dal 1991 fino a tre anni fa ha presieduto l'Associazione italiana Amici di Nevè Shalom/Wahat al-Salam, e oggi dirige la rivista ebraica Keshet. Che significa arcobaleno
emblema di pace sin dai tempi di Noé.
- La sua famiglia era ebraica
«Certo, ma in famiglia c'erano solo vaghi segnali di ebraicità
Sapevo che la mia famiglia era ebraica, ovviamente, ma da essa non ho ricevuto nessun accostamento agli aspetti halakhici dell'ebraismo. A scuola, i miei genitori mi hanno fatto esonerare dalle lezioni di catechismo tenute dalla maestra, per cui venivo messo in corridoio ad attendere la fine della lezione. La giornata scolastica cominciava con la recita del Padre nostro, per cui percepivo l'esistenza di una devozione religiosa degli altri, anche perché nell'aula campeggiava il crocifisso, con a destra e sinistra i ritratti del re e del duce».
- Questa situazione le creava non pochi problemi, immagino.
«Beh, era un vissuto piuttosto pesante, ero un'infima minoranza - in quanto unico ebreo nella classe - all'interno di una grande maggioranza di cattolici. Ricordo che un giorno un compagno mi chiese se fossi stato battezzato, e alla mia risposta negativa mi disse, assai serio: ma lo sai che tu hai ancora il peccato originale?».
- Come viveva un bambino ebreo nell'Italia fascista degli anni Trenta?
«Ho trascorso un'infanzia molto solitaria, anche se mi è difficile descrivere, a settant'anni di distanza, la giornata di un bimbo ebreo dell'epoca
Rammento che c'era molta paura, soprattutto dopo la proclamazione delle leggi razziali, appunto nel '38, e che i miei - antifascisti dichiarati - continuavano a ripetermi: non farti riconoscere, mimetizzati
come i camaleonti! L'unico compagno di quella stagione con cui ho conservato dei rapporti è uno svizzero
casualmente. Mi sentivo un discriminato e ho scoperto appieno la mia ebraicità proprio a partire dal '38, associandola con l'antifascismo: per me era inevitabile, ebreo dunque antifascista. Allo scoppio della guerra, l'italiano medio sembrava entusiasta, mentre noi, in famiglia, ci auguravamo che italiani e tedeschi venissero sconfitti».
- Come ha trascorso il tempo della guerra?
«Diventando un adolescente particolarmente precoce, dal punto di vista intellettuale, anche a causa della morte precocissima di mio padre, scomparso nel '41 a poco più di cinquant'anni. Cercavo di capire cosa stesse succedendo nella guerra, giorno per giorno, e sfollai con la mamma ad Ascoli Piceno, nascosti grazie a carte d'identità false. E poi scoprivo l'ebraismo, a livello di studio, in chiave libertaria: percepivo l'ebraismo fondamentalmente come un messaggio di liberazione
».
- Qual era il suo rapporto con la Bibbia?
«Leggendo la Bibbia un po' alla volta ho compreso che in qualche modo dovevo considerarmi il remoto, estremo rampollo di un manipolo di schiavi divenuti un popolo e quindi liberati
le cui tavole di comportamento avrebbero assunto un valore universale. L'ebraismo che stavo scoprendo era un messaggio che coniugava libertà e responsabilità, dato che la mia libertà aveva senso se coincideva con la libertà di tutti
un ebraismo universalistico ed ecumenico, che era anche mio in quanto nessun uomo può rinnegare il proprio contesto. La Bibbia, infatti, l'ho presa in mano io, da solo, senza maestri, con l'obiettivo di comprendere da dove arrivassi: ho trovato in casa dei libri di mio nonno, Gabriel Segre, che frequentava la scuola ebraica nella seconda metà dell'Ottocento, tra i quali un Tanak (la Bibbia ebraica)».
- È cambiato, da allora, il suo rapporto con la Bibbia?
«Non sono un biblista e non lo sarò mai - si schernisce Segre - ma la Bibbia è un testo importante anche perché accomuna cristiani ed ebrei: ma non va mai dimenticato che la storia ebraica dopo l'era volgare è assai densa e ricca, soprattutto dopo l'emancipazione dai ghetti e la rivoluzione francese. È questa che ho studiato maggiormente e potrei dire con uno slogan, per un discorso di competenze, che mi interessa più Kafka di Isaia
».
- Ci sono stati altri testi spirituali rilevanti per la sua formazione?
«Essendo io di formazione filosofico-laica, direi che ho trovato tanti spunti spiritualmente notevoli nella letteratura (europea e non) degli ultimi secoli: dall'Etica di Spinoza alla Critica della ragion pratica di Kant. Il mio maestro è stato il filosofo Antonio Banfi, che era stato a sua volta allievo di Husserl
Ho rinvenuto tracce spirituali straordinarie in espressioni musicali, artistiche, dalla Passione secondo Matteo di Bach a tanta musica operistica italiana ottocentesca
penso all'Otello di Verdi, ad esempio».
- Qual è la sua visione di Gesù di Nazaret?
«Gesù è stato una figura colossale, che ha ispirato larga parte dell'umanità. Sul piano storico, è molto più comprensibile se si conoscono i principali aspetti dell'ebraismo: mi riferisco a diversi aspetti liturgici, ad esempio, dalla preghiera nel nome del Padre, tipicamente ebraica, alla stessa Messa, in cui sussistono benedizioni ebraiche conservate sino a oggi».
- Come vede la questione del pluralismo religioso, oggi dibattuto anche in Italia? Lo percepisce innanzitutto come un rischio, come fanno molti?
«A mio parere non si tratta di un rischio! Dobbiamo renderci conto che viviamo un mondo globalizzato, e a forte rischio di scomparsa
Vorrei dire: per fortuna siamo diversi! Vissuto spesso negativamente, il diverso invece andrebbe valorizzato perché è attraverso la diversità degli approcci che possiamo allontanare la prospettiva apocalittica che abbiamo davanti! Se intendiamo assicurare un futuro alla nostra civiltà globale, sono fondamentali il rispetto per il diverso, la moderazione, l'umiltà, il senso del limite, la capacità di ascoltare e nutrire compassione: virtù profondamente incardinate nel nostro patrimonio etico e spirituale, ma anche virtù che il libero mercato non produce automaticamente. Sono vecchio, e ormai vedo il traguardo
così, le immagini del Golfo del Messico pieno di petrolio mi sembrano una metafora dell'apocalisse, con la tecnologia che ci è sfuggita di mano, e richiede un colpo di coda da parte dell'uomo, oppure
».
- Un'ultima domanda. Nel gioco (sempre angusto) delle autodefinizioni, lei si definirebbe un credente, un non credente, o in quale altra maniera?
«Ecco, questa è una tipica domanda da cattolico, che mi hanno rivolto centinaia di volte
per un ebreo, dire credente o non credente non ha tanto senso
Io mi identifico totalmente con l'ebraismo, un'identità decisamente liquida, problematica, a molte dimensioni
Sono fedele alla mia tradizione in uno degli innumerevoli modi possibili e sarebbe una slealtà se la rinnegassi. Antropologicamente, noi ebrei siamo un gruppo migrante per millenni, generazioni dopo generazioni alla ricerca di lavoro e sicurezza rispetto ai rischi della vita: per trovare un luogo in cui svolgere le due azioni fondamentali, pregare e seppellire i nostri morti. Essere ebrei, nel suo nucleo centrale, non è altro che questo».
(Avvenire, 7 agosto 2010)
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4. RAPPORTI TRA EBREI E ISRAELIANI IN ITALIA
Così vicini così lontani: gli israeliani di casa nostra
di Hulda Brawer Liberanome
Tutti noi ebrei abbiamo per Israele un punto debole, un interesse particolare. Nei giornali cerchiamo le notizie che lo riguardano, c'è chi si sente orgoglioso per i successi ottenuti da scienziati israeliani - sette premi Nobel in 62 anni - chi per la fama internazionale di alcuni scrittori, chi per i traguardi raggiunti dall'economia israeliana - nel 2009 anno di profonda crisi internazionale cresciuta di 4 punti del Pil - chi delle forze armate, chi di qualche squadra sportiva, chi della straordinaria rinascita della lingua ebraica. C'è chi in Israele ha acquistato una seconda casa, chi ha parenti stretti e visita Israele abbastanza spesso. Ciascuno secondo il proprio interesse. Le critiche su qualche importante aspetto della vita israeliana non mancano, ma il particolare legame c'è e resta. Ma Israele dista qualche ora di volo. E con gli israeliani in Italia, studenti oppure residenti, quali sono i rapporti delle nostre comunità? E' la domanda che rivolgo a Firenze ad alcuni di loro. Non so se la nostra città è un esempio tipico fra le Comunità in Italia, pur essendo una delle tre mete universitarie principali per studenti israeliani, ma è sicuramente un esempio interessante. Chiedo all'Ambasciata israeliana a Roma quanti sono gli studenti che studiano in Italia e quanti gli stabili residenti. La risposta è che a Roma conoscono solo coloro che si rivolgono per un motivo o un altro all'Ambasciata, nient'altro. A Firenze il segretario della comunità, Emanuele Viterbo, mi informa che su 907 iscritti, 54 sono nativi di Israele, che l'età della maggioranza di loro è inferiore ai 55 anni, che gli studenti di norma non si iscrivono e che comunque di israeliani non iscritti e di studenti che non si rivolgono alla Comunità di loro iniziativa si sa poco o niente. Ma un gruppo di studenti israeliani mi sa dire che in città studiano non meno di 130 giovani, di cui 25 a Medicina, facoltà che ha adottato il criterio del numero chiuso, mentre altri sono iscritti alla facoltà di architettura.
E i vostri rapporti con la Comunità? domando. Brusca e amara è la risposta di Yael, "non ci vogliono" dice. Arbel, attualmente alla fine degli studi di medicina, che da anni insegna anche al nostro Beth Midrash, spiega che "Firenze è una città notoriamente chiusa e per noi stranieri è molto difficile ambientarsi. Molti di noi avrebbero voluto nella Comunità un punto di riferimento, contatti con famiglie, essere invitati qualche volta il venerdì sera o per le feste".
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Aggiunge Avital: "Io qualche volta lavoro in Comunità, ma nessuno mi ha mai invitata a casa Non si usa". Ma la realtà a quanto pare è assai più complessa. Michal, laureata a Firenze in psicologia con marito architetto israeliano residenti a Firenze dal 1975, mi dice: "Vedi, il problema è che per molti israeliani la Comunità ebraica, che come tutte le altre si dichiara ortodossa, è identificata con quelli che in Israele non fanno servizio militare, che nello Stato pesano molto, troppo, politicamente e finanziariamente ecc. ecc. L'atteggiamento rispecchia in più di un senso i profondi contrasti che dividono in Israele osservanti e laici". Ciò non toglie, mi dicono altri, che anche i laici cercano un punto di riferimento. Daniela Misul, la precedente presidente della Comunità fiorentina, si è rivolta agli iscritti perché "adottino" un giovane ebreo a Firenze, pensando anche agli studenti ebrei nei numerosi dipartimenti staccati delle università americane, forse anche all'Università europea che ha nei sobborghi di FIrenze la sua prestigiosa sede. "E' stato un totale fallimento", ammette. "Mi sembra, riprende il suo discorso Michal, che nella comunità italiana non ci sia oggi, ma anche ai miei tempi di studentessa, la tradizione dell'accoglienza, tipica delle comunità ebraiche nel mondo, che per lunghi secoli e anche oggi, per un ebreo erano in fondo una seconda casa, un punto di riferimento, una sicurezza". Mentre Michal parla mi viene in mente un recentissimo episodio. A Shabbat ero al tempio maggiore di Mosca e dopo il kiddush sono stata invitata a pranzo. Ero imbarazzata per tanta accoglienza calorosa ma il rav mi ha messo a mio agio dicendo che per Shabbat era un onore avere un ospite. Chissà, mi domando più tardi, se avrebbe detto lo stesso se fosse venuto al tempio un nutrito gruppo di turisti, come avviene talvolta a Firenze?
Più ottimista Shulamit, accademica e insegnante al Beth Midrash e moglie del rabbino Levi, in contatto con giovani israeliani. "E' vero - dice - che molti di loro vedono nella Comunità unicamente la funzione religiosa, ma spesso con l'andar del tempo l'avversità si attenua e in alcuni si sviluppa un interesse per la tradizione e la cultura ebraica". Raya, plurilaureata all'università di Firenze, madre di uno studente universitario, parla delle grandi possibilità di arricchimento culturale che potrebbero dare contatti duraturi fra giovani israeliani e le Comunità. Gli studenti, dice, potrebbero imparare qualche cosa dell'ebraismo. Molti, aggiunge, sono totalmente ignoranti nella materia. Allo stesso tempo le Comunità avrebbero il beneficio del contatto con le energie e l'ottimismo tipici dei giovani israeliani, che spesso hanno una particolare e interessante esperienza di vita". "Allo stesso tempo - dice Raya - bisogna accettare la realtà di una città, Firenze, molto chiusa verso ebrei e non". Lo confermo anch'io nonostante i lunghissimi anni di residenza. Michal non è d'accordo, per lei gli ebrei, dice, dovrebbero essere un po' diversi proprio perché sono una piccolissima minoranza in un mondo cattolico.
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Cosa proponete voi? ritorno a chiedere agli studenti. I siti delle Comunità, rispondono, parlano agli iscritti e spesso ai turisti. Sarebbe invece il caso, almeno nelle importanti sedi universitarie, di dare molta più informazione rivolta agli studenti. Nelle Comunità ci vorrebbe un punto di riferimento per noi, dicono: sapere che chi viene può lasciare un recapito e trovare recapiti di altri studenti. "Spesso - dice Arbel - non sappiamo nemmeno chi studia a Firenze, per passare un po' di tempo insieme, magari le feste o Yom ha-Atzmaut". E i contatti con i giovani della Comunità? Pochi o nulli, è la risposta. Raya, ma anche la stessa Daniela Misul, affermano che per questi contatti non c'è molto interesse da parte di ambedue i gruppi. Nelle università l'aria che tira è spesso anti israeliana, ma i giovani israeliani non si sentono spalleggiati dai giovani ebrei, se ci sono. E' Raya a ripetere che entrambe le parti, gli israeliani e la Comunità, possono trarre moltissimo vantaggio da aperture reciproche, da una mano tesa. Resta la questione di come raggiungere questa reciproca apertura.
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Michal, Raya e gli studenti con i quali ho parlato hanno qualche contatto con la Comunità, come tutti gii israeliani che frequentano il Tempio, che non sono molti. Ci sono anche alcune giovani coppie israeliane che mandano i loro bimbi alla scuola materna della comunità, ma altri e sono molti, sono lontani.
"Non mi interessa il contatto con la Comunità", dice Eitan, primo trombone dell'orchestra filarmonica di Firenze, memore di qualche vecchia delusione, e così pure Ruth, professore al conservatorio cittadino. Riprendo in mano la lista degli iscritti a Firenze, nati in Israele, molti dei quali non frequentano, ma si sentono in qualche modo obbligati per un senso di vaga identità. A Yom Kippur, specialmente per Neilah fra la folla di giovani ebrei, molti già lontani dal mondo ebraico, numerosissimi gli israeliani. E' un aspetto positivo, certo, ma sottolinea la profondità della crisi delle nostre Comunità, ma anche le difficoltà dei rapporti con gli israeliani.
(pagine ebraiche, n.8 - agosto 2010)
5. RASSEGNA DI SAGGI DEDICATI ALLA CULTURA EBRAICA
L'ebraismo non è più di nicchia
di Riccardo Calimani
Numerosi sono i saggi usciti in quest'ultimo periodo e dedicati alla filosofia ebraica. L'idea messianica nell'ebraismo di Gershom Scholem (editore Adelphi) raccoglie scritti elaborati in un arco di tempo che va dal 1927 agli anni del dopoguerra e che sono apparsi in Inghilterra nel 1971: pagine di straordinario interesse che meritano di essere studiate attentamente e la cui attualità, pur a distanza di decenni, è sempre più viva. In Testimoni del futuro di Pierre Bouretz, edito da Città aperta di Trina (Enna) l'analisi su filosofia e messianesimo nel Novecento si espande da Scholem a Benjamin, Bloch, Buber, Cohen, Jonas , Levinas, Rosenzweig, e Strauss e lo studioso francese ci offre in oltre ottocento pagine un quadro vivace e molto stimolante.
Sullo stesso tema da segnalare, ancora, Il messia secondo gli ebrei di Davide Castelli (Edizioni Pizeta) un testo classico edito nel 1874 e riproposto nel 2008 e che passa in rassegna non solo le idee messianiche nei libri del Vecchio Testamento, ma anche in testi posteriori. Diversa, ma sempre complementare, Leggere Rosenzweig di Salomon Malka (Queriniana) che offre le linee essenziali sul pensiero, spesso discusso, di questo filosofo del Novecento.
La casa editrice Morcelliana ha pubblicato tre piccoli libri dai titoli, di per sé, eloquenti: La passione credente dell'ebreo di Martin Buber, Immortalità e resurrezione di Mose Maimonide ed Educazione e giudaismo di Gershom Scholem.
L'editore Marietti 1820 ne mette in campo altri tre di altrettanto valore: Commento ai Numeri di Rashi di Troyes, Israele e Palestina di Martin Buber, La preghiera di Israele di Carmine Di Sante.
Tra le proposte più originali da segnalare: Torà e libertà di Furio Biagini (edito da I libri di Icaro di Lecce), un autore di cui si è già parlato su queste colonne a proposito di una storia del movimento anarchico ebreo e a proposito del rapporto in Argentina tra gli ebrei e il tango; Il cristianesimo secondo gli ebrei a cura di Fritz A. Rothschild (Claudiana di Torino) che raccoglie scritti di Leo Baeck, Martin Buber, Franz Rosenzweig, Abraham Geschel e Wil Herberg che getta le possibili basi filosofiche, da parte ebraica, del dialogo interreligioso e torna ad affrontare la prospettiva messianica da molteplici punti di vista. Dialoghi d'amore di Leone Ebreo (editore Laterza), un vero best seller degli inizi del Cinquecento scritto da Leone Yeudah Abrabanel, sintesi ineguagliata di tradizione platonica, aristotelismo arabo cultura ebraica ed esegesi biblica.
Infine: La filosofia ebraica nel Novecento a cura di Paola Ricci Sindoni (edito da Spazio Tre di Roma) che raccoglie piccole monografie su Gershon Scholem, Franz Rosenzweig, Abraham Heschel, Elie Wiesel, Andrè Neher, Martin Buber, Leo Strauss, Emmanuel Levinas, Hans Jonas.
Quasi contemporaneamente sono apparsi numerosi titoli su Talmud e Kabbalah.
Il Talmud di Jacob Neusner (edizioni san Paolo) è una sintesi brillante e chiara, scritta da un rabbino che è ben conosciuto per la sua opera di divulgatore.
Diverso e complementare Invito al Talmud di Marc-Alain Ouaknin, (Boringhieri Bollati editore) anch'egli rabbino e studioso fecondo: due letture agili che si integrano piacevolmente e che spingono a leggere Il Talmud di Guenter Stemberger che, oltre ad una introduzione, raccoglie una selezione di offrendo preziose chiavi di lettura testi e commenti.
Utile anche Parole semplici di Adin Steinsaltz (edito da Utet) autore famoso di oltre sessanta volumi e, soprattutto, di una edizione del Talmud commentata in ebraico moderno di cui sono già stati pubblicati 38 dei 46 previsti: Questo volume si ispira ai suoi studi ed è di amabile lettura.
Eros e Qabbalah di Moshe Idel (Adelphi editore) è un libro intellettualmente audace che scandaglia a fondo temi ostici legati alla sessualità e al misticismo religioso ebraico, e lo fa con suggestiva competenza. Idel, del resto,è uno specialista di livello internazionale ben conosciuto e apprezzato.
Queste riflessioni non sono una novità assoluta: il primo a occuparsene fu, alcuni decenni or sono, Jiri Georg Langer, fratello di un amico di Kafka, che aveva scritto Eros nella Cabbalà un testo che aveva suscitato grande scandalo a Praga e che ora è stato recentemente riproposto dalla casa editrice La parola di Roma: lo stesso editore ha stampato sempre in queste settimane I percorsi della Cabbalà di Moshe Idel e di Victor Malka, conversazioni sulla tradizione mistica ebraica, un testo divulgativo, ma pregevole sotto molti aspetti.
Ultimi due titoli proposti: La sofferenza come identità di Esther Benbassa (edito da Ombre Corte di Verona) che, come si può intuire, affronta il tema cruciale della sofferenza in rapporto all'identità ebraica e ne analizza le implicazioni e i paradossi. Infine: Storia della letteratura giudaico-ellenistica di Clara Kraus Reggiani (Mimesis) che getta un fascio di luce su una materia composita e complessa, ma non meno affascinante.
(Europa, 13 agosto 2010)
6. GLI EBREI MESSIANICI VISTI DA UN GIORNALISTA
Nella sua ultima newsletter, il "Caspari Center" ha segnalato un articolo comparso sul giornale israeliano Yediot Ahronot. Sotto il titolo "Yeshua Superstar" e come parte della serie "Chi è ebreo?", il giornalista Yoaz Hendel fa uno studio della comunità ebreo-messianica in Israele. Ne presentiamo qui la traduzione.
Yeshua Superstar
di Yoaz Hendel
"Circoncidono i loro figli, celebrano il Bar Mitzvah, si sposano dai rabbini, ma credono in Yeshua come loro Messia. In Israele vivono attualmente 15.000 ebrei messianici. Se li incontrate in strada o nell'esercito, probabilmente non capite chi sono ... La tavola di Shabbat è piena di cibi, il padre di famiglia china il
capo e invoca la benedizione per il cibo e per una buona vita, tutti si tengono per mano e rispondono "Amen". Se questa scena fosse in inglese, si potrebbe pensare che è un episodio di "Little House on the Prairie", eccetto per il fatto che la prateria è Yad HaShmonah, un moshav(1)
vicino a Gerusalemme, e quelli che pregano sono nativi israeliani che parlano ebraico: ebrei messianici.
Il significato di "ebreo messianico" deriva dalla fede in Yeshu, o Yeshua come lo chiamano i suoi discepoli israeliani per far capire che quello che è scritto nel Nuovo Testamento non è meno corretto di quello che è scritto nel Tanach. Non sono cristiani, ma ebrei secondo la halacha(2)
.Praticano ortodosse circoncisioni, i Bar Mitzvah in uno stile unico, e si sposano dai capi rabbini senza fare dichiarazioni esplosive. A casa e nelle loro congregazioni, comunque, nello Shabbat considerano Yeshua come una superstar ... In Israele .... non portano segni distintivi particolari, alcuni di loro hanno la barba le tzitzit [frange] con una trama celeste, alcuni indossano uno yarmulke [kippà] e osservano i comandamenti della Torah. Altri sono del tutto non riconoscibili e osservano ben poche proibizioni e precetti. Sono tutti ferventi sionisti che cercano di servire l'esercito in modo significativo: alcuni di loro sono piloti, membri di unità speciali e comandanti di compagnia. Ma come minoranza in mezzo a noi - in parte a causa della storica paura degli ebrei per i missionari - mantengono un profilo basso.
Yeshu è nato ebreo, su questo non c'è discussione. Ha anche finito il suo ministero sulla terra come ebreo. Ma quanto a quello che è successo dopo - cioè il suo lascito - esiste una grossa controversia teologica. I libri storici di solito insegnano che nel giudaismo palestinese i primi cento anni dell'era cristiano/volgare hanno rappresentato un periodo di rivolte e di messia. E' in questo periodo che nasce la prima cristianità, e con questo l'ostilità inter-religiosa, spargimenti di sangue e antisemitismo. Da allora il mondo si è diviso in ebrei e cristiani. Ma quello che si trascura nei libri storici è l'esistenza di questi originari ebrei che credevano in Yeshu/Yeshua e hanno continuato a credere in lui come ebrei anche dopo la sua morte. Proprio questi ebrei costituiscono oggi i modelli per la comunità ebreo-messianica in Israele nel 2010.
Jonathan Bar David, 30 anni, ebreo messianico di quarta generazione e studente di ingegneria civile presso il Technion, è cresciuto a Yad HaShmonah sulle ginocchia di Yeshua il Messia. Ha studiato in scuole laiche, ha servito come paracadutista e come vicecomandante di compagnia nell'esercito regolare, è stato congedato, ha fatto un viaggio all'estero - essendo sempre accompagnato da Yeshua nella sua fede ...
Cerco di farmi spiegare come può una persona restare un credente quando cresce in un tipico ambiente laico israeliano. Bar David mi spiega che tutta l'educazione si svolge a casa ... Chiunque tenti di trovare un principio guida nello stile di vita di Bar David incontra difficoltà. Non lavora di Shabbat, ma non accende "candele"; si fa premura di frequentare le riunioni della congregazione e insegna perfino la Bibbia ai giovani; digiuna a Yom Kippur, ma non mangia kosher...
Centri come questo sono sparsi in tutto il paese: case di preghiera che assomigliano a sinagoghe, in alcune delle quali potete trovare un'arca della Torah e un rotolo accanto al Nuovo Testamento...
Aher Intrater [ebreo messianico] parla di un movimento in crescita in Israele, con 120 congregazioni e nuovi membri, di più, secondo lui, dei movimenti conservativo e riformato. Dal suo punto di vista, "quelli che si uniscono a noi provengono da un ambiente laico e sono alla ricerca di Dio senza halacha e, dall'altra parte, sono persone religiose che vogliono trovare libertà ma anche continuare a ricevere qualcosa che viene da Dio"
Il movimento ebreo-messianico ha cominciato a prendere piede dopo la conquista di Gerusalemme nel 1967, quando si adempì la profezia... La fede fervente conduce anche a un entusiastico sionismo. Tutti i figli di Intrater hanno scelto di servire nell'esercito in unità speciali. Per quelli che vivono sempre nella costante paura dei radicali ortodossi, i membri della comunità ebreo-messianica sono simpaticamente ottimisti. Forse perché lo stesso ebreo che ha camminato dalle nostre parti duemila anni fa, tra la Galilea e Gerusalemme, credeva che è sempre meglio porgere l'altra guancia piuttosto che alzare la voce.
(da un articolo di Yediot Ahronot, 16 agosto 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
(1) Comunità agricola cooperativa
(2) Complesso delle norme codificate della legge ebraica
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