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Notizie su Israele 490 - 28 luglio 2010

1. La guerra marittima nel diritto internazionale
2. Testimonianza di Aharon Appelfeld
3. Una particolare forma di resistenza ebraica
4. La falsa identità del palestinismo
5. I palestinesi stanno meglio degli egiziani
6. Nuove prodigiose fonti di energia in Israele
7. Riflessioni
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Michea 5:6. Il resto di Giacobbe sarà in mezzo a molti popoli come una rugiada che viene dall'Eterno, come una fitta pioggia sull'erba, le quali non aspettano ordine d'uomo e non dipendono dai figli degli uomini.
1. LA GUERRA MARITTIMA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE




La base giuridica del blocco marittimo

di Ruth Lapidoth*

Ruth Lapidoth
La natura delle relazioni tra Israele e Hamas è classificata come conflitto armato. Nessuna dichiarazione di guerra formale è necessaria. Così sono applicate le leggi dei conflitti armati. Questo significa che Israele può controllare le spedizioni verso Gaza - anche quando le navi sono ancora in alto mare.
    Le norme della guerra marittima non sono state completamente codificate in un trattato e sono assoggettate alle norme abituali e attualmente in vigore. Possono essere citate negli appositi manuali degli eserciti occidentali (in particolare americani e britannici) ed in quello di San Remo elaborato nel 1994 da un gruppo di esperti.
    Per essere applicato legalmente un blocco deve essere dichiarato e annunciato, efficace e non discriminatorio, e dovrebbe permettere il passaggio di aiuti umanitari alla popolazione civile. Inoltre, il manuale di San Remo comprende due condizioni: lo Stato che applica il blocco può decidere dove, quando e da quale porto l'aiuto dovrebbe essere fornito. Lo Stato può anche esigere che un'organizzazione neutrale sulla costa verifichi chi è il vero destinatario dell'aiuto. A Gaza, per esempio, questi aiuti arrivano a destinazione? Chi è che alla fin dei conti li riceve: la popolazione civile o Hamas?
    Un nave che ha chiaramente l'intenzione di violare il blocco può essere fermata quando è ancora in alto mare. L'intercettazione della flottiglia in direzione di Gaza nelle acque territoriali a 100 km dal litorale israeliano è legale; in tempo di conflitto armato, le navi aventi l'intenzione di violare il blocco possono essere ispezionate anche in alto mare.
    Israele è nei suoi diritti ed è in piena conformità con il diritto internazionale perché ha soddisfatto tutte le condizioni citate per un blocco legale. Per esempio, nel gennaio 2009 Israele ha informato le autorità competenti della sua intenzione di mettere in vigore un blocco lungo la costa di Gaza.
    Le relazioni tra Israele e Hamas (che ha preso il potere nella striscia di Gaza nel 2007) sono di natura di conflitto armato, questo significa che sono applicate le norme delle leggi di un conflitto armato. Ciò significa che Israele può controllare le spedizioni verso Gaza - anche quando la nave è ancora in alto mare. Tuttavia, Israele non può fermare una nave nelle acque territoriali di un paese terzo come Cipro.
    Nel quadro di un blocco navale, tutti i mezzi devono essere messi in opera per prevenire i passaggi (entrata o uscita) di tutte le navi da o verso porti e zone costiere del nemico, indipendentemente dalla natura del carico trasportato. È necessario definire chiaramente i confini della zona alla quale il blocco si applica.
    Il blocco deve essere distinto dalle altre applicazioni della guerra navale, come le zone d'esclusione e le zone di sicurezza.

Le fonti del Diritto internazionale sui blocchi
Le norme di un blocco sono basate sul normale diritto internazionale, poiché non ci sono trattati internazionali globali sull'argomento. Il diritto usuale è legato al Diritto internazionale. Ai sensi dell'articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, le fonti del diritto internazionale sono le seguenti:

a) i trattati internazionali.
b) gli usi internazionali.
c) i principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

Una norma usuale costrittiva è creata quando molti stati si sono a lungo comportati in un certo modo, e hanno agito così perché hanno ritenuto che l'obbligo li ha costretti ad agire così.
I blocchi esistono da molti secoli. Sono stati citati specificamente nella Dichiarazione di Parigi del1856 (in seguito alla Guerra di Crimea) che rispetta il diritto marittimo. Un testo più dettagliato è stato pubblicato nel 1909: La dichiarazione di Londra sulla guerra navale. Questa dichiarazione ha cercato di codificare le norme della guerra in mare, ma gli stati che hanno firmato questa dichiarazione non l'hanno mai ratificata. Tuttavia, gli stati hanno seguito le norme fissate in questa dichiarazione, e dunque le sue disposizioni sono diventate norme obbligatorie e usuali.
    Le norme abituali sul blocco possono essere trovate nei manuali dei diritti di guerra emessi da alcuni paesi occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Inoltre, esiste un manuale elaborato nel 1994 da un gruppo internazionale di esperti: il Manuale di San Remo (non si tratta, come alcuni pretendono, dell'Accordo di San Remo, ma piuttosto di un manuale). Inoltre, i principi generali di diritto dei conflitti armati si applicano anche alla guerra navale.

La legittimità di un blocco marittimo
Per essere legale, molte condizioni devono essere soddisfatte. La prima è l'esigenza di informare tutti e in tutti i modi che il blocco è applicato, e di assicurarsi che ogni nave controllata ne fosse informata. Oggi il problema della notifica è molto più facile che in passato, grazie al miglioramento dei mezzi di comunicazione.
    Un'altra condizione di legalità di un blocco marittimo è la sua efficacia. Non basta proclamare un blocco. Deve essere effettuato, altrimenti non è più valido né legale. Il blocco non deve neppure impedire a uno Stato indipendente e straniero l'accesso al mare. Nel caso di Gaza, il blocco non impedisce all'Egitto di raggiungere il mare.
    Inoltre, il blocco deve essere fondato sull'uguaglianza: deve applicarsi a tutti. Beninteso, per la parte che impone il blocco esiste sempre la possibilità di accordare un permesso speciale per facilitare il passaggio di alcune navi neutrali, ma questo resta un'eccezione.
    Un blocco deve permettere il passaggio di aiuti umanitari se necessario. Tuttavia, il Manuale di San Remo contiene due condizioni (articolo 103): anzitutto, la parte che impone il blocco può decidere dove, quando e da quale porto l'aiuto dovrà raggiungere la costa. Inoltre, lo Stato può esigere che un'organizzazione neutrale sulla costa controlli la distribuzione degli aiuti.
    Infine, esiste una condizione che vieta a uno Stato di affamare la popolazione civile (San Remo, articolo 102). Anche questo è conforme ai principi generali della legislazione sui conflitti armati.

Come reagire quando una nave non si conforma al blocco?
Qui bisogna distinguere tra navi mercantili e navi da guerra. Una nave mercantile può essere visitata, frugata o bloccata, e se i passeggeri della nave o il suo equipaggio si oppongono, può essere bloccata con la forza. La situazione delle navi da guerra neutrali non è del tutto chiara: navi da guerra possono anche essere ispezionate e bloccate, ma i pareri sono divisi a questo riguardo. L'uso della forza è certamente permesso in una situazione di legittima difesa.
    Una nave che ha chiaramente l'intenzione di violare il blocco può essere bloccata mentre è ancora in alto mare. Il blocco della flottiglia in acque internazionali a 100 chilometri dalle coste israeliane era legale: in tempo di conflitto armato, le navi che hanno l'intenzione di superare il blocco possono essere ispezionate, anche in alto mare.

I casi precedenti.
Si sono registrati molti blocchi nella storia contemporanea. Durante la guerra di Corea nel 1950-53. Nel 1971, quando il Bangladesh ha tentato di fare secessione dal Pakistan, l'India ha applicato un blocco. Nel corso della guerra Iran-Iraq, dal 1980 al 1988, un blocco è stato imposto nello Shat el-Arabe. In occasione della seconda guerra del Libano nel 2006, Israele ha imposto un blocco marittimo e ha permesso la navigazione di navi a fini umanitari e in tutta sicurezza dal Libano verso Cipro.
    Nel trattamento della flottiglia in direzione di Gaza, Israele ha agito in conformità al diritto internazionale e ha soddisfatto tutte le condizioni di un blocco legale.
    Nel gennaio 2009 Israele ha informato le autorità competenti del blocco della striscia di Gaza - come mezzo legittimo di guerra navale. L'esistenza del conflitto armato tra Israele e Hamas era evidente e ben conosciuta, e dunque non era necessaria una dichiarazione speciale a questo scopo.

Gaza non è uno Stato
La striscia di Gaza può essere considerata come un territorio ostile benché non sia uno Stato? Secondo il diritto internazionale, questo è possibile. In ogni caso, in considerazione di molte sentenze della Corte suprema israeliana, il conflitto con la striscia di Gaza è un conflitto internazionale e non interno, perché Gaza non fa parte di Israele. Né Gaza né la Cisgiordania sono state annesse da Israele, nessuna amministrazione né giurisdizione vi è stata estesa (come nel caso di Gerusalemme-Est dopo la guerra dei sei giorni del 1967 e dell'altipiano del Golan nel 1981).
    Per quanto riguarda lo statuto di Gaza, il territorio è stato sotto la sovranità ottomana per quattro secoli, dal 1517 fino al 1917, poi è diventato una parte del Mandato Britannico sulla Palestina mandataria. Nel 1948 la Gran Bretagna ha lasciato la regione e Gaza è stata occupata dall'Egitto, ma l'Egitto non l'ha annessa. Nel 1967 Gaza è stata occupata da Israele, e anche lui non l'ha annessa. Nel 2005 Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza, e nel 2007 Hamas ha preso interamente il governo di tutto questo territorio. Alcuni dicono che la striscia di Gaza è una zona "sui generis", il che significa che si tratta di una situazione particolare, mentre per altri è un territorio autonomo, con amministrazione di alcuni poteri, ma non con tutti i poteri di uno Stato.
    Nei due casi, nella Dichiarazione di principi israelo-palestinese firmata nel 1993 (Accordi di Oslo) riguardante accordi provvisori d'autonomia, come anche negli accordi israelo-palestinesi firmati nel 1995 sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza, si è deciso che dopo un certo lasso di tempo si sarebbero avviati negoziati sulla permanenza dello statuto di Gaza e della Cisgiordania, ma fino ad oggi questi negoziati non si sono realizzati. La Road Map elaborata nel 2003, sulla quale le due parti si sono accordate, contiene la formula di una soluzione per due Stati, e afferma che uno Stato palestinese dovrebbe essere fondato in seguito ad un accordo con Israele.

La striscia di Gaza è sempre occupata?
È una questione spinosa. Alcuni dicono: Israele controlla sempre lo spazio aereo di Gaza e controlla le coste di questo territorio, è dunque sempre l'occupante. Secondo altri: ai sensi del Regolamento dell'Aia del 1907 (che riguarda leggi e abitudini della guerra terrestre), nello statuto d'occupazione è incluso il controllo totale della regione. Un territorio è considerato occupato quando si trova di fatto sotto l'autorità dell'esercito nemico. L'occupazione si estende soltanto ai territori dove è la sua autorità stabilita e può essere esercitata. Certamente Israele non controlla tutto il territorio di Gaza e quindi non ne è il responsabile sul territorio.
    Secondo il mio punto di vista, Israele non controlla la striscia di Gaza, e dunque non ne è l'occupante, ma nei settori nei quali Israele ha sempre il controllo - in particolare il mare e lo spazio aereo - Israele è responsabile. Distinguiamo infatti tra il pieno controllo del territorio ed il controllo aereo e marittimo.


* Ruth Lapidoth è Professore emerito di Diritto Internazionale all'Università ebraica di Gerusalemme.

(Le Cape, 22 luglio 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. TESTIMONIANZA DI AHARON APPELFELD




Coi ladri nei boschi ho imparato a diventare scrittore

La mia vita è un continuo paradosso: non mi ha salvato il tedesco materno ma la lingua della domestica ucraina.

di Aharon Appelfeld*

Aharon Appelfeld
Con il vostro permesso, signore e signori, non entrerò nel merito della definizione di paradosso. La lingua degli scrittori è quasi sempre concreta, lontana dall'astrazione. Vorrei invece condividere con voi alcuni paradossi della mia vita, e per farlo procederò in forma cronologica.
    Sono nato nel 1932, un anno prima dell'avvento al potere di Hitler. I miei genitori erano ebrei assimilati, intrisi di lingua e cultura tedesca: per loro l'ebraismo era una specie di anacronismo, da cui tenersi a distanza. Quando avevo tre anni, i miei genitori fecero venire da Vienna una istitutrice, affinché le mie orecchie sentissero la corretta pronuncia della capitale. Gli ebrei assimilati erano sicuri che il regime di Hitler fosse passeggero e che nel giro di un anno o due sarebbe sparito. La filosofia e la musica tedesche, per non parlare della letteratura, in quanto massima espressione culturale dell'umanità, avrebbero sconfitto la volgarità e la violenza, l'espansionismo e la sete omicida. Sono nato in Bucovina, una delle province più rinomate dell'impero asburgico, per merito del suo capoluogo, Cernovitz. A differenza delle metropoli, la provincia aveva conservato un certo candore, nutrito dalla certezza che la cultura abbia in sé la forza per salvare l'uomo persino dai demoni che si celano sotto spoglie umane. Nessuno poteva immaginare quello che stava per succedere.
    Nel 1941 i tedeschi invasero la Bucovina: avevo otto anni e mezzo, ero figlio unico, ero già in grado di leggere i libri di Karl May e parlavo il tedesco senza fare errori e senza dar modo di capire a chi mi sentiva che venivo da una famiglia ebraica, e dalla provincia. Era chiaro che stavamo andando incontro a una tragedia imminente, eppure i miei genitori erano ancora sicuri che agli ebrei che parlavano tedesco non sarebbe stato fatto alcun male: ci avrebbero fatti uscire dal ghetto e liberati. Quel che è successo nei ghetti e nei campi è noto a tutti e non richiede certo alcuna delucidazione da parte mia. Mia madre venne assassinata e io venni separato da mio padre. Avevo nove anni. Quel tedesco che i miei genitori coltivavano con grande amore divenne tutt'a un tratto la lingua degli assassini. Tutto ciò avvenne poco prima della «soluzione finale» effettiva.
    Scappai dal campo nei boschi e lì venni adottato da una banda di ladri ucraini. Non è stata la lingua tedesca a salvarmi in quella vita alla macchia, bensì l'ucraino che mi aveva insegnato la nostra domestica. Invece della esclusiva scuola privata che frequentavo un tempo, dovetti studiare alla scuola dei ladri. Loro parlavano poco: mugugnavano, brontolavano, picchiavano. Il mio aspetto non mi tradì: ero un bambino biondo ed eseguivo tutti gli ordini con ubbidienza assoluta. Imparai a parlare poco, a guardarmi intorno e ascoltare. Forse, con questo esercizio mi sono formato per diventare scrittore. Vivendo nei boschi, si acquisiscono delle caratteristiche proprie degli animali: udito fine, sguardo acuto, olfatto più sviluppato. La capacità di pensare si riduce. Nel bosco i sensi sono la tua guida.
    Fu così che quel ragazzino vissuto sino ad allora in una casa agiata, circondato di libri e bei mobili, che andava con i suoi genitori ai concerti e a teatro e a camminare in mezzo alla natura, divenne una creatura dei boschi, sottomessa a una banda di ladri. Ancor oggi non riesco a capire come sia potuta avvenire in me una tale metamorfosi. C'è un vecchio adagio ebraico che dice «l'uomo è più forte del ferro», e ciò significa che l'uomo, seppur fatto di carne e sangue, è capace di affrontare sforzi incredibili, e sopravvivere. Difficile dire se questo detto vada inteso come un pregio o come un difetto.
    La borghesia ebraica formava i suoi figli e figlie perché diventassero medici, avvocati, banchieri. Ma i nazisti misero al centro della mia vita il mio ebraismo «biologico». Della mia identità avevo sentito parlare pochissimo in casa, quando tutt'a un tratto fui costretto a passare per tutte le infuocate ordalie della colonia penale (come nell'omonimo racconto di Kafka): il ghetto, il campo, i boschi. Il sangue ebraico che scorreva nelle tue vene ti condannava all'umiliazione e alle torture: solo dopo tutto ciò arrivava la morte. Nel 1944 la zona del mio esilio venne liberata dall'Armata Rossa. La banda di ladri si disperse, ognuno se ne tornò alla propria famiglia, e io rimasi solo al mondo. Avevo dodici anni.
    Ma il destino fu ancora una volta benevolo con me. L'Armata Rossa mi adottò come garzone di cucina, e per circa un anno rimasi con i soldati. La paura che mi aveva accompagnato nell'anno e mezzo precedente, la paura che i ladri scoprissero la mia vera identità e mi uccidessero o mi consegnassero ai tedeschi, finalmente se ne andò. Nell'Armata Rossa c'erano molti soldati e ufficiali ebrei. Il lavoro in cucina non era certo leggero, ma ero felice di poter avanzare insieme all'esercito vincitore, e di servire una minestra calda ai soldati.
    Chi ha letto i libri di Isaac Babel s'è fatto un'idea di quel che era l'Armata Rossa. Ovviamente la realtà andava ben oltre l'immaginario dell'arte. Imparai ben presto a bere vodka, a fumare e bestemmiare: notte e giorno, fra i cavalli si udivano lunghe e colorite imprecazioni. Ma io ero contento di avere da mangiare, ero contento che nessuno mi spedisse in pericolose missioni, e che il mio essere ebreo non fosse di per sé una cosa pericolosa. Ho attraversato l'Europa, con l'Armata Rossa. Che cosa pensavo, in quel periodo? La mia impressione è che non pensassi affatto. La cucina occupava tutta la mia giornata.
    Arrivato in Jugoslavia, era già il 1945, incontrai alcuni ragazzi ebrei e lasciai l'Armata Rossa. Insieme andammo a cercare un posto dove distribuissero cibo e vestiti. Fu così che giungemmo in Italia. Di sopravvissuti nei campi e alla clandestinità ce n'erano ovunque, tutti desiderosi di lasciare quell'Europa che li aveva feriti in modo tanto disumano - chi per l'America e chi per la Palestina. Capii ben presto che l'America non era poi così entusiasta di accogliere degli orfani, pertanto mi unii a quei profughi che si accingevano a immigrare in Palestina. Vi arrivai nel 1946. Anche qui mi trovai circondato di profughi, ciascuno che parlava nella sua lingua.
    Fui accolto in una struttura agricola che formava i ragazzi profughi della mia età al lavoro dei campi, all'autodifesa e dove si insegnava loro la nuova lingua - l'ebraico. Il clima molto caldo e il nuovo corso della giornata non posso dire che mi rendessero felice, ma ero comunque contento di non essere alla mercé di nessuno, e di avere un po' di tempo per me stesso. Non sapevo dove la vita mi avrebbe condotto. (...)
    Ma intanto l'ebraico s'andava radicando in me, seppure forse non in profondità come la lingua materna. Leggevo molto e passo a passo «conquistai» la lingua. Mi affascinava soprattutto la Bibbia. Ogni giorno copiavo a mano un capitolo, e così acquisivo familiarità con la melodia della frase ebraica. (...)
    A quel tempo pensavo già di diventare uno scrittore? Assolutamente no. Per quattro anni ho lavorato nei campi. La fatica fisica e l'aria aperta che hanno forgiato il mio corpo mi hanno anche sviluppato la mente? Ho dei dubbi. Non avevo appreso altro che qualche rudimento, e non credo che mi sarebbe bastato per alcunché.
    Se lo scopo del paradosso è quello di accostare idee apparentemente in contraddizione e inconciliabili fra loro, allora la mia vita è tale. Dicono che l'arte dello scrivere non si realizzi se non nella propria lingua materna. Le eccezioni, come Conrad, Nabokov e Beckett, non fanno che confermare la regola. Per me, è stata la lingua biblica a redimermi, a farmi uscire dal mutismo e dal paradosso di due lingue, due patrie, due culture. La lingua biblica s'addiceva alle esperienze della mia vita: è una lingua minimalista, diretta, priva di manierismi, mai descrittiva, scarsissima di aggettivi. In una lingua come questa si può scrivere di una vita che rifiorisce dalla catastrofe, di durezza e assurdità: sono fortunato ad averla avuta in sorte. La lingua di mia madre, diventata quella degli assassini, non sarebbe mai potuta essere il mio strumento musicale.



A volte ho la sensazione che nella mia vita si siano concretizzati tutti i paradossi possibili. Non saprei dire se il fatto di vivere fuori dall'Europa mi abbia allontanato da questo continente, dalle sue lingue e culture. A differenza dei miei genitori, che erano teatro essi stessi di un conflitto perché ambivano a essere europei e soltanto europei, la mia vita, per fortuna, mi ha risparmiato questo dilemma. La lingua ebraica mi ha costruito spiritualmente come ebreo, eppure in virtù dell'universalismo della Bibbia sono rimasto un europeo. Quell'Europa in cui sono nati i miei avi e gli avi dei miei avi e sono nato io, vive e respira in tutti i miei scritti. Si può parlare di un happy end? Proprio no. In un'infanzia e una giovinezza come le mie, con il loro carico di paradossi, non c'è spazio per la felicità. A questo punto debbo confessare una cosa: nel profondo di me s'annidano il cinismo, l'indifferenza, il disprezzo per qualsivoglia fede. Ho visto troppo male nella mia vita, per poter tornare a credere nella semplicità e nel candore dell'uomo. Però, come per miracolo, l'eredità culturale dei miei genitori, il loro amore fiducioso nel progresso e nell'universalismo, i quattro anni di lavoro con la terra e gli altrettanti anni di studio della Bibbia, hanno conservato me e l'immagine di Dio che è in me.


* Lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld ha 78 anni. Nato nella Bucovina del Nord, allora in Romania, sopravvissuto alla Shoah, è emigrato nel 1946 in Palestina. Laureatosi all'Università di Gerusalemme, ha poi insegnato all'Università Ben Gurion del Negev. Nei suoi romanzi (in Italia sono stati tradotti da Guanda Paesaggio con bambina, Storia di una vita, Badenheim 1939 e Un'intera vita) affronta in modo diretto o indiretto il tema della Shoah e dell'Europa prima e durante la guerra.

(La Stampa, 16 luglio 2010 - trad. Elena Loewenthal)





3. UNA PARTICOLARE FORMA DI RESISTENZA EBRAICA




Shoah: l'inferno degli ebrei polacchi raccontato dall'interno del ghetto

di Donato De Sena

Circa cinquanta uomini e donne a Varsavia scelsero una particolare forma di resistenza. In un archivio segreto documentavano il loro castigo per tramandarlo alle generazioni future: raccontare i crimini nazisti per non farli dimenticare. Eludendo ogni controllo dei militari tedeschi il 19enne David Graber e il suo amico Nahum Grzywacz il 2 agosto 1942 nascosero dieci scatole metalliche nel seminterrato di una scuola elementare a Nowolipki, nel ghetto ebraico di Varsavia. Erano destinati a morire di lì a poco, vittime della Shoah, ma avevano deciso di mettere al sicuro il racconto di quel periodo tragico della loro vita, e della storia. Graber e Grywacz non vissero molto dopo aver messo al riparo le loro testionianze, quasi tutti i loro 50 collaboratori ebbero la stessa sorte.

35.000 pezzi nascosti
Fu grazie alle indicazioni di tre sopravvissuti che, quattro anni più tardi, si riuscì a ritrovare le preziose scatole. Il tesoro sepolto - racconta Spiegel - consisteva di circa 35.000 pezzi di carta che un gruppo di cronisti aveva raccolto e utilizzato per documentare come, durante la seconda guerra mondiale, gli occupanti tedeschi di Varsavia avevano privato gli ebrei dei loro diritti. "Questi materiali raccontano una storia collettiva di costante declino e umiliazioni senza fine, intervallate da tante storie di eroismo silenzioso e sacrificio di sé", scrive lo storico americano Samuel Kassow. Il suo libro Who Will Write Our History? Rediscovering a Hidden Archive from the Warsaw Ghetto, getta una nuova luce sull'origine del materiale. Ci sono stati ritrovamenti di diversi diari e testimonianze di ebrei in giro per l'Europa, ma l'archivio di Varsavia è il più completo e descrittivo. La capitale polacca ha ospitato la comunità ebraica più grande d'Europa, ed è diventata una vera e propria calamita per molti scienziati e scrittori di talento.

Documenti raccolti dall'Oyneg Shabes
Il gruppo si chiamava Oyneg Shabes, o Sabbath Joy, perché di solito veniva convocato il sabato pomeriggio, a partire dal novembre 1940. Il pensatore capo del gruppo, che comprendeva un gran numero di intellettuali, giornalisti e insegnanti, era Emanuel Ringelblum, uno storico nato in Galizia nel 1900. Aveva scritto una tesi di dottorato presso l'Università di Varsavia sulla storia degli ebrei della città prima del 1527, e aveva fatto parte della organizzazione ebraica Aleynhilf. Due settimane prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Ringelblum partecipò al congresso sionista mondiale a Ginevra come un inviato del partito marxista Poalei Sion. Gli altri delegati gli dissero che era troppo pericoloso tornare in Polonia e lo esortarono a rimanere in Svizzera, ma Ringelblum volle raggiungere la moglie Yehudis e il loro figlio Uri, di nove anni. Era appena tornato a casa quando le truppe tedesche invasero la Polonia e occuparono, poco dopo, Varsavia.

Intuirono l'entità del dramma
Nel mese di ottobre 1940, le autorità decisero che tutti gli ebrei sarebbero dovuti essere spostati in un quartiere residenziale separato. Fu costruito un muro di tre metri intorno alla zona. I tedeschi spinsero inesorabilmente gli ebrei dalla campagna circostante nel ghetto di Varsavia. In poco tempo, mezzo milione di persone vivevano in uno spazio di soli quattro chilometri quadrati (1,5 miglia quadrate). Ringelblum e i suoi colleghi della Oyneg Shabes rapidamente capirono le dimensioni del dramma, e cominciarono a redigere un documento per i posteri. Hanno raccolto decreti, manifesti, tessere, lettere, diari e disegni - documenti di orrore in yiddish, tedesco e polacco. Uno dei documenti riportava il quantitativo medio di calorie giornaliero assunto nel 1941, stando ai dati i tedeschi avrebbero ricevuto 2,613 kilocalorie, i polacchi 699 calorie e gli ebrei solo 184. I residenti del ghetto andavano in giro a contrabbandare il cibo per sopravvivere.

(Giornalettismo, 23 luglio 2010)





4. LA FALSA IDENTITÀ DEL PALESTINISMO




Perché non arriva la pace

di Moshe Dann

Tutti i tentativi di imporre uno stato palestinese (le proposte di soluzione "a due stati") sono destinati al fallimento per una semplice ragione: gli arabi palestinesi non vogliono questo stato. Essi non costituiscono una nazione, un popolo: il loro nazionalismo non si fonda su un'unica identità linguistica, storica, culturale o religiosa; il suo fine primario è spazzare via lo stato d'Israele e i suoi abitanti ebrei. Pertanto qualunque forma di "statualità" palestinese che accetti il diritto di Israele ad esistere è, per definizione, impossibile. La cosa è chiaramente evidente nelle Carte costitutive dell'Olp e di Hamas.
    Il "palestinismo" non è un'identità nazionale, bensì una costruzione politica sviluppata come parte di un'agenda terroristica, quando l'Olp venne formata nel 1964. Era un modo per distinguere fra arabi ed ebrei, e fra gli arabi che vivevano in Israele prima del 1948 e gli altri arabi. La definizione "arabi palestinesi" non è un'invenzione straniera o colonialista: è la locuzione con cui essi usavano descrivere se stessi nei loro documenti ufficiali. La loro identità venne fondata su un mito: il solo scopo era "la liberazione della Palestina, compreso ciò che oggi è Giordania. Gli arabi che vivevano in Palestina non consideravano se stessi separati dalla più ampia nazione araba, come risulta dai documenti dell'Olp.
    Si accodarono al mufti filo-nazista Haj Amin Hussein non perché egli esprimesse la loro identità nazionale, ma per via del suo odio contro gli ebrei. Non definiscono la loro lotta come il raggiungimento dell'indipendenza a fianco di Israele: il loro obiettivo è sostituirsi a Israele. Perciò le proposte di soluzione "a due stati", con la statualità palestinese come obiettivo territoriale, di fatto sono la negazione del palestinismo. Tali soluzioni significherebbero la fine del palestinismo e della loro lotta per sradicare Israele.
    Il che spiega come mai nessun leader arabo "palestinese" accetterà di accondiscendere agli interessi occidentali e sionisti, e come mai per loro scendere a compromessi equivalga a un'eresia. Statualità (accanto a Israele) significa sconfessare la "Naqba" (catastrofe), che coincide con la nascita dello stato di Israele nel 1948, e ammettere che tutto ciò per cui si sono battuti e sacrificati è stato vano. Statualità (accanto a Israele) significa lasciar perdere cinque milioni di arabi che vivono nei 58 cosiddetti "campi profughi" sponsorizzati dall'Unrwa in Giudea, Samaria, striscia di Gaza, Libano, Siria e Giordania, e le centinaia di migliaia sparsi in giro per il mondo: che non sarebbero più considerati "profughi", con la perdita secca di più di mezzo miliardo di dollari che l'Unrwa riceve ogni anno. Statualità (accanto a Israele) significa abbandonare la "lotta armata", che è il fulcro della loro identità: significa che il concetto di palestinismo, creato dall'Olp, accettato dall'Onu e dai mass-media ed anche dai politici israeliani, era solo un'invenzione, una falsa identità, con falsi scopi. Il che comporta che le loro sofferenze sono state inutili. Statualità (accanto a Israele) significa assumersi responsabilità e porre fine all'indottrinamento, all'istigazione e alla violenza. Significa fare i conti con i miti dell'"archeologia palestinese", della "società e cultura palestinese" e costruire un autentico nazionalismo, istituzioni e strutture nella trasparenza. Significa anche, naturalmente, porre fine al conflitto, e farla finita con il terrorismo come politica ufficiale, e farla finita con la guerra civile fra islamisti e laici, fra tribù e clan rivali, e farla finita con la corruzione, l'illegalità e l'arbitrio; significa dare vita a un vero governo democratico.
    Nessuna costruzione artificiale imposta dall'esterno può surrogare alla creazione di un genuino processo di edificazione nazionale dall'interno. Paradossalmente il "palestinismo" è il maggiore ostacolo alla nascita di uno stato palestinese a fianco di Israele, e alla stabilità nella regione.

(YnetNews, 15 luglio 2010 - da israele.net)





5. I PALESTINESI STANNO MEGLIO DEGLI EGIZIANI




Un giornalista egiziano: «Ma di quale assedio stanno parlando?»

«Il popolo egiziano… dovrebbe pregare Allah per ricevere come punizione un simile assedio»

Nel suo editoriale sul quotidiano egiziano "Rooz Al-Yousuf", in data 29 Giugno 2010, Muhammad Hamadi ha mostrato delle statistiche, tratte dal sito web di Hamas, che mostravano che, nonostante tutti i discorsi sull'assedio della Striscia di Gaza, ed in contrasto con le affermazioni che l'Egitto abbia un ruolo nell'affamare il popolo palestinese [a Gaza], una tale quantità di beni sta affluendo a Gaza che l'offerta è superiore alla domanda - e che, di conseguenza, vari beni di consumo, la carne di pollo e di manzo sono più a buon mercato che in Egitto.

Ha concluso dicendo che la vita sotto assedio a Gaza è più facile che in Egitto, dove alla gente piacerebbe essere sottoposta ad un simile assedio.

Qui di seguito presentiamo la traduzione di alcuni brani dell'articolo:

Hamas «si è convertito alla resistenza on-line e nei media»

«Dopo che il movimento [di Hamas] ha abbandonato la resistenza vera e si è dedicato alla resistenza on-line e sui media, uno dei molti siti web di Hamas ha pubblicato un importante articolo dove si comparavano i prezzi di beni e prodotti alimentari in Egitto ed a Gaza.»

«L'articolo afferma: un chilo di anguria a Gaza costa meno di una lira egiziana, mentre in Egitto costa più di due lire; un chilo di pomodori a Gaza costa meno di mezza lira, mentre in Egitto costa una lira e mezzo; un chilo di patate a Gaza costa mezza lira, mentre in Egitto costa due lire; un chilo di cipolle a Gaza costa una lira, mentre in Egitto un chilo di cipolle costa una lira e mezzo; un chilo di aglio a Gaza costa 10 lire mentre in Egitto costa 15 lire.»

«Un chilo di pollo in Egitto costa 20 lire, mentre a Gaza costa solo 10 lire. Il prezzo medio di un chilo di carne di manzo in Egitto è di 60 lire - mentre nella Gaza sotto assedio si compra con cinque lire. Una confezione di uova in Egitto costa 19 lire, mentre a Gaza costa solo 10 lire.»

«Di quale assedio stiamo parlando?»

«Questa comparazione dei prezzi fra Egitto e Gaza, che è stata sotto assedio per tre anni, come loro affermano, mostra che la vita sotto assedio è più a buon mercato, più conveniente e più facile…»

«Allora, di quale assedio stiamo parlando? Può un assedio determinare un ribasso dei prezzi? E come può succedere che tutti questi beni affluiscano dentro Gaza nonostante l'assedio?…»

«Non sto sollevando queste questioni aspettandomi di ricevere una risposta da Hamas, [le mie domande] sono rivolte invece a quei sostenitori di Hamas in Egitto che non trovano niente di sbagliato nell'accusare il loro proprio paese di avere tradito la causa palestinese e di avere messo alla fame il derelitto popolo palestinese attraverso l'oppressivo assedio di Gaza.»

«Se questa è la situazione di Gaza sotto assedio, allora il popolo egiziano, che è stato scottato dal fuoco dei prezzi e che tagliano via una parte delle loro limitate entrate per salvare gli assediati residenti di Gaza, dovrebbero rivolgere le loro preghiere ad Allah affinché li colpisca con un simile assedio, se l'assedio porterà ad avere dei prezzi più bassi e renderà possibile, ad ogni comune cittadino, comprare uova, carne e pollame come fanno i residenti di Gaza.»

(MEMRI, 2 luglio 2010)





6. NUOVE PRODIGIOSE FONTI DI ENERGIA PER ISRAELE




La speranza sta nel gas

di Sergio I. Minerbi

Israele potrebbe essere alla vigilia dell'indipendenza energetica grazie ad alcuni ritrovamenti di gas naturale in mare. Il primo risale a qualche anno fa ed è situato davanti ad Ashkelon, mentre il secondo e il terzo si chiamano Tamar e Dalit (nomi femminili) e si trovano nei pressi di Haifa. Un quarto giacimento è stato reperito nella zona davanti a Haifa, si chiama Leviatan (balena) ed è attualmente al vaglio degli esperti.
    Il campo di Tamar ha una dimensione di circa diecimila ettari, e secondo la valutazione più recente potrebbe fornire 247 bcm (miliardi di metri cubi) di gas.
    Il gas naturale può essere utilizzato come materia prima per l'industria chimica e questa è l'utilizzazione più nobile e redditizia, oppure come carburante in sostituzione del carbone e dei prodotti raffinati dal petrolio, col vantaggio di ridurre le emissioni nocive. In Israele il consumo attuale di gas è molto limitato e raggiunge solo i 5 bcm, e prima delle recenti scoperte si prevedeva il raddoppio del consumo interno per il 2020.
    Tre questioni sono all'ordine del giorno in seguito a questa pioggia di miliardi: quali clienti troverà il gas israeliano, quale sarà la ripartizione dei guadagni fra gli investitori e governo israeliano. Ma soprattutto cosa farà il Libano che ha già rivendicato la proprietà sui giacimenti. Infatti il diritto internazionale che dovrebbe governare la ripartizione delle risorse naturali sottomarine, non ha principi chiari e netti.
    Cipro ha dichiarato una Exclusive Economic Zone (Eez) fino a 200 chilometri dalla costa israeliana e ha venduto concessioni a privati per esplorazioni, creando una novità nel Mediterraneo. Israele ha preferito il metodo della piattaforma continentale prospicente alla propria costa. Su tale piattaforma che è come il prolungamento in mare della costa, Israele afferma la sua sovranità.
    L'Hezbollah, sempre sollecito nel trovare nuovi argomenti di litigio con Israele,ha dichiarato: "Non permetteremo che Israele rubi il gas libanese". Anche il presidente del Parlamento libanese, Nebil Beeri, chiede passi immediati "per difendere i diritti sovrani economici e politici". Ma il Libano stesso ha tracciato in passato i confini marittimi quando ha venduto concessioni per esplorazioni marine proprio fino al limite delle concessioni israeliane. Le scoperte di gas e petrolio sono nel sottosuolo della piattaforma continentale che appartiene a Israele, il quale non ha dubbi di sorta sulla propria sovranità. Qualcuno fa osservare che i libanesi sono rimasti silenziosi finché non c'è stata la prova che il gas esiste. Insomma investite pure diabolici israeliani e se trovate qualcosa, i libanesi verranno a reclamarlo.

(Pagine Ebraiche, agosto 2010)





7. RIFLESSIONI




Yeshua o Gesù?




MUSICA E IMMAGINI




Ke Ayal Taàrog




INDIRIZZI INTERNET




Israel Wonders

DesInfos.com




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