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Notizie su Israele 492 - 1 settembre 2010

1. Stati Uniti, Nazioni Unite e Israele
2. Musica e immagini
3. Indirizzi internet
Geremia 17:5. Così parla l'Eterno: Maledetto L'uomo che confida nell'uomo e fa della carne il suo braccio, e il cui cuore si ritrae dall'Eterno!
Questo numero di "Notizie su Israele" è interamente dedicato alla presentazione di un documento pubblicato in cinque puntate sul quotidiano "l'Occidentale".




1. STATI UNITI, NAZIONI UNITE E ISRAELE




Obama e Israele

di David Horowitz e Jacob Laksin (*)


1. Obama non ha ancora capito che Israele era e resta sotto tiro

Nessun'altra nazione al mondo affronta una quantità di minacce alla sua esistenza come quelle che ogni giorno affronta Israele. L'unico stato ebraico al mondo è anche quello più precario. Geograficamente piccolo, Israele è circondato da teocrazie che rifiutano la sua esistenza come una "nakba" - una catastrofe - e ne reclamano la distruzione. Per realizzare questa perversa ambizione, gli islamici anti-israeliani hanno mobilitato tre forze armate missilistiche, pienamente devote alla causa di cancellare Israele dalla faccia della terra.
    La prima e più aggressiva tra loro è stanziata a Gaza; si tratta di Hamas, un partito religioso e fanatico ufficialmente impegnato nella missione di distruggere Israele e uccidere i suoi ebrei. Hamas è una creazione della Fratellanza musulmana, l'ispiratrice di al-Qaeda e della jihad globale, il cui motto ufficiale recita: "La morte al servizio di Allah è la nostra più grande aspirazione". A Gaza, Hamas ha creato uno stato terrorista e un culto nazionale della morte che culmina nell'elogio del martirio, il cui scopo è dichiarato apertamente in un proclama indirizzato direttamente ai "nostri figli": "Gli ebrei - fratelli delle scimmie, assassini del profeta, succhiatori di sangue, guerrafondai - vi stanno uccidendo, vi privano della vita dopo avervi preso la vostra terra e le vostre case. Solo l'Islam può spezzare gli ebrei e distruggere il loro sogno".
    Dato che la passione che muove i militanti di Hamas è l'odio verso gli ebrei, non è stata una sorpresa la risposta da loro data nel 2005 al ritiro unilaterale di Israele da Gaza. Lungi dal salutarlo come un gesto di pace, Hamas l'ha interpretato come una resa ai suoi attacchi terroristici, e come un'opportunità per intensificarli. Nei giorni e nei mesi seguiti al ritiro, Hamas ha lanciato 6.500 attacchi missilistici non provocati su città e scuole israeliane, prima che Israele decidesse di rispondere.
    Al confine orientale di Israele c'è la West Bank, terra delle brigate dei martiri di al-Aqsa, del Fronte di liberazione palestinese e di altri gruppi terroristici, armati e protetti dai cosiddetti "moderati" dell'Autorità palestinese. Come Hamas, l'Autorità palestinese rifiuta ufficialmente l'esistenza di Israele e il diritto dei suoi ebrei all'autodeterminazione. Come Hamas, l'Autorità palestinese insegna ai bambini che frequentano le sue scuole ad odiare gli ebrei e ad ambire ad ammazzarli, compiendo il martirio. Per riuscire in questo intento genocida, tutti gli scolari palestinesi studiano mappe geografiche della regione che riportano i luoghi da dove gli israeliani sono stati cancellati.
    Al nord di Israele, in Libano, c'è Hezbollah, il "Partito di Dio", che sta ammassando decine di migliaia di missili iraniani in vista della guerra di annientamento che ha promesso di scatenare un giorno contro lo stato ebraico. Creata dalla Guardia repubblicana irachena e rifornita dalla dittatura siriana (ufficialmente) "fascista", Hezbollah è il più grande esercito terrorista del mondo. Come Hamas, ha reso espliciti il suo odio verso Israele e i suoi piani nei suoi confronti ("finiremo il lavoro iniziato da Hitler"). Il suo fanatico leader, Hassan Nasrallah, guida migliaia di fedeli in cantiche che recitano "Morte a Israele! Morte all'America!". Tra le sue frasi: "Se gli ebrei si riuniscono tutti in Israele, ci risparmieranno la fatica di andarli a cercare in giro per il mondo". Sotto lo sguardo complice dei "peacekeepers" dell'Onu, Hamas continua ad ammassare missili il cui unico scopo è la cancellazione di Israele. Nel maggio del 2006, Nasrallah proclamò: "Oggi tutta Israele è alla nostra portata. Porti, basi militari, fabbriche: tutto è entro il nostro raggio".
    Ma è lo sponsor di Hezbollah, lo stato totalitario - e presto nucleare - dell'Iran, il più minaccioso pericolo per l'esistenza di Israele. I suoi dittatori dalle mani lorde di sangue hanno inseguito la distruzione di Israele sin dal 1979, quando l'Iran divenne una repubblica islamica e il suo governante teocratico, l'Ayatollah Khomeini, identificò Israele e l'America come "il piccolo Satana" e "il grande Satana". Il suo ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani ha pubblicamente annunciato il suo sostegno a una guerra nucleare contro la stato ebraico, in base al ragionamento secondo cui, essendo l'Iran settanta volte l'estensione di Israele, potrebbe sopportare un duello nucleare con quel paese, che ne uscirebbe invece distrutto.
    L'attuale leader iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, si è anche lui espresso nell'auspicio che America e Israele siano "spazzati via dalla carta geografica", senza che ciò provocasse alcun dissenso nei 56 stati che compongono la Conferenza islamica. I dilettanti di semantica insistono nel dire che le parole di Ahmadinejad sono state mal tradotte, e che quel che egli voleva effettivamente dire era che America e Israele devono essere "cancellati dalle pagine della storia". Si tratta di una distinzione irrilevante. Che altro vorrebbe dire quella frase, se non che America e Israele non debbano continuare a esistere? Nel frattempo, l'Iran continua nella costruzione di missili nucleari a lungo raggio che non possono essere usati che per uno scopo, e nessun serio sforzo di contrastare una tale ambizione è stato fatto dalla comunità internazionale o dagli Stati Uniti.
    In effetti, dove sta la comunità internazionale di fronte a questa sfrontata preparazione di un secondo Olocausto? Sin dalla creazione dello stato di Israele, nel 1948, gli stati arabi hanno condotto tre guerre d'aggressione convenzionali, non provocate, contro di esso, insieme con una ininterrotta guerra terroristica iniziata nel 1949. Eppure, tra il 1948 e il 2004, ci sono state 322 risoluzioni dell'Assemblea generale dell'Onu che hanno condannato la vittima, Israele; nessuna che abbia condannato uno stato arabo.
    Le Nazioni Unite sono oggi dominate dalla Conferenza islamica, un gruppo fondato nel 1969 nel corso di un incontro indetto in risposta - come si legge sul suo sito web - "del rogo criminale della moschea di al-Aqsa nella Gerusalemme occupata". In altri termini, in risposta a quei criminali di ebrei. La Conferenza islamica emette regolarmente risoluzioni unilaterali di condanna ad Israele, in particolare dei suoi sforzi di combattere il terrorismo palestinese e di stroncare il traffico di armi attraverso Gaza. Il più conosciuto attacco delle Nazioni Unite a Israele è il Goldstone Report, commissionato dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu nel settembre del 2009, in cui Israele viene condannata per la sua tardiva reazione agli attacchi missilistici non provocati di Hamas.
    
    
2. Obama tratta Netanyahu come se fosse un dittatore del terzo mondo

Basandosi su testimonianze rese dai terroristi di Hamas, il rapporto Goldstone sostiene che Israele abbia deliberatamente preso di mira i civili palestinesi, e si sia macchiato di crimini di guerra a Gaza. Al di fuori del perimetro della propaganda islamica, tuttavia, Israele ha la reputazione di una nazione eccezionalmente protettiva verso i civili nemici. Secondo testimonianze ignorate dal Goldstone Report, per esempio, il colonnello Richard Kemp, già comandante delle forze britanniche in Afghanistan, ha dichiarato: "Durante l'operazione Cast Lead [Piombo fuso, la risposta israeliana agli attacchi di Hamas] le forze di difesa israeliane per la salvaguardia dei civili in zona di combattimento hanno fatto più che qualsiasi altra forza armata nella storia della guerra".
    Hamas, al contrario, è nota per costruire i suoi centri di comando militari sotto ospedali, per piazzare le proprie unità militari nel campi profughi, e per utilizzare donne e bambini come scudi umani. I razzi di Hamas sono noti per la loro imprecisione: non è possibile indirizzarli verso obiettivi militari, possono essere impiegati solo contro obiettivi civili. Per di più, dato che la guerra di Hamas contro Israele era una risposta al ritiro unilaterale di Israele, quella guerra è stata un'aggressione criminale alla quale vanno ascritte tutte le successive vittime; un fatto su cui il rapporto Goldstone e il Consiglio Onu dei diritti umani si sono premurati di sorvolare.
    Il Consiglio per i diritti umani è stato creato nel 2006. Nel suo primo anno, ha citato un'unica nazione per aver violato i diritti umani: Israele. L'ha condannata nonostante il fatto che sia l'unico paese del Medio Oriente dove i diritti umani sono riconosciuti e protetti. Nessun'altra delle 194 nazioni del mondo è stata mai citata, neanche la Corea del Nord, la Birmania e l'Iran - l'ultima delle quali impicca gli omosessuali in pubblico per il delitto di aver trasgredito ai precetti sessuali del Corano. Il motivo di questa svista non è un mistero. Il Consiglio è stato presieduto da rappresentanti di paesi dove i diritti umani vengono brutalmente violati, paesi come Libia, Cina, Arabia Saudita, Cuba; ed è stato proprio a causa di tale travisamento di ciò che il Consiglio è rispetto al nome che porta, che gli Stati Uniti lo hanno regolarmente boicottato; fino a quando Barack Obama non ha deciso, quest'anno, di entrare a farne parte. Questa decisione da parte dell'amministrazione Obama, insieme alle aperture verso la Siria, l'Iran e altri regimi velenosi, ha dato un sigillo di legittimità all'ipocrisia di quell'istituzione, e ne ha incoraggiato la cattiva fede.
    Nel mezzo di questi sinistri sviluppi, il mondo sta assistendo a un ritorno degli anni Trenta, quando i nazisti escogitarono la "soluzione finale" del "problema ebraico", e il mondo civilizzato non fece nulla per bloccarne l'esecuzione. Questa volta, la soluzione finale viene proposta apertamente di fronte all'intera comunità internazionale, che non sembra scomporsi di fronte a una simile eventualità. Ha voltato le spalle agli ebrei, e si rifiuta di riconoscere la gravità del problema. Per di più, facendo rispettare la finzione secondo la quale sarebbe in corso un "processo di pace" che deve essere mediato tra le parti, e ignorando la palese preparazione della distruzione di Israele da parte dei palestinesi, i "peacemakers" offrono il loro sostegno a questi progetti mortali.
    Per decenni, Israele si è ritrovato isolato nella comunità internazionale, con una sola, fondamentale eccezione: gli Stati Uniti, la nazione alla quale si è affidato per sopravvivere durante il difficile periodo degli anni Sessanta. Qualunque nazione avesse voluto aggredire Israele, sapeva che dietro quel paese c'era la più grande superpotenza del mondo, che non avrebbe permesso la distruzione dello stato ebraico. Qualunque governo avesse nutrito cattive intenzioni verso Israele, doveva riconoscere il fatto che gli Usa sarebbero stati suoi avversari. Qualunque voto di condanna alle Nazioni Unite doveva affrontare il veto della stessa nazione che forniva a Israele sostegno finanziario. Fino a oggi.
    Come recita un recente dispaccio della Reuters, "con Barack Obama, gli Stati Uniti non garantiscono più a Israele un sostegno automatico in sede Onu, dove lo stato ebraico affronta un costante bombardamento di critiche e condanne. Il sottile ma evidente cambiamento nell'atteggiamento statunitense verso il suo alleato mediorientale arriva nel mezzo di quella che per diversi analisti è una delle più gravi crisi nelle relazioni Usa-Israele degli ultimi anni".
    Tale cambio si manifesto con chiarezza durante la visita ufficiale del vicepresidente Biden a Gerusalemme. Il 9 marzo, il vicepresidente arrivò a un pranzo che si teneva nella casa del primo ministro Benjamin Netanyahu con quasi due ore di ritardo. Non fu un incidente, ma una calcolata mossa diplomatica - per la precisione, fu una punizione per l'annuncio israeliano del piano per la costruzione di 1.600 nuove abitazioni nel settore ebraico di Gerusalemme Est. L'annuncio arrivò proprio durante la visita di Biden, che ne restò imbarazzato.
    In realtà quell'annuncio fu un atto automatico, il quarto passo di un iter burocratico in sette fasi per l'approvazione di nuove costruzioni. Il momento scelto per farlo potrebbe sembrare inopportuno, però la costruzione di nuove case in un quartiere ebraico di Gerusalemme non dovrebbe essere una questione in grado di creare problemi, tanto meno portare a una rottura tra alleati. Nonostante tutto, i funzionari israeliani, consapevoli della loro dipendenza dai loro partner americani, si sono subito scusati di ogni eventuale offesa.
    Ma l'amministrazione Obama non le ha accettate. Prima sono arrivate dure critiche a Israele da parte di alti funzionari Usa, poi la crisi si è inasprita. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha rimproverato Netanyahu, definendo l'annuncio di Israele un "segnale profondamente negativo" per le relazioni Israele-Usa. Daniel Axelrod, tra i principali consiglieri di Obama, ha ribadito il rimprovero di fronte all'audience americana, manifestando il disappunto dell'amministrazione in tv. Parlando dell'annuncio israeliano come di un "affronto" e un "insulto", Axelrod ha affermato che Israele ha reso il "processo di pace" con i palestinesi "assai più difficile".
    Mentre l'annuncio israeliano sulle nuove case è stato fatto senza che Netanyahu ne fosse a conoscenza, la risposta di Washington è stata dettata dal presidente Obama. Quando, il mese dopo, il primo ministro è arrivato negli Stati Uniti per un incontro con il presidente, non si è tenuta alcuna cerimonia nel Giardino delle rose della Casa Bianca, né si è posato per i fotografi della stampa - i tradizionali gesti di cortesia verso i capi di stato di nazioni amiche.
    L'accoglienza in privato è stata almeno altrettanto fredda. Quando Netanyahu è arrivato alla Casa Bianca per quello che pensava sarebbe stato un pranzo con il presidente, Obama è stato estremamente diretto: gli ha presentato una lista di richieste - tra le quali quella che Israele sospenda le costruzioni di case a Gerusalemme Est - e ha bruscamente lasciato il suo ospite, per andare a pranzare con la moglie e le figlie nell'ala residenziale della Casa Bianca. Al momento di andarsene, Obama disse al suo stupefatto visitatore che sarebbe stato "lì intorno" nel caso il primo ministro cambiasse idea. Come riportato più tardi dalla stampa israeliana, "non c'è stato alcun tentativo che gli americani abbiano trascurato pur di umiliare il primo ministro e il suo entourage". Jackson Diehl, opinionista ed esperto di Medio Oriente del Washington Post, è stato ancor più caustico, scrivendo che "Netanyahu viene trattato [da Obama] come se fosse uno sgradevole dittatore del terzo mondo".
    
    
3. Obama ha creduto alle rivendicazioni arabe su Gerusalemme

Contrariamente a quanto sostiene la Casa Bianca, secondo cui Israele sta mettendo in pericolo la pace invadendo un territorio conteso, il sito scelto per costruire è tutto tranne che territorio conteso. Gerusalemme è la capitale di Israele, e il luogo scelto per costruire è Ramat Shlomo, un quartiere ebraico. La costruzione di abitazioni è in corso a Ramat Shlomo sin dai primi anni '90, e quel quartiere rimarrà parte di Israele sotto qualunque accordo di pace immaginabile. Di conseguenza, quando Netanyahu, spinto dalla pressione internazionale, si era detto d'accordo su un congelamento di dieci mesi per gli insediamenti nei territori contesi, aveva escluso Gerusalemme da tale intesa. Perciò, insistendo che Israele sospenda ogni costruzione in Gerusalemme Est, è l'amministrazione Obama, non Israele, a non rispettare i patti, e ad aprire il centro politico di Israele alle rivendicazioni dei palestinesi.
    Opponendosi alle costruzioni israeliane in un quartiere ebraico di Gerusalemme, l'amministrazione Obama fa sua una versione della storia mediorientale che la pone automaticamente dalla parte degli arabi nella loro guerra allo stato ebraico. Secondo il punto di vista arabo, Gerusalemme occupa un posto centrale nella storia dei musulmani e degli arabi; la stessa tradizione la vede come la capitale di un futuro stato palestinese. Ma la centralità spirituale di Gerusalemme per i musulmani è, in realtà, una rivendicazione relativamente recente e ambigua, mentre le rivendicazioni religiose sono conseguenza delle conquiste militari musulmane.
    Il profeta Maometto non visitò mai Gerusalemme, di conseguenza quella città non è mai menzionata nel Corano. Al giorno d'oggi anche gli islamici la considerano soltanto come la terza tra le città sante, dopo La Mecca e Medina. Non è mai stata la capitale di alcuno stato arabo. In effetti, per secoli Gerusalemme è stata per molti arabi una città dimenticata, e venne lasciata andare in rovina sotto l'Impero ottomano, che durò fino alla creazione di Israele e della Giordania, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In una visita a Gerusalemme nel 1867, Mark Twain si lamentava che la città "ha perso tutta la sua grandezza, è diventata un povero villaggio". Quando la Giordania occupò Gerusalemme, tra il 1948 e il 1967, la città fu trattata come un acquartieramento di confine. Solo un leader arabo, il re del Marocco Hassan, si preoccupò di fare una visita in una città per la quale adesso i musulmani invocano la jihad contro Israele,



affermando che è parte essenziale della loro storia.
    L'improvvisa rottura nelle relazioni Usa-Israele ha colto il governo israeliano di sorpresa. Osservatori più attenti agli atti dell'attuale amministrazione statunitense l'avrebbero giudicata nient'altro che la logica conclusione di una serie di eventi accaduti da quando Obama è emerso come autorevole candidato alla presidenza degli Stati Uniti, nel 2008. C'è stata una successione di gesti che ha segnato un profondo cambiamento nella politica americana, spostandola verso il mondo musulmano e quelli che sono i suoi nemici tradizionali, e allontanandola da alleati come Israele.
    Il primo segnale di questo cambiamento si vide nel dibattito presidenziale del febbraio 2008, quando Obama cercò di distinguersi da Hillary Clinton, allora sua avversaria, annunciando che, a differenza di lei, aveva intenzione di incontrarsi con governi ostili "senza precondizioni". Era una posizione che giustificò asserendo che è fondamentale per gli Stati Uniti "parlare con i propri nemici". Si è trattato di uno dei rari esempi di promessa elettorale mantenuta dall'attuale presidente.
    Appena entrato alla Casa Bianca, Obama introdusse un nuovo atteggiamento verso il mondo arabo e musulmano. La sua prima chiamata dallo Studio Ovale a un leader straniero fu al presidente palestinese Mahmoud Abbas, e non si trattò di uno sforzo di convincere Abbas a togliere il suo appoggio al terrorismo, o la sua opposizione all'esistenza di uno stato ebraico. Una delle prime interviste date da Obama nella veste di presidente è stata concessa, nel gennaio 2009, alla televisione araba di Dubai al-Arabiya. In quell'occasione, Obama pronunciò un discorso di scuse al mondo arabo per presunti misfatti americani. Assicurò il proprio interlocutore che con lui alla presidenza, gli stati arabi potevano guardare all'America come a uno stato amico. "Il mio impegno verso il mondo musulmano è far sapere che gli americani non sono nemici" disse Obama, aggiungendo che gli Stati Uniti "qualche volta fanno errori. Non siamo stati perfetti".
    Fu l'annuncio di un ampio tour mondiale delle scuse per i peccati dell'America. Nell'aprile del 2009, Obama visitò la Turchia, un alleato Nato che si stava rapidamente trasformando in uno stato islamico. Parlando al Parlamento turco, salutò la Turchia come "collaboratore fedele", suggerendo che l'amico inaffidabile fossero gli Stati Uniti. In un attacco neanche così indiretto al presidente Bush, Obama espresse il suo rammarico per le "difficoltà di questi ultimi anni", riferendosi al raffreddarsi delle relazioni bilaterali provocato dal rifiuto della Turchia di permettere alle forze armate Usa di schierarsi sul suo territorio durante la guerra in Iraq. Obama ha biasimato il fatto che "la fiducia che ci lega è stata logorata, e sono consapevole che quel deterioramento è condiviso in molti luoghi ove si professa la fede musulmana". In altre parole, il rifiuto della Turchia di aiutare l'America a sostenere i cittadini musulmani dell'Iraq e a rovesciare un'odiosa tirannia è stata una risposta al pregiudizio americano verso i musulmani.
    
    
4. La propaganda araba su Israele (e l'Olocausto) ha colpito anche Obama

Nella sua rassegna di antiche doglianze, Obama non ha menzionato i milioni di musulmani - inclusi i palestinesi della West Bank, a Gaza - che hanno gioito per l'attacco all'America dell'11/9 perpetrato da fanatici islamici. Né si è lamentato per il fiorire di teorie complottiste anti-israeliane e anti-americane legate a quell'attacco verificatosi nel mondo musulmano, anche in Turchia. Ancora nel 2008, i sondaggi rivelavano che il numero dei turchi che indicavano Usa o Israele quali mandanti dell'11 settembre era tanto alto quanto quello dei turchi che davano la colpa a Osama bin Laden e al-Qaeda: in entrambi i casi, 39%.
    Ancor più inquietante è stato il fatto che Obama abbia utilizzato la sua visita in Turchia per rompere con la politica Usa di trattare le nazioni che ospitano terroristi come nazioni nemiche. Il presidente Bush aveva dichiarato che non c'è spazio per la neutralità nella guerra contro il terrore: "O siete con noi, o contro di noi". Ma Obama adesso rassicura i suoi ascoltatori in Turchia e in tutto il mondo musulmano che i loro governi non devono più fare una scelta tra America e al-Qaeda. "Le relazioni americane con il mondo musulmano - ha detto Obama - non possono e non debbono essere basate sull'opposizione ad al-Qaeda".
    La compiacenza di Obama verso la sensibilità araba e musulmana era già stata mostrata in modo alquanto imbarazzante qualche giorno prima, quando compì il gesto, senza precedenti per un presidente degli Stati Uniti, di fare un profondo inchino di fronte al re saudita Abdullah, sovrano di una nazione in cui è illegale portare con sé una Bibbia o costruire una chiesa, e dove alle donne non è permesso portare automobili. L'incidente ebbe luogo al summit economico del G-20 a Londra. Quando arrivarono le critiche per quel gesto di sottomissione al despota arabo, l'amministrazione fu colta di sorpresa e tentò di negare che la cosa fosse mai avvenuta. Purtroppo per la Casa Bianca, una telecamera aveva ripreso la scena.
    Lo spostamento di Washington verso il mondo arabo entrò in una nuova fase due mesi più tardi, con il discorso di Obama al Cairo. Da una parte, il presidente difese le campagne militari in Medio Oriente in quanto "imposte dalle circostanze", condannò la negazione dell'Olocausto e l'odio verso gli ebrei di cui trabocca il mondo arabo (e che i governi arabi promuovono), e si appellò ai palestinesi perché abbandonino la violenza contro Israele. Ma queste dichiarazioni sono state accompagnate da altre che appaiono particolarmente inquietanti alla luce delle mosse fatte in seguito dalla Casa Bianca.
    Mentre Obama condannava, giustamente, l'Olocausto, lasciava però l'impressione che la legittimità di Israele derivi unicamente dall'eredità lasciata dall'antisemitismo europeo e dallo sterminio nazista di sei milioni di ebrei. Ciò riecheggia la propaganda araba secondo cui Israele è un problema creato dagli europei, e imposto arbitrariamente al mondo arabo. Ancora una volta Obama stava rilanciando un mito arabo volto a delegittimare lo stato di Israele.
    L'Olocausto non è soltanto un'eredità europea. Stati mediorientali come Iran e Iraq si schierarono apertamente con Hitler; generali arabi servirono sotto Rommel, il comandante nazista in Africa; e lo sterminio degli ebrei ebbe il plauso e l'attiva collaborazione di capi arabi. Il fondatore della Fratellanza musulmana, Hassan al-Banna, era un ammiratore di Hitler e nel 1930 aveva adottato una traduzione in arabo del Mein Kampf come testo per i suoi discepoli. Haj Amin al-Husseini, il Grand Mufti di Gerusalemme nonché fondatore del nazionalismo palestinese, era un attivo e vociante sostenitore della "soluzione finale" nazista, e passò gli anni della guerra a Berlino reclutando arabi per la causa del Terzo Reich. Al-Husseini, un uomo il cui nome nella West Bank è riverito come se si trattasse del George Washington della causa palestinese, organizzò pogrom anti ebraici negli anni Venti e Trenta, progettò la realizzazione di un suo personale Auschwitz nel Medio Oriente, e venne bloccato nei suoi intenti soltanto dalla sconfitta di Rommel a El Alamein.
    Il ritornello arabo secondo cui Israele non è altro che un tentativo dell'Europa di scaricare i suoi problemi sulle spalle degli arabi non tiene conto - come Obama - del fatto che Gerusalemme è stata la capitale spirituale del popolo ebraico per quasi tremila anni, e che gli ebrei hanno vissuto nella loro patria storica senza interruzione nel corso dei secoli. Gerusalemme è al centro della tradizione spirituale ebraica, e gli ebrei sono stati la sua più numerosa comunità religiosa sin dal 1864. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato storicamente preciso quando ha ammonito Obama, dicendo che "il popolo ebraico stava costruendo Gerusalemme tremila anni fa, e la sta costruendo adesso. Gerusalemme non è un insediamento. E' la nostra capitale". Nel suo discorso del Cairo, Obama ha anche mostrato scarsa considerazione per la storia moderna di Israele, una nazione che non è stata costruita su terra araba - e ancor meno palestinese. Lo stato di Israele venne creato sulle rovine dell'impero turco.
    Nel 1922, la Gran Bretagna creò la Giordania, che racchiudeva l'80 per cento del Mandato di Palestina - una designazione geografica, non etnica. Il territorio del Mandato, nei quattro secoli precedenti, aveva fatto parte dell'impero turco (e non arabo). Poi, nel 1948, un "piano di divisione" dell'Onu distribuì la parte restante del Mandato agli arabi e agli ebrei che vivevano lungo le sponde del Giordano. Il piano, in definitiva, assegnava il 10% del Mandato di Palestina agli ebrei, il 90% agli arabi. Nulla di quelle terre è mai appartenuta a una nazione "palestinese", o a una qualsiasi entità palestinese. Nei precedenti quattrocento anni non vi fu mai una provincia ottomana chiamata "Palestina". L'intera regione su cui sorsero Giordania, Iraq, Libano, Siria, Israele, Gaza e la West Bank era conosciuta semplicemente come "Siria ottomana".
    In quello che poi divenne uno schema consueto, gli ebrei accettarono i termini grossolanamente iniqui di tale divisione. La loro fetta di territorio consisteva in tre regioni separate, il 60 per cento delle quali erano deserto. Gli arabi, che già avevano avuto l'80% del Mandato, rifiutarono l'ulteriore parte di terra che era stata loro assegnata, come avrebbero in seguito rifiutato qualsiasi accomodamento suscettibile di legittimare l'esistenza di uno stato ebraico.
    
    
5. Con quale diritto Obama chiede altre concessioni a Israele?

Senza perdere tempo, cinque nazioni arabe scatenarono una guerra contro Israele, il quale respinse gli attacchi e stabilì uno stato ebraico. Quando i combattimenti cessarono, la parte di terra destinata agli arabi - la West Bank e Gaza - furono annesse da Giordania ed Egitto, e scomparvero dalle mappe. Non ci fu alcuna protesta del mondo arabo per il dissolvimento della "Palestina" nella Giordania e nell'Egitto, né ci fu un Olp, né proteste all'Onu.
    La ragione di quel silenzio è che non c'era alcuna identità palestinese in quell'epoca, nessun movimento per la "autodeterminazione", nessun "popolo palestinese" che avesse qualcosa da reclamare. C'erano arabi che vivevano nella valle del Giordano, e che si consideravano semplicemente come abitanti della Giordania o della provincia siriana dello scomparso impero ottomano. La scomparsa della West Bank e di Gaza era un'annessione di terra araba a stati arabi.
    Il revisionismo tanto arabo che occidentale ha ribaltato questi fatti dipingendo la guerra ebraica per la sopravvivenza come un complotto razzista e imperialista per espellere i "palestinesi" dalla "Palestina". Si tratta di una distorsione assoluta della storia. Il termine "Mandato di Palestina" non è altro che un riferimento europeo a una regione geografica dello scomparso impero turco. L'affermazione secondo cui c'era una nazione palestinese da cui un popolo etnicamente palestinese è stato scacciato, e che adesso è "occupata" illegalmente da Israele, è una bugia politica.
    Nel 1967, gli stati arabi attaccarono nuovamente Israele, con l'intento dichiarato di "buttare gli ebrei in mare". Vennero sconfitti un'altra volta. E ancora un'altra volta, la sconfitta non consigliò agli stati arabi di fare la pace o di abbandonare gli sforzi per distruggere Israele. Nel summit dell'agosto 1967, a Khartoum, i leader arabi dichiararono che non avrebbero accettato "nessuna pace, nessun riconoscimento, nessun negoziato" con Israele. E' questa la guerra araba perpetua contro Israele. E' una guerra alimentata da odio etnico e religioso, che è la sola vera causa di conflitto in Medio Oriente.
    Non deve sorprendere, allora, che Israele consideri con scetticismo la richiesta araba secondo cui Israele debba concedere territori - quei territori che ha occupato difendendosi dall'aggressione araba - sulla fiducia, ossia prima di una dichiarazione di riconoscimento dell'esistenza dello stato ebraico. Come ha detto Netanyahu, "che razza di posizione morale è quella secondo cui l'aggressore debba riavere indietro i territori da cui ha lanciato il suo attacco?". E infatti, a nessun'altra nazione che sia stata vittima - anzi, vittima più volte - di aggressioni, è stato chiesto un gesto del genere.
    Eppure tali concessioni sono esattamente quello che l'amministrazione Obama chiede come precondizione della pace, apparentemente in base all'assunto secondo cui soltanto se Israele fa qualche altra concessione ai palestinesi, allora la pace diventerà possibile. Un assunto che se ne vola via di fronte a sessant'anni di continue aggressioni arabe, tra le quali incessanti attacchi terroristici ai civili e la volontà dichiarata di spazzar via lo stato ebraico.
    La stessa idea che gli insediamenti israeliani (figurarsi le case israeliane in quartieri israeliani) siano un ostacolo alla pace è un ulteriore modo per perpetrare il mito alla base della causa araba. Ci sono milioni di arabi insediati in Israele, dove godono di maggiori diritti che non i cittadini arabi di un qualunque stato arabo musulmano. Allora, perché mai gli insediamenti di qualche migliaio di ebrei nella West Bank sono un problema? L'unica risposta possibile è l'odio verso gli ebrei, il desiderio di rendere la West Bank Judenrein ("senza ebrei" in tedesco, n.d.t.) e completare la sessantennale campagna araba per buttare a mare gli israeliani.
    L'insistenza dell'amministrazione Obama affinché Israele abbandoni gli insediamenti e ammetta che la sua capitale è territorio conteso alimenta il razzismo soggiacente alla causa araba, e compromette la capacità degli israeliani di resistere all'attacco genocida contro di loro. Le pressioni della Casa Bianca non possono promuovere negoziati di pace, quando una delle due parti è dichiaratamente intenzionata a distruggere Israele e ha già dimostrato che rifiuterà anche la più generosa delle concessioni.
    Subito dopo l'attacco dell'amministrazione Obama a Israele sui progetti abitativi a Gerusalemme, i palestinesi hanno denunciato l'intransigenza israeliana come la ragione per chiamarsi fuori dai negoziati di pace indiretti allora in corso. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas dichiarò che si rifiutava di entrare in colloqui diretti con Israele a meno che questa non congelasse le costruzioni nella sua capitale. I palestinesi in precedenza avevano partecipato a negoziati senza porre una tale condizione ma, come qualcuno ha acutamente osservato, "come può la posizione palestinese rispetto a Israele essere più morbida di quella americana? Ovviamente i palestinesi avrebbero dovuto costringere Israele a confrontarsi con i nuovi standard stabiliti dall'amministrazione Obama". E' questo il modo in cui la Casa Bianca sostiene gli sforzi arabi per smantellare lo stato ebraico.
    Osservatori di questo inquietante sviluppo hanno ammonito che, attaccando Israele sugli insediamenti, l'amministrazione Usa stava incoraggiando una reazione violenta, che potrebbe sfociare in una terza Intifada. Un manifestante arabo che parlava ebraico, intervistato dalla radio israeliana, chiamava alla resistenza armata contro "l'assalto a Gerusalemme" di Israele, dichiarando che era giunto il momento di una nuova Intifada.
    L'appello fu raccolto da Hamas, che dichiarò un "giorno di furia" in cui scagliarsi contro Israele. I dimostranti arabi invasero le strade, presero a sassate gli autobus, le auto, la polizia, e si scontrarono con le forze di sicurezza israeliane. Sulla Highway 443, che unisce Gerusalemme con la città di Modi'in, arabi israeliani hanno tirato bombe molotov ai mezzi di passaggio, ferendo un padre e il suo bimbo di nove mesi. I parlamentari arabi nella Knesset hanno ulteriormente soffiato sul fuoco. Riecheggiando l'amministrazione Obama, uno di loro ha detto: "Chiunque costruisca insediamenti a Gerusalemme scava una tomba per la pace".


(*) David Horowitz è il fondatore del David Horowitz Freedom Center, Jacob Laksin è "managing editor" di Frontpage Magazine

Tratto da National Review
Traduzione di Enrico De Simone


(l'Occidentale, 16-20 agosto 2010)





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