I giorni dell'uomo son come l'erba; egli fiorisce come il fiore del campo; se un vento gli passa sopra ei non è più, e il luogo dov'era non lo riconosce più. Ma la benignità dell'Eterno dura ab eterno e in eterno, sopra quelli che lo temono.
Salmo 103:15-17

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Jewish Dance
























L'ultima generazione «cristiana»?

Nel mondo occidentale attuale, i cambiamenti avvengono così rapidamente che molti credenti ancora non si rendono conto di ciò che sta loro accadendo. Tuttavia l'inevitabile è diventato veramente imminente. Un invito a risvegliarsi.

di René Malgo

 
Israel Folau è un giocatore di rugby australiano, che è stato espulso dalla squadra nazionale e dalla possibilità di giocare nel rugby league, perché su Instagram ha espresso il pensiero che gli omosessuali praticanti non erediteranno il Regno di Dio. Successivamente, si è iscritto al sito GoFundMe, per raccogliere offerte necessarie a pagare la sua battaglia legale. Che uno sportivo benestante raccolga denaro, può sembrare strano ma è stata molto più inquietante la reazione del sito web. Infatti GoFundMe permette a tutti di raccogliere denaro per qualsiasi idea, sia essa peccaminosa o meno; questa è la loro politica aziendale. Tuttavia, la raccolta di fondi da parte di Folau è stata scartata con il pretesto che egli avrebbe incitato all'odio.
   Negli ultimi anni, i tempi sono rapidamente mutati. Quando Barack Obama nel 2008 lanciò la sua prima campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, non osò perorare la causa del matrimonio fra individui dello stesso sesso. Questa idea era ancora considerata «indecente». Dieci anni dopo qualsiasi - anche la più moderata - opposizione ai matrimoni e alle relazioni omosessuali è diventata «indecente». Chi nella società occidentale fa anche il minimo cauto accenno alla peccaminosità dell'omosessualità o dubita della scientificità della ideologia gender, deve sempre fare i conti con il disprezzo pubblico e sempre più con la repressione penale.
   È in corso uno sconvolgimento, di cui molti cristiani occidentali nella quotidianità non si avvedono ancora correttamente. Dal punto di vista materiale le cose ci vanno bene. Siamo tutelati e viviamo in una
Quando Barack Obama nel 2008 lanciò la sua prima campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, non osò perorare la causa del matrimonio fra individui dello stesso sesso. Questa idea era ancora considerata «indecente».
democrazia che si suppone tollerante e pluralista. Le persone che ci circondano sono educate, gentili e per nulla ostili. Anche gli omosessuali che conosciamo personalmente si dimostrano cari ed affabili. Siamo ancora liberi di frequentare le nostre comunità quando, come e dove vogliamo. Gli altri ci lasciano vivere e noi lasciamo vivere gli altri. Potrebbe durare così per sempre ...
I segni dei tempi mostrano che le cose cambieranno. Nel Washington Post Nathaniel Frank scrive apertamente che l'eredità del movimento di liberazione omosessuale non è soltanto quella di far apparire gay, lesbiche e transessuali normali come tutti gli altri ma anche rendere tutti gli altri un po' più gay, lesbiche e transessuali (usa il termine «queer» che sta per tutta la gamma rappresentata dal c.d. movimento LGBTQ). A giugno soprattutto l'America ha celebrato il Gay Pride Month (mese dell'orgoglio omosessuale). I mezzi d'informazione occidentali, da un lato all'altro dell' Atlantico, hanno trasmesso una serie di notizie positive sulla liberazione degli omosessuali dalla schiavitù della antiquata pruderie.
   Ovunque, anche a Zurigo, sventolavano le bandiere arcobaleno e dominavano i variopinti colori del movimento LGBTQ. La celebrazione occidentale del mese del «PrIde» ha avuto chiaramente un carattere religioso. Un tempo la società occidentale digiunava per un mese per prepararsi alla festa di Pasqua o per un mese accendeva candele per prepararsi al Natale, così ora per un mese all'inizio dell'estate si celebrano con dedizione religiosa le opere che Cristo è venuto nel mondo per distruggere. Esattamente come gli Ebrei celebrano la loro liberazione dalla schiavitù in Egitto e come noi cristiani celebriamo la nostra liberazione dalla schiavitù della morte, del peccato, del diavolo, così festeggia ora il movimento LGBTQ la sua liberazione dalla «schiavitù» dei valori cristiani.
   Ciò che è stato allarmante del mese «Pride» non è tanto che non credenti si siano comportati come tali, come scrive il teologo battista Denny Burk ma che numerosi cristiani confessanti hanno pubblicamente espresso la loro approvazione senza riserve. Si sono affrettati ad issare essi stessi bandiere arcobaleno o a proclamare la loro illuminata vicinanza al movimento arcobaleno. Sono stati pronti a piegare le loro ginocchia al cospetto di «Baal».
   Due grandi temi nella nostra società sono diventati la cartina al tornasole dell'ortodossia secolare:
Chi nella società occidentale fa anche il minimo cauto accenno alla peccaminosità dell'omosessualità o dubita della scientificità della ideologia gender, deve sempre fare i conti con il disprezzo pubblico e sempre più con la repressione penale.
aborto e libertà sessuale senza limiti. Chi vuole stare al mondo deve accettare queste cose pubblicamente e con dedizione religiosa. Molti credenti sono pronti a questo pur di preservare il loro benessere e tranquillità. Altri come già detto ancora non hanno capito che cosa sta tuonando sul loro orizzonte. Si illudono ancora di vivere in un mondo «neutrale», dove si può essere cristiani in tutta tranquillità. Ma ciò non è più vero. Il mondo rimprovera costantemente ai cristiani di girare intorno ai temi dell'aborto e dell'omosessualità. La verità è diversa: la prima cosa che si chiede ad un cristiano non appena egli emerge dall'anonimato è la sua posizione rispetto ad entrambe le questioni. Poiché esse sono gli aspetti principali della nuova religione occidentale.
   Così come i cristiani venivano obbligati nel primo secolo a fare sacrifici all'imperatore romano, così oggi debbono offrire la loro alleanza alla «meretrice Babilonia» sull'altare dell'infanticidio e dell'ideologia gender. Molti lo fanno senza esitare. È come ai giorni dell'imperatore Decio, a metà del III secolo. Un tempo il cristianesimo era una minoranza tollerata ai margini della società. Nella multiculturalità romana andava piuttosto bene ai cristiani. Molti ricoprivano incarichi elevati. Ma improvvisamente esplose una sorprendente persecuzione ed i cittadini di Roma dovettero fare sacrifici all'imperatore e agli dei come segno della loro lealtà. Migliaia di cristiani abbandonarono la loro fede, in parte più in fretta della loro ombra - almeno così parve e venne riportato.
   Oggi ci troviamo in una situazione analoga. Ovviamente, non veniamo minacciati ora con la morte fisica ma sicuramente con quella sociale. Molte professioni non possono più essere esercitate da cristiani che vogliono vivere coerentemente la loro fede. Cosa deve fare ad esempio un poliziotto credente se - come in modo analogo è parzialmente avvenuto in Gran Bretagna - il datore di lavoro pubblico dispone che ogni poliziotto deve sfoggiare sulla divisa la spilla con la bandiera arcobaleno come espressione della sua approvazione dello stile di vita «queer»? Che ne è dei medici che debbono eseguire aborti o cambiamenti di sesso su bambini fisicamente sani?
   La maggior parte di noi vuole soltanto condurre una vita tranquilla, sicura e finanziariamente vantaggiosa. La fede viene intesa in senso terapeutico, come mezzo di auto-aiuto. Dio è un extra rispetto alla vita: l'assicurazione - ciò a cui ricorriamo quando le cose vanno storte. Che brutto risveglio ci sarà quando questo Dio onnipotente ora nella realtà e nella pratica ci richiederà di uscire dal campo della
Ciò che è stato allarmante del mese «Pride» non è tanto che non credenti si siano comportati come tali, come scrive il teologo battista Denny Burk ma che numerosi cristiani confessanti hanno pubblicamente espresso la loro approvazione senza riserve.
perversione mondana e di portare la Sua onta (Ebrei 13, 13)? L'allontanamento dalla fede, che è già in atto pienamente, aumenterà ancora ... e non si fermerà neppure davanti alle chiese libere che si affermano conservatrici. Presto, molto presto - se il Signore non interviene - costerà nuovamente qualcosa, per non dire tutto, essere cristiani.
Non scrivo questo perché amo seminare il panico o perché si tratti del mio tema favorito. Al contrario. Preferirei di gran lunga che lo sviluppo nella società parlasse un'altra lingua. Ma se scrivessi qualcosa di rassicurante sarebbe una menzogna. Nella comunità Chiamata di Mezzanotte, un tempo, predicava sempre un predicatore che quasi in ogni messaggio faceva riferimento a sofferenze e persecuzioni. Una persona mi disse apertamente e sinceramente di non gradire che parlasse costantemente di questi temi. Improvvisamente egli non parlò più di afflizioni. Oggi è in pensione. Questo messaggio non è amato ma è vero. E quanto prima possibile apriamo gli occhi alla realtà, meglio sarà per la nostra vita spirituale.
   Uno storico disse, una volta, che l'ultima generazione pagana dopo che l'impero romano era divenuto cristiano non aveva la più pallida idea che sarebbe stata effettivamente l'ultima. I pagani predicavano tolleranza, andavano d'accordo con i loro vicini cristiani ed ovunque intorno a loro vedevano ancora i loro templi dedicati agli idoli con i loro rituali. Non potevano immaginarsi che ciò sarebbe cambiato. Ma i cristiani la pensavano diversamente da loro. Una manciata di giovani uomini (e donne) zelanti - soprattutto Ambrogio di Milano - fecero di tutto per attuare l'adorazione dell'unico vero Dio in tutto l'impero romano. La loro dedizione incondizionata, per noi oggi in parte incomprensibile, portò frutti. Nel corso di una generazione molti templi vennero chiusi ed il paganesimo eliminato, quanto meno dalla vita pubblica.
   Oggi succede il contrario. Potremmo quasi chiamarla «la vendetta dei pagani». Siamo l'ultima generazione, almeno di nome, cristiana, cosa a cui il giornalista cattolico Rod Dreher (autore del libro "L'opzione Benedetto") non si stanca di far riferimento ... e molti di noi non se ne accorgono neppure. La maggior parte dei giovani progressisti che attivamente lottano per il movimento LGBTQ e l'aborto sono relativamente pochi. Ma essi consacrano tutta la loro forza e la loro vita per i loro «valori». È vero che gli sforzi dei progressisti sono autodistruttivi, ma dall'eredità incendiaria che essi lasciano sorgerà qualcosa di non cristiano, anzi di anticristiano (v. «L'ascesa dei populisti e il declino della
Cosa deve fare ad esempio un poliziotto credente se - come in modo analogo è parzialmente avvenuto in Gran Bretagna - il datore di lavoro pubblico dispone che ogni poliziotto deve sfoggiare sulla divisa la spilla con la bandiera arcobaleno come espressione della sua approvazione dello stile di vita «queer»??
Chiesa», Chiamata di Mezzanotte 07- 08/19). A differenza dei cristiani rilassati, i combattenti LGBTQ sono pronti a sacrificarsi per la loro causa - ed anche a combattere in modo «sporco» (cosa che naturalmente noi non dobbiamo fare). Qui non si tratta dell'omosessuale cortese e disponibile della porta accanto - che cerca solo di essere felice - ma degli aggressivi militanti dell'elite politica e mediatica della nostra cultura. Ed essi provocano lo stesso cambiamento radicale che, un tempo tra la fine del IV e l'inizio del V secolo portò alla sostituzione, nella sfera pubblica, dell'antiquato paganesimo ad opera del cristianesimo.
Cosa possiamo fare contro questo fenomeno? Non possiamo, in senso figurato, fuggire sui monti (cfr. Marco 13, 14). La Chiesa deve nuovamente diventare un'arca del timore di Dio. Noi siamo tenuti ad uscire (interiormente) dalla «meretrice Babilonia» al fine di non prendere parte ai suoi peccati (Apocalisse 18,4). Un tempo Giovanni esortò i cristiani dell'impero romano a fare questo (cfr. Apocalisse 2-3). Questo grido giunge fino a noi:
    «Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui. perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e l'orgoglio della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno. Fanciulli, è l'ultima ora. E, come avete udito, l'anticristo deve venire, e fin da ora sono sorti molti anticristi; da questo conosciamo che è l'ultima ora» (1 Giovanni 2, 15-18).
Ci dobbiamo nuovamente abituare alla verità della Parola di Dio: «tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesti saranno perseguitati» (2 Timoteo 3, 12). Dobbiamo adattarci a vivere nella povertà e nella morigeratezza - proprio come quelli che qui sulla terra sono solo stranieri e pellegrini.
Ci dobbiamo preparare alla sottrazione dei nostri bambini. In Svizzera, ad esempio, vengono approvate sempre più norme che facilitano notevolmente, all'autorità per la protezione dei minori, sottrarre bambini da famiglie che non si piegano ai dettami della società (pubblicamente si parla sempre di «famiglie disagiate» ma alcuni cristiani hanno già una cupa premonizione di come queste regole possano ancora essere applicate). Ci dobbiamo preparare al fatto che anziani e pastori che annunciano tutto il consiglio di
Ci dobbiamo nuovamente abituare alla verità della Parola di Dio: «tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesu saranno perseguitati». Dobbiamo adattarci a vivere nella povertà e nella morigeratezza - proprio come quelli che qui sulla terra sono solo stranieri e pellegrini.
Dio senza paura con l'amore finiscano in carcere. Ci dobbiamo preparare ad essere esclusi da posti di lavoro ben retribuiti e prestigiosi. Dobbiamo prepararci a pagare una sanzione pecuniaria dietro l'altra.
Riassumendo: saremo costretti a vivere di nuovo come i primi cristiani - tuttavia, e ciò è ancora peggio, in una società che un tempo ha conosciuto la fede sana e, consapevolmente e volontariamente, l'ha rigettata. Tuttavia, pare spesso che amiamo più il peccato del Signore e pertanto non vogliamo assolutamente ascoltare la verità. Un abbonamento a Netflix per noi è più importante di sacrificarci per la fede. Una serata al cinema è più importante di raccogliersi in preghiera con altri credenti. Un buon rapporto con il mondo ci sta più a cuore di stare uniti a Dio. La comodità conta per noi di più della consacrazione. Travestiamo la prima come «grazia», e la seconda come «legalismo». Tuttavia «è giunto il tempo che il giudizio cominci dalla casa di Dio, e se comincia prima da noi, quale sarà la fine di coloro che non ubbidiscono all'evangelo di Dio?» (1 Pietro 4, 17). Questo scriveva Pietro a cristiani perseguitati!
Anche la lettera agli Ebrei fa appello ai credenti oppressi:
    «Voi non avete ancora resistito fino al sangue, combattendo contro il peccato, e avete dimenticato l'esortazione che si rivolge a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non perderti d'animo quando sei da lui ripreso, perché il Signore corregge chi ama e flagella ogni figlio che gradisce». Se voi sostenete la correzione, Dio vi tratta come figli; qual è infatti il figlio che il padre non corregga? Ma se rimanete senza correzione, di cui tutti hanno avuta la parte loro, allora siete dei bastardi e non dei figli. Inoltre ben abbiamo avuto per correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo molto di più ora al Padre degli spiriti, per vivere? Costoro infatti ci corressero per pochi giorni, come sembrava loro bene, ma egli ci corregge per il nostro bene affinché siamo partecipi della sua santità. Ogni correzione infatti, sul momento, non sembra essere motivo di gioia ma di tristezza; dopo però rende un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati esercitati per mezzo suo» (Ebrei 12,4-11).
Riceviamo l'attacco che, con un elevato grado di certezza incombe su di noi, dalla mano del nostro Dio benigno, che possibilmente ci vuole trasformare ad immagine di Suo Figlio, fino al rapimento «sulle nuvole, per incontrare il Signore nell'aria; cosi saremo sempre col Signore. Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole» (1 Tessalonicesi 4, 17-18).
Tuttavia finché siamo qui vale questo:
    «Anche noi dunque, essendo circondati da un cosi gran numero di testimoni, deposto ogni peso e il peccato che ci sta sempre attorno allettandoci, corriamo con perseveranza la gara che ci è posta davanti, tenendo gli occhi su Cristo, autore e compitare della nostra fede, il quale, per la gioia che gli era posta davanti, soffri la croce disprezzando il vituperio e si è posto a sedere alla destra del trono di Dio. Ora considerate colui che sopportò una tale opposizione contro di sé da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate e veniate meno» (Ebrei 12, 1-3).
Maranatha, Signore nostro vieni!

(Chiamata di Mezzanotte, settembre/ottobre 2019)



Palermo, il lungomare dedicato a Yasser Arafat. L'ira della Lega: «Inopportuno»

L'inaugurazione alla presenza del nipote dell'ex leader dell'Olp, nonché Premio Nobel. «Un simbolo di pace nel Medio Oriente». Il sindaco Orlando: «Superò vecchie inimicizie».

di Salvo Toscano

L'inaugurazione c'è stata stamattina, con tanto di sventolio di bandiere palestinesi e sfoggio di kefiah. Da oggi un tratto del Foro Italico di Palermo porta il nome di Yasser Arafat, premio Nobel per la Pace. Oggi la cerimonia alla presenza del sindaco Leoluca Orlando, degli assessori Adham Darawsha, Giusto Catania, Roberto D'Agostino, Giovanna Marano e Maria Prestigiacomo, di alcuni consiglieri comunali e di circoscrizione. Ma a qualcuno la scelta non piace: la Lega ha espresso perplessità su questa intitolazione.

 L'iniziativa «Con la Palestina nel cuore»
  L'iniziativa è stata promossa dal Comune di Palermo, dalla Rete Palermitana di Solidarietà «Con la Palestina nel Cuore» e da CISS-Cooperazione Internazionale Sud Sud, e si inserisce tra quelle organizzate nel capoluogo siciliano per reclamare attenzione per i diritti dei palestinesi. «Palermo — ha dichiarato Orlando — nel 1996 ha intitolato una via della Città al Premio Nobel Yitzhak Rabin, ucciso nel 1995, e oggi un piazzale sul lungomare a Yasser Arafat, che con Rabin ha condiviso il Premio Nobel. Gli accordi di Oslo — ha continuato il primo cittadino — si devono al loro coraggio perché hanno compreso che la pace può superare e supera vecchie inimicizie tra i popoli. Sarebbe importante, e io nutro speranza — ha concluso Orlando — che si possa tornare allo spirito di Oslo e ad una duratura pace tra i popoli».

 Simbolo di pace nel Medio Oriente
  Alla cerimonia hanno preso parte anche Nasser Al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e presidente della Yasser Arafat Foundation (YAF), Fatima Baroudi, console generale del Marocco, Fateh Hamdan, rappresentante della Comunità palestinese in Sicilia e il presidente della Consulta delle Culture, Ibrahima Kobena. «È indicativo — ha dichiarato il nipote di Arafat — che una città come Palermo abbia scelto di onorare un posto così bello con il nome di Yasser Arafat, come simbolo di pace nel Medio Oriente e di riconciliazione tra due popoli: quello israeliano e quello palestinese». L'assessore Giusto Catania, già europarlamentare di Rifondazione comunista, commenta: «Oggi la nostra città rende omaggio al grande politico palestinese, un uomo che ha impegnato la sua vita per la pace tra i popoli. Un messaggio forte da una città che guarda al Mediterraneo e lavora quotidianamente per l'inclusione, la giustizia sociale e la contaminazione culturale».

 Le critiche
  Ma c'è chi non apprezza. «L'intitolazione del lungomare a Yasser Arafat da parte del Comune di Palermo mi pare quanto mai inopportuna — dice il capogruppo della Lega al consiglio comunale di Palermo Igor Gelarda —. Per quanto sia stato un personaggio famoso e per quanto abbia vinto il Nobel della Pace, è stato per lungo tempo a capo di una organizzazione terroristica, come l'Olp». E il leghista solleva una polemica politica contro il sindaco che da sempre si è esposto contro la linea di Matteo Salvini, entrando in aperto conflitto con il leader leghista nella sua stagione al Viminale: «Questo ci sembra l'ennesimo atto di sottomissione del sindaco Orlando verso il mondo islamico — continua Gelarda —, verso tutto quello che non è italiano. D'altra parte cosa si può aspettare da un sindaco che sostiene che Palermo è una città mediorientale? Ci sarebbe sembrato molto più giusto, da un punto di vista storico e per rispetto a chi ha perso la vita per difendere la patria, intitolare questo lungomare, ad esempio a tutti i caduti di Nassiriya».

(Corriere della Sera, 29 ottobre 2019)


L’omaggio di Palermo a un terrorista pentito. Pentito di aver usato le bombe per distruggere Israele e addolorato per non esserci riuscito, ci ha riprovato con la pace. I suoi epigoni lo rimpiangono, lo onorano e si accingono a seguire le sue orme. La pace, la pace, la pace: così oggi si prepara la distruzione di Israele. Questo ha insegnato il Maestro, premio Nobel per la pace, e questo i suoi epigoni si propongono di fare, sia pur nel loro piccolo. Piccolo, soprattutto. In molti sensi. M.C.


Gantz e Netanyahu torneranno ad incontrarsi

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È l'impegno preso tra il leader di Blu-Bianco incaricato di formare il governo e il premier uscente
Un primo scambio di idee e l'impegno a rincontrarsi a breve. Questo il risultato del primo faccia a faccia svoltasi il 27 ottobre al ministero della difesa a Tel Avi tra Benny Gantz, leader di Blu-Bianco che ha l'incarico di formare il governo, e il premier uscente Benyamin Netanyahu, capo del Likud.
Nell'incontro - hanno fatto sapere i due - si è «discusso delle varie possibilità politiche esistenti» e si è concordato che, oltre ad un nuovo appuntamento tra i leader, le rispettive delegazioni «resteranno in contatto».
Le delegazioni si sono incontrate questa mattina prima dei due leader e, secondo i media, le differenze tra i due schieramenti persistono. In particolare, i nodi riguardano, in un possibile governo di unità tra i due partiti, chi sarà il primo dei due leader, in un'eventuale rotazione, ad essere premier.
Il secondo punto è se il Likud, come chiede Blu-Bianco, è disposto ad abbandonare i partiti religiosi e quelli di destra che fanno parte della coalizione messa su da Netanyahu e dare vita al governo «liberale» di unità nazionale perseguito da Gantz.

(Corriere del Ticino, 28 ottobre 2019)


Antisemitismo, un pericolo sottovalutato

di Sergio Harari

Abbiamo peccato di superficialità nel sottovalutare l'odio antisemita, ma è qui, è sempre stato qui. E' un virus che nasce nella notte dei tempi e dal quale forse il mondo non guarirà mai. Talvolta è più manifesto, talvolta meno, ma scomparso mai. D'altra parte, Elie Wiesel, Nobel per la pace, sopravvissuto ai campi di sterminio si domandava: «Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall'antisemitismo, cosa potrà mai guarirlo?» Riemerge con forza quando la democrazia è più debole, come nelle ingiurie profferite via web alla senatrice Segre. Il pregiudizio antiebraico è duro a morire e resta, ancor oggi, ben radicato, a tutti i livelli, non conosce barriere sociali o discriminanti culturali. Si è sdoganata la barbarie razzista abbattendo l'ultimo muro morale. L'antisemitismo è facile da cavalcare, aggrega mondi diversi e purtroppo ha successo. Le istituzioni e anche il mondo dell'informazione hanno tardato ad accorgersene. L'Italia ha le sue responsabilità, a cominciare dal non aver ancora nominato il commissario nazionale per l'antisemitismo, in ritardo sulle indicazioni del Parlamento europeo agli Stati membri. Così come non ha ancora adottato la nuova definizione di antisemitismo, proposta dalla commissione intergovernativa della Intemational Holocaust Remembrance Alliance e fatta sua dal Parlamento europeo nel giugno 2017. «L'antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto», questo recita la definizione, nulla di sconvolgente ma qualcuno confonde i piani della politica antiisraeliana e dell'antisemitismo. Se veramente vogliamo fare qualcosa per combattere questo cancro della democrazia e della società, è questo il momento.

(Corriere della Sera, 28 ottobre 2019)


Una sottovalutazione del “pericolo antisemitismo” consiste proprio nel non aver percepito che l’antisionismo è l’ultima e, oggi, la più pericolosa forma di antisemitismo, quella che si adatta meglio all’aspirazione globalista dei nostri tempi. M.C.


Colpo elettorale. Il Donald bis ora è più vicino

di Cesare De Carlo

Sottotitolo
E' lui. Finalmente. Morto come un cane e un vigliacco, dice Trump. È Abu Bakr al-Baghdadi, il califfo dell'Isis, cioè dell'unica organizzazione terroristica che fosse riuscita a dotarsi di un territorio, di una bandiera, di un embrione di Stato. In suo nome e in quello di Allah per anni è stata condotta la Jihad, sono saltati in aria o sono stati sgozzati migliaia di 'infedeli' laggiù in Medio Oriente e nelle nostre città.
Che significa? Che possiamo dormire sonni tranquilli? Non esattamente. Nel maggio 2011 venne ucciso Osama Bin Laden. Al Qaeda gli sopravvisse. Dunque per l'Isis, benché confinata in un angolo della Siria, non è la fine. Ma senza il suo leader carismatico sarà meno temibile. Meno seguaci, meno capacità operativa, meno attrazione in quelle comunità islamiche che ne riflettono il fanatismo religioso. In altri termini l'Isis del dopo Baghdadi non sarà più quello di prima, come l'Al Qaeda del dopo Bin Laden non fu più quella dell'11 settembre 2001. Non dimentichiamo però che il terrorismo islamico è la proiezione di un'ideologia di odio. Odio contro il mondo cristiano.
   E non dimentichiamo che la minaccia l'abbiamo in casa, in Europa e in America. Sono i cani sciolti e sono i foreign fighter che potrebbero rientrare. Qualche altra considerazione. La prima: il disimpegno di Trump, ingeneroso nei confronti dei curdi, può però avere spinto Al Baghdadi a scoprirsi. La seconda: l'adozione del metodo israeliano, vale a dire decapitare il terrorismo anziché montare operazioni militari. La terza: la cooperazione con russi, turchi, siriani. Fronte comune nell'intelligence. La quarta: le elezioni. Un anno dopo l'uccisione di Bin Laden, Obama venne rieletto. Accadrà anche a Trump? Già ora i democratici, senza validi candidati, sono nello sconforto. L'ammette persino il Washington Post .

(Quotidiano.net, 28 ottobre 2019)


L'orgoglio perduto dell'Occidente

di Pierluigi Battista

Che vergogna, che desolazione, che pena infinita le immagini dei soldati americani in ritirata con i curdi delusi, traditi, umiliati che dal bordo della strada lanciavano in lacrime frutta e ortaggi. E che vergogna dovremmo provare anche noi, europei senz'anima e senza orgoglio che cianciamo di valori universali a assistiamo impotenti e indifferenti al massacro di un popolo sacrificato sull'altare del realismo politico e dell'interesse economico. Erdogan tiene a bada i profughi che rischiano di invadere l'Europa: davvero noi europei senz'anima e senza dignità dovremmo, nel nome dei diritti umani calpestati, far arrabbiare Erdogan? I diritti umani sono stati sradicati dall'agenda internazionale. L'Onu è sempre più un ente inutile che sprofonda nel ridicolo mettendo ai vertici delle commissioni umanitarie regimi tirannici e addirittura sanguinari. Gli Stati Uniti consegnano un'intera area geopolitica alla Russia (altro che le chiacchiere complottiste sul Russiagate) e Assad in Siria, dopo aver sterminato centinaia di migliaia di civili, compresi i bambini, si permette di fare da protettore dei curdi sul punto di essere sterminati. Che vergogna, che desolazione. Avessimo un soprassalto d'orgoglio, avessimo solo un briciolo di volontà per adeguare i proclami altisonanti alla realtà, per lo meno smetteremmo di raccontarci la bugia pietosa di un'Europa accogliente, cementata da valori comuni. Non staremmo a piagnucolare su Trump che manda via le truppe statunitensi (anche se le sue truppe speciali hanno colpito, finalmente, al-Baghdadi), e cercheremmo di avere un ruolo anche militare in quella zona. La solidarietà iniziale per i curdi è scemata nell'opinione pubblica con una velocità impressionante. Ci piacerebbe sapere quanti contratti nel commercio d'armi con la Turchia sono stati stracciati, come era stato promesso: probabilmente nessuno. Oramai le democrazie occidentali sono diventate inaffidabili e gli ortaggi lanciati con commovente dignità dai curdi abbandonati dai soldati americani ci dicono che la nostra parola è diventata carta straccia, che ogni impegno è solo l'anticamera del disimpegno. Non ci si deve fidare di noi: avessimo un sussulto di decenza potremmo riflettere sulla catastrofe della nostra credibilità perduta. Ma non succederà. E i curdi, lasciati soli.

(Corriere della Sera, 28 ottobre 2019)


Domani a Palermo cerimonia di intitolazione: "Lungomare Yasser Arafat"

Presente il sindaco Leoluca Orlando

ROMA - Domani, alle 10.30 al Foro Umberto I, alla presenza del sindaco Leoluca Orlando e degli assessori Adham Darawsha e Giusto Catania, si terrà la cerimonia di intitolazione di un tratto del Foro Italico a Yasser Arafat, premio Nobel per la Pace. Sarà presente, tra gli altri, Nasser Al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e presidente della Yasser Arafat Foundation (YAF).
L'iniziativa è promossa dal Comune di Palermo, dalla Rete Palermitana di Solidarietà "Con la Palestina nel Cuore" e da CISS - Cooperazione Internazionale Sud Sud, e si inserisce tra quelle organizzate oggi e domani per rimettere al centro dell'attenzione i diritti del popolo Palestinese.

(askanews, 28 ottobre 2019)


Sciesopoli e il museo della solidarietà

di Daniel Reichel

 
 
Da colonia per "Figli della Lupa" e Balilla a centro di accoglienza per bambini orfani sopravvissuti alla Shoah. Sciesopoli, colonia montana del comune di Selvino (Bergamo), è diventato un simbolo del riscatto italiano nel dopoguerra, trasformandosi da struttura di propaganda fascista a luogo di solidarietà ed emblema della ricostruzione ebraica dopo la tragedia della persecuzione nazifascista. Una piccola grande storia di speranza che ora ha uno spazio dove poter essere raccontata al pubblico: in queste ore è stata infatti inaugurato il nuovo Museo Memoriale "Sciesopoli Ebraica - Casa dei Bambini di Selvino". "È una giornata storica per noi. Oggi inauguriamo il primo museo di Selvino e siamo contenti che sia dedicato a una vicenda che parla di solidarietà e accoglienza", ha sottolineato il sindaco del comune lombardo Diego Bertocchi. Il piccolo museo è ospitato nelle sale del Municipio e ricostruisce le diverse fasi della struttura di Sciesopoli: la prima, dall'inaugurazione nel 1932 fino al periodo del conflitto, come centro per educare i giovani al fascismo; la seconda - dal 1945 al 1948 - come luogo di rifugio per 800 bambini ebrei, accolti e curati in attesa di farli partire per il nascente Stato di Israele; la terza come realtà educativa in cui passarono 50mila bambini. Il grande edificio è stato chiuso nel 1985 e solo di recente è stato messo parzialmente in sicurezza grazie ai finanziamenti del ministero per i beni culturali. "Il nostro auspicio è che il museo possa essere spostato in futuro all'interno di Sciesopoli - hanno sottolineato gli architetti Giovanna Latis e Andrea Costa, che hanno seguito il progetto - È il frutto di due anni di lavoro e della collaborazione di molti, una piccola stanza che racconta però una grande storia". Nella sala diversi totem recano incisi i nomi degli 800 bambini ebrei ospitati a Sciesopoli e vi è la mappa del percorso lungo l'Europa che li portò tra le montagne lombarde.
   "In occasione dei 70 anni dall'inizio di Sciesopoli ebraica sono venuto a Selvino per ricordare la figura di Marcello Cantoni, il medico che ha gestito la cura e la rinascita da un punto di vista medico sanitario di questo gruppo di bambini orfani, senza speranza e spesso malati - ha ricordato il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giorgio Mortara -
   Quanto è riuscito a fare in pochi mesi il gruppo di volontari ed educatori dando speranza e fiducia oltre che una istruzione e in molti casi un lavoro è stato uno splendido esempio di resilienza del popolo ebraico". La storia di Sciesopoli è stata riscoperta grazie anche al grande impegno dello studioso Marco Cavallarin, che ha spiegato come il suo auspicio sia che il museo - che sarà diretto da Alessandro De Lisi - diventi un'istituzione per "trasmettere la speranza, la comprensione umana, per insegnare ai nostri giovani, al di là della retorica, il vero significato della solidarietà attiva". Un auspicio condiviso dal vicepresidente UCEI Mortara: "mi auguro - le sue parole - che il museo memoriale non sia solo un luogo di ricordo dei fatti e delle persone ma anche un centro di formazione e di elaborazione di modelli educativi in modo da poter sfruttare il patrimonio di idee che racchiude: partendo dal rispetto della diversità promuova la lotta al razzismo, all'antisemitismo all'indifferenza verso l'altro. Deve essere collegato con la rete museale lombarda ed il particolare con il Memoriale della Shoah di Milano, di cui è presente oggi il presidente Roberto Jarach, la Casa della Memoria, i musei della Resistenza". A portare i saluti della Comunità ebraica di Milano è stato il presidente Milo Hasbani che ha ringraziato i presenti per il lavoro profuso per mantenere viva la memoria dei bambini di Sciesopoli, che ancora oggi - è stato spiegato - vengono in visita a Selvino per ricordare quel breve ma decisivo momento della loro vita. "Il Museo Memoriale è stato il frutto di una grande collaborazione tra enti e istituzioni diverse", ha sottolineato poi Virginia Magoni, delegata dal comune per il progetto Sciesopoli. Al taglio del nastro è stata inoltre ricordata la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah e vittima dell'odio online. "A lei mandiamo una dedica speciale - ha sottolineato il direttore De Lisi - Questa sarà una casa del dialogo, per saldare la comunità alla cultura e contrastare ogni forma di odio". A intervenire tra gli altri all'iniziativa anche la consigliera del Comune di Milano Diana De Marchi e la vicepresidente della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia Annie Sacerdoti.

(moked, 27 ottobre 2019)


Teheran può distruggere Israele in mezzora se "commette un errore", dice un politico iraniano

Quest'anno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva avvertito Teheran di smetterla con le minacce, poiché l'Iran si trova ad una distanza ottimale per i caccia bombardieri di Tel Aviv.
Mojtaba Zannour, presidente della Commissione per la Sicurezza nazionale iraniana, ha ribadito che Israele "non sarà in grado di sopravvivere per più di venti o trenta mnuti" se Tel Aviv o Washington "commetteranno un errore".
"Abbiamo messo in campo una strategia di guerra asimmetrica. Cosa significa? Che abbiamo intenzione di rendere inefficaci i punti forti del nemico o comunque di indebolirli. Ci siamo concentrati molto su questo aspetto e abbiamo lavorato alacremente. Il governo ha creato dei deterrenti", ha dichiarato Zannour all'emittente iraniana Channel 5.
Nella sua intervista il politico iraniano ha parlato di "36 basi americane presenti nella regione (mediorientale ndr)" le quali sono costantemente monitorate dai droni di Teheran, "che sono sempre online e seguono ogni movimento delle forze americane presenti".
"Se ci attaccano, saranno colpiti. Quando il leader supremo (l'Ayatollah Ali Khomenei ndr) afferma che i giorni del mordi e fuggi sono finiti, non lo fa senza cognizione di causa, preso dall'emozione. Le sue parole sono avvalorate da quanto abbiamo fatto", ha sottolineato Zannour.
Non si tratta della prima dichiarazione del genere rilasciata da Zannour che, intervistato ai microfoni della TV araba al-Alam, aveva dichiarato che in caso di attacco da parte degli USA, "a Israele rimarrà mezz'ora di vita".

 Il deterrente di Teheran
  Zannour è poi tornato sulla questione del Trattato di Vienna sul nucleare del 2015, dal quale gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente nel maggio del 2018.
Un anno dopo, la Repubblica Islamica ha annunciato la sospensione dell'applicazione di alcune delle misure previste dal trattato, sottolineando al contempo di non voler però stralciare gli accordi presi in Austria.
"Il fatto che oggi ci troviamo ad avere una posizione di forza e a poter fare delle richieste sul Trattato di Vienna è dovuto ai nostri sistemi di difesa che fungono da deterrente, ai nostri missili con su scritto "morte a Israele".

 Le tensioni con Israele e gli USA
  Le dichiarazioni di Zannour si iscrivono in un clima di tensione e di relazioni fredde tra l'Iran, Israele e gli Stati Uniti d'America.
Tel Aviv ha condotto con le sue forze aeree diverse operazioni contro quelli che sono stati definiti dei bersagli militari iraniani in Siria, mentre Teheran sostiene di avere unicamente mandato dei consiglieri militari a Damasco per combattere il terrorismo.
Iran è uno dei Paesi che nega il diritto di Israele all'esistenza e ha più volte minacciato di "cancellarlo dalla mappa politica mondiale".
Il deterioramento delle relazioni con gli USA è invece dovuto al ritiro unilaterale di Washington dal Trattato di Vienna sul nucleare del 2015, al quale ha fatto seguito l'introduzione di pesanti sanzioni economiche nei confronti dell'Iran.
Inoltre, a rendere ancor più gelida la situazione geopolitica tra i due Paesi, hanno contribuito lo scambio di accuse sugli attacchi e i sabotaggi alle petroliere in transito nell'area del Golfo Persico e del Golfo dell'Oman.
L'ultimo episodio del genere è avvenuto non più tardi di qualche settimana fa, quando una imbarcazione di Teheran è stata vittima di un attacco al largo delle coste di Gedda.

(Sputnik Italia, 27 ottobre 2019)


Morto Abu Bakr al-Baghdadi, il nuovo Califfo è Erdogan

Morto Abu Bakr al-Baghdadi in tanti si affanneranno a cercarne il successore, ma non c'è molto da cercare.

di Franco Londei

Abu Bakr al-Baghdadi
Abu Bakr al-Baghdadi, l'autonominato Califfo dello Stato Islamico, sarebbe stato ucciso da un raid americano nella provincia siriana di Idlib.
Non è la prima volta che il capo dell'ISIS viene dato per morto, ma questa volta la notizia sarebbe confermata da più fonti.
La notizia della morte dell'uomo più ricercato al mondo non può che rendere tutti felici, il mondo sarà sicuramente un posto migliore senza questo nazista islamico responsabile della morte di centinaia di miglia di persone.
Al lato pratico l'uccisione di al-Baghdadi sposta poco o niente. Ormai lo Stato Islamico era in rotta mentre il suo posto veniva preso man mano da Iran e Turchia.
Buona parte degli ex miliziani di ISIS che si sono macchiati di indicibili violenze oggi vestono la divisa turca e sono regolarmente inquadrati nelle milizie islamiche al soldo di Erdogan che qualche mese fa hanno massacrato migliaia di curdi nella zona di Afrin e in questi giorni si sono scatenati sempre contro i curdi in quello che restava del Kurdistan siriano.
Adesso molti analisti di quelli "bravi" si scateneranno nella ricerca del successore di Abu Bakr al-Baghdadi e cercheranno di capire come ISIS si riorganizzerà.
In realtà credo che sia tutto tempo perso. Il successore del Califfo c'è già e la riorganizzazione strategica di ISIS è già cominciata da tempo.
Per capirlo basta farsi qualche domanda. Chi è che brama un califfato globale? Chi è che ha dato a ISIS la sua ideologia? Chi ha aiutato per anni lo Stato Islamico facendoci affari e favorendo il trasferimento di uomini e armi verso il Califfato?
La risposta è: la Fratellanza Musulmana. E chi è il capo indiscusso della Fratellanza Musulmana? Un certo Recep Tayyip Erdogan.
Il centro del nuovo Califfato è la Turchia. Non c'è molto da cercare o da analizzare. Da anni Erdogan lavora a questo obiettivo.
La differenza rispetto a come lo faceva al-Baghdadi è che Erdogan ha un vero Stato alle spalle con relazioni diplomatiche in tutto il mondo, è membro della NATO, ha uno degli eserciti più numerosi al mondo ma soprattutto è più scaltro, sa applicare benissimo la "teoria della gradualità" tanto cara alla Fratellanza Musulmana.
Se Abu Bakr al-Baghdadi veniva giustamente considerato uno degli uomini più pericolosi al mondo, Erdogan dovrebbe essere considerato il più pericoloso, persino più pericoloso degli Ayatollah iraniani. Ha tutti i mezzi e le caratteristiche per esserlo.
Per la galassia islamista sunnita è lui il punto di riferimento. È lui che cerca di mettere insieme ciò che rimane di ISIS e di portarne avanti l'ideologia, e non solo in Medio Oriente ma anche in Europa, in Africa e in Estremo Oriente.
Non voglio sminuire l'uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, è un fatto di estrema importanza, ma al lato pratico l'ex Califfo dello Stato Islamico era già "morto" da tempo. La vera gatta da pelare ora è il suo sostituto. Avremo modo di vederlo nei prossimi mesi.

(Rights Reporters, 27 ottobre 2019)


Ko l'imperialismo dell'Iran sciita

di Fiamma Nirenstein

Il Medio Oriente è in eruzione: ma le sue rivoluzioni sono melanconiche. Come una volta alla cronista disse Arafat: «Le dune di sabbia cambiano forma, il panorama appare diverso, ma la sabbia è la stessa». Quindi, anche se risulterà vera la voce per cui il premier Hariri e il presidente Aoun avrebbero deciso che il governo deve dimettersi come chiede la piazza, difficile sapere se si tratta solo di una manovra per conservare sotto mentite spoglie lo status quo. Gli interessi internazionali degli Hezbollah e degli iraniani sono forti. Altrettanto in Irak, dove la sommossa fa decine di morti, ma il governo non è neppure riuscito a tenere la seduta di emergenza che aveva convocato. Se ieri tutte le cronache davano l'imperialismo sciita iraniano rampante e in crescita, entusiasta per la ritirata americana dalla Siria, oggi si può dire che invece stia subendo numerose ammaccature e che gli Hezbollah stiano pagando la loro prepotenza. Di certo Libano e Irak sono due Paesi oggi a predominio sciita, molto scosso dalle rivoluzioni di piazza. In Libano la longa manus dell'Iran ha invano intimato alle folle, impugnando manganelli e armi, di smetterla di chiedere le dimissioni del governo.
   In Irak le milizie del potere sciita che governa sotto l'influenza iraniana sono tornate a sparare facendo 40 morti e circa 2mila feriti. Una reazione furiosa e impaurita che contraddice le mosse dei giorni scorsi, quando una commissione d'inchiesta aveva contato dal 3 settembre 149 morti e 3mila feriti. Qui, il governo ha declinato ogni responsabilità dicendo di non aver dato ordine di sparare, e il primo ministro ha dichiarato che la gente era libera di dimostrare.
   Il Libano come l'Irak è squassato da una crisi del settarismo e al cui cuore sta dal 1983 la grande fazione degli Hezbollah, super armata dall'Iran, presente in tutte le guerre del Medio Oriente, nel terrorismo e nel traffico di droga. Le classi dirigenti sono state schiacciate nella paura e nella rete del denaro illecito. La folla impoverita chiede una rivoluzione che faccia del Libano quello che si merita: una democrazia avanzata, senza vincoli religiosi, che rispecchi il desiderio di benessere e di modernità. Il guaio è che per ambedue i casi in questione una situazione incancrenita ha impedito lo sviluppo di leadership laiche attendibili: gli interessi personali si sono travestiti da ideali religiosi e i gruppi di potere hanno penalizzato senza pietà la gente, privandola di sostentamento, lavoro, educazione. La violenza (basta pensare alla carica di tritolo con cui fu ucciso Rafik Hariri nel febbraio 2005) l'ha privato di personalità indipendenti e vigorose. I giovani chiedono le dimissioni di tutto il governo, occupano le piazze anche se sulle moto arrivano gli Hezbollah in caccia. Nell'88, due anni prima che si concludesse la guerra fra fazioni che aveva fatto 250mila morti e durava dal 1975, l'Accordo di Taif promise di cambiare il peso delle forze in campo in parlamento e di riformare la costituzione. Ma non è accaduto, e la gente non ne può più e mette in un solo mazzo il presidente Aoun, cristiano ma legatissimo agli Hezbollah eletto presidente dopo 45 tentativi falliti in due anni, Nabil Berri speaker del parlamento, leader del partito shiita di Amai, presidente del Parlamento e Hariri, il sunnita primo ministro. Forse se ne stanno andando. Ma gli Hezbollah sotto la sigla della «resistenza», minacciano la guerra civile.

(il Giornale, 27 ottobre 2019)


Il socialismo israeliano dal volto capitalista. I paradossi del kibbutz

Ran Abrarnitzky, docente di Economia a Stanford racconta in un saggio la sopravvivenza delle fattorie collettive. Grazie ai profitti.

di Davide Fratiini

BE'ERI (lsraele) - Ai tempi di David Ben Gurion i vegani non avrebbero potuto trovare ogni giorno i piatti preparati per loro. Ma il resto del menu non è cambiato molto, i turni e l'impegno comune restano gli stessi di 73 anni fa, quando questo kibbutz al confine con la Striscia di Gaza è stato fondato: a rotazione tutti devono lavorare alla mensa, quasi tutti ci mangiano perché - dicono - è più accogliente e divertente che restare a casa.
   Be'eri è uno degli ultimi villaggi israeliani rimasti fedeli al sogno dei pionieri, quell'ideale che dieci uomini e due donne incisero sulla pietra il 28 ottobre 1910, dall'altra parte del Paese, sulle rive del lago di Tiberiade: «Abbiamo costituito un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune». Così era nato Degania, il progenitore di tutti i kibbutz, e così non ha resistito: nel 2007 i 320 abitanti hanno votato per abolire l'organizzazione collettiva, da compagni a soci, con gli stipendi differenziati e le case vendute a prezzi di mercato.
   La crisi economica e la recessione ideologica hanno spinto la maggior parte delle comunità alla stessa necessità di privatizzarsi e all'abbandono delle regole socialiste: come Be'eri ne restano solo una sessantina su 279. «Eppure la loro sopravvivenza dimostra che è possibile costruire una società egualitaria», commenta Ran Abramitzky. Docente di Economia all'Università di Stanford, in California, si è portato da Israele i ricordi delle visite alla nonna vissuta - e seppellita - in un kibbutz.

Ai villaggi collettivi e a quello che possono ancora insegnarci ha dedicato il saggio The Mystery of the Kibbutz: «Stanno resistendo da oltre un secolo e rappresentano un importante esperimento sulla condivisione. Permettono di capire i costi di questi sistemi, i loro limiti se tentiamo di riprodurli. Hanno funzionato perché sono formati da gruppi di piccole dimensioni. Quando cerchiamo di imporre il socialismo a livello di un'intera nazione, il più delle volte otteniamo uno Stato come l'Unione Sovietica con gravi limitazioni ai diritti umani. L'adesione alle regole del kibbutz è volontaria e questa è una grande differenza».
   Si può anche decidere di andarsene. Come la madre che ci è cresciuta per poi scegliere la vita di fuori, insofferente verso la mancanza di privacy. «Ancora oggi quando le chiediamo "dove stai andando?", replica: "Ho smesso di rispondere a questa domanda 45 anni fa dopo avere lasciato il kibbutz"». La nonna di Ran, al contrario, è rimasta fino all'ultimo a Negba, nel Sud di Israele: «La sua salute è peggiorata all'improvviso e anche se ha lavorato tutta la vita come sarta ha potuto ricevere aiuto ventiquattro ore su ventiquattro e con una compassione che i soldi non possono comprare. Considero questa assistenza uno dei vantaggi principali della condivisione egualitaria. Può essere riprodotta con un'assicurazione dalla copertura molto estesa (e molto cara) o grazie all'intervento della comunità allargata che si prende cura degli anziani. La prima è la soluzione adottata dalle società più ricche, la seconda è praticata nelle nazioni in via di sviluppo».
   La ricchezza conta anche per i kibbutz. Gli stessi abitanti di Be'eri riconoscono il paradosso: hanno potuto preservare lo spirito socialista grazie ai profitti garantiti dal capitalismo globale. Fin dagli anni Cinquanta hanno sviluppato una fabbrica all'avanguardia per la stampa della plastica, che adesso - tra l'altro - produce le patenti di guida elettroniche portate in tasca da tutti gli israeliani. L'anno scorso le varie attività, anche quelle agricole, hanno generato 150 milioni di shekel (38 milioni di euro) in dividendi e ogni membro ha ricevuto quasi 65 mila euro. «Finché i kibbutz sono ricchi possono sostenere la parità di reddito, anche se si trasformano in società più complesse e industrializzate, in cui i componenti hanno occupazioni molto diverse, non solo lavorare nei campi. Più in generale direi che questa uguaglianza economica è realizzabile, se una nazione è ricca e/ o omogenea. Altrimenti emergono problemi come la fuga dei cervelli e il salario uguale per tutti diventa difficile da sostenere».

I fondatori dei primi kibbutz erano «omogenei»: giovani ebrei immigrati in Medio Oriente dalle stesse zone dell'Europa, motivati dagli stessi ideali e spronati dagli stessi sogni. «L'uguaglianza è più raggiungibile in una società che sia meno differenziata etnicamente e religiosamente, dove gli individui condividono le preferenze per il modello di redistribuzione. In questo senso è più semplice implementare l'equità redistributiva e un generoso Welfare State in Svezia o Norvegia che negli Stati Uniti».
   La Norvegia è uno degli esempi più citati nel saggio. «Non è un kibbutz perché è gestita attraverso l'economia di mercato, ma è una nazione dove le differenze salariali tra i manager e i lavoratori sono basse, dove lo Stato è in grado di offrire lunghi congedi parentali e l'assistenza sanitaria è gratuita. Questo sistema è garantito dalle risorse naturali (il gas) che hanno reso la Norvegia uno dei Paesi più ricchi del mondo. Finché è in grado di sostenere questa agiatezza, è improbabile che i più dotati scelgano di emigrare: possono ottenere stipendi più alti all'estero, non lo stesso livello di qualità della vita. Con una crisi economica tutto cambierebbe e sarebbe difficile trattenere i migliori: per evitare la fuga dei cervelli la Norvegia dovrebbe offrire incentivi a restare e ridurre il livello di uguaglianza».
   È quello che ha prosciugato i kibbutz agli inizi degli anni Novanta, quando sono stati colpiti dalla crisi finanziaria, mentre il resto di Israele si allontanava dall'austerità sui cui è stato fondato: l'attrazione del mondo dall'altra parte della recinzione è diventata forte e le comunità hanno progressivamente perso compagni. Adesso questa tendenza si sta ribaltando e sono i giovani a tornare: forse con aspirazioni borghesi (le scuole buone, la piccola comunità tranquilla, i vialetti verdi e senza traffico) di sicuro in fuga dall'ingiustizia sociale: meglio mangiare insieme alla mensa comune che restare fuori dai ristoranti troppo cari.

(Corriere della Sera, 27 ottobre 2019)


Il più romano degli ebrei di Brooklin

Prima parte dell'introduzione di Emanuele Trevi a un'antologia di Bernard Malamud. È qui, nei «racconti italiani», che l'infallibile spirito analitico di Henry James viene sottoposto a sottili parodie e lampi surrealisti.

Letteratura
I suoi incipit sono memorabili, come quello di «Lamento funebre»: «Kessler, ex selezionatore di uova, viveva in solitudine con la pensione della previdenza sociale»
Società
Incostanza, noia e inquietudine sono le condizioni dell'uomo secondo Pascal. Il narratore americano arriva per altre strade a conclusioni altrettanto fulminee e sconfortate

di Emanuele Trevi

Incostanza, noia, inquietudine. Questa, in un famoso frammento di Pascal, è la formula esatta, o se si preferisce la ricetta, della «condizione dell'uomo», ovvero dell'umana infelicità. «Inconstance, ennui, inquiétude». Bernard Malamud, ebreo di Brooklyn, percorrendo ovviamente strade del tutto diverse dal grande mistico francese, arriva a certe conclusioni altrettanto fulminee e sconfortate sulla nostra natura. In effetti noi viviamo nella confusione, nell'ignoranza, nella mancanza. Annaspiamo nell'opinabile, e i nostri errori ci appesantiscono il cuore. Per Leo Finkle, il protagonista del Barile magico, allievo rabbino del Bronx in cerca di moglie, c'è addirittura una paradossale «consolazione» nella consapevolezza di essere ebreo, perché «un ebreo soffre», non potrebbe comunque fare altro. L'ebreo è sempre Giobbe, in un modo o nell'altro.
   Ma chi è davvero un ebreo, quando riduciamo la questione all'osso? Come recita il famoso finale di un altro racconto, L'angelo Levine, «ci sono ebrei dappertutto». Perché l'ebreo è l'uomo, ogni uomo nel momento in cui viene soppesato sulla bilancia della sua «condizione». Lo stesso esercizio della coscienza ci sprona allo sconforto. E ogni storia, antica o moderna, possiede lo straordinario privilegio morale di rivelarci per quello che siamo. Tutto ciò che forma l'ossatura di un racconto: le peripezie, gli accidenti, i desideri, rivelano l'impronta della fatalità e della necessità là dove, senza il racconto, noi vedremmo solo l'opera del caso. Ma questa lucidità è una prerogativa della storia, non di chi la vive, senza comprenderne nulla. Abbindolati dalle apparenze, procediamo nell'inganno. E se un angelo bussa alla porta, o meglio si fa trovare direttamente seduto in cucina, non siamo in grado di approfittarne, prigionieri come siamo nel delirio delle abitudini.
   Come se non bastassero gli accidenti che ci riserva la sorte, poi, non smettiamo di preoccuparci invano: Malamud è magistrale nel tema, variato innumerevoli volte, della preoccupazione inutile, del rovello ozioso, del pensiero che gira a vuoto tornando dolorosamente su sé stesso. «Le sue ansie erano sempre maggiori di ciò che le causava». È la sintesi perfetta del carattere dello sventurato Freeman, il protagonista della Dama del lago, uno dei più bei racconti del Barile magico. Freeman perde la sua grande occasione restando attaccato a una bugia insulsa, di cui nemmeno lui conosce più il senso. Si ostina (il suo vero nome è Levin) a negare di essere ebreo - proprio quando la verità gli aprirebbe le porte della felicità. Così come esistono gli scherzi dei sensi, anche gli scherzi dell'ansia ci ingannano, ci irretiscono in un groviglio di illusioni.
   È con questa materia fragile e intrinsecamente caotica che Malamud costruisce la sua commedia umana, frase dopo frase - ogni frase come la pietra perfettamente levigata di un edificio perfetto. Nei racconti, questa suprema facoltà di comprensione e rappresentazione trova la sua misura ideale. A volte, intravisto il finale, può sembrare che Malamud lo raggiunga troppo rapidamente. Ma la misura breve esalta tutte le sue qualità di esploratore della fragilità umana, tutte le risorse più efficaci del suo senso del comico che utilizza come nessuno aveva mai saputo fare la lezione dei film di Chaplin, di Stanlio e Ollio, di Buster Keaton adorati quando era un ragazzino.
   Il Barile magico, la prima raccolta uscita nel 1958 da Farrar, Straus & Co., è un libro di strabiliante bellezza. «È più bravo di me», ammette Flannery O'Connor: ed è un riconoscimento che vale mille Premi Pulitzer, perché più bravi di Flannery, a scrivere racconti, se esistono sono davvero in pochi. Eppure eccola lì, l'umanità di Malamud: una delle più grandi creazioni della letteratura del
suo secolo, degna di stare accanto a Kafka e Beckett per l'oltranza visionaria, la radicalità del pessimismo, l'inclinazione fondamentalmente tragicomica.
   Nel Barile magico, come negli altri libri, si tratta di poveri diavoli ebrei di Brooklyn o dell'East Side attaccati alle loro bottegucce sull'orlo del fallimento, ma anche di qualche eroe dalle possibilità più ampie, come quel Freeman che, grazie a una piccola eredità, villeggia sul Lago di Garda. Non importa: a ciascuno le sue pene e i suoi rimorsi, le sue ambizioni e i suoi amari risvegli.
   Certi incipit sono straordinari. Malamud non anticipa nulla, ma rende visibili i suoi eroi, li investe del peso della storia che inizia. «Kessler, ex selezionatore di uova, viveva in solitudine con la pensione della previdenza sociale» (Lamento funebre). «Per quanto cercasse di non pensarci, a ventinove anni la vita di Tommy Castelli era di una noia esasperante» (La prigione). A volte preferisce iniziare da un certo ambiente: e ce lo fa vedere con gli stessi rapidi e infallibili tocchi. «Benché in una zona vicina al fiume, la strada era angusta e senza sbocco, una fila sbilenca di vecchie case popolari di mattoni» (Il conto).
   Un altro polo della geografia narrativa di Malamud è già presente nella prima raccolta di racconti: ben tre infatti sono ambientati in Italia, dove Malamud vive con la moglie e i figli ancora piccoli tra il 1956 e il 1957. La dama del lago si svolge sul Lago di Garda, tra Stresa e le Isole Borromee; gli altri due a Roma: lo spassoso Ecco la chiave, dove appare l'indimenticabile figura di Vasco Bevilacqua (l'onomastica italiana di Malamud è sempre geniale), procacciatore abusivo di appartamenti in affitto che sarebbe stato degno dell'interpretazione di Totò, e infine L'ultimo moicano, prima avventura italiana di Arthur Fidelman, «pittore fallito», destinato a occupare un posto speciale nel mondo narrativo di Malamud.
   In questo genere del «racconto italiano» e in particolare «romano», che ha così illustri archetipi nella letteratura americana moderna, a metà del Novecento brillano sulle migliori riviste letterarie i due astri complementari di Malamud e John Cheever, anche lui sbarcato a Roma con moglie e prole nel 1956. In entrambi, è ben visibile la lezione di Henry James: basti pensare alla frequente sensazione di impaludamento nella Città Eterna, tanto prodiga di delusioni di ogni sorta, provata dai protagonisti di tanti racconti, e confrontarla allo stato d'animo di Isabel Archer nel finale di Ritratto di signora. Nonostante il senso così acuto - sia in Cheever che in Malamud - dell'osservazione e del suo potenziale comico, c'è dunque uno schermo letterario di enorme ingombro nel loro modo di rappresentare la Roma «stupenda e misera», per dirla con Pasolini, del dopoguerra. Ma i due giovani scrittori si giocano la partita senza accusare nessuna angoscia dell'influenza, anzi sottoponendo l'infallibile spirito analitico del Maestro a sottilissime parodie e lampi di sapore surrealista. E se dal confronto emerge abbastanza chiaramente un maggior grado di empatia di Malamud, non è difficile capire perché.
   In una memorabile scena ambientata nel vecchio Ghetto di Roma, Fidelman scopre l'esistenza di quella strana razza di ebrei che ai suoi occhi sono i sefarditi. Ma c'è di più. Anche i racconti ambientati a New York pullulano di italiani, degni comprimari degli ebrei. In quelli ambientati in Italia, il trattamento della materia umana si fa ancora più sottile e perspicace, diventando un elemento fondamentale del malinconico affresco antropologico di Malamud. Con una certa sordità, non giustificata dai risultati eccellenti, alcuni critici ( come il brillante Anatole Broyard e lo stesso Roth) rimproverano allo scrittore ogni sconfinamento dal mondo ebraico newyorkese. Eppure, abitando a Roma a metà degli anni Cinquanta, in un'anonima palazzina non lontana da piazza Bologna, in quello che era un quartiere decisamente popolare e di infima borghesia, ben lontano dai percorsi turistici, Malamud visse un'esperienza incomparabilmente più intensa e piena di conseguenze artistiche di quella di Cheever. Possiamo dire che imparò a dosare alla perfezione due forze in apparenza contrarie, ovvero l'estraneità e la familiarità che gli ispirava quella gente inguaiata e ingegnosa, permalosa e priva di vergogna, palpitante e inaffidabile. Non c'erano solo i sefarditi a Roma, non era una questione di sefarditi. A conferma della legge che «ci sono ebrei dappertutto», non saranno gli italiani di Malamud a incarnare una specie di essenza paradossale - tanto più piena di un'arcana realtà quanto più comica nelle sue manifestazioni - dell'essere ebrei?

(Corriere della Sera, 27 ottobre 2019)



Trasformati nella mente

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.

Dalla lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, cap. 12

 


Israele nel pantano, verso il voto per la terza volta

Israele: due elezioni in un anno non hanno dato una maggioranza. Netanyahu ha esaurito il suo mandato esplorativo e ha passato il testimone al centrista Gantz. Ma è possibile che si torni al voto per la terza volta. Giustizialismo contro Netanyahu e partiti arabi che forse appoggiano Gantz: due novità assolute nel panorama israeliano.

Israele è nel pantano post-elettorale: Benjamin Netanyahu, leader del Likud uscito dalla consultazione del 17 settembre secondo, con 31 deputati, ma forte dei 55 della coalizione di centro-destra, non è riuscito a formare un governo sostenuto dalla maggioranza parlamentare (61 seggi). Ha così gettato la spugna due giorni prima dei 28 giorni di tempo che si accompagnavano al conferimento dell'incarico ricevuto dal capo dello Stato Reuven Rivlin. Il mandato è passato ora al suo rivale Benny Gantz, leader del partito centrista "Bianco e Blu" premiato dagli elettori per numero di seggi (32, uno in più del partito rivale) ma con una più debole coalizione di sostegno, di 44 deputati. Potrà farcela?
  A riprova della serietà dell'interrogativo, è emersa di nuovo ad aleggiare l'eventualità di una terza chiamata dell'elettorato alle urne nel corso dell'anno. Ne parlano apertamente i giornali, naturalmente con una serie di informazioni e riflessioni per nulla incoraggianti: innanzi tutto sull'irrigidimento delle principali forze politiche nella difesa di loro preclusioni, sulle quali si sono infrante le speranze di Rivlin di far nascere un governo di unità nazionale. Necessario dinanzi alla realtà conflittuale della regione, più inquietante "del solito" (a causa di grandi e piccole potenze).
  Preclusioni di carattere personale incentrate prevalentemente su Netanyahu, da dieci anni alla guida del Paese, che non ha inteso mollarla quando, all'inizio dell'anno, il partito "Israel Beitenu" del russofono Avigdor Lieberman, si è ritirato dalla coalizione. Era insofferente del condizionamento dei partiti religiosi nel mantenimento di diversi privilegi per il loro elettorato (in particolare l'esenzione del servizio militare agli studenti delle scuole rabbiniche) e della mancata reazione bellica alle continue provocazioni - incendi e attacchi armati ai soldati - di decine di migliaia di palestinesi fondamentalisti alla frontiera di Gaza che tanti danni hanno arrecato all'agricoltura e alla popolazione anche di località lontane dal confine.
  Netanyahu ha reagito indicendo elezioni politiche anticipate per il 9 aprile: sperava in un rafforzamento della sua coalizione, ma così non è stato. Trovatosi di nuovo nella impossibilità di contare su una maggioranza parlamentare, ha sollecitato l'elettorato a recarsi di nuovo alle urne. E neanche il 17 settembre, nel mantenimento del sistema proporzionale puro, si è modificato l'assetto delle formazioni politiche e degli schieramenti, salvo lievi variazioni numeriche come il rafforzamento del partito di Lieberman (segno di una significativa approvazione in una porzione dell'elettorato laico delle sue istanze) e la ricomposta coalizione dei partiti rappresentativi della minoranza araba (nella precedente tornata elettorale si erano presentati divisi e ne erano stati penalizzati).
  E proprio poggiando sulla disponibilità di questa coalizione, dichiaratasi pronta a dargli un sostegno esterno, che Benny Gantz potrà cercare di costruire una maggioranza di 61 deputati. Ma si presterà a questa operazione sensazionale? Sarebbe infatti la prima volta che la minoranza di cittadini arabi condizionerebbe la politica dello stato ebraico! Ecco perché gli analisti della politica israeliana, evocando la prudenza finora dimostrata dall'ex capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, ipotizzano una strada diversa.
  È la via della "scomparsa" forzata di Netanyahu dalla scena politica ad opera della Magistratura. Un'operazione per nulla certa; ma neanche desiderabile in un paese che fino ad oggi si è detto orgoglioso di fondarsi su valori e principi democratici. (Israele è indiscutibilmente la sola democrazia del Vicino e Medio Oriente). Su Netanyahu pende l'accusa di corruzione, ma solo ipotizzata per dei contatti che si vorrebbero non chiari con chi gli avrebbe promesso appoggio giornalistico: potrà mai incriminarlo il procuratore generale Avichai Mandelbit? Appaiono risibili altre due presunte accuse, una di suo abuso di potere, l'altra di illecito profitto di cui si sarebbe resa responsabile la moglie.
  Ma è quel che spera il partito "Bianco e Blu", attendendo una decisione di questo procuratore per metà novembre, durante il periodo di tempo di 28 giorni legati al mandato esplorativo che Reuven Rivlin ha affidato a Benny Gantz. Ora se si è certi del basso livello dei contrasti e delle polemiche della lotta politica, si è pure scoraggiati dal fatto che ha portato al fallimento della insistente richiesta del capo dello Stato di far nascere un governo di coalizione fra Likud e "Bianco e Blu", nell'alternanza del premierato tra i due leader.
  Si dice che Gantz abbia così mantenuto la promessa elettorale di non entrare in un governo con Netanyahu "sotto incriminazione". Ma ha agito dando a intendere che voglia soltanto tenerlo lontano. Da parte sua Netanyahu ha profittato del tempo del suo (inconcludente) mandato, rafforzando la sua coalizione, "tagliando l'erba" sotto i piedi di Gantz che spera invece di sfaldarla. Ecco perché l'ipotesi di nuove elezioni, le terze nell'anno, non appare un semplice esercizio mediatico.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 26 ottobre 2019)



In Medio Oriente sono tutti contro tutti ma alleati di Putin. Quanto durerà?

Uno dei fattori che ha incentivato la scelta di Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria è la possibilità di minare le fragilissime basi su cui da qualche tempo si regge l'inedita intesa tra Turchia, Iran e Russia. L'analisi di Gabriele Natalizia

di Francesco De Palo

 
Ci sono almeno quattro ragioni principali che possono aver quanto meno contribuito a far maturare la scelta, all'interno della Casa Bianca, del tramonto dell'interventismo umanitario e dell'operazione "Primavera di Pace".
  La prima è che il ritiro dal Rojava non solo si trova in linea di continuità con la promessa trumpiana dell'America first, da rispettare sempre più rigorosamente nell'anno che precede le presidenziali 2020, ma lo è ancor di più con la politica del retrenchment avviata da Barack Obama e poi proseguita dal suo - sgradito, ma in questo caso fedele - successore. Entrambi i presidenti, d'altronde, non hanno attribuito al Medio Oriente un ruolo strategicamente vitale per il mantenimento del primato internazionale degli Stati Uniti, a causa delle conseguenze negative sul prestigio americano delle politiche nell'area dell'Amministrazione Bush, per la diminuita importanza delle sue risorse energetiche per la domanda interna del Paese e, soprattutto, per la necessità di riorientare gli sforzi verso il contenimento della crescente minaccia cinese. La stessa Amministrazione Obama, d'altronde, aveva ritirato i soldati dall'Iraq nel 2011 e aveva preferito non reagire all'utilizzo delle armi chimiche da parte del governo siriano nel 2013 nonostante fosse stata presentata come una red line dalla Casa Bianca poco meno di un anno prima.
  La seconda ragione è strettamente legata alla prima. L'Amministrazione Trump vuole rilanciare l'idea obamiana del leading from behind. La necessità di attuare il taglio della spesa per evitare la "sovra-estensione imperiale", infatti, impone agli Stati Uniti di responsabilizzare gli alleati rispetto ai problemi di sicurezza che affliggono la loro regione (in Medio Oriente, così come in Europa), riducendo così i costi gravanti sul bilancio americano. In tal senso, gli Stati Uniti sostengono una politica più attiva dell'alleanza sunnita guidata dall'Arabia Saudita e che si riunisce nel Consiglio di Cooperazione del Golfo, con l'appoggio esterno - e quanto più possibile invisibile - di Israele, per ottenere l'obiettivo comune del contenimento della minaccia iraniana.
  Il terzo fattore che ha incentivato la scelta di Trump è la possibilità di minare le fragilissime basi su cui da qualche tempo si regge l'inedita intesa tra Turchia, Iran e Russia. L'assenza degli americani dalla Siria permetterà alle loro truppe regolari o ai loro proxy di entrare direttamente in contatto, facendo diventare realtà il rischio di uno scontro tra attori che hanno obiettivi che si escludono mutuamente. La Russia è alla ricerca di uno Stato-vassallo che ne garantisca l'accesso ai mari caldi, in cambio della sua protezione e, quindi, dell'integrità territoriale. L'Iran vuole una Siria da utilizzare come base logistica nel cuore del Medio Oriente per colpire i suoi nemici, da Israele all'Arabia Saudita, passando ai partiti anti-sciiti in Libano e Iraq. La Turchia, dal canto suo, vuole uno Stato debole nel suo confine meridionale, all'interno del quale essere libera di realizzare azioni di polizia internazionale contro partiti e organizzazioni armate curde e dove re-insediare masse di ex-profughi fidelizzati da mobilitare quando necessario contro Damasco.
  Infine, la quarta ragione è legata ai rapporti bilaterali tra Washington e Ankara. Il progressivo avvicinamento turco alla Russia, culminato con l'acquisto dei missili S-400, alla lunga non poteva essere lasciato impunito. Il ritiro delle truppe americane del Rojava, in questa prospettiva, potrebbe essere stato sfruttato alla stregua di un'esca, per indurre la Turchia a compiere un'azione che le ha attirato strali in tutto il mondo e ne ha delegittimato l'immagine. Se Ankara non procederà a un veloce riallineamento con Washington, la pistola fumante che si trova ora in mano potrebbe essere utilizzata per giustificare sanzioni o misure ancor più gravi nei suoi confronti nei principali consessi internazionali a cui partecipa.

(formiche, 26 ottobre 2019)


"Chiudete il festival antisemita": l'appello degli ebrei belgi all'UNESCO

di Nathan Greppi

Dopo le polemiche di marzo, gli organizzatori del carnevale nella città belga di Aalst fanno nuovamente parlare di sé per aver pubblicato un manifesto che se la prende con gli ebrei e l'UNESCO in vista dell'edizione 2020.
A marzo, il festival era stato al centro di numerose polemiche poiché tra i vari carri ne è sfilato uno che rappresentava due ebrei ortodossi come avidi e perfidi, il che gli è valso la denuncia di numerose organizzazioni ebraiche e dell'UNESCO. In questi giorni, come riporta l'EJ Press, il festival è nuovamente al centro dell'attenzione per aver distribuito dei nastri con immagini caricaturali degli ebrei che controllano l'UNESCO.
Hans Knoop, portavoce del Forum delle Organizzazioni Ebraiche (FJO in inglese) in Belgio, ha definito i nastri "pura provocazione", e che "queste vignette hanno un approccio assolutamente antisemita." Mentre Rav Menachem Margolin, rabbino capo della European Jewish Association, "è chiaro che l'UNESCO, che deciderà a dicembre se continuare a tenere questo carnevale nella lista del patrimoni dell'umanità, deve recidere ogni legame o sponsorizzazione con esso." Ha aggiunto che scriverà una lettera all'UNESCO affinché questa ponga fine al patrocinio del festival.

(Bet Magazine Mosaico, 26 ottobre 2019)



Weekend a Tel Aviv nei quartieri più belli - Classifica di Time

Tel Aviv entra due volte nella classifica di Time Out sui 50 quartieri più belli al mondo

Il quartiere yemenita (Kerem Hateimanim) e il Carmel Market sono i due quartieri di Tel Aviv entrati ufficialmente a far parte della classifica "50 Coolest Neighborhoods in the World" stilata ogni anno dalla redazione di Time Out con la collaborazione di oltre 27.000 lettori in tutto il mondo.
Questa particolare classifica, che può ora contare su due new-entry israeliane, aiuta i lettori del magazine a scoprire i luoghi più caratteristici e autentici delle città, offrendo valide alternative alle solite attrazioni turistiche.
I due quartieri di Tel Aviv sono stati scelti non solo per la loro offerta culinaria, artistica e culturale, ma soprattutto per la loro capacità di attirare i residenti e regalare tanto divertimento "made in Tel Aviv". Kerem Hatemanim è stato descritto come un perfetto ritrovo foodie, immerso in un'atmosfera che ha saputo mantenersi autentica nonostante la vocazione residenziale del quartiere. Anche Carmel Market deve ai foodies gran parte della sua fama, poiché è all'interno di questo mercato che si trovano le migliori prelibatezze di Tel Aviv.
Entrambi i luoghi sono due punti di ritrovo per i locali e rappresentano il modo migliore per immedesimarsi tra i residenti, svestendo i panni del turista e assaporando l'autentico clima israeliano.
Tra le attrazioni da non perdere, Time Out ha menzionato i ristoranti HaBasta e Ha Minzar e il mercato degli artisti di Nachalat Binyamin, dove artigianato ed esibizioni di artisti la fanno da padrone.
Ecco quindi due suggerimenti in più per andare alla scoperta di una città che, oltre a questi due splendidi posti, ha anche molto altro da offrire!
La classifica integrale di Time Out è visibile al link: www.timeout.com

 Nuovi siti web per Tel Aviv
  La Municipalità di Tel Aviv-Yafo ha recentemente aperto un nuovo sito web in lingua inglese con ancora più contenuti dedicati ai turisti. Al link visit.tel-aviv.gov.il sarà possibile trovare informazioni di ogni tipo sulla città: dal programma degli eventi fino agli elenchi di musei, ristoranti, spiagge, trasporti e tanto altro. Contestualmente, è stato lanciato anche un secondo indirizzo web dedicato alla stampa, ricco di spunti per articoli, fotografie e comunicazioni ufficiali della Municipalità: press.tel-aviv.gov.il.

 Inverno a Eilat
  Eilat è una delle mete preferite dai turisti europei in fuga dai primi freddi dell'inverno, non solo per il clima caldo e lo splendido mare, ma anche grazie a una lunga lista di attrazioni e intrattenimenti. Per questa stagione è già stato pubblicato un ricco calendario di eventi, con numerose occasioni per ritrovarsi tra sportivi, amanti della musica e del buon cibo. Non mancano poi le tradizionali escursioni nel Red Canyon e a Timna Park. Altro che inverno!

 Birdwatching nella Valle di Hula
  Si avvicina la stagione più attesa per gli appassionati di birdwatching che potranno ammirare un'incredibile varietà di uccelli in alcuni dei luoghi più suggestivi e meno conosciuti di Israele, come la Valle di Hula, nell'alta Galilea. Il mese di novembre è infatti il migliore per le osservazioni, in concomitanza con la migrazione d'autunno.
Milioni di uccelli attraversano Israele diretti verso l'Africa e oltre 100 specie rimangono qui per l'inverno. Si possono così ammirare migliaia di gru, pellicani, rapaci e passeracei che arrivano nelle valli settentrionali di Israele. Uno spettacolo incredibile!

(Donne Cultura, 26 ottobre 2019)


Striscia di Gaza. «Arrivano i dollari», il Qatar paga i sussidi alla gente e gli stipendi ad Hamas

Giunto da Doha Mohammed al-Emadi, l'inviato con i finanziamenti per la popolazione palestinese. Il programma di aiuti per Gaza e Cisgiordania ammonta complessivamente a 300.000 dollari

Mohammed al-Emadi, inviato dell'emiro del Qatar presso l'Amministrazione nazionale palestinese, sarebbe giunto in missione nella Striscia di Gaza nella notte tra giovedì e venerdì per recapitare i finanziamenti destinati alla popolazione locale erogati della ricca monarchia del Golfo Persico.
Il denaro verrà consegnato in contanti nelle mani dei capifamiglia che ne hanno fatto richiesta per il tramite delle strutture amministrative locali, cioè da Hamas.
   Saranno 100.000 le famiglie palestinesi beneficiarie dei cento dollari mensili ottenuti grazie all'assistenza qatarina. Si tratta dell'ultima tranche di una serie di aiuti finalizzati alla copertura dei costi del carburante impiegato per la generazione dell'elettricità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e l'assistenza alle famiglie più bisognose.
   Lo scorso anno l'Emirato del Qatar ha stanziato 330 milioni di dollari per il programma di assistenza alla popolazione palestinese. Il 6 maggio scorso le autorità di Doha hanno annunciato l'invio di 480 milioni di dollari sia alla Cisgiordania che alla Striscia di Gaza per «aiutare il popolo fratello palestinese a soddisfare i suoi bisogni primari», specificando che la parte maggiore di essi - appunto i 300 milioni di dollari portati da al-Emadi - verranno erogati principalmente nelle forme di prestiti a Gaza, mentre i rimanenti 180 all'Anp di Ramallah, attualmente governata da Fatah.
   Una forma di assistenza umanitaria che Israele tacitamente consente al fine di sostenere gli sforzi tesi alla stabilizzazione della Striscia di Gaza, risultato al quale lo Stato ebraico è molto interessato poiché negli ultimi mesi pressato alle sue frontiere dal pericoloso ribollire della resistenza palestinese, concretizzatasi nell'incontrollato lancio di razzi sul suo territorio e dalle manifestazioni di massa alla frontiera.
   Si tratta di una tregua non ufficiale negoziata con Hamas da Israele, che a fronte di una riduzione dei lanci di missili dalla Striscia e del contestuale ridimensionamento delle proteste settimanali lungo il confine, ha permesso al Qatar di far pervenire i finanziamenti in contanti ad Hamas, che ora potrà corrispondere gli stipendi ai propri funzionari, permettendo inoltre all'Onu di incrementare le sue attività di assistenza.

(Insidertrend, 26 ottobre 2019)


Attacco alla sinagoga di Pittsburgh: una campagna per ricordare le vittime e i superstiti

 
La sinagoga di Pittsburgh
NEW YORK - Seconda edizione per #ShowUpForShabbat, la campagna lanciata dall'American Jewish Commitee (AJC) per onorare le 11 vittime e i superstiti dell'assalto alla sinagoga, l'Albero della vita, di Pittsburgh.
   L'iniziativa si apre oggi e si concluderà il 27 ottobre, giorno in cui nel 2018, Robert Gregory Bowers, armato di un fucile d'assalto entrò nel luogo di culto durante il servizio mattutino, trucidando undici persone, alcune delle quali erano sopravvissute all'Olocausto. La campagna, anche quest'anno, ha riunito non solo le sinagoghe di tutto il mondo ma anche milioni di persone di tutte le fedi che, in presenza o attraverso i social media, stanno esprimendo la loro solidarietà non solo alla comunità ebraica americana ma a tutte le vittime dell'odio e del bigottismo. "Questi giorni hanno lo scopo di offrire alle persone uno spazio per esprimere dolore per il massacro e mostrare solidarietà alle vittime. Darà una prova di unità contro le atrocità, mostrando che l'odio non potrà prevalere", ha affermato David Harris, Ceo di AJC.
   Alla campagna hanno aderito i rappresentanti politici di entrambi gli schieramenti statunitensi, da Nancy Pelosi, portavoce democratica della Camera dei deputati al suo predecessore repubblicano, Paul Ryan; esponenti della comunità musulmana, giornalisti e personaggi dello spettacolo. I leader ebrei, in tutto il Paese hanno dichiarato che non chiuderanno le comunità per paura, anzi stanno aprendo le porte per invitare chiunque lo desidera alla cena di Shabatt del venerdì o ai servizi, alle preghiere e alle azioni di solidarietà in memoria delle vittime: la stato di allerta resta comunque alto dopo manifestazioni antisemite registrate in vari stati del Paese. A Pittsburgh l'esterno la sinagoga, teatro dell'assalto, si è trasformato in un immenso giardino, dove le persone con spontaneità depositano fiori e candele in memoria delle vittime.

(SIR, 26 ottobre 2019)


25 anni dalla pace tra Israele e Giordania

I grossi interessi reciproci che fanno di necessità virtù

di Leonardo Coen

Con toni insoliti, domenica 20 ottobre re Abdallah II di Giordania, da vent'anni sul trono hashemita, ha annunciato che il suo Paese intende recuperare due zone "prestate" a Israele per un periodo di 25 anni in virtù dello storico accordo di pace firmato il 26 ottobre del 1994: "Sono terre giordane e resteranno giordane!", ha tuonato. Ma si sa, in Medio Oriente la comunicazione politica è sempre infervorata, teatrale e millenaristica.
  L'agenzia d'informazione nazionale Petra ha accompagnato la notizia con il commento del deputato Saleh-al-Armuti, il quale si è subito felicitato per la decisione del sovrano, compiacendosi di questo "passo positivo che ridà dignità al cittadino giordano e rinsalda la sovranità sulle sue terre". Le quali sono piccola cosa: la prima, Baqura-Naharayim, di 6 chilometri quadrati, si trova nella provincia a nord di Irbid; la seconda, Al-Ghamr-Zofar, sta a sud, nella provincia di Aqaba, ed è di 4 kmq.
  Da Gerusalemme, al re improvvisamente burbanzoso, ha risposto un distratto Benjamin Netanyahu, poche ore prima che rimettesse nelle mani del presidente Reuven Rivlin il suo mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo (ora la patata bollente è passata al rivale Benny Gantz, di Blu Bianco, ma sono assai scarse le chances di formare una coalizione): "Israele vuole riaprire i negoziati per rinnovare la situazione attuale". Una replica sommessa.
  Le priorità sono ben altre, visto il drammatico contesto regionale delle ultime settimane, con lo sconquasso provocato da Donald Trump e il conseguente patto Putin-Erdogan sul Nord della Siria che rende il capo del Cremlino unico arbitro del Medio Oriente e rinvigora l'eterno duello tra turchi e siriani (Erdogan aveva appoggiato nel 2011 i ribelli sunniti per detronizzare Bashar Assad).
  Non solo: le relazioni tra Israele e l'Autorità palestinese sono particolarmente tese. Per dirla a sommi capi, gli interessi inevitabilmente divergenti di Russia, Turchia, Iran stanno mettendo in moto dinamiche assai pericolose, e in questo grande gioco il ruolo israeliano è delicato, perché Washington vorrebbe favorire la creazione di una sorta di Nato del Golfo, in funzione anti Iran, e in questo gioco rientrerebbe pure la Giordania che già di suo si trova in una situazione geopolitica complessa, con l'ipoteca d'essere "patria alternativa" dei Palestinesi, e di avere milioni di rifugiati.
  Ben diverso era il clima in cui venne siglato a Washington l'accordo fra Gerusalemme ed Amman, con la benedizione di Bill Clinton. Il 25 luglio 1994 fu il giorno dell'annuncio e delle foto a "futura memoria". Il 26 ottobre dello stesso anno l'accordo fu ratificato, dopo mesi di complicate trattative. Il Muro di Berlino era crollato cinque anni prima. La riunificazione tedesca era avvenuta in tempi rapidi.
  L'apartheid era finito in Sudafrica e Nelson Mandela dava la sensazione che la riconciliazione fosse possibile ovunque. L'Urss si era dissolta. La Cina cominciava a diventare una megapotenza economica. E in Medio Oriente si era battezzato - addirittura con i Premi Nobel per la pace assegnati a Yizhak Rabin e Yasser Arafat - un processo di pace che sino allora tutti dicevano fosse impossibile. Col senno di poi, possiamo dire che fu un'utopia. Un'illusione pericolosa. Le due parti erano in disaccordo su tutto. Ma con altrettanta forza, erano convinti che bisognasse proclamare la pace.
  Purtroppo Rabin venne assassinato da un estremista della destra israeliana nel 1995. Era l'unico in grado di convincere gli israeliani a fidarsi della pace proclamata con tanta enfasi e passione, ma osteggiata dalle destre, dagli estremisti, dai radicalizzati. L'unico che predicava la lotta bipartisan contro la violenza e il terrorismo, contro i sabotatori della pace, da un lato e dall'altro. Dopo la sua morte, il sogno è svanito. Il ministro degli Esteri, Shimon Peres, allora non era autorevole e amato come Rabin, sarebbe diventato "padre della patria" solo una ventina d'anni dopo. E Arafat non accettava nuovi compromessi. Non si fidava (nemmeno dei suoi).
  Resta il dato storico. Un trattato è morto, l'altro continua a sopravvivere. Gli accordi di Oslo del 1993 - sinonimo di reciproco riconoscimento tra Israele e l'istituzione dell'Autorità Palestinese, dopo 45 anni di conflitti - sono stati seppelliti dal potere nazionalista e religioso e da un Netanyahu in alcun modo disposto a patti coi Palestinesi. Il Trattato con la Giordania del 1994, invece, è ancora in piedi. Pronto a essere aggiornato, nonostante la rivendicazione territoriale di re Abdallah.
  Perché dietro ci sono grossi interessi reciproci, a cominciare da quelli della sicurezza (lotta al terrorismo) e dei rapporti economici, in particolare, la grossa questione del controllo delle acque, strumento in cui le incidenze geopolitiche sono vitali. La "geopolitica dell'irrigazione". La Giordana è infatti tra i paesi più aridi del mondo. Ogni abitante dispone di appena 150 metri cubi d'acqua all'anno.
  Inoltre, deve confrontarsi con una crescita demografica impressionante: +2,5%. Una fattore di pressione aggravato dal fenomeno delle transizioni demografiche, collegati agli sviluppi degli avvenimenti regionali. Il controllo delle acque, in un contesto altamente instabile, è una priorità. Inoltre, Amman paga la perdita, dopo la sconfitta nella guerra del 1967, della sponda destra del Giordano - la grande risorsa idrica nazionale, insieme allo Yarmouk. Spartizioni dei flussi controversi e dirimenti. Più volte Amman ha denunciato all'Onu le "violenze idrauliche" subite sia da parte israeliana che da parte siriana.
  Ebbene, nell'accordo del 26 ottobre 1994 il tema è centrale ed è regolato nei dettagli, con compensazioni dei prelievi d'acqua, bacini, canalizzazioni, irrigazioni: la sicurezza alimentare non è meno importante di quella antiterroristica. E allora, perché mai re Abdallah II ha rivendicato la sovranità su quei territori "prestati" ad Israele, come una questione vitale? Per ragioni simboliche. Per chetare l'opposizione più radicale dei Fratelli Musulmani (che sono rappresentati dal loro braccio politico giordano, il Fronte d'azione islamico). Ad essi il trattato del 1994 è stato indigesto.
  Lo hanno ritenuto troppo favorevole agli interessi israeliani, fonte comunque di corruzione (volano mazzette come nella Beirut dei bei tempi). In tutti questi anni ci sono stati parecchie frizioni tra i due paesi, ma sempre ha prevalso la ragion di stato, mascherata talvolta da emergenza. Nel marzo del 2014, per esempio, un giudice giordano venne ucciso dai militari israeliani al posto di frontiera del ponte di re Hussein, suscitando un'ondata di indignazione e provocando una forte reazione del Parlamento che chiese la liberazione di 26 cittadini giordani detenuti in Israele. Ma il parlamento giordano non ha grandi poteri, come dimostra la firma di un accordo di 10 miliardi di dollari per l'importazione di gas israeliano in Giordania, nell'autunno del 2016.
  Dal 2011, infatti, re Abdallah ha rafforzato i suoi poteri esecutivi, in contemporanea con una stretta sul fronte delle libertà d'espressione e della stampa. La mobilitazione popolare contro la normalizzazione con Israele non è riuscita a fare annullare l'accordo del gas e a ripristinare quello con l'Egitto. La rivendicazione quindi delle terre "prestate" a Israele è, in questo senso, una concessione più a uso interno che esterno. In fondo, di che si tratta? Di due territori dallo scarso valore strategico. Prova ne è la contenuta reazione israeliana.
  È comunque un messaggio unilaterale. Diretto a Netanyahu, l'interlocutore degli ultimi anni. Un personaggio tuttavia in bilico, che rischia di non essere più premier. Resta, tuttavia, colui che ha bloccato definitivamente il processo di pace coi palestinesi - che in Giordania sono la minoranza politica più influente - e che ha chiuso ogni porta, con l'appoggio di Trump, alla soluzione dei due Stati, opzione popolare tra i giordani: ma lo è per re Abdallah? Il messaggio non avrà risposta. Troppo stretti, infatti, sono diventati i legami fra i due paesi. A prescindere dalla sicurezza, ci sono quelli legati all'economia.
  Israele, carente di manodopera, ha bisogno dei frontalieri giordani e palestinesi (e questo è gradito da Amman). Quanto alla sicurezza, in questo quarto di secolo, si è stabilita un'alleanza strategica: il regime giordano dipende largamente da Gerusalemme per le informazioni sulla sicurezza mentre Israele beneficia del controllo che il regime di re Abdallah esercita sulla sua popolazione (oltre 10 milioni di abitanti) e, in qualche modo, sulla popolazione palestinese. Un matrimonio d'interesse che giova profondamente nella lotta contro il terrorismo. Ed è utile per decifrare i complicati eventi siriani. Insomma, un'alleanza complicata ma efficace. Che sta per accogliere un nuovo, più ingombrante, partner: i sauditi.
  L'ambizioso principe ereditario Mohamed bin Salman da tempo sta sdoganando Israele, all'insegna della realpolitik: lo stato ebraico non viene più percepito come nemico dell'Arabia Saudita ma come potenziale socio nel quadro del confronto contro la minaccia strategica portata avanti dall'Iran nel Golfo Persico. Uno schema strategico in cui si posizionano su un lato Iran, Turchia e Russia; sull'altro, Arabia, Israele e Stati Uniti.
  C'è però un intoppo. Che non è determinato dalla titubanza eventuale della Giordania. O dalla diffidenza di Israele. Ma dal caso Khashoggi, Jamal Lhash oggi, il giornalista assassinato e smembrato nel consolato saudita di Istanbul.
  Questo caso infame indebolisce l'alleanza strategica di Riad con Washington, e Gerusalemme patisce di conseguenza questa fragilità. Vittima collaterale dei rischi disinvolti di bin Salman (vedi la guerra nello Yemen). Un puzzle in cui il ruolo della Giordania è quello di chi si barcamena tra i predoni del Medio Oriente: l'alleanza storica con gli Stati Uniti e i Paesi del Golfo (i principali erogatori di prestiti e fondi), la Russia che vuole dirigere l'orchestra, l'Iran che non accetta sudditanze e ricatti petroliferi, i Palestinesi recalcitranti.
  Con Israele di necessità si fa virtù. E con l'Arabia Saudita, ne segue a malincuore certe scelte che mettono Amman in imbarazzo. Quando Riad ha rotto nel giugno del 2017 le relazioni diplomatiche con il Qatar, la Giordania si è trovata a dover accondiscendere l'Arabia. Però poco poco: limitando i rapporti diplomatici. Ma non gli altri.

(il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2019)


«The spy» rende giustizia a un vero eroe di Israele

La serie di Netflix racconta bene vita e morte di Eli Cohen, l'agente che mise in scacco la Siria

di Fiamma Nirenstein

Eli Cohen
La storia di Eli Cohen è meravigliosa, l'interpretazione di Sacha Baron Cohen stupefacente, ma le sei puntate di The spy (Netflix) sulla famosa spia troppo dolorose, forse, troppo vere, per potere essere digerite nel comune pasto delle serie televisive. Tant'è vero che con desiderio di delegittimazione, travestito da passione per l'action, svariate recensioni, e soprattutto quella del giornale Haaretz - che non si stanca mai di riportare tutto alla politica che gli interessa - aggredisce la serie dicendo senza veli: «finalmente eccone una che può piacere a Netanyahu». Che vergogna! Vero, questa serie, per la memoria, per il senso (finalmente! dopo tanti film in cui Israele chiede scusa e perdono di doversi difendere) di straordinarietà e di eroismo che comunica restando sostanzialmente aderente al testo storico, fa capire parecchio, di Israele, del suo spirito, dell'incredibile funambolismo della sua sopravvivenza. E Baron Cohen, che fino a ora aveva fatto ridere e sogghignare con i personaggi di Borat e di Bruno, riporta alla vita con un'interpretazione molto appropriata "la spia" e riesce a trasformarsi del tutto, con la semplicità che hanno solo i grandi attori. Rilegge la biografia di Cohen ( tanto più che hanno lo stesso nome, il più simbolico del mondo ebraico) senza togliere e senza mettere, riproducendo il testo di una grande storia che ha un solo difetto: finisce male. Sin dalla prima scena, in cui Eli è già stato torturato, e in cella, scrive il messaggio di congedo alla moglie lontana, lo spettatore sa dove siamo diretti: al patibolo. Sacha Baron Choen riesce a comunicare, con la sua stessa fisionomia di ebreo egiziano, anche nei momenti in cui si vedono le sue feste, i suoi equilibrismi, i suoi successi a Damasco, una melanconia mediorientale, il senso di un destino segnato, quello di consacrare la propria giovinezza. Stessa linea recitativa anche per il personaggio del suo responsabile nel Mossad, Dan (interpretato da Noah Emmerich, lo stesso di The americans ): lo vediamo eccitato dai successi incredibili del suo inviato e nello stesso tempo sempre angosciato per il rischio continuo. Così è sempre nella storia e nella vita quotidiana di Israele, non sai mai se sei più fiero di riuscire a preservare nonostante tutto, o più preoccupato per la sorte dei tuoi cari.
   Eli Cohen nacque nel 1924 ad Alessandria d'Egitto e i suoi genitori subirono la grande espulsione di 600mila ebrei dal mondo arabo alla nascita dello Stato di Israele. Eli restò in Egitto per concludere i suoi studi di elettronica. Partecipò a attività sioniste, ma fu arrestato, e prese parte a una missione segreta per Israele fino a essere a sua volta espulso nel '56. Giovane semplice ma ambizioso, cercò di entrare nel Mossad, ma ancora non era considerato pronto. Così il suo training, nel momento in cui si scoprirono i suoi talenti, fu frenetico, intensivo, perché la Siria diventava pericolosa ogni giorno di più, mentre avanzava il potere baathista.
   Intanto nella sua vita arrivò il grande amore, Nadia Majald, una bella ragazza di origine irachena, con cui nella serie si sorride e si piange, mentre lei da sola, negli anni a partire dal 1960, quando Eli parte per l'Argentina, cresce in totale solitudine i suoi due bambini. Oggi Nadia commentando la serie ha detto che non è del tutto soddisfatta, che ci sono cose inesatte: ma la sua critica è stata piuttosto blanda, quella di chiunque abbia vissuto una vicenda unica, irripetibile, che non può essere riprodotta o rappresentata; ha detto anche che comunque è positivo che se ne parli perché così c'è la speranza che il corpo di Eli possa essere un giorno restituito. I siriani ancora non lo hanno fatto: brucia troppo quello che Cohen è riuscito a realizzare durante la sua fantasmagorica operazione.
   Eli fu rapidamente addestrato a parlare arabo con accento siriano benché provenisse dall'Egitto, e prese il nome di Kamel Amin Thaabet. In Argentina, la sua prima tappa, si guadagnò un gran nome di patriota siriano, di benefattore e anche di organizzatore di feste che divertivano i militari, i diplomatici, l'élite siriana, fino conquistare l'amicizia di Amin al Hafez, che sarebbe poi diventato presidente della Siria. Kamel finalmente si trasferì in Siria e non solo riuscì a scoprire segreti che mandava in patria con l'alfabeto morse -che nella serie digita ogni sera su una radio che tiene in un armadio, e che alla fine lo farà scoprire-, ma creò, influenzando i circoli sempre più importanti di cui entrava a far parte, situazioni utili a Israele. Per esempio, sarà lui, con un pretestuoso gesto di munificenza, a far piantare gli alberi per proteggere le postazioni militari siriane, ma anche a far disegnare e rilevare la cartina delle loro posizioni, cosa che risultò essenziale per bombardarle nella Guerra dei Sei Giorni... Baron Cohen ha momenti di eccellenza quando, persino a casa sua, con la madre e con la moglie in Israele, e poi sulla soglia dell'esecuzione, mostra la confusione mentale, dopo tanta sicurezza nell'azione, di una persona costretta a trasformare la sua personalità fino a rinunciare alla propria vita. Eli a volte diventa Kamel, e ne soffre. Le sue feste lussuriose, il corteggiamento femminile cui deve sottoporsi essendo un marito fedele, il trattamento di favore dell'esercito che lo conduce nelle postazioni più delicate proponendogli persino di sparare personalmente sugli israeliani che si vedono in lontananza nei campi ( un momento molto drammatico) sono tutte parte di un lavoro che Eli compie con professionale insistenza. Fare la spia cambiando personalità è un lavoro di cesello, di lunga durata, i successi non ti devono eccitare, la paura non deve esistere, persino la proposta di al Hafez di diventare vicemininistro della difesa sono parte di un gioco che riguarda lo Stato, non te personalmente. Un "understatment" che si estende alla descrizione di una Siria che sappiamo molto fanatica: i siriani, i politici viziosi, i militari fanatici panarabisti, sono trattati nella serie con discrezione, senza esagerare. Al Hafez è persino carino.
   Nel 1964 Eli durante una visita a casa disse che avrebbe voluto tornare: un ufficiale del controspionaggio cominciava a sorvergliarlo da vicino. Presto, fu scoperto. E qui viene trattata brevemente la tortura, la condanna senza processo e senza difesa, la ricerca da parte della moglie di un inutile aiuto internazionale. La Siria era furiosa e umiliata: la pazzesca bravata lasciò senza parole l'intera elite siriana che andava regolarmente a cena da lui. Come era stato possibile?
   Questa domanda riguarda tutte le impossibili operazioni che Israele ha compiuto, per esempio la liberazione degli ostaggi di Entebbe, il rapimento di Eichmann, il furto dell'intero archivio nucleare iraniano ... Sono tutti risultati di un popolo che ha duemila anni e che ha subito ogni possibile persecuzione. La sua stessa sopravvivenza è un miracolo.
   Eli Cohen ha dato il suo importante contributo.

(il Giornale, 26 ottobre 2019)


Nirenstein-Lattes, lettere dalla cortina di ferro

Depositate le carte alla Fondazione Turati. a Firenze Con la corrispondenza dei primi anni `50 99. La figlia Susanna: Quando dopo la guerra il babbo tornò in Polonia fu bloccato fino alla morte di Stalin.

di Lorella Romagnoli

FIRENZE - Le carte dello scrittore e storico polacco Alberto Nirenstein e della giornalista del Corriere della Sera e del Corriere Fiorentino Wanda Lattes sono state depositate alla Fondazione di Studi Storici Filippo Turati di Firenze dalle figlie Susanna, Fiamma e Simona. Presto saranno catalogate e in futuro verranno messe a disposizione degli studiosi. «Del babbo — racconta Susanna — ci sono alcuni inediti, studi in polacco e in ebraico e articoli sulla Shoah, della mamma articoli giornalistici sui beni culturali e le carte delle sue ricerche». A ciò si aggiunge la corrispondenza tra loro negli anni tra il '50 e il '53. Alberto Nirenstein, che durante la Seconda Guerra Mondiale si era arruolato come ufficiale nelle Brigate Ebraiche della VIII armata britannica, tornò in Polonia chiamato per una consultazione — lavorava all'ambasciata polacca — ma lì fu trattenuto fino alla morte di Stalin e fu lì che iniziò la ricerca delle testimonianze sull'Olocausto del popolo ebraico rintracciando alcuni diari in cui erano scandite le varie fasi del supplizio e della Resistenza del ghetto di Varsavia. Impossibile rientrare in Italia, dove nel 1945 aveva sposato Wanda Lattes, che negli anni della guerra, giovanissima, era stata staffetta partigiana a Firenze per Giustizia e Libertà. Nel dopoguerra Wanda Lattes aveva iniziato, tra le prime donne in Italia a scegliere questa professione, il suo lavoro da giornalista, e fu proprio allora che visse il trauma della separazione dal suo amato Alberto. «Quegli anni e quelle lettere mia mamma li ha rievocati nel racconto Storia di Alberto — continua Susanna — in cui lei ricorda il loro incontro, il loro amore e poi la disperazione per questo distacco. Nessuno li aiutava e nessuno aiutava il babbo a venir via dalla cortina di ferro». «Quando telefonava dalla Polonia nella casa dei miei nonni a Firenze, dove vivevamo la mamma, la Susanna ed io, ci assemblavamo intorno al telefono nero appoggiato su un tavolino antico, trattenendo col fiato corto e l'ansia di scambiare almeno una parola la sensazione tragica di una lontananza infinita — ha scritto Fiamma Nirenstein in un articolo in memoria del babbo — Sapevamo che a lui mancavano il cibo, gli abiti, le scarpe, la libertà; gli mancava di nuovo, dopo la perdita della sua famiglia di Baranov nella Shoah e dopo gli anni duri della fondazione di Israele, un nido dove posare il capo. Però, eravamo forti: questo era il messaggio. Dovevamo essere forti, perdurare nonostante le privazioni».

(Corriere fiorentino, 26 ottobre 2019)


Concerto per celebrare il 30o dell'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana della Romagna

Domenica, 27 ottobre, alle 18 nella Sala Corelli del Teatro Alighieri di Ravenna si terrà un concerto di musica classica Ebraica per celebrare i 30 anni di attività dell'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana della Romagna.
L'evento, ad ingresso libero, è realizzato grazie al patrocinio del Comune di Ravenna, all'opera dell'Assessorato alla Cultura e al contributo personale degli artisti che si esibiranno : Il Bel Canto Italiano Duo composto dal soprano Astrea Amaduzzi e dal pianista solista ed accompagnatore Mattia Peli.
Gli artisti dal marzo 2011 hanno tenuto concerti in questa formazione in numerose città italiane spaziando dalla musica sacra e operistica italiana a repertori rari quali i canti ebraici scritti da compositori colti di musica classica ebraica da fine ottocento all'opera moderna.
Il concerto sarà un'occasione per conoscere ed apprezzare questo raro repertorio di musica ebraica classica. In particolare saranno eseguite musiche di compositori ebrei e non che hanno unito melodie popolari ebraiche alla musica classica : Alkan, Wolpe, Rodrigo, Castelnuovo-Tedesco, Milhaud, Tansman, Ben - Haim.
Astrea Amaduzzi, soprano concertista, ha conseguito il diploma di canto lirico presso il Conservatorio di Pescara e la laurea in Discipline Musicali in musica da camera e barocca e dal 2001 ha intrapreso la propria carriera come cantante e strumentista e successivamente dal 2012 anche come insegnante di tecnica vocale e interpretazione e dal 2018 è docente presso l'Accademia del bel canto Italiano di Alessandria.
Mattia Peli, direttore d'orchestra, Pianista e compositore, si è formato presso il Conservatorio di Parma diplomandosi in violino, composizione, pianoforte e direzione d'orchestra. Dal 2000 tiene concerti come direttore d'orchestra, e pianista solista e in formazione vocale e dal 2018 è docente presso l'Accademia del bel canto Italiano di Alessandria.
L'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana sorge a Firenze nel 1950 per iniziativa di Giorgio La Pira per promuove la conoscenza, il rispetto e l'amicizia fra cristiani ed ebrei eliminando reciproci pregiudizi e combattendo ogni forma, palese o velata, di antigiudaismo e antisemitismo e collaborando nella difesa dei valori ideali e morali comuni.
L'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana della Romagna, nasce nel 1989 e da allora promuove ed organizza corsi di lingua ebraica, conferenze, lezioni, incontri, dibattiti dedicati alla cultura e alla religiosità ebraica e cristiana e la sua presidente, Maria Angela Baroncelli, dal 1992, grazie alla presentazione del Rav. Luciano Meir Caro, tiene corsi di ebraico biblico presso l'Università Bosi Maramotti di formazione permanente degli adulti di Ravenna.

(Ravennanotizie.it, 26 ottobre 2019)


Perché non si parla delle proteste in Libano e in Iraq?

I media coprono praticamente ogni protesta in ogni angolo del mondo, tranne quelle anti-iraniane. Come mai?

di Maurizia De Groot Vos

In Iraq i manifestanti hanno trovato il coraggio di bruciare le bandiere iraniane, mentre in Libano finalmente i giovani manifestanti sono andati direttamente alla fonte di tutti i problemi, Hezbollah.
Ieri a Beirut quando le proteste contro il gruppo terrorista che tiene in ostaggio il Libano si sono fatte più "ardite" gli Hezbollah hanno fatto partire le loro squadre di picchiatori in motocicletta, qualcosa di molto simile ai Basij iraniani. Solo che ai ragazzi non ci sono arrivati perché l'esercito libanese si è messo in mezzo e ha difeso i manifestanti.
   Si dice che le proteste siano iniziate a seguito della decisione del Governo libanese di mettere una tassa su WhatsApp (da qui il termine "WhatsApp intifada"), in realtà quella tassa, quell'ennesimo balzello è stato solo il motivo scatenante.
   I ragazzi libanesi protestano perché non vedono per loro un futuro con il Paese che è governato da persone corrotte e legate a potenze straniere e ai loro interessi (Iran e Arabia Saudita), con uno Stato nello Stato (Hezbollah) che rischia di trascinare il Libano in una guerra con Israele che sarebbe devastante, con una disoccupazione al 36% e un debito pubblico altissimo.
   Fino a pochi giorni fa i manifestanti in Libano hanno cercato di non prendere di mira un singolo partito mettendo tutti sullo stesso piano, ma negli ultimi giorni le proteste sono diventate sempre più mirate ad Hezbollah e questo non è piaciuto al loro capo, Hassan Nasrallah.
   È da questo che ieri è scaturita la decisione di scatenare i picchiatori in motocicletta, i Basij libanesi, che però in maniera davvero sorprendente (e inattesa) si sono trovati i militari libanesi a fare da scudo ai ragazzi e sono stati costretti a fare marcia indietro.
   Ieri in Libano è stato superato un confine che difficilmente potrà essere ignorato, quello della accusa diretta al gruppo terrorista sciita legato all'Iran che tiene in ostaggio un intero popolo, una intera nazione.
   Anche in Iraq proseguono le proteste. Ieri sono state bruciate per la prima volta bandiere iraniane mentre i media di Teheran mostravano una storia completamente diversa con alcuni miliziani che bruciavano quelle americane e israeliane.
   Gli iracheni, sciiti o sunniti che siano, non vogliono dipendere dalla politica iraniana e dagli interessi degli Ayatollah. Esattamente come i giovani libanesi vogliono uno Stato meno corrotto e meno legato agli interessi stranieri.
   Ma in Iraq, se possibile, la situazione è più complessa rispetto al Libano. L'Iran con la scusa della protezione dei pellegrini sciiti ha inviato in Iraq migliaia di "poliziotti", in realtà milizie sciite legate ai Guardiani della Rivoluzione Islamica che si sono unite a quelle già presenti in abbondanza in territorio iracheno.
   L'Iran di fatto controlla militarmente buona parte del Paese e non si sa fino a che punto permetterà ancora nuove proteste e nuovi attacchi al regime iraniano.
   Esattamente come il Libano anche l'Iraq rischia di essere trascinato in una guerra finalizzata a difendere gli interessi e le ambizioni iraniane. E così uno dei Paesi potenzialmente più ricchi del mondo vive nella miseria più assoluta solo per favorire gli interessi di Teheran.
   Sarebbe bello che i media occidentali coprissero con più rigore e attenzione le proteste in Libano e in Iraq, ma sembra che quando ci sono di messo gli Ayatollah iraniani tutto venga minimizzato.
   E così ci si inventa la "WhatsApp intifada" o i manifestanti iracheni che bruciano bandiere americane e israeliane quando invece bruciano quelle iraniane. C'è una strana sudditanza verso gli Ayatollah e verso il loro piano criminale per il Medio Oriente.
   Non vorremmo che essendo gli iraniani i maggiori nemici di Israele qualcuno pensi di "oscurare" la corsa verso il baratro in cui Teheran sta trascinando tutto il Medio Oriente.

(Rights Reporters, 26 ottobre 2019)


Germania - Al via il processo dell'ex SS di 93 anni

Bruno D. era di stanza al lager nazista di Sutthof presso Danzica dal 9 agosto 1944 al 26 aprile 1945: «Quelle immagini e quelle voci sono una persecuzione, ml dispiace molto».

«Li vedevo portare nelle camere da gas, vedevo sbarrare la porta e dopo sentivo urla e rumori sordi». E il momento più drammatico della deposizione di un ex guardiano delle SS del campo di concentramento di Stutthof, oggi 93enne, imputato in un processo in corso ad Amburgo.
   Rispondendo alle domande della giudice Anne Meier-Goring, l'uomo ha aggiunto: «Non sapevo che i deportati venivano gasati». Era di stanza al lager nazista presso Danzica dal 9 agosto 1944 e il 26 aprile 1945. Dato che all'epoca aveva tra i 17 e i 18 anni, Bruno D. - questo il suo nome - viene adesso processato dalla sezione minorile del tribunale amburghese. L'accusa lo ritiene complice di omicidio in 5230 casi: in sostanza, nel suo ruolo, avrebbe «sostenuto la perfida e crudele uccisione dei deportati, in particolare degli ebrei». Tra i suoi compiti principali, quelli di «impedire la fuga, la rivolta e la liberazione» dei deportati, afferma ancora la Procura. In particolare, l'anziano alla sbarra ricorda di aver visto «20 o 30 prigionieri» mentre venivano trasferiti nella camera da gas. «Non sono in grado di dire se quelle persone erano uomini o donne, perché a tutti i prigionieri i capelli erano stati rapati a zero», ha raccontato ancora l'ex guardiano delle SS. «Ma so dire cos'è successo dopo, perché non ho visto uscire nessuno». Alla sua prima apparizione in aula, lunedì scorso, Bruno D. aveva dichiarato «quanto gli dispiace» quello che è accaduto alle persone nel lager di Sutthof, presso Danzica. «Non ero andato volontario a prestare servizio militare, e non potevo aiutare i prigionieri. Ero stato costretto. Me le immagini di quel campo mi hanno perseguitato per tutta la vita».
   L'ex guardiano delle SS afferma di non esser stato mandato a combattere al fronte a causa di un piccolo difetto cardiaco.

(Il Dubbio, 26 ottobre 2019)


Israele, strategie. Varato il piano «Tenufa»

Tsahal si potenzia ulteriormente in funzione anti-Hezbollah. Il principio-guida che ispira i vertici militari è «agire preventivamente, rapidamente e letalmente». Il generale Aviv Kohavi, capo di stato maggiore israeliano, ne ha illustrato gli aspetti salienti.

 
Il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (IDF), generale Aviv Kohavi, il 23 ottobre scorso ha reso noto il piano pluriennale elaborato al fine di rendere le Forze di difesa israeliane maggiormente efficaci, veloci, meglio addestrate allo scopo di contrastare le attuali minacce poste allo Stato ebraico dai suoi nemici.
   Gli stanziamenti in bilancio dovrebbero venire utilizzati nella dotazione alle unità di Tsahal di migliori sistemi d'arma ed equipaggiamenti e, al contempo, migliorare il sistema di difesa aerea e anti-missile.
   Una decisione - secondo i vertici militari di Gerusalemme - resa improcrastinabile dalla situazione nei settori settentrionale e meridionale, divenuta oltremodo tesa e precaria, al punto di rischiare di degenerare in un conflitto.
   Alla luce di tale contesto strategico, attraverso l'applicazione del cosiddetto piano «Tenufa» verranno stanziati ingenti finanziamenti per lo sviluppo di nuovi sistemi d'arma, in particolare di UAV/UCAV (velivoli senza pilota per la raccolta di informazioni o da combattimento), l'acquisizione di un gran numero di missili di precisione dagli Usa e lo schieramento in linea di ulteriori batterie di difesa aerea e anti-missile.
   Per quanto concernerà le forze terrestri, il focus verrà concentrato anche sulle attività di combattimento in aree urbanizzate, poiché si ritiene che gli impieghi dell'esercito in futuro saranno prevalenti in contesti del genere piuttosto che in scontri di grandi unità in campo aperto. A tale fine sono ormai da tempo in programma specifiche esercitazioni.
   Nel nuovo quadro strategico è stato identificato un nemico principale regionale. In realtà non si tratta di una novità, poiché è l'Hezbollah libanese, potente e organizzata milizia sostenuta dall'Iran, la potenza regionale avversaria di Israele.
   Hezbollah, reduce da un conflitto combattuto "su procura" di Teheran e Damasco contro gli jihadisti dell'Isis in Siria, nella sua patria (il Paese dei cedri) manterrebbe attivo un proprio arsenale comprendente 130.000 tra razzi e missili, tutte armi in grado di essere utilizzare per attaccare i siti strategici e centri urbani israeliani.
   Gli analisti strategici di Tsahal ritengono dunque vitale un'azione di rapida debellatio della milizia sciita libanese onde evitare che essa possa trovarsi nelle condizioni di attaccare il territorio israeliano.
   Queste capacità non potranno però prescindere dal miglioramento della capacità dell'Intelligence militare (Aman) di individuare gli obiettivi in territorio nemico, sfruttando nuovi asset dedicati ed elementi tratti dai vari corpi e reparti di tutte le forze armate, concentrando poi il training sulle specifiche missioni di combattimento di volta in volta necessarie.
   La competenza su tali attività di intelligence sarà devoluta a una task force composta da Aman, dall'aeronautica e dalle strutture dei tre comandi regionali dell'IDF.
   Secondo le indiscrezioni rese note dal giornalista Judah Ari Gross mediante il suo articolo pubblicato oggi dal quotidiano Online "Time of Israel", lo stato maggiore sarebbe intenzionato all'acquisto di altri velivoli a pilotaggio remoto Hermes-450, UAV di medie dimensioni impiegabile sia nella raccolta di informazioni che nelle azioni di attacco con missili di precisione.
   Tuttavia, se sul piano strettamente strategico il piano pluriennale «Tenufa» risponde alle esigenze difensive israeliane emerse dalle esperienze maturate in questi ultimi anni, va però rilevato che esisterebbero delle incertezze riguardo alle modalità del suo finanziamento, soprattutto alla luce della mancata approvazione da parte del ministero delle finanze del necessario aumento dello stanziamento alla voce "difesa" nel bilancio dello Stato ebraico.
   Le misure previste dallo stato maggiore, che interesseranno lo strumento difensivo israeliano nei prossimi cinque anni, troveranno applicazione - almeno formalmente - nel gennaio 2020, seppure le IDF si siano riproposte di porre in atto alcune di esse già prima di allora.

(insidertrend, 25 ottobre 2019)


Relazione capo IDF: Israele pronto ad affrontare qualsiasi sfida

L'IDF è preparato ad affrontare qualsiasi sfida provenga dai nemici di Israele, ma il fronte caldo rimane quello a nord

Il confine nord di Israele e in particolare le attività iraniane e quelle di Hezbollah rappresentano la principale minaccia per la sicurezza di Israele. È quanto emerge dal rapporto del capo delle IDF, il Generale Aviv Kochavi, presentato ieri alla stampa.
Se la minaccia proveniente dal fronte settentrionale non è certo una novità, lo sono però alcune considerazioni fatte dal capo delle IDF nello spiegare il tipo di minacce che Israele dovrà affrontare nei prossimi mesi.
«La sfida strategica centrale per Israele sta sul fronte settentrionale», ha detto Kochavi ai giornalisti in una conferenza stampa organizzata per spiegare il nuovo piano pluriennale dell'esercito israeliano.
«Al centro della minaccia vi sono il radicamento delle forze iraniane e di altre forze armate in Siria e il progetto missilistico di precisione. In entrambe le situazioni, si tratta di uno sforzo guidato dall'Iran, che utilizza il territorio di paesi con governi estremamente deboli» ha continuato il Generale Kochavi.

 Gli Hezbollah
  Parlando di Hezbollah, il principale proxy iraniano, il Generale Kochavi ha detto che «per molti anni, Hezbollah ha tenuto prigioniero lo stato libanese, ha creato il proprio esercito ed è quello che in realtà determina la politica di sicurezza del paese».
In sostanza, in Libano lo Stato non conta niente, almeno a livello militare. È Hezbollah a determinare le politiche militari non il governo di Beirut e questa non è una buona notizia, né per lo stesso Libano né per Israele.

 Il fronte sud
  Oltre a prepararsi per il più che probabile scontro sul fronte nord, l'IDF si prepara anche ad affrontare la possibile riacutizzazione delle tensioni sul fronte sud (quello di Gaza n.d.r.) anche se il Generale Aviv Kochavi individua nella Jihad Islamica (altro proxi iraniano) più che in Hamas il vero pericolo.
«L'IDF vede nella Jihad Islamica, più che in Hamas, l'organizzazione che trascinerà la Striscia di Gaza in un conflitto con Israele» afferma il capo dell'IDF.
«Non dobbiamo farci ingannare dalla momentanea calma sul fronte sud, la possibilità di una escalation è sempre molto concreta e potrebbe non dipendere dalle decisioni di Hamas» ha aggiunto Kochavi. «La situazione è comunque estremamente fragile» ha poi concluso.

 Iraniani galvanizzati dalla "non risposta" americana
  Parlando dei preparativi che i Guardiani della Rivoluzione Islamica e in particolare della pericolosissima Forza Quds stanno facendo in Siria, in Iraq e in Libano, il Generale Kochavi evidenzia come gli iraniani appaiano "galvanizzati" dalla "non risposta" americana a seguito dei recenti attacchi iraniani contro obiettivi sauditi.
«Riteniamo che le reazioni di basso profilo degli Stati Uniti dopo gli attacchi iraniani contro obiettivi nel Golfo Persico non abbiano fatto altro che rafforzare il senso di fiducia delle forze iraniane e che questo abbia rafforzato la loro intenzione di portare un attacco contro Israele» afferma Kochavi.
In ogni caso, garantisce il capo dell'IDF, Israele è pronto per affrontare qualsiasi sfida, sia con il supporto americano che senza.

(Rights Reporters, 25 ottobre 2019)


Assalto alla sinagoga

Dopo Halle, la marcia nera contro un centro ebraico arriva a Budapest.

Nel centro della capitale ungherese, cinquanta neonazisti in uniforme nera e stivali da campo hanno marciato verso il centro culturale Aurora della comunità ebraica. Le scene che si sono viste a Budapest sono orrende, specie perché arrivano ad appena due settimane dall'attacco alla sinagoga di Halle, in Germania, dove un neonazista ha ucciso due persone per strada dopo aver tentato di sfondare le porte del centro ebraico durante lo Yom Kippur. Sarebbe stato un massacro.
   A Budapest, i corvi neri hanno gridato slogan antisemiti, bruciato bandiere israeliane e tentato di incendiare il centro. Intanto, una sagoma con macchie di sangue e l'immagine di Igor Kolomoisky, presidente della comunità ebraica ucraina, è stata lasciata accanto alla storica sinagoga Brodsky nel centro della capitale, Kiev. Non passa settimana senza che in Europa non si registrino simili attacchi e aggressioni. Islamiste spesso, come in Francia e in Belgio; e nazionalistiche, come nell'Europa centro-orientale. Due correnti d'odio cui si salda il terzo ramo dell'albero avvelenato dell'antisemitismo - che di certo però non fa breccia nell'Ungheria degli estremismi di destra - quello dell'estrema sinistra impegnata a delegittimare Israele e il popolo ebraico (in Inghilterra il Labour corbyniano è diventato tossico per gli ebrei). Gli ebrei in tutta Europa non superano il milione, su una popolazione complessiva di cinquecento milioni. Eppure, gli ebrei sono anche le vittime di gran parte dei crimini d'odio a sfondo etnico e religioso. E' la vecchia storia degli ebrei paragonati ai cavalli che provano a scappare dalle stalle quando avvertono il terremoto, sempre prima degli altri, come se avessero una particolare predisposizione al pericolo. L'antisemitismo è questo: la manifestazione purulenta di un virus che sta ammorbando il sistema immunitario europeo, fino a renderlo incapace di rispondere.

(Il Foglio, 25 ottobre 2019)


Chi vive di cultura non può che sentirsi un po’ ebreo senza esserlo

Il senso storico è oggi minacciato nella mentalità diffusa

di Alfonso Berardinelli

Un mio giovane amico, un ebreo ventenne, un ragazzo straordinario la cui intelligenza, sensibilità e cultura sono una consolazione in un mondo che naviga verso le varie, epidemiche forme nuove di stupidità, ignoranza o conformismo acculturato, un paio di giorni fa mi ha fatto una domanda inaspettata: "Che cosa ti viene subito in mente, anche senza pensarci, quando vieni a sapere che qualcuno è un ebreo?".
   La risposta che il mio giovane amico voleva non era una riflessione, ma la focalizzazione immediata di un istinto, la prima, irriflessa associazione di idee. La mia risposta è stata più o meno questa: "Quando so che qualcuno è un ebreo sento anzitutto due cose: la prima è che ho davanti un problema che mi riguarda e riguarda tutti, dato che l'antisemitismo esiste; la seconda è che in quella persona c'è una terza dimensione, qualcosa di ulteriore, una profondità prospettica, un passato, una storia che gli altri italiani non hanno". Ormai ho quasi sempre l'impressione di avere a che fare solo con individui bidimensionali, nei quali c'è solo il presente; individui in cui la memoria non c'è o non conta; nei quali anche l'eventuale religiosità è piatta, senza radici e senza passato e che quindi non hanno in sé una bussola culturale e morale che li orienti. Anche i loro problemi, cioè, per quanto in sé dolorosi, possono essere gravi, ma sono anche culturalmente banali.
   La conversazione naturalmente è continuata e potrà continuare in futuro. Con questo giovane ebreo le conversazioni sono sempre insolitamente lunghe, fantasiose, profonde e umoristiche, nel corso delle quali compaiono verità essenziali e magari ansiogene, che di solito accogliamo scoppiando insieme a ridere. E tutto nasce dalle domande che il mio amico, un po' allievo e un po' maieuta, mi fa spesso. Le sue molte domande, giovanilmente socratiche, molto serie e molto discrete, mi costringono a partorire pensieri nuovi e memorie dimenticate. Anche in questo caso siamo andati avanti per più di mezzora. E quindi non potevo che dirgli la solita cosa. Che per me l'ebraismo non è mai stato un problema perché culturalmente (non politicamente) ci sono cresciuto dentro. La mia cultura nasce nell'adolescenza come cultura del Novecento, della modernità; e intorno ai grandi russi del secolo precedente, Dostoevskij, Tolstoj, Puskin, Cechov, per me come per altri sono comparsi subito i molti maestri ebrei del ventesimo secolo: Freud, Kraus, Chaplin e Kafka, Svevo e Saba, Lukacs e Auerbach, Benjamin e Adorno, Loewith e Arendt, Steinel' e Bloom, Singer e Kubrick, nonché i miei maestri italiani di gioventù, l'ebreo Giacomo Debenedetti e gli ebrei a metà Franco Fortini e Elsa Morante. Come la maggior parte di coloro che vivono di cultura, anche io vivo nella condizione, abbastanza comoda, di sentirmi piuttosto ebreo senza esserlo. E' appena uscito da Donzelli un libro dello storico Sergio Luzzatto intitolato Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l'eccezione, la storia. L'autore apre la sua Premessa citando lo scrittore israeliano Amos Oz: "Non è questione di sassi, tribù, cromosomi. Non si ha da essere archeologi, antropologi o genetisti per tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non si ha da essere ebrei osservanti. Neanche ebrei. D'altro canto, neanche antisemiti. Di fatto, basta essere dei lettori". E Luzzatto aggiunge: "Da quando pochi anni fa ho letto queste parole nel saggio Gli ebrei e le parole, scritto da Amos Oz insieme con una storica di professione (sua figlia Fania), ho capito meglio perché prema anche a me di tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non mi preme da ebreo osservante, e neppure da ebreo tout court. Non mi preme da antisemita, evidentemente. Ma nemmeno mi preme (in fondo) da storico, che pure è il mio mestiere. Mi preme da lettore".
   Avere il senso del passato, avere quel senso storico che oggi è così minacciato nella mentalità diffusa e spesso anche nei professionisti della cultura e negli studiosi, non richiede di essere degli storici di mestiere. Richiede di essere lettori soprattutto di letteratura, il cui linguaggio non è specializzato e riservato a una comunità ristretta come quello delle varie, cosiddette "discipline", sociologia, psicologia, storia e perfino filosofia. Il senso del passato che tiene insieme vivi e morti, presenti e assenti, ha bisogno della letteratura come storiografia e di lettori capaci di leggerla, E' come critico, come interprete di testi, come saggista e autore di commenti "sapienziali" alla letteratura che sono per metà ebreo. Il giovane amico che mi fa tante domande si chiama Giacomo Pontremoli e Goffredo Fofi profetizza di lui che sarà il Giacomo Debenedetti del futuro, qualunque cosa questa profezia significhi.

(Il Foglio, 25 ottobre 2019)


Ma chi sono questi curdi?

Quando si muore per esistere: storia del popolo curdo tra persecuzioni e desiderio di riscatto

di Simona Gautieri

 
Del popolo curdo si ha una percezione vaga. Non si conosce la sua storia millenaria né tanto meno dove sia esattamente stanziato. Compare in isolati momenti storici, come ora in Siria, per poi tornare nell'ombra di una esistenza caratterizzata da una eterna lotta per vedersi riconosciuto il diritto ad una propria nazione.
Eppure quello curdo costituisce il quarto gruppo etnico più numeroso del Medio Oriente, dopo arabi, persiani e turchi, con una popolazione stimata in circa 40 milioni di persone che vivono divisi tra Turchia, l'Iran e l'Iraq, la Siria e l'Armenia. Sono altresì presenti in Europa, in seguito ai flussi migratori, in special modo in Germania e penisola scandinava.

 Kurdistan? Dov'è?
  I curdi sono un popolo indoeuropeo di antichissime origini la cui regione storica, il Kurdistan, è un area montuosa situata nell'Asia minore che comprende la Turchia sud orientale, l'Iran nordoccidentale, la Siria settentrionale, l'Armenia e l'Azerbaigian. Il Kurdistan, sentita dai curdi come la propria nazione, non esiste però a livello internazionale. In tale regione, prima della conquista araba, erano presenti comunità ebraiche e cristiane e si praticava la religione zoroastriana. Attualmente la maggioranza dei curdi è di religione musulmana sunnita ma si pratica anche la religione musulmana sciita nel sud-est della regione, mentre il 5% della popolazione è di religione cristiana caldea.

 Un'oppressione che arriva da lontano
  Finiti sotto il dominio degli Arabi prima e dell'Impero Ottomano poi, i curdi sono stati da sempre un popolo oppresso pronto ad essere sacrificato agli interessi dei più forti stati conquistatori. La pacifica convivenza di popoli diversi, dal punto di vista etnico e religioso, venne spazzata via dall'accordo Sykes-Picot del 1916, ideato dalla Francia e dalla Gran Bretagna per attuare i propri interessi strategici in Medio Oriente. Per fare ciò venne sostituito il modello governativo coloniale con la creazione di stati nazionali che facessero capo ad un gruppo etnico maggioritario. I popoli minori, come i curdi, gli armeni e i ceceni, divennero vittime di sanguinose persecuzioni al fine di sottometterli ad un nuovo concetto di nazionalismo.

 L'indipendenza negata per colpa del petrolio
  Alla fine della Prima Guerra mondiale il trattato di Sevres, firmato il 10 agosto del 1920, avrebbe dovuto riconoscere il Kurdistan quale stato autonomo ed indipendente. Il trattato però non venne mai applicato. Una volta scoperti i giacimenti petroliferi presenti nel territorio del Kurdistan iracheno, il trattato di Sevres venne sostituito con quello di Losanna del 24 luglio 1923. Con questo trattato il Kurdistan venne smembrato tra quattro grandi paesi, Iran, Iraq, Siria e Turchia, e l'idea di uno stato curdo indipendente venne definitivamente accantonata. Da allora, in tutte le aree del Kurdistan, ebbero luogo rivolte e battagli portate avanti dei partiti curdi al fine di veder affermata la propria autonomia.

 Gli undici mesi della Repubblica
  Nel 1946 venne fondata in Iran la Repubblica di Mahabad, con presidente Qazi Muamed. Questa Repubblica doveva essere un primo nucleo del futuro Kurdistan indipendente ma non venne riconosciuta da nessuna delle potenze alleate e durò solo undici mesi. In seguito ad una concessione per lo sfruttamento del petrolio, l'Armata Rossa revocò il proprio appoggio alla neo Repubblica e l'esercito iraniano poté così gradualmente riprendere il controllo del territorio. La bandiera della Repubblica di Mahabad, composta da tre fasce orizzontali verde, bianca e rossa e da un sole centrale con 32 raggi, è tutt'oggi riconosciuta quale propria bandiera dal popolo curdo. Negli anni successivi, lo scià Reza Pahlavi dovette confrontarsi a lungo con la guerriglia condotta dai curdi guidata dallo sceicco Mustafa Barzani.

 Torture e stupri
  Nel 1974, venne siglata la pace tra Iran ed Iraq e il Governo di Bagdad decise di ritirar il sostegno fino ad allora dato ai guerriglieri curdi. Il governo di Teheran ha esercitato, in questi decenni, una dura repressione contro il popolo curdo sottoposto a torture ed esecuzioni sommarie. Contro le donne curde sono state invece portate avanti sistematici atti di violenza e stupri. Anche in Iraq la storia del popolo curdo è scritta con il sangue delle tante vittime falcidiate dai massacri voluti dal Governo di Bagdad. Ai tempi della firma del Trattato di Losanna, Schek Mahumud Hafid, re dei curdi rifiutò di far parte dell'Iraq ed elesse il suo regno a Sulaymaniyya. Riuscì a sconfiggere per ben due volte l'esercito britannico fino a che, nel 1924, dovette capitolare ed arrendersi all'esercito britannico-iracheno dopo aver combattuto una sanguinosa battaglia per la propria indipendenza. Il sentimento nazionalista curdo si andò rafforzando con l'intensificarsi delle persecuzioni e i Peshmerga, che significa 'coloro che vanno incontro alla morte', si rifugiarono nelle zone montuose da dove ripresero la lotta contro gli iracheni e gli inglesi.


DEPORTAZIONI DI MASSA E DEVASTAZIONI

Negli anni '60, allo scoppio della guerra tra Iraq ed Iran, le autorità irachene ordinarono la deportazione di massa in Iran di migliaia di curdi, in special modo donne, vecchi e bambini, mentre gli uomini venivano incarcerati, se non giustiziati, senza alcuna accusa. Negli anni successivi al conflitto in Medio Oriente, furono migliaia i curdi fatti sparire dai servizi segreti iracheni. Durante il regime del partito Baath di Saddam Hussein furono rasi al suolo più di 5 mila villaggi e seminate, in territorio curdo, oltre 20 mila mine antiuomo.

 Tremila ragazzi torturati
  Nel 1985 tremila ragazzi curdi furono arrestati e torturati dalle forze di sicurezza irachene ed usati come ostaggi per obbligare i propri parenti a consegnarsi alle autorità. Fra il 1987 ed il 1988, con l'operazione militare denominata 'Anfal', furono seppelliti vivi in fosse comuni più di 182 mila curdi iracheni.

 Il gas nervino
  Nel marzo del 1988, nella città di Halabja fu dato ordine dal dittatore iracheno di usare il gas nervino contro la popolazione civile causando la morte di oltre 550 persone in un solo giorno. Anche
coloro che riuscirono a sopravvivere manifestarono, negli anni successivi, gravi patologie mediche e furono numerosi i neonati venuti al mondo con gravi malattie congenite. A seguito delle persecuzioni subite, milioni di curdi abbandonarono le proprie case per cercare rifugio in Iran ed in Turchia: nel 1988 le autorità turche confermarono di aver dato asilo ad oltre 57 mila curdi iracheni.

 L'ONU e l'indipendenza
  Nel 1991, dopo la Seconda Guerra del Golfo, il popolo curdo ricevette un importante riconoscimento: la risoluzione n. 688 dell'Onu stabilì che l'esercito iracheno non potesse superare il 36o parallelo del nord dell'Iraq. Ciò permise una sorta di riconoscimento, se non formale, almeno sostanziale della autonomia ed indipendenza del Kurdistan iracheno. Dal 2003 tale regione gode dello status
federale all'interno dell'Iraq e pur non avendo ottenuto il riconoscimento di Stato, tuttavia dispone di una certa autonomia organizzativa.


L'INVASIONE TURCA

Dei curdi si è tornato a parlare in questi giorni a seguito dell'attacco militare sferrato dalla Turchia di Erdogan nel nord della Siria. Da sempre le vicende di questo popolo martoriato si sono intrecciate con le vicende politiche dei due Paesi in questione. Durante gli anni'30 e '40 del XX secolo, il Governo di Ankara definiva i curdi "i turchi delle montagne" nel tentativo, anche linguistico, di non riconoscere l'esistenza di questo popolo che ad oggi rappresenta oltre il 20% della popolazione turca.

 Una guerra civile con migliaia di morti
  Negli anni'80, come reazione al tentativo di cancellare l'identità del popolo curdo da parte del Governo di Ankara, nacque nel 1978 il gruppo di ispirazione marxista PKK, il Partito dei lavoratori curdi, guidato ad Abdullah 'Apo' Ocalàn che dal 1984 al 2013 ha condotto una insurrezione contro il governo turco. In quella che da molti esperti viene definita una vera guerra civile, più che una semplice insurrezione popolare, morirono migliaia di persone in entrambi i fronti. A seguito della creazione del Pkk, il Governo turco incrementò le azioni persecutorie a danno della popolazione curda vietando l'uso di termini quali 'curdi' e 'Kurdistan' oltre che l'uso della lingua curda stessa. Il 15 agosto del 1984 il Pkk dichiarò l'inizio della rivolta curda condotta anche con atti terroristici a cui seguirono le cruente azioni di repressione di Ankara che portarono alla distruzione di interi villaggi, esecuzioni civili sommarie e torture oltre alla sparizione di giornalisti ed attivisti della causa curda. Dopo aver dichiarato il cessate il fuoco nel 1999 e nel 2004, il Pkk ha ripreso le sue ostilità su vasta scala fino al marzo 2013 quando Ocalàn dichiarò "la fine della lotta armata" ed un cessate il fuoco con dei colloqui di pace. Nel 2015 invece il conflitto è ripreso a seguito dei bombardamenti turchi alle postazioni presidiate dal Pkk nel nord dell'Iraq durante la guerra condotta dai curdi contro lo Stato islamico del Daesh. Durante la lotta armata condotta in questi decenni, entrambe le parti si sono macchiate di numerose violazioni dei diritti umani. Il Pkk è stato accusato di atti di terrorismo contro civili, ospedali, scuole ed istituzioni accusate di essere filo-turche. Migliaia di persone sono state uccise per aver servito il governo o per essersi rifiutate di sostenere l'organizzazione. Centinaia di scuole sono state bruciate e quasi trecento insegnanti uccisi con l'accusa di essere "emblemi dell'imperialismo turco appartenenti al sistema di assimilazione coloniale". Gli attacchi contro la popolazione civile è stata tanto sanguinaria da aver portato ad una spaccatura all'interno dello stesso Pkk con alcuni membri dell'organizzazione che ne invocavano la cessazione.

 Il massacro di Derince
  Il 21 ottobre 1993 l'organizzazione curda commise il massacro di Derince dove vennero uccisi 22 membri di una stessa famiglia, uomini, donne e bambini, con l'accusa di essere cooperanti del governo. La stessa fine toccò a dei panettieri che rifornivano le basi militari turche. Di contro anche l'esercito turco si è reso responsabile di crimini di guerra per aver massacrato interi villaggi curdi con armi pesanti. L'organizzazione non governativa 'Human Right Watch' ha condannato le forze governative turche per gravi violazioni dei diritti umani internazionali , quali torture, uccisioni extragiudiziali e fuoco indiscriminato durante il conflitto con il Pkk.

 Armi chimiche
  Inoltre, secondo alcuni testimoni oculari, il Governo di Ankara avrebbe autorizzato l'utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile. Accuse supportate anche da un rapporto forense rilasciato dall'ospedale militare universitario di Amburgo.


L'ORIGINE DELL'ATTUALE CRISI

E' in questo clima di altissima tensione che trova origine la crisi internazionale esplosa il 9 ottobre di quest'anno a seguito delle operazioni turche nel nord della Siria per "liberarla dai terroristi curdi". La Turchia considera di estrema importanza per la propria sicurezza nazionale impedire la formazione, ed il riconoscimento, di uno Stato autonomo curdo in Siria.

 L'accordo USA-Turchia
  Lo scorso 7 agosto gli Stati Uniti e la Turchia hanno trovato una intesa per la creazione di una sorta di 'zona cuscinetto' al confine sud della Turchia, nella zona confinante con i territori occupati dalle milizie curde. L'accordo prevedeva il ritiro dei curdi dal confine con il supporto delle truppe americane al fine di permettere al Governo di Ankara di trasferire nella 'safe zone', un milione di profughi siriani scappati in Turchia a seguito della guerra civile. Il governo turco ha infatti già presentato i progetti riguardanti i villaggi, moschee ed ospedali da costruirsi per il ritorno in patria dei rifugiati.

 27 milioni di dollari
  Un progetto da 27 miliardi di dollari per il quale il presidente Erdogan ha chiesto un contributo anche dall'Unione Europea. Prima però bisogna liberare i territori di confine dagli odiati nemici curdi. A questo punto diventa più chiaro come nelle priorità del presidente Erdogan non vi siano solo la sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo ma anche un affare da miliardi di dollari. All'atavico odio per la popolazione curda, si aggiungono anche motivazioni di politica interna: nelle recenti elezioni Erdogan ha subito una pesante sconfitta ed ha perso la maggioranza parlamentare a causa dell'ampio consenso ottenuto dal partito curdo HDP. Inoltre, il partito nazionalista turco MHP accusa il Presidente di non aver combattuto abbastanza l'estremismo islamico e di non aver ostacolato l'operato dei curdi in Siria.

 Operazione Primavera di pace
  Si è giunti così al 9 ottobre scorso, giorno in cui la Turchia ha dato inizio all'operazione "Primavera di Pace" attaccando il nord-est della Siria. Una guerra, quella siriana, che si considerava ormai sopita dopo che, dal suo inizio a marzo 2011, ha prodotto più di 500 mila morti, 160 mila profughi nei soli Paesi confinanti e 6 milioni di sfollati interni di cui 2,5 milioni di bambini. Grande eco ha avuto anche l'uccisione dell'attivista per i diritti delle donne e politica curda Hevrin Khalaf per mano di terroristi. Lo scontro tra le milizie curde e l'esercito turco è impari se si considera che le forze armate turche sono le seconde più numerose all'interno delle forze Nato per numero di uomini. I curdi, ancora una volta si trovano ad essere vittime di logiche geopolitiche delle grandi potenze in Medio Oriente. L'accordo raggiunto tra Trump ed Erdogan viene vissuto dai curdi come un tradimento verso coloro che dal 2012 hanno dato la vita contro i fanatici dell'lsis che imperversavano nelle città di Kobane o Tal Abyad, lungo il confine turco-siriano. Sono stati proprio i combattenti del Ypg e del Ypj, l'Unità di protezione delle donne curde, oltre a numerosi volontari provenienti da tutto il mondo, a sconfiggere lo Stato del Daesh. Il conflitto, esploso da poche settimane, ha già visto l'uccisione di centinaia di persone oltre che la fuga di oltre 60 mila civili dalle zone di guerra. Alla condanna da parte dell'Unione Europea, Erdogan risposto dicendo che "se l'Europa ci accuserà di occupazione militare in Siria, apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi". E mentre la Turchia si appresta a sferrare una offensiva a Kobane e Manbij, le truppe del presidente siriano Assad marciano verso nord per dare sostegno alle milizie curde con il beneplacito della Russia. E mentre le grandi potenze affilano le armi, il nome del popolo curdo, come da secoli, è già nella lista delle vittime sacrificali dell'ennesima guerra di potere in Medio Oriente.

(Ticinonline, 25 ottobre 2019)



Se volete vedere Gerusalemme dovete salire in terrazza

di Francesca Caferri

 
Notre Dame Center a Gerusalemme
A Gerusalemme il caos delle viuzze della città vecchia e la frenesia delle strade di quella moderna possono travolgere: in una città tanto divisa e tanto controversa è difficile trovare un luogo dove prendere le distanze da tutto e, semplicemente, ammirare la magia. Un buon luogo per farlo è la terrazza del Notre Dame Center, un hotel pensato per accogliere i pellegrini (e non solo) che si trova appena fuori dal New Gate della città vecchia, nel cuore del quartiere cristiano. La terrazza ospita un ristorante ed è quindi accessibile anche a chi non risiede nella struttura: basta varcare la sbarra all'ingresso, entrare nell'hotel e seguire le indicazioni per il roof top per trovarsi di fronte a uno dei più completi e spettacolari panorami di tutta Gerusalemme, lontani dalla folla che toglie il fiato in tanti angoli della città nuova. A destra, oltre le torri della facciata della struttura si staglia la Cupola della roccia, con il sottostante Muro del Pianto. Poco più in alto, il Monte degli ulivi: poi, leggermente a sinistra, la porta di Damasco e il dedalo di stradine di Gerusalemme Est, la parte musulmana della città, che Israele controlla dal 1967 senza il riconoscimento delle Nazioni Unite. E infine, sulla sinistra, le mura che circondano Pisgat Ze'ev, insediamento israeliano ai margini della città: prova tangibile della lotta politica che da quasi 70 anni si combatte in questo luogo. Prendete un calice di vino, un'insalata e un piatto di formaggi francesi: e fermatevi a pensare a quanta storia è passata nelle strade e sulle colline che guardate. Poi, qualunque sia la vostra idea politica, prima di andar via trovate un momento per un pensiero o una preghiera: perché in questo luogo così magico a trionfare sia la pace.

(Venerdì di Repubblica, 25 ottobre 2019)


Bambini cardiopatici curdi curati in un ospedale israeliano

Grazie a una ong cristiana sionista di Gerusalemme gli sforzi per garantire cure salvavita continuano, nonostante l'escalation delle violenze.

Dopo aver subìto ad Afrin, l'anno scorso, i bombardamenti e gli attacchi sia dell'esercito turco sia delle milizie siriane alleate dei turchi, Aram (nome di fantasia, per motivi di sicurezza) e la sua famiglia, curdi nativi della Siria settentrionale, sono stati costretti a fuggire nel Kurdistan iracheno, così come altre centinaia di migliaia di siriani recentemente trasformati in profughi a causa dell'offensiva militare di Ankara. Quando Aram è arrivata nel Kurdistan iracheno, si è scoperto che suo figlio Ajwan di 3 anni e mezzo aveva bisogno di sottoporsi a un intervento a cuore aperto che non era effettuabile in quel paese. E' stato allora che un medico americano che lavorava in Kurdistan le ha detto che Ajwan avrebbe potuto essere curato in Israele.
"Non avevo paura di venire in Israele - dice Aram al Jerusalem Post - anche se ero stata avvertita che avrei potuto perdere il mio passaporto siriano". In tutta fretta Ajwan è stato messo in collegamento con la ong cristiana sionista con sede a Gerusalemme Shevet Achim, che ha procurato i visti per lui per sua madre e si è occupata di organizzare l'intervento di cardiochirurgia per il piccolo presso lo Sheba Medical Center di Tel Hashomer....

(israele.net, 25 ottobre 2019)


Germania, allarme antisemitismo: un tedesco su quattro ha "pensieri" contro gli ebrei

Il 41% degli interpellati ritiene che gli ebrei parlino troppo di olocausto, condivisione che viene espressa anche per frasi come "gli ebrei hanno troppo potere" oppure "sono responsabili della maggior parte delle guerre".

di Giovanna Pavesi

I numeri parlano chiaro: un tedesco su quattro ha "pensieri" di natura antisemita, che vanno da chi ritiene che gli ebrei parlino troppo di persecuzioni, che siano troppo influenti e che siano alla base di molti conflitti nel mondo.
Il dato è emerso da uno studio realizzato per conto del Congresso mondiale ebraico, secondo il quale il 41% dei tedeschi ritiene che gli ebrei "parlino troppo" dell'olocausto. Condivisione che viene espressa anche per frasi come "gli ebrei hanno troppo potere" oppure "sono responsabili della maggior parte delle guerre".

 Chi sono i nuovi antisemiti
  Per il rilevamento demoscopico sono state interpellate 1.300 persone per circa due mesi e mezzo, quindi da prima dell'attentato di Halle, nella Sassonia-Anhalt, quando un estremista di destra ha tentato un assalto contro la sinagoga locale, ha lanciato bombe in un cimitero ebraico e ha ucciso due persone. In base a quanto riportato nel sondaggio, l'antisemitismo è diffuso anche tra chi vanta redditi alti e chi occupa posizioni di rilievo e di guida a livello sociale. In questa fascia, in particolare, il 28% ritiene che gli ebrei abbiano un potere troppo forte nel mondo degli affari e della finanza e la metà pensa che siano più leali a Israele che alla Germania.

 L'analisi dei numeri
  Il 65% dei tedeschi ritiene che le convinzioni neonaziste stiano crescendo anche grazie al successo dei partiti di estrema destra e circa il 50% pensa che gli ebrei siano più esposti di altri al rischio di violenze e di attacchi (anche verbali). Il dato più inquietante è quello legato all'olocausto, perché un quarto degli interpellati non esclude che possa tornare a verificarsi una persecuzione simile a quella degli anni Quaranta, mentre si ferma al 28% il numero di coloro che ritengono che il governo tedesco non faccia abbastanza per difendere le comunità ebraiche in Germania.

 Le reazioni
  La pubblicazione di questi numeri ha causato allarme e preoccupazione. Il presidente del Congresso ebraico mondiale, Ronald Lauder, al Sueddeutsche Zeitung, ha infatti dichiarato: "È giunta l'ora che tutta la società tedesca prenda posizione e lotti in modo aperto e frontale contro l'antisemitismo". Secondo il vice capogruppo dei Verdi al Bundestag, Kostantin von Notz, i risultati di questo sondaggio sono "scioccanti, ma non sorprendenti", dato che "l'antisemitismo in Germania non è mai scomparso e purtroppo arriva fino al centro della società". Simile il commento di Stefan Ruppert, esponente della Fpd, il partito liberale, che definisce "allarmante" che una mentalità antisemita trovi tali consensi.

(il Giornale, 24 ottobre 2019)


Anche gli Emirati ora trattano con l'Iran. Scongelati 700 milioni di Teheran

«Né i paesi occidentali, né l'Arabia Saudita possono fornirci sicurezza» e scongelano 700 milioni di dollari di Teheran

di Sarah G. Frankl

Il terrore corre nel Golfo, terrore dell'Iran dopo che gli Ayatollah hanno potuto impunemente attaccare petroliere, abbattere un drone americano e infine bombardare pesantemente l'Arabia Saudita, senza che nessuno muovesse un dito.
E così gli Emirati Arabi Uniti corrono ai ripari e prima scongelano un fondo di 700 milioni di dollari degli Ayatollah che gli USA avevano chiesto di bloccare, poi trattano con Teheran per riaprire prima possibile gli uffici di cambio e le attività commerciali con l'Iran.
«Ci siamo resi conto che né i paesi occidentali né l'Arabia Saudita ci possono fornire sicurezza» ha detto un funzionario emiratino al giornale arabo Al-Araby Al-Jadeed.
Gli Emirati Arabi Uniti si erano schierati con il fronte anti-iraniano guidato da Stati Uniti e Arabia Saudita e avevano accettato di imporre sanzioni a Teheran tra le quali appunto il blocco di 700 milioni di dollari, il fermo di ogni operazione di cambio tra banche emiratine e iraniane e la conseguente chiusura di ogni ufficio di scambio sia a Teheran che a Dubai, oltre a tutta una serie di sanzioni contro l'Iran.
Ma dopo gli attacchi iraniani alle petroliere saudite, l'abbattimento da parte dei Pasdaran di un drone americano e soprattutto dopo il pesante bombardamento delle più importanti infrastrutture petrolifere saudite dello scorso 14 settembre senza che nessuno muovesse un dito, hanno realizzato che forse per loro sarebbe stato più conveniente e sicuro riallacciare i rapporti con l'Iran.
A sollevare ulteriori dubbi sul fatto che gli Emirati Arabi Uniti potessero essere protetti dalla politica espansionista iraniana ci si è messo anche l'abbandono americano degli alleati curdi che di certo non è stata una dimostrazione di affidabilità da parte degli USA.
Così, zitti zitti, gli Emirati Arabi Uniti nelle ultime settimane si sono defilati dall'asse anti-iraniano, hanno revocato le sanzioni verso Teheran e hanno progressivamente riallacciato i rapporti con gli Ayatollah.
Gli Emirati Arabi Uniti sono i primi a defilarsi ufficialmente dall'asse anti-iraniano e molto probabilmente saranno seguiti a breve anche da altri Paesi visto che anche l'Arabia Saudita, una volta capito che gli USA non l'avrebbero difesa, stanno segretamente trattando con l'Iran.
Non c'è che dire, un capolavoro diplomatico quello di Donald Trump.

(Rights Reporters, 24 ottobre 2019)


Siti palestinesi chiusi: «Attacco alla libertà»

di Michele Giorgio.

 
Issa Amro
«Due anni fa fui arrestato dalla polizia palestinese e chiuso in cella per sette giorni. Mi accusarono di aver violato la Cyber Crimes Law, di aver commesso dei crimini attraverso internet criticando sui social il presidente (Abu Mazen), il premier e ministri dell'Autorità nazionale palestinese».
   Issa Amro racconta al manifesto una delle pagine più buie della sua vicenda di attivista per i diritti dei palestinesi. «Ero abituato all'oppressione da parte delle forze israeliane — prosegue Amro, noto per le sue battaglie a difesa dei palestinesi di Hebron —, avevo messo in conto che la mia denuncia dell'occupazione militare israeliana mi sarebbe costata più volte l'arresto e la detenzione. Ma mai avrei immaginato che, per le mie opinioni, mi avrebbero messo le manette anche gli agenti della polizia palestinese». Il caso di Amro tornerà nell'aula del tribunale di Hebron il 27 novembre. Se sarà giudicato colpevole per lui potrebbero aprirsi di nuovo le porte del carcere. E per gli stessi reati presto altre persone rischieranno la prigione.
   Nei giorni scorsi la Corte distrettuale di Ramallah, su richiesta della Procura, ha ordinato la chiusura di 49 tra siti e account di social — che avrebbero pubblicato materiale «pericoloso» per la sicurezza nazionale — nel rispetto della Cyber Crimes Law, la legge contro i cosiddetti crimini cibernetici approvata nel 2017 tra le proteste di giornalisti, blogger e altri operatori dell'informazione. Molti dei siti e delle pagine social sono critici della linea del rais Abu Mazen e dell'Anp. Alcuni invece sono collegati al movimento islamico Hamas o all'ex alto dirigente del partito Fatah, ora in esilio, Mohammed Dahlan, che da otto anni fa la guerra al presidente.
   «Siamo al massacro della libertà di parola di espressione», avverte la Federazione nazionale della stampa palestinese che ha mandato in strada, davanti alla sede dell'Alto Consiglio giudiziario a Ramallah, dozzine di giornalisti a reclamare la revoca dell'ordine. Oggi i giudici riesamineranno la decisione. «Mi auguro che il provvedimento sia annullato, perché viola la libertà di espressione e di opinione. Per noi giornalisti sono corde delicate. Le autorità dovrebbero premiare la stampa invece di bloccarla e reprimerla», protesta Nasser Abu Bakr, il presidente della Federazione.
   La procura respinge le accuse. Afferma che la decisione di chiudere i 49 siti e pagine Facebook è stata presa dopo che il suo ufficio aveva ricevuto denunce contro questi siti gestiti in modo anonimo e con fonti di finanziamento sconosciute. Ma la giustificazione non ha convinto nessuno e persino il governo dell'Anp ha criticato la mossa della magistratura affermando che la libertà di stampa e di opinione va rispettata. Una presa di posizione importante ma che non cancella gli abusi subiti in passato da giornalisti e blogger da parte dei servizi di sicurezza Anp. Come fanno sorridere le critiche di Hamas alla magistratura a Ramallah: a Gaza la polizia del movimento islamico è accusata di tenere il fiato sul collo della stampa locale e nei giorni scorsi ha arrestato il reporter Hani al-Agha, colpevole di aver criticato le autorità sui social. Sorte simile è toccata in Cisgiordania al giornalista Radwan Qatanani di Nablus. La mobilitazione contro la Cyber crime law va avanti, con la partecipazione di docenti universitari, organizzazioni per i diritti umani, partiti politici, con in testa il Fronte popolare (sinistra), e tante persone comuni. Ed è stata lanciata anche una campagna online con l'hashtag #BlockingisACrime.

(il manifesto, 24 ottobre 2019)


Più socialista che nazionalista. Ecco il "compagno" Hitler...

Nel libro di Brendan Simms le idee del Führer appaiono molto diverse (a volte opposte) da quelle date per scontate.

di Marco Gervasoni

Niente di più facile oggi che sentirsi apostrofare «fascista»: basta uscire dal seminato mainstream. E persino «nazista», tanto ormai la differenza tra l'uno e l'altro sembra sparita agli occhi dei più.
Ecco, questa novella reductio ad Hitlerum, come la chiamava negli anni Cinquanta il grande filosofo conservatore Leo Strauss, è segnata, più che le passate, dall'ignoranza degli eventi storici: che non sono più ricordati, perché i contemporanei di quella stagione tendono a passare a miglior vita, ma non sono neppure studiati. Tutt'al più si è rimasti a qualche vecchio testo di storia, elaborato in altre stagioni e superato, mentre dei nuovi sono a conoscenza solo gli specialisti.
   Proprio sul nazismo, anzi nazional-socialismo, circolano infatti una serie di leggende che la storiografia più aggiornata ha lasciato da un canto. Si sente per esempio spesso dire che Hitler era «nazionalista». E che il nazional-socialismo era un movimento politico di «destra». E infine che il progetto europeista sarebbe tutto l'opposto di quello nazional-socialista. Queste leggende sono sfatate da molti studi e buona ultima spicca la biografia di Hitler dello storico Brendan Simms (Hitler: Only the World Was Enough, Allen Lane editore). Egli non è solo un illustre cattedratico di Cambridge. Nel dibattito che ha diviso gli uomini di cultura tra remainers e leavers, Simms, per quanto irlandese, è stato uno dei più rilevanti nel secondo campo, tanto da scrivere una rigorosa storia del rapporto dell'Inghilterra con l'Europa che fa comprendere come l'isola non avrebbe mai potuto fare parte della Ue. La biografia di Hitler è probabilmente destinata a provocare altrettanto rumore, dato il suo forte impatto revisionistico e la sua intenzione di rimettere in discussione i luoghi comuni sulla figura del Führer.
   Il primo luogo comune è quello dell'ossessione di Hitler per gli ebrei e gli slavi. Certo, Simms non può negare la costanza dell'antisemitismo hitleriano ma, a mio avviso correttamente, lo colloca nella prospettiva giusta: quella dell'antisemitismo come anticapitalismo. L'Hitler di Simms era un sostenitore dell'antisemitismo biologico in quanto sociale; come attori del capitalismo, Hitler odia gli ebrei. Perché in realtà, ecco il secondo luogo comune sfatato, Hitler detesta i capitalisti e il capitale, si definisce e si sente «socialista», certo un socialista tedesco che combatte contro quello ebraico e internazionalista dei bolscevichi. Anche qui, l'ideologia anticapitalista di Hitler è più pragmatica rispetto a quella degli esponenti della «sinistra» nazional-socialista, che egli stroncò senza pietà. Ma solo perché, con un cinismo e un realismo non molto diverso da quello di Lenin e di Stalin, Hitler aveva capito che privandosi dell'alleanza con i capitalisti non sarebbe mai andato al potere.
   Assieme agli ebrei e al capitalismo, Hitler odia anche il mondo anglosassone, l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Si tratta in questo caso di un odio misto a fascinazione. Hitler è disgustato dalla civiltà mercantile inglese e da quella consumistica americana, ma al tempo stesso ne è attratto: perché, come il fascismo italiano, anche il nazional-socialismo tedesco possedeva una doppia anima, nostalgica nei confronti dell'ordine pre-borghese e al tempo stesso modernista e modernizzatrice, affascinata dal macchinismo e dalla tecnica. Il progetto geopolitico di Hitler consisteva non nel controllo del mondo, ma nel voler diventare padrone dell'Europa come spazio vitale esteso fino alla Russia. Questo gigante economico e geografico avrebbe dovuto competere con l'egemonia anglo-americana nel mondo, alleandosi con il player asiatico, cioè il Giappone. Saremo maliziosi, ma Simms continua a costellare le sue pagine, soprattutto quelle dedicate alla guerra, di citazioni in cui Hitler sembra chiedere più Europa: del resto, sono noti i progetti nazional-socialisti di creare una moneta unica, un Euro-Marco, e di eliminare ogni tipo di barriera doganale e persino di frontiera tra i vari Stati che avrebbero costituito il nuovo Impero, il quarto Reich. Ecco perché è sbagliato definire Hitler un nazionalista: egli non ragionava infatti per partizioni statuali costituite da una o più etnie, ma si muoveva su uno spazio imperiale, un nuovo impero definito dal dominio etnico della razza ariana, con centro Berlino, e una precisa gerarchia di razze e di sotto-razze.
   Ed ecco infine perché non è giusto definire Hitler di «destra» e ancor meno conservatore. Certo, i conservatori e la destra tedesca lo appoggiarono nella sua ascesa al potere, ma poi cercarono senza successo di frenarne l'influenza, fino al tentativo di assassinarlo, visto che il complotto della Rosa bianca scaturì da ambienti del militarismo e del nazionalismo tedesco. Facciano attenzione perciò gli odiatori di sinistra a spandere in lungo e in largo l'accusa di essere nazisti: leggendo l'Hitler di Brendan Simms, potrebbero trovarlo molto somigliante a loro stessi.

(il Giornale, 24 ottobre 2019)





Il nazional-socialismo di ieri e il global-socialismo di oggi

Spunti per una riflessione
    «Ecco perché è sbagliato definire Hitler un nazionalista: egli non ragionava infatti per partizioni statuali costituite da una o più etnie, ma si muoveva su uno spazio imperiale, un nuovo impero definito dal dominio etnico della razza ariana, con centro Berlino, e una precisa gerarchia di razze e di sotto-razze».
Così riassume l’articolista del Giornale un aspetto del pensiero di Brendan Simms. A supporto di questa tesi si può citare un passaggio della monumentale opera Hitler del grande studioso della seconda guerra mondiale Ian Kersaw:
     
    «Nelle tre ore del suo discorso [di Hitler] al Reichstag per l'anniversario della sua ascesa al potere, il 30 gennaio 1937, nel dare conto dei suoi primi quattro anni di governo, egli vantava di aver ristabilito l'onore tedesco attraverso il ripristino della coscrizione obbligatoria, la creazione della Luftwaffe, la ricostruzione della flotta navale e la rioccupazione della Renania, e annunciava la revoca solenne dell'ammissione di colpevolezza della Germania nel trattato di Versailles, «estorta al debole governo di allora». Il 1o maggio tesseva l'elogio della Germania come società priva di classi, dove individui di qualsiasi condizione avevano la possibilità di raggiungere la vetta grazie ai soli conseguimenti personali, nella misura in cui questi fossero nell'interesse collettivo della nazione, e solo nella disponibilità a quella assoluta subordinazione di cui egli stesso aveva dato prova nei quasi sei anni trascorsi sotto le armi. Senza guardare minimamente alla dimensione pratica e quotidiana dell'attività politica, si lanciava in un epico affresco della grandezza e potenza e dominio della Germania incarnati nella sua arte e architettura straordinarie, millenario monumento dei traguardi conseguiti dalla cultura teutonica. «Edificazione di un tempio» per «una vera ed eterna arte germanica» egli definiva la Casa degli artisti tedeschi, il giorno della sua inaugurazione, a luglio. Quanto all'obiettivo di far di Berlino la capitale del mondo, col nome di Germania, esso veniva prospettato a novembre come l'atto di regalare «a un popolo millenario dal millenario passato storico e culturale» una «città millenaria» degna di lui. Al congresso del partito a Norimberga, i primi di settembre, al tema dei grandi conseguimenti nazionali e sociali degli anni precedenti si abbinava il proponimento di una grande rivoluzione razziale da cui sarebbe sorta «l'umanità (Menschen) nuova».
    (Ian Kershaw, Hitler, Bompiani 2001, Vol. II, pag. 48)
Si adatta bene alla situazione di oggi un motto di C.S. Lewis, l’autore di “Le lettere di Berlicche”, in cui si descrivono in modo deliziosamente ironico le astuzie di Satana nella sua battaglia contro i mortali: “Il diavolo ha la magistrale capacità di far correre gli uomini con gli estintori dove c’è un allagamento, e con le idrovore dove c’è un incendio.” Si direbbe che oggi il Nemico stia usando con successo questa tecnica di guerra con l’Europa di oggi, che corre a soffocare ogni minimo accenno del riattizzarsi dell’incendio nazionalista, bollato come “suprematismo”, e non pone mente al dilagare dell’alluvione globalista che mira, come lo strumentale nazionalismo di Hitler, a diventare l’ultima forma di dominio imperiale del mondo. Come si addice ad ogni valida tecnica di guerra, il diabolico stratega fa apparire che il vero pericolo è da una parte, mentre in realtà si trova esattamente dall’altra. Lo spauracchio del nazional-populismo spinge ad andare verso il global-populismo. Sostituendo al nuovo termine “populismo” quello collaudato di “socialismo”, si ottiene che al nazional-socialismo di ieri si sta avviando a subentrare il global-socialismo di oggi. A pensarci bene, anche l’attuale struttura bipolare del nostro governo ha qualcosa che si muove in questa direzione: globale e sociale uniti insieme. M.C.

(Notizie su Israele, 24 ottobre 2019)


Memoriale della Shoah di Milano

di Riccardo Bianchini

Il Memoriale della Shoah di Milano è un luogo della memoria dedicato alle persone, in grande maggioranza ebrei, che, dalla città lombarda, furono deportate nei campi di sterminio nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dal 1943 al 1945 furono migliaia i prigionieri che dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano furono caricati su convogli formati da carri bestiame e trasportati al campo di Auschwitz-Birkenau e ad altri campi di concentramento e di sterminio.
Di quelli che vennero mandati ad Auschwitz nel dicembre 1943 e nel gennaio 1944 conosciamo 774 nomi; di loro, solo 27 sopravvissero.
Per compiere le operazioni di deportazione con raggelante efficienza, le autorità di occupazione naziste e il governo collaborazionista fascista realizzarono una vera e propria 'macchina della deportazione' nelle viscere della Stazione Centrale. Qui, in un'area nascosta destinata al carico dei treni postali, le persone venivano stipate a decine in angusti vagoni di legno.
Attraverso un montacarichi, i vagoni venivano poi sollevati fino al piano dei binari dove i convogli venivano assemblati e avviati verso i campi.
Progettato dallo studio Morpurgo de Curtis e aperto nel 2013, il Memoriale della Shoah di Milano è il risultato del progetto di riconversione e di allestimento di quello spazio di oltre 7000 metri quadrati situato al piano terra della Stazione Centrale. Ad oggi, il progetto allestitivo è stato completato, mentre la biblioteca, lo spazio incontri, le sale di studio e l'auditorium sono in realizzazione.

L'interno del Memoriale della Shoah di Milano visto dall'ingresso La facciata del memoriale su Piazza Edmond J. Safra Il setto in calcestruzzo con la scritta "INDIFFERENZA" collocato all'ingresso del memoriale La galleria di ritratti e le "Stanze delle testimonianze" dove vengono proiettate le video interviste ad alcuni dei sopravvissuti
La galleria di ritratti e le "Stanze delle testimonianze" dove vengono proiettate le video interviste ad alcuni dei sopravvissuti
La galleria di ritratti e le "Stanze delle testimonianze" dove vengono proiettate le video interviste ad alcuni dei sopravvissuti
La ricostruzione con vagoni originali di uno dei "treni della morte"
La ricostruzione con vagoni originali di uno dei "treni della morte"
Esterno e interno del "Luogo di Riflessione"
Esterno e interno del "Luogo di Riflessione"
L'ultimo binario del memoriale con il "Muro dei Nomi" che riporta i nomi di 774 ebrei deportati al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau tra il dicembre del 1943  e gennaio 1944, e il vano montavagoni con il cartello "Vietato Trasporto Persone" L'ultimo binario del memoriale con il "Muro dei Nomi" che riporta i nomi di 774 ebrei deportati al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau tra il dicembre del 1943  e gennaio 1944, e il vano montavagoni con il cartello "Vietato Trasporto Persone"   lightbox gallery plugin by VisualLightBox.com v6.0m
 La visita
  La visita al memoriale si apre, ancor prima di arrivare alla biglietteria, con un lungo setto in calcestruzzo su cui è incisa a caratteri cubitali la scritta "INDIFFERENZA". Il senso di questa installazione è spiegato dalla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla deportazione dal binario 21, in uno dei contributi video presenti nel Memoriale.
Segre racconta, con straziante lucidità come, durante il tragitto sui camion che portava lei e gli altri deportati dal carcere di San Vittore alla Stazione Centrale, i suoi occhi di bambina non scorsero segni di vicinanza da parte dei cittadini milanesi, che parevano ignorare i disperati che vedevano passare sotto le loro finestre. Gli unici gesti di solidarietà - una mela, una parola di conforto - vennero piuttosto dagli stessi detenuti del carcere, testimoni della loro partenza. Fu proprio questa indifferenza che rese possibile, o quantomeno contribuì a rendere possibile, l'Olocausto.
Quella di Liliana Segre è una delle tante testimonianze che formano l'area centrale del Memoriale; qui, i grandi ritratti fotografici in bianco e nero dei sopravvissuti e le loro biografie sono associati a contributi video proiettati a ciclo continuo in piccole "stanze" delimitate da pareti in acciaio nero. Una serie di pannelli a parete racconta poi la storia del luogo, e le vicende della deportazione di ebrei, "popoli inferiori" e prigionieri politici dall'Italia ai campi nazisti d'oltralpe. Camminando attraverso il memoriale, lo spiazzamento e l'inquietudine sono amplificati da un rumore sordo che mette in vibrazione pavimento e pareti. Non si tratta di un contributo audio multimediale ma dello scuotimento delle strutture prodotto dai treni che partono sopra le nostre teste, e che ci rammentano che siamo, oggi come negli anni Quaranta, nelle viscere di una delle principali stazioni ferroviarie d'Europa.
Nella parte più interna dell'esposizione si trovano due dei ventiquattro binari un tempo presenti, che formano anche la testimonianza più diretta degli eventi che si svolsero in questo luogo.
Il primo binario accoglie la ricostruzione di uno dei convogli usati per la deportazione; il convoglio è formato dai vagoni merci originali usati per i prigionieri e sta, muto, ad ammonirci che dimenticare non è possibile.
Ad un capo del binario, Morpurgo de Curtis hanno inserito un "luogo di riflessione", una struttura circolare a cui si accede attraverso una rampa in discesa, il cui interno in penombra è semplicemente allestito con una panca curva e un oculo nel soffitto da cui si proietta una luce.
Il secondo binario è nudo. Una grande proiezione a parete, potente nella sua essenzialità, rimanda i nomi dei 774 ebrei deportati al campo di Auschwitz-Birkenau, da cui emergono ciclicamente quelli dei ventisette sopravvissuti che dai campi di sterminio sono riusciti a tornare. Una serie di lapidi a pavimento riporta le date e le destinazioni dei venti convogli partiti dal binario 21.
Al termine del binario rimane il vuoto del vano montacarichi, attraverso cui i vagoni postali venivano issati sino al piano di manovra, dove spicca con tragica crudezza un vecchio cartello con la scritta "Vietato Trasporto Persone".
L'allestimento del memoriale milanese non ha la pretesa di raccontare esaustivamente la Shoah da un punto di vista storico ma è pensato piuttosto per testimoniare le vicende che qui e qui vicino si svolsero, insieme alle storie di quelli che da questo luogo furono forzati a passare durante gli anni della persecuzione nazifascista, senza però rinunciare a proiettarne le valenze e le implicazioni sul tempo presente.

(Inexibit, 24 ottobre 2019)


Popolazione di Gerusalemme - la città vecchia

Al 24 maggio 2006, la popolazione di Gerusalemme era 724.000 (circa il 10% della popolazione totale di Israele), di cui il 65,0% era ebreo (circa il 40% vive a Gerusalemme est), 32,0 % erano musulmani (quasi tutti vivi). a Gerusalemme est) e il 2% dei cristiani. Il 35% della popolazione della città era composta da bambini di età inferiore ai 15 anni. Nel 2005, la città aveva 18.600 neonati.
Queste statistiche ufficiali israeliane si riferiscono al più ampio comune israeliano di Gerusalemme. Ciò include non solo l'area dei comuni israeliani e giordani prima del 1967, ma anche i villaggi e i quartieri palestinesi periferici ad est della città, che non facevano parte di Gerusalemme est prima del 1967. I dati demografici per Dal 1967 al 2012 ha mostrato una crescita continua della popolazione araba, in numero relativo e assoluto, e il declino della popolazione ebraica nella popolazione totale della città. Nel 1967, gli ebrei rappresentavano il 73,4% della popolazione della città, mentre nel 2010 la popolazione ebraica era scesa al 64%. Nello stesso periodo, la popolazione araba è aumentata dal 26,5% nel 1967 al 36% nel 2010. Nel 1999, il tasso di fertilità ebraica totale era di 3,8 bambini per donna, mentre il tasso palestinese era 4.4.
Tra il 1999 e il 2010, le tendenze demografiche si sono invertite: il tasso di fertilità ebraica è aumentato e il tasso arabo è diminuito. Inoltre, il numero di immigrati ebrei dall'estero che hanno scelto di stabilirsi a Gerusalemme è costantemente aumentato. Nel 2010, c'era un tasso di crescita ebraica superiore a quello arabo. Quell'anno, il tasso di natalità della città era di 4,2 bambini per madri ebree, rispetto a 3,9 per madri arabe. Inoltre, 2.250 immigrati ebrei dall'estero si stabilirono a Gerusalemme. Il tasso di fertilità ebraica è ancora in aumento, mentre il tasso di fertilità arabo è ancora in calo.

(voyagesphotosmanu.com, 24 ottobre 2019))


"Ricordiamo insieme VII edizione 2019" all'ex collegio militare di Roma

di Miriam Spizzichino

Si è tenuta ieri, 23 ottobre 2019, la VII edizione di "Ricordiamo insieme", cerimonia di commemorazione del 76o anniversario della deportazione dei cittadini romani ebrei, presso il Centro Alti Studi per la Difesa in Palazzo Salviati a Roma.
La manifestazione è iniziata con "Quanta memoria ancora?", un toccante video dove venivano ricordati tutti i deportati del 16 ottobre 1943. A seguire numerosi interventi come quello di Massimo Finzi, assessore alla memoria della CER (Comunità Ebraica di Roma) che ha ricordato "il frutto avvelenato di un clima fatto di calunnie, di accuse false, ad iniziare da quella del deicidio, che hanno generato nell'arco di circa due millenni un clima generale ostile all'ebraismo".
Ad accompagnare ogni intervento è stato presente il coro della Diocesi di Roma diretto dal Maestro Mons. Marco Frisina e il coro degli alunni delle Scuole della Comunità Ebraica di Roma dirette dal Maestro Josef Anticoli.
Il Generale S.A. Fernando Giancotti, nel suo discorso, ha affermato che l'ex collegio romano dove adesso ha sede il CASD appartiene a tutti in quanto lì risiede la memoria collettiva di ciò che è stato per molti ebrei romani.
Sami Modiano è stato presente alla cerimonia e ha raccontato la sua testimonianza a Birkenau, rispondendo alle molte domande dei ragazzi venuti in rappresentanza dei loro rispettivi istituti scolastici.
L'evento è stato organizzato dall'associazione "Ricordiamo Insieme" composta da Sara, Rivka e Grazia Spizzichino e Tobias e Federica Wallbrecher. Proprio Tobias, nei saluti iniziali, ha voluto porgere omaggio ai parenti delle molte persone che tra il 16 e il 18 ottobre 1943 hanno stazionato all'interno di Palazzo Salviati in attesa di essere brutalmente deportati nei Campi di Sterminio.

(Shalom, 24 ottobre 2019)


Israele: allarme per un possibile attacco con missili da crociera

Riunione del gabinetto di sicurezza. La minaccia giudicata "reale e imminente"

Israele si sta preparando a un probabile attacco iraniano con missili da crociera e droni in risposta agli attacchi israeliani su obiettivi iraniani in Siria (e Iraq).
A rivelarlo sono fonti della difesa israeliana le quali riferiscono anche che ieri si sarebbe riunito il gabinetto di sicurezza in quanto la minaccia sarebbe "reale e incombente".
Un rapporto riservato diffuso nella serata di ieri parla di un «probabile attacco iraniano con l'uso di missili da crociera e droni» il che li renderebbe difficilmente intercettabili a causa del fatto che volano a bassissima quota.
Questo preoccupa molto i vertici israeliani tanto che per la seconda volta in una settimana è stato deciso di riunire il gabinetto di sicurezza.
Lo scorso 14 settembre l'Iran ha portato un attacco simile contro l'Arabia Saudita con risultati definiti "devastanti".
L'attacco iraniano del 14 settembre contro le infrastrutture saudite ha dimostrato la capacità iraniana di effettuare azioni di questo tipo.

(Rights Reporters, 23 ottobre 2019)


In Israele ora è il turno di Gantz. Le alternative e uno spettro: il terzo voto

di Micol Flammini

ROMA - Mentre in video annunciava che avrebbe rinunciato al tentativo di formare un governo, l'immagine di Benjamin Netanyahu sembrava sbiadirsi. Per la prima volta in dieci anni, il premier israeliano ha detto che non c'erano i numeri, e nemmeno le possibilità, di costruire una coalizione, ha detto "non riesco", e ha pronunciato la sua prima rinuncia nel giorno del suo settantesimo compleanno. Dopo le elezioni del 17 settembre, il presidente Reuven Rivlin aveva affidato a Netanyahu l'incarico di formare un esecutivo di unità nazionale e il negoziato con Blu e bianco di Benny Gantz, che ha ottenuto più seggi (33) alle ultime elezioni, è fallito dopo poco. Il premier non si fidava del generale e il generale non voleva governare con il premier. Netanyahu ha continuato a cercare alleanze per arrivare al numero magico, i 61 seggi necessari per la maggioranza nella Knesset, ma su di lui pesano gli anni al potere, il suo logoramento e soprattutto le accuse, tante e ingombranti, in attesa di giudizio. Rivlin, dopo la rinuncia di Netanyahu, si è rivolto a Benny Gantz, l'ex generale delle Forze di difesa israeliane, che ha un mese di tempo per presentare delle opzioni. Questi giorni per la politica israeliana sono un tumulto di prime volte: la prima rinuncia, il primo mandato in dieci anni dato a un politico che non è Netanyahu, il primo pensiero di un Likud senza Bibi. Israele, come notava ieri il giornalista Anshel Pfeffer, sta entrando in acque inesplorate, tutto sembra improbabile ma tutto sta diventando possibile.
   Gantz ha detto di essere ottimista e pronto a formare un governo "di unità liberale" più che nazionale, si guarda intorno, ma difficilmente riuscirà a raggiungere la soglia dei 61 seggi. Il suo primo obiettivo è quello di trovare un pertugio nel Likud di Netanyahu, cercare di convincere il partito ad abbandonare il suo leader e proporre la formazione di un governo a rotazione, in cui dovrebbe essere lui ad assumere per primo la premiership. Ma nel Likud, per quanto l'idea di indire delle primarie non risulti più così bizzarra come appariva soltanto qualche settimana fa, nessuno è pronto a tradire il proprio leader, neanche Gideon Sa'ar che pure poco tempo fa su Twitter ha gridato "sono pronto" a sfidare Bibi. Gli ambiziosi nel partito sono tanti - il presidente della Knesset Yuli Edelstein, il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan, il ministro degli Esteri Israel Katz e l'ex sindaco di Gerusalemme Nir Barkat - tutti disposti a sfidare (un giorno) ma non a tradire (adesso) e per ora le decisioni dentro al partito le prende soltanto Netanyahu.
   Blu e bianco cercherà comunque un'alleanza con il Likud e tenterà di estenderla a sinistra, per includere Labour-Gesher e l'Unione democratica, e a destra per includere Yisrael Beytenu di Avigdor Liberman e Nuova destra. Questa formula, che rappresenta la prima opzione di Gantz, varia dal progetto di unità nazionale che aveva in mente Netanyahu che invece nella coalizione non ha mai pensato di rinunciare ai partiti religiosi Yamina, Utj e Shas. Blu e bianco intende proporre delle modifiche strutturali in materia di religione e stato conformi alle idee di Liberman ma lontane da quelle dei partiti religiosi.
   Questi piani, che assicurerebbero un'ampia maggioranza nella Knesset, sono pieni di se, per due ragioni: il Likud continua a dire che non esistono altri leader al suo interno e, anche qualora Netanyahu dovesse accettare di far parte di un governo con Gantz, dovrebbe allontanare per la prima volta i religiosi, che sono sempre stati parte della sua coalizione e che finora hanno promesso di non abbandonarlo. Con il rifiuto del Likud, le possibilità di Blu e bianco rimangono poche, lo stesso Liberman ha detto che nel suo interesse c'è partecipare a un governo di unità nazionale con Likud e Blu e bianco assieme, altre possibilità non le prende in considerazione.
   Ci sarebbe un'altra variabile, un'altra prima volta. La Lista comune, che al suo interno è formata da partiti che rappresentano gli arabi israeliani, durante le consultazioni con il presidente Rivlin a settembre ha detto che sarebbe disposta a dare l'appoggio esterno a un governo Gantz con Labour-Gesher e Unione democratica, ma questa ipotesi va maneggiata con molta cautela. Nella storia della nazione ebraica nessuno finora aveva mai aperto alla possibilità di governare con gli arabi e se Blu e bianco, durante le trattative, dovesse accettare questa opzione, alla prossima elezione - la terza, che sembra sempre più scontata, circola già la data: il 10 marzo del 2020 - potrebbe pagarne le conseguenze e perdere voti.
   Benny Gantz rimane per molti israeliani un personaggio difficile da afferrare, ma si è affermato come il principale rivale di Netanyahu. "Il generale con la faccia da generale", come lo aveva descritto anni fa il giornalista Avihai Beeker, non riesce a prendersi la vittoria, è un ex capo di stato maggiore, ma nemmeno la sua carica è in grado di dare a Israele quel senso di sicurezza che il leader del Likud ha garantito in questi dieci anni. Soprattutto ora, con un medio oriente impazzito, la Siria di nuovo in crisi, un conflitto con l'Iran che sembra sempre più plausibile e l'alleato di sempre, gli Stati Uniti, distaccato e inaffidabile, la nazione sente più che mai il bisogno di sicurezza: vuole un governo, non un'altra elezione.

(Il Foglio, 23 ottobre 2019)

*


Gantz, il nuovo Sisifo di un Israele spaccato a metà

All'ex militare la fatica improba di creare una maggioranza. Con gli arabi o con Lieberman

di Fiamma Nirenstein

E' con un gesto di perplessità e di un certo sconforto che la gente di Israele, anche quella che crede in lui, commenta il fatto che Benny Gantz, il capo di Blu e Bianco, il maggiore partito anti Netanyahu, si avvia a cercare di formare il governo dopo la rinuncia di Bibi. L'aitante ex capo di Stato maggiore adesso sarà in pista per i prossimi 28 giorni, ma il fatto è che se Netanyahu con 55 membri del parlamento su 120 a suo favore non ce l'ha fatta, è difficile che Gantz ce la possa fare con 44. I due partiti maggiori sono Blu e Bianco (32 seggi) e il Likud (31). Si ipotizza senza molto crederci, che Gantz intenda avviarsi a un governo di minoranza con l'appoggio esterno del Partito Unito arabo, di cui parecchi membri sono istituzionalmente contrari all'esistenza stessa dello Stato ebraico, o al contrario con l'appoggio Avigdor Lieberman, che è di destra: idee audaci e poco realistiche. Come mai Gantz per un mese abbia rifiutato la profferta di unità nazionale di Netanyahu, anche adesso sembra l'unica possibilità per Israele di tornare ad avere un governo e un primo ministro, sia pure, in questo caso, a rotazione è perché ha la speranza di veder sparire Netanyahu dall'orizzonte politico.
   Bibi, nelle sue insistite ricerche, ha cercato ripetutamente di agganciarsi all'idea del presidente Rivlin di un governo di unità nazionale collegato all'attuale stato di cose, ovvero alla possibilità di un'incriminazione del primo ministro: un anno per Bibi, due per Gantz mentre si conclude il lavorio processuale, un altro per Netanyahu. Ma non è andata. Forse, come ha scritto Amnon Lord, un celebre commentatore, Gantz sperava in una rivolta del Likud o nella decisione dell'incriminazione di Netanyahu. Ma se ora non ce la farà in 28 giorni, qualsiasi parlamentare può formare il governo se ha 61 firme. Difficile. E allora? Di nuovo elezioni? È la soluzione che tutta Israele teme. Le terze in un anno? E poi? Le due forze che si fronteggiano sembrano stabilmente pari. Se Netanyahu scegliesse di uscire dalla scena, un governo di coalizione sarebbe facile. Ma perché dovrebbe farlo? Raccoglie la metà dei consensi del Paese e le voci sul dibattito in corso presso l' Avvocatura dello Stato parlano di una insistita inconsistenza dell'accusa di corruzione, quella per cui Bibi è accusato di aver cercato di convincere un sito di notizie ad avere un atteggiamento positivo su di lui. Gantz domani comincia una fatica sisifica, si vedrà.

(il Giornale, 23 ottobre 2019)


Via Elio Toaff, festa per tutta Roma

Si svolgerà il 30 ottobre la cerimonia per l'intitolazione di una via di Roma al rabbino Elio Toaff.

Elio Toaff
Una via, un pezzo di Roma, intitolato a un grande protagonista del Novecento italiano. Dopo un primo annuncio durante la precedente amministrazione, pochi giorni dopo la scomparsa avvenuta alla soglia del compimento dei 100 anni di vita nell'aprile del 2015, il progetto di includere il nome del rav Elio Toaff nella toponomastica cittadina ha finalmente preso quota, trovando di recente uno sbocco concreto e definitivo. Ancora una settimana e Roma renderà un significativo omaggio a uno dei suoi più illustri cittadini (anche se di adozione).
Il Maestro livornese che ha saputo risollevare la Comunità ebraica dalle macerie della Shoah, guidarla per mezzo secolo, lasciare un segno profondissimo attraverso la pratica quotidiana ma anche attraverso gesti simbolici e memorabili come la storica visita di papa Wojtyla al Tempio Maggiore, il 13 aprile del 1986. L'uomo del sorriso e del Dialogo, ma anche un leader determinato, amato, rispettato da tutti.
Per l'omaggio al rav Toaff è stata scelta una porzione della strada in cui visse, via Catalana
Via Catalana
, davanti all'ingresso del Tempio Maggiore.
Si annuncia una giornata indimenticabile, per gli ebrei della Capitale ma anche per tutti i cittadini romani.

(moked, 23 ottobre 2019)


Boicottaggio degli israeliani, Iran sospeso Tokyo a rischio

La federazione internazionale di judo ha confermato ieri la sospensione dell'Iran dalle manifestazioni internazionali dopo che un suo atleta, Saeid Mollaei, aveva rivelato di aver ricevuto pressioni durante i Mondiali di Tokyo dell'agosto scorso affinché non giungesse in finale, in modo da evitare il confronto con un atleta israeliano. Campione del mondo uscente negli 81 kg, Mollaei era uscito in semifinale e poi aveva perduto anche una delle due sfide per il terzo posto, classificandosi quinto. Il 27enne aveva poi spiegato di aver ricevuto pressioni dalle autorità iraniane: avrebbe dovuto perdere per non affrontare l'israeliano Sagi Muki, poi medaglia d'oro. Secondo la federazione internazionale, le pressioni su Mollaei costituiscono «una violazione del rispetto dello spirito olimpico, del principio di neutralità politica e di universalismo», oltre che una manipolazione dei risultati di una competizione. La disciplinare ha quindi sancito la sospensione dell'Iran, fino a quando il Paese non darà delle forti garanzie sul rispetto dello status della federazione internazionale, accettando che tutti i suoi atleti possano combattere contro degli israeliani. La decisione, che può essere impugnata al Tas entro 21 giorni, è un colpo duro alle speranze del Paese islamico verso Tokyo 2020.

(La Gazzetta dello Sport, 23 ottobre 2019)


Turchi sterminatori di minoranze, Israele paladino di curdi e armeni

Laicità, diritti civili, lotta all'islamismo radicale sono patrimonio comune

di Tiziana Della Rocca

Adesso che la Turchia ha dato l'ultimatum ai curdi, e non si sa come andrà finire, è bene ricordare la durissima condanna di Israele dell'invasione turca del Kurdistan siriano, il suo continuo mettere in guardia il mondo su una possibile pulizia etnica dei curdi da parte di Erdogan. Israele si è da sempre schierato con il popolo curdo, perché è l'unico a maggioranza musulmana nella regione che non opprime né stermina altri popoli e quindi è degno della sua indipendenza politica.
   Il popolo curdo è antico ma emancipato, anzi è tra i più progressisti e i più occidentali del Medio Oriente. Altra cosa, che rende affini israeliani e curdi, è che entrambi combattono per sopravvivere in un'aerea ostile, e fanno affidamento per difendersi, in primis, su loro stessi. E anche se in modo diverso, tutti e due, devono fare i conti con l'incubo dello sterminio e necessitano di protezione; sono obbligati a intrattenere rapporti di potere al loro esterno, e crearsi così degli alleati che li sostengano in caso di pericolo.
   Il tema della laicità e la lotta all'islamismo radicale è un'altra cosa che li accomuna. Tra i curdi vige la parità tra uomo e donna, esattamente come in Israele, dove le donne sono presenti in tutte le istituzioni, esercito compreso. L'impegno armato delle donne curde contro gli islamisti, è noto: hanno preso e prendono tuttora le armi per difendere la civiltà che faticosamente hanno costruito nelle loro città e famiglie.
   Ma prima dell'affinità di oggi tra curdi e israeliani, ci fu quella tra ebrei e armeni, un altro popolo odiato dalla Turchia. Il genocidio perpetrato contro di loro per opera dei Giovani Turchi avvenne nel 1915, ben prima della nascita dello Stato d'Israele. Guarda caso, la Germania era alleata della Turchia ed era a conoscenza dei piani di sterminio contro gli armeni; non fece nulla per impedirli e in seguito lì imitò per sterminare gli ebrei, aggiungendoci del suo.
   E così questi due popoli furono legati tra loro dalla solidarietà, dalla vicinanza e da qualcosa di ben più forte, da un coinvolgimento emotivo che lì investì in pieno, come se gli ebrei avessero visto nel massacro armeno un segno premonitore di quanto sarebbe accaduto a loro in futuro. Le persecuzioni che il popolo armeno ha subìto durante i secoli, se le attraversiamo una a una, sembrano ricordare quelle subite dal popolo ebraico. Le loro funebri marce nel deserto sembrano un Esodo rovesciato: quel deserto che agli ebrei donò la libertà dal giogo egizio, per gli armeni si era tramutato in un luogo di morte.
   Ma perché i turchi oggi odiano i curdi? Per comprendere le ragioni di tanto odio dovremo prima interrogarci su quello dei turchi contro gli armeni, che condusse al loro massacro. L'impero turco ha sempre brutalmente sottomesso, nei secoli, raffinati popoli come i greci, gli arabi, gli armeni, sfruttandone l'intelligenza e il lavoro; mentre da parte sua l'impero non produsse ne inventò granché, né diede un vero contributo alla civiltà, non ne sentivano il bisogno forse, preferendo usurpare ed espropriare. E così, quando l'impero stava per implodere, come potevano i turchi sopportare l'idea che una popolazione evoluta e fiorente, come quella armena, sfuggisse dalle loro grinfie per emanciparsi? Ecco allora che gli armeni furono accusati di allearsi con i russi per complottare contro l'impero, per cui bisognava eliminarli prima che ciò accadesse.
   Altro orrendo destino degli armeni in comune con l'ebraismo: subire l'orrore della negazione. La Turchia ancora oggi nega il genocidio armeno, un minaccioso Erdogan, mette a tacere tutti sull'argomento. Negare il genocidio è uno dei tanti subdoli modi di continuarlo. Il negazionismo non è un'opinione ma un crimine; Erdogan nega la storia passata per non rispondere dei suoi crimini presenti. Se i curdi nei secoli sono stati sempre usati e sfruttati dall'impero, dominati dalla sua forza bruta, come può oggi Erdogan, ambendo a un nuovo impero, tollerare, che siano così emancipati da desiderare la libertà e fondare un loro Stato? Per di più democratico, innalzandosi a faro di civiltà?

(il Quotidiano del Sud, 23 ottobre 2019)


A Berlino catena umana di solidarietà attorno alla sinagoga

In reazione all'attentato del 9 ottobre ad Halle

Domenica 20 ottobre Dozzine di persone hanno formato una catena umana davanti alla Nuova Sinagoga di Berlino al termine della celebrazione ebraica del Sukkot per offrire un gesto altamente simbolico in risposta all'attacco del 9 ottobre contro una sinagoga di Halle nella Germania orientale, e per consentire a chi si trovava all'interno dell'edificio di pregare in tranquillità.
   Il Sukkot, anche conosciuto come la Festa delle capanne, è la ricorrenza con cui il popolo ebraico ricorda i quarant'anni trascorsi nel deserto, in cerca della Terra promessa. Insieme alla Pasqua ebraica e alla festa degli Azzimi, fa parte dei uno dei tre antichi pellegrinaggi, obbligatori per gli ebrei secondo la tradizione biblica. Conosciuta anche con il nome di "Festa dei tabernacoli", è una delle feste ebraiche più importanti. Un ricordo che simboleggia la vita durante la peregrinazione nel deserto, dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana.
   La catena umana, alla quale hanno partecipato circa 200 persone, ha risposto a una chiamata dell'"Associazione per una Berlino aperta e tollerante". «Abbiamo formato una catena umana per testimoniare che stiamo fermamente con i nostri fratelli ebrei», ha detto il sacerdote Christian Stäblein, della Chiesa evangelica luterana di Berlino-Brandeburgo-Alta Lusazia, in relazione all'attacco. «Dobbiamo prenderci cura delle loro sinagoghe come della luce dei nostri occhi», ha aggiunto l'autorità ecclesiastica.
   Il 9 ottobre, un uomo pesantemente armato ha cercato di irrompere in una sinagoga di Halle, in cui mezzo centinaio di persone celebravano lo Yom Kippur (il giorno dell'espiazione). Dopo aver fallito nel suo tentativo, il tedesco di 27 anni ha abbattuto una donna di 40 anni che passava di lì e poi un lavoratore di 20 anni in un negozio di alimentari turco. In volo ha anche ferito gravemente una coppia.
   È stato poi arrestato dalla polizia ed ha confessato di essere stato l'autore dell'incidente e di aver agito motivato da idee antisemite di estrema destra. «Nella sua visione del mondo, incolpa gli altri per la propria miseria ed è ciò che alla fine ha scatenato la sua azione», ha detto il suo avvocato. Il giovane è ora in detenzione preventiva, ed affronta un'accusa di duplice omicidio e tentato omicidio.

(Riforma.it, 23 ottobre 2019)


Netanyahu getta la spugna. Tocca a Gantz

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Ha aspettato quasi fino all'ultimo. Benjamin Netanyahu avrebbe avuto altre 48 ore per tentare di formare il governo, era evidente che non ce l'avrebbe fatta già da una settimana. O forse Fin da quando ha ricevuto il mandato 26 giorni fa dal presidente Reuven Rivlin. E la seconda volta (dopo il voto di aprile e quello in settembre) che il Mago dei negoziati — come lo esaltano i sostenitori — non tira fuori il successo dal cappello. Adesso tocca a Benny Gantz, l'ex capo di Stato maggiore entrato in politica per mandare a casa il primo ministro accusato di corruzione. Anche per lui le possibilità di raccogliere i 61 deputati necessari sono basse. Potrebbe decidere di presentare in parlamento un governo di minoranza: riuscirebbe a sopravvivere grazie all'appoggio esterno dei partiti arabi e all'astensione dell'ultranazionalista Avigdor Lieberman. Numeri e personaggi difficili da tenere insieme. E più probabile che l'ex generale cerchi di spingere il Likud a spodestare l'uomo che ha permesso alla destra di restare al potere senza interruzioni dal 2009. Il calendario politico si sovrappone a quello giudiziario: il procuratore generale dello Stato ha annunciato di voler incriminare Netanyahu e in questo caso il Likud potrebbe decidere di sostituire il leader. Gantz ha già dichiarato di essere disponibile a formare un governo di unità nazionale senza «Bibi». L'intesa permetterebbe di evitare nuove elezioni anticipate.

(Corriere della Sera, 22 ottobre 2019)


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Netanyahu getta la spugna. Tocca a Gantz formare il governo

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu rinuncia a formare un nuovo governo e passa la palla al grande rivale Benny Gantz. Ma la situazione politica israeliana è talmente bloccata che il rischio di un terzo voto anticipato in un anno è sempre più concreto.
Il premier ha annunciato ieri pomeriggio che non era in grado di trovare una maggioranza di almeno 61 seggi alla Knesset e che rimetteva il mandato nella mani del presidente Reuven Rivlin. Ora, per la prima volta in un decennio, qualcun altro proverà a guidare un esecutivo. Rivlin ha 72 ore per decidere e affidare l'incarico all'ex generale, che guida il partito centrista Kahol Lavan, cioè Blu e Bianco, i colori della bandiera israeliana.

 Unità nazionale
  Netanyahu ha poi spiegato su Facebook le ragioni della sua decisione. «Da quando ho ricevuto il mandato — ha scritto — ho lavorato senza sosta per un governo di unità nazionale, il più ampio possibile, perché è quello che il popolo vuole». Il suo tentativo si è però scontrato con il veto dello stesso Gantz, che non era disposto ad appoggiare un esecutivo guidato dal rivale, neanche con una «staffetta» fra i due, come ha proposto a un certo punto il presidente Rivlin.
Il tempo a disposizione di Netanyahu scadeva fra due giorni, ma era ormai chiaro che non c'erano chance per lui. Rivlin ha già fatto intendere che darà l'incarico a Gantz e l'obiettivo resta lo stesso, una grande coalizione che tiri fuori il Paese dall'impasse. A quel punto l'ex generale avrà 28 giorni per trovare una maggioranza alla Knesset. Resta da vedere se il Likud lo appoggerà, anche se la fronda interna al Likud punta a spingere Netanyahu a lasciare la leadership, per spianare la strada al nuovo governo.
Se anche Gantz fallisse, ci sarebbe la possibilità per un terzo premier incaricato, e altri 21 giorni di tempo. Dopodiché resterebbe soltanto il voto anticipato. Gantz ha reagito all'annuncio con un messaggio su Twitter: «È arrivato il momento di Blu e Bianco», il suo partito. Il cofondatore Yair Lapid è stato più esplicito: «Netanyahu ha fallito per l'ennesima volta. Ora Blu e Bianco è determinato a formare un governo liberale e unitario». Resta il problema delle alleanze. Il centrosinistra, anche con la Lista araba unita, arriva a soli 54 seggi. L'ipotesi di un governo di minoranza necessita dell'appoggio esterno sia degli arabi che di Avigdor Lieberman, l'ex alleato di Netanyahu ora più che mai decisivo.

(La Stampa, 22 ottobre 2019)


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Bibi rinuncia a fare il governo. Ora il mandato passa a Gantz

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rinuncia all'incarico affidatogli dal presidente Reuven Rivlin per la formazione di un governo. Lo ha annunciato lo stesso leader del partito Likud in un video postato ieri pomeriggio su Facebook. Dopo aver ricevuto il mandato, ho lavorato senza sosta per formare un governo di unità nazionale. «È quello che voleva la gente», ha affermato Netanyahu. Tuttavia, il premier uscente ha sottolineato come tutti i suoi tentativi di portare al tavolo dei negoziati il rivale Benny Gantz, leader della coalizione Kahol Lavan (Blu e Bianco), siano falliti. Gantz, ha insistito Netanyahu, «ha rifiutato ogni volta». Il presidente Rivlin ha già fatto sapere in un comunicato che intende ora affidare l'incarico allo stesso Gantz. La decisione dovrebbe essere annunciata formalmente entro 72 ore a partire da questa sera. Yair Lapìd, numero due di Kahol Lavan, ha accusato Netanyahu di aver «fallito ancora una volta: sta diventando un'abitudine». «Ora è il tempo dell'azione. Kahol Lavan è determinata a formare un governo liberale di unità nazionale guidato da Benny Gantz, per il quale gli elettori hanno votato il mese scorso», ha scritto Lapid in un comunicato. A seguito delle elezioni dello scorso 17 settembre, Kahol Lavan ha ottenuto 33 seggi su 120 nella nuova Knesset, seguito a stretto giro di posta dal Likud con 32 seggi.
   Netanyahu, tuttavia, si era assicurato un numero lievemente maggiori di alleati, insufficiente a garantirsi una maggioranza di governo ma sufficiente a vedersi affidare per primo l'incarico dal presidente Rivlin. Il tempo a disposizione del premier uscente per la formazione di un nuovo governo sarebbe scaduto mercoledì 23 ottobre. Ora Benny Gantz, avrà 28 giorni per tentare di formare una coalizione.
   Gantz e Avigdor Liberman, hanno poi risposto a Netanyahu che in un video li accusava di aver cercato di formare un governo di minoranza con l'aiuto di partiti arabi. Domenica Netanyahu ha pubblicato un video sui social media dal titolo. «Lo schema segreto di Gantz, Lapid e Lieberman». Il testo del video, con musica inquietante, ribadisce le accuse secondo cui i tre leader intendono formare un governo di minoranza con il sostegno esterno di un'alleanza di partiti a maggioranza araba. Gantz ha twittato: «Non sei riuscito a formare un governo, quindi invece di perdere tempo con i video, restituisci il mandato».

(il Giornale, 22 ottobre 2019)


I curdi siriani considerano un tradimento il ritiro delle truppe americane

Donald Trump ha dichiarato che una parte dell'esercito resterà nella Siria del nordest per difendere i pozzi di petrolio.

di Francesco Viaro (articolo) e Massimo Fenris (video)

Traditi, ingannati e presi in giro. Si sentono così i siriani che stanno assistendo al ritiro delle truppe americane. Il convoglio statunitense è stato bersagliato dal lancio di frutta e verdura, accompagnato da insulti da parte della popolazione locale. I mezzi blindati e gli autocarri che stanno abbandonando Qamishli - città al nordest del paese e centro di collaborazione tra forze statunitensi e curde nella lotta all'Isis - si stanno dirigendo verso il confine iracheno insieme a colonne di automobili di civili che stanno cercando di scappare, andando incontro ad una sorte incerta.
Del resto, il presidente Trump ha chiarito che le truppe che rimarranno nella Siria orientale saranno a presidio e a difesa dei pozzi petroliferi, non della popolazione. Altri militari, invece, saranno dislocati in diverse aree del territorio, come comunicato dal leader della Casa Bianca: "L'altra zona in cui Israele e Giordania ci hanno chiesto di lasciare un piccolo numero di truppe è una sezione completamente diversa della Siria, vicino ai confini con Giordania e Israele.
Abbiamo un piccolo gruppo (di soldati nel nordest, ndr) e abbiamo messo in sicurezza il petrolio - ha sottolineato - Non riteniamo ci siano altri motivi". Infine ha lasciato intendere che in futuro la gestione dei giacimenti potrebbe finire nelle mani di una società statunitense.
Per quanto riguarda i curdi, Trump ha ricordato che gli Stati Uniti non hanno mai dichiarato apertamente che li avrebbero protetti.
Mark Esper, segretario della Difesa americano, ha confermato le parole del presidente, rimarcando che una parte dell'esercito è rimasto nel nordest della Siria affiancato dalle forze siriane democratiche a guida curda per impedire l'accesso ai pozzi di petrolio ai miliziani dell'Isis.

 Il ritiro delle forze statunitensi fa temere un'avanzata dell'Iran
  Le conseguenze del ritiro delle truppe americane - una "capitolazione" secondo quanto dichiarato a The Guardian da un diplomatico statunitense che ha preferito rimanere anonimo - rischia di ampliare il raggio d'azione dell'Iran nella regione.
Il governo di Teheran è uno storico alleato del presidente siriano Bashar al-Assad che si è speso fin dall'inizio nella lotta contro gli estremisti dell'Isis.
Questo scenario entrerebbe in contrasto con la Politica aggressiva di Trump nei confronti dell'Iran, poiché il presidente statunitense ha manifestato più volte la sua ostilità nei confronti della Repubblica islamica, spingendo fino al limite le sue pressioni economiche e diplomatiche.
Al contempo, il nuovo e probabile ruolo di Teheran starebbe preoccupando il vicino Stato ebraico di Israele. Il Primo ministro Netanyahu - che vede in Trump un alleato di ferro - si guarda bene dal criticarlo, ma ha condannato l'attacco turco nelle regioni curde in Siria. Inoltre ha messo in guardia dal pericolo di eventuali pulizie etniche che potrebbero essere perpetrate da Ankara e dai suoi mercenari.

(Blasting News Italia, 22 ottobre 2019)


Tel Aviv: arte e design in mostra in residenza Ambasciatore

 
La Residenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele apre le porte al pubblico per una serie di visite guidate della collezione di opere d'arte, oggetti e arredi di design esposti nella casa nell'ambito della Giornata del Contemporaneo.
   L'iniziativa, voluta dall'Ambasciatore Gianluigi Benedetti, permetterà di visitare la collezione della Residenza che include opere di artisti e designer italiani e israeliani che espongono nei più prestigiosi musei internazionali. Le opere saranno illustrate dal curatore della mostra, Ermanno Tedeschi, esperto e critico di arte contemporanea, alla presenza dell'artista Lello Esposito, autore di alcune delle opere più iconiche della collezione, che da circa trenta anni lavora sulla città di Napoli e sui suoi simboli. In questa occasione, Lello Esposito ha realizzato su una parete dell'ingresso della Residenza un'opera dedicata a Napoli. Oltre alla collezione d'arte e design, saranno in mostra gioielli realizzati da alcuni artisti italiani, vere e proprie opere d'arte da indossare, prestati dalla Babs Art Gallery di Milano.
   La Residenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele è, dagli anni ottanta, una delle ville storiche del famoso quartiere di Tel Biniamin a Ramat Gan, la cui nascita ed evoluzione sono indissolubilmente legate alla storia di Tel Aviv, con case progettate da importanti architetti europei del Novecento.

(BonVivre, 22 ottobre 2019)


In aumento i crimini contro gli ebrei in Inghilterra e Galles

di Erika Becchi

Raddoppiati i crimini contro gli ebrei in Inghilterra e in Galles. La notizia è confermata dai dati presentati dalla polizia britannica nei giorni scorsi. Nel 2018/2019 la polizia dell'Inghilterra e del Galles ha registrato ben 103.379 crimini di odio, il 10% in più rispetto allo scorso anno e il doppio rispetto ai dati relativi al 2012/2013. I crimini di odio sono perlopiù di carattere religioso. La maggior parte delle vittime sono di religione musulmana (47%, con 3530 attacchi verbali e fisici registrati nel 2018/2019) ma a destare preoccupazione è la situazione della minoranza ebraica, che nell'ultimo anno ha ricevuto il doppio di attacchi e minacce rispetto allo scorso anno. La polizia ha registrato 1326 reati contro gli ebrei in confronto ai 672 dello scorso anno. Sono dati importanti, soprattutto per un Paese come il Regno Unito, da sempre meta di persone provenienti da tutto il mondo.

 Reati aumentati dopo la Brexit
  Il numero di reati in Inghilterra e nel Galles è aumentato anche nei confronti di persone omosessuali (25%) e dei transessuali (37%). I reati nei confronti delle persone disabili, invece, sono aumentati del 14%. L'aumento del numero di reati in Inghilterra e Galles può essere legato, seppur in minima parte, al modo in cui i crimini vengono registrati, ma è palese che ci siano stati dei picchi di reati dopo eventi come il referendum per la Brexit e gli attacchi terroristici del 2017. Secondo il gruppo Citizens UK, che ha realizzato un proprio sondaggio, il numero di reati nell'ultimo anno potrebbe essere addirittura anche più alto di quello ufficiale.

 Cala la fiducia nelle istituzioni e si richiede più sicurezza
  Quello che emerge dai sondaggi condotti da Citizens UK è una forte erosione sociale e una crescente crisi di fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini britannici. Il direttore esecutivo del gruppo cittadino, Matthew Bolton, ha detto: "Le comunità di tutto il Regno Unito sono preoccupati del fatto che non si faccia abbastanza per proteggere i cittadini dai crimini di odio". Secondo Bolton, "la politica, i media e le istituzioni devono pensare ad un piano di azione per fermare le brutte storie che circolano sui social media e il contesto politico divisivo, che aumenta il clima di odio".
Dal governo britannico arriva una dura reazione a questi numeri sulla violenza. "Ogni episodio di crimini di odio è completamente inaccettabile" dice un portavoce, "Nessuno dovrebbe essere preso di mira perché una minoranza piena di odio non può tollerare le differenze che hanno fatto grande il nostro Paese". La speranza del governo britannico è che si eviti l'omertà: "Ci auguriamo che le persone continuino a denunciare eventuali crimini di odio e la polizia continuerà a migliorare la propria responsabilità nei confronti delle vittime". Il contesto sociale può essere cambiato solo con l'impegno di tutti i soggetti, a partire dai cittadini, dalle istituzioni e dai media. Il governo, intanto, si è impegnato nella lotta al crimine razziale nei confronti di minoranze religiose e di omosessuali, confidando nella collaborazione del sistema di giustizia e della comunità.

(Periodico Daily, 22 ottobre 2019)


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