Così parla Colui che è l'Alto, l'Eccelso,
che abita l'eternità, e che ha nome 'il Santo':
Io dimoro nel luogo alto e santo,
ma sono con colui che è contrito ed umile di spirito,
per ravvivare lo spirito degli umili,
per ravvivare il cuore dei contriti.
Isaia 57:15  

Attualità



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Predicazioni
Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Filippesi 3:17-21
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Romani 12:1-2
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico: Non siate ansiosi per la vita vostra di quello che mangerete o di quello che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non siete voi assai più di loro? E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito? E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio riveste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque ansiosi dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo? Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

Matteo 6:24-34

Marcello Cicchese
dicembre 2015


Anniversario della liberazione di Roma dallo Stato Pontificio

Riportiamo il discorso pronunciato domenica in modalità telematica dall'Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, al convegno che si è tenuto a Saluzzo in occasione del 150esimo della Presa di Porta Pia.

Amiche e amici carissimi,
Gentili Autorità presenti,
Grazie per avermi invitato a questo significativo evento.

 
La famosa Breccia
La distanza e le ben note circostanze mi impediscono di partecipare personalmente, ma ci tengo a farvi pervenire, grazie alla tecnologia, alcune mie riflessioni sull'interessantissimo tema in oggetto.
  Per questo, ringrazio il Gruppo Sionistico Piemontese e il suo Presidente Emanuel Segre Amar, per la pregevole iniziativa e per l'opportunità datami.
  Quando gli intellettuali ebrei in Europa guardarono al processo di unificazione dell'Italia e al Risorgimento, a metà del XIX secolo, ne trassero ispirazione a beneficio della sorte del popolo ebraico.
  L'intellettuale ebreo franco-tedesco Moses Hess, che si era allontanato dal suo popolo, si riavvicinò proprio in seguito a quanto vide accadere in Italia. Fu influenzato dalla rinascita del nazionalismo italiano, in particolare dalle teorie di Giuseppe Mazzini, profeta del nazionalismo liberale italiano. L'Italia moderna fu fondata nel 1861, ma mancava ancora il cuore. Roma era allora sotto lo Stato Pontificio.
  Hess vide anche questo e, nel 1862, pubblicò il suo libro "Roma e Gerusalemme", in cui scriveva: "Con la liberazione della Città Eterna sulle sponde del Tevere, comincia la liberazione della Città Eterna sul Monte Moria (cioè Gerusalemme); con il rinascimento dell'Italia comincia quello della Giudea".
  Oggi, a distanza di oltre 150 anni dalla pubblicazione di quel libro, dopo la liberazione di Roma e dopo la liberazione di Gerusalemme, dopo la rinascita dell'Italia e la rinascita della Giudea con lo Stato di Israele, quelle parole suonano come una profezia.
  Come l'Italia, anche Israele fu fondato senza il cuore del suo popolo, senza Gerusalemme. Per il popolo italiano ci vollero 9 anni per ricongiungersi a Roma, mentre nel nostro caso ci sono voluti 19 anni perché Gerusalemme fosse riunificata. Ma questo lasso di tempo, in prospettiva storica, non è neanche una virgola.
  Gli ebrei sono stati parte integrante naturale del processo di unificazione dell'Italia, perché sono qui da quasi 2200 anni. Nel 161 a.C., dopo aver purificato Gerusalemme e il Tempio dalla presenza pagana dell'impero seleucide, Giuda Maccabeo inviò una delegazione diplomatica a Roma, per stringere un'alleanza di difesa.
  Da allora, la presenza ebraica in questo Paese è rimasta ininterrotta e ha spaziato in tutti i settori: dalla cultura all'economia, dalla sicurezza alla politica.
  La Roma dell'impero distrusse Gerusalemme, e, diversi secoli dopo, fu a sua volta distrutta e svanì dal mondo. La coscienza nazionale italiana iniziò a crescere nel Medioevo, fino a esplodere con grande clamore, a metà del XIX secolo, con l'unità d'Italia.
  La coscienza nazionale del popolo ebraico è entrata in un torpore per circa un millennio e mezzo, e ha cominciato a risvegliarsi negli ultimi secoli.
  L'unità d'Italia e il ruolo degli ebrei nella rivoluzione e nella costruzione della nuova nazione qui in questo Paese, hanno influenzato il nostro risveglio nazionale da quel lungo sonno.
  Si racconta che, quando il nuovo esercito italiano si presentò alle porte di Roma, nel settembre 1870, i soldati avessero qualche timore a entrare. Il Papa aveva minacciato di scomunica chiunque avesse osato aprire il fuoco.
  Così il Capitano Giacomo Segre si offrì volontario, per sparare il primo colpo di cannone. Probabilmente, in quel colpo di cannone, il Capitano Segre racchiuse tutte le umiliazioni che il suo popolo ha subito nel corso delle generazioni.
  Ma io credo che in questo atto vi fosse anche speranza. La stessa speranza che Moses Hess aveva espresso 9 anni prima: la redenzione di Roma sarebbe stato un grande segno verso la redenzione di Gerusalemme e della Terra d'Israele.
  Otto anni dopo la Breccia di Porta Pia e la liberazione di Roma, nel 1878, in Terra d'Israele fu fondata la città di Petah Tikva, che fu probabilmente il primo nuovo centro abitato ebraico, fondato dopo la distruzione del Paese, dove gli ebrei dimostrarono di poter vivere in modo indipendente. Petah Tikva in ebraico significa letteralmente Porta di Speranza. Anche Petah Tikva è stata come una breccia di speranza nella coscienza nazionale del nostro popolo, e infatti, 70 anni dopo, fu fondato lo Stato di Israele.
  Oggi il legame tra Israele e Italia è molto stretto. I due paesi cooperano profondamente in molti settori. La politica e la diplomazia svolgono un ruolo significativo nella costruzione di questo rapporto; Ci sono anche interessi comuni, ovviamente. Ma questa conferenza ci ricorda che queste relazioni poggiano su radici molto più profonde: una storia comune, una visione e valori condivisi, che hanno dato vita a un'alleanza condivisa di destino.
  Sabato prossimo celebreremo Rosh Hashana, il Capodanno dell'anno ebraico 5781. Colgo dunque l'occasione per augurare a tutti noi un anno buono e in buona salute.
  Dio vi benedica.
  Viva l'Italia! Viva lo stato d'Israele!

(Notizie su Israele, 14 settembre 2020)


Normalizzazione tra arabi e israeliani, il Marocco sarà il prossimo?

Dopo l'Arabia Saudita, il Bahrain apre lo spazio aereo per i voli israeliani

ROMA - Come hanno fatto gli Emirati Arabi Uniti un mese fa, ora anche il Bahrein ha accettato di normalizzare le relazioni con Israele, grazie ad un accordo mediato dell'amministrazione Trump, ma i leader palestinesi si sentono delusi ed abbandonati.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, successivamente, ha condiviso una lettera firmata da Stati Uniti, Bahrein e Israele. L'accordo degli Emirati Arabi Uniti, così come quello tra Bahrein-Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali e di sicurezza tra i due Stati.
   Il Bahrein, come l'Arabia Saudita, ha revocato il divieto ai voli israeliani, permettendo di utilizzare il proprio spazio aereo, facilitando i collegamenti diretti tra i due Paesi, nonché i sorvoli, precedentemente vietati.
   Potrebbe nascere un altro accordo tra arabi e israeliani e questa volta coinvolgerebbe il Marocco. Oggi i due Paesi non hanno relazioni formali, ma ai turisti israeliani è consentito entrare nel Paese. Tuttavia, ciò potrebbe presto cambiare se gli sforzi dell'amministrazione Trump daranno frutti e le due si stringeranno la mano. Tra gli obiettivi dell'accordo, entrambi i Paesi elencano l'apertura di voli diretti tra Tel Aviv e Rabat.
   Secondo il Jerusalem Post, circa 3.000 ebrei vivono in Marocco, in proporzione è ancora la più grande comunità israeliana nel mondo arabo.
   Il rapporto afferma anche che Washington continua a spingere l'Oman e il Sudan a creare legami diplomatici con Israele, come parte integrante di uno sforzo che serve per raggiungere il maggior numero possibile di risultati nello scenario internazionale, prima delle elezioni del 3 novembre.
   Il mese scorso, il Premier marocchino Saad-Eddine El Othmani aveva affermato che Rabat non avrebbe normalizzato le relazioni con Israele. Ma, giorni dopo, è sembrato ribaltare quelle affermazioni, dicendo che i suoi commenti, in opposizione ai legami più forti, sono stati fatti in qualità di leader del partito e non in veste di Primo Ministro.
   Il Marocco è stato visto come un successivo candidato per regolamentare i legami, dal momento che aveva già relazioni turistiche e commerciali con Israele. Nel rapporto si cita anche la protezione del Paese nordafricano alla sua piccola comunità ebraica.
   Stabilire relazioni diplomatiche formali con Israele può anche migliorare le relazioni del Marocco con gli Stati Uniti. Gli analisti affermano che, in cambio dell'accordo, Rabat potrebbe ottenere il riconoscimento americano della sua sovranità sul territorio conteso del Sahara occidentale, occupato nel 1975, quando la Spagna si ritirò dall'area. Il movimento Fronte Polisario non è ampiamente riconosciuto a livello internazionale.
   
(Kmetro0, 14 settembre 2020)


Netanyahu in Usa per la firma degli accordi con Emirati e Bahrein

Premier partito nella notte: "Sarà pace calda"

 
ROMA - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è partito nella notte per Washington per firmare i recenti accordi di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain. Lo riferiscono media israeliani.
   Prima di prendere il volo su un aereo con la scritta "Pace", il premier israeliano ha tenuto una conferenza stampa all'aeroporto sottolineando la natura storica del viaggio, in cui è pronto a firmare accordi di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, solo quattro giorni dopo che quest'ultimo ha annunciato venerdì legami ufficiali con Israele.
   I ministri degli Esteri dei due paesi del Golfo dovrebbero unirsi a Netanyahu per la cerimonia in programma per il mezzogiorno di domani alla Casa Bianca, come ha riportato il Jerusalem Post.
   Nelle sue osservazioni prima della riunione di governo di domenica, Netanyahu ha detto che la sua conversazione con il re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa venerdì è stata "molto calda" e che hanno deciso di stabilire la pace ufficiale e pieni legami tra i paesi.
   "Ora abbiamo due storici accordi di pace con due paesi arabi entro un mese", ha detto Netanyahu ai ministri del governo. "Sono sicuro che tutti lodiamo questa nuova era … Voglio promettervi che ognuno di voi, attraverso i vostri ministeri, ne farà parte, perché questa sarà una pace diversa. Sarà pace calda, pace economica oltre alla pace diplomatica, pace tra le nazioni", ha detto.
   All'entusiasmo che gli israeliani hanno mostrato per questi nuovi legami ha fatto eco nelle popolazioni degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, ha detto Netanyahu. "Questo è davvero un cambiamento enorme", ha detto.
   Le bozze degli accordi non erano ancora state completate domenica sera e non è stato chiaro se il documento che Israele e gli Emirati Arabi Uniti firmeranno sarà chiamato "trattato di pace" o semplicemente "normalizzazione", ha riferito sempre il quotidiano israeliano.
   Poiché c'era meno tempo per prepararsi, l'accordo Bahrein-Israele sarà più dichiarativo e non sarà dettagliato come quello con gli Emirati Arabi Uniti.
   Il primo ministro supplente e ministro della Difesa Benny Gantz, che è stato informato in anticipo dell'accordo con il Bahrein, a differenza di quello con gli Emirati Arabi Uniti, ha elogiato Netanyahu prima del suo viaggio a Washington.
   Parlando alla cerimonia del Premio per la sicurezza israeliana, Gantz ha detto agli ufficiali di sicurezza che "faranno leva sulla normalizzazione e la promozione dei legami con i diversi paesi della regione per creare un fronte contro le minacce comuni e portare la cooperazione economica che rafforzerà la sicurezza e aiuterà l'economia di Israele per uscire dalla sua crisi. Faremo tutto questo preservando i vantaggi di sicurezza di Israele nella regione".
   Il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha parlato con i giornalisti sulla pista dell'aeroporto Ben Gurion pochi istanti prima di salire sull'aereo diretto a Washington. "Questo è un viaggio molto emozionante .. molte persone hanno lavorato molto duramente nel corso degli anni per rendere possibile questo momento", ha detto.

(askanews, 14 settembre 2020)


Riparte la scuola ebraica. Fortissima adesione per studenti e personale ai test sierologici

di Giorgia Caló e Luca Spizzichino

Rientro a scuola anche per i bambini e i ragazzi della comunità ebraica di Roma: la mattinata del 14 settembre riprende la didattica nel rispetto delle norme di sicurezza per il contenimento del virus; agli studenti infatti è stata misurata la temperatura all'ingresso dell'istituto, e grazie alla collaborazione della Comunità Ebraica di Roma con L'Associazione Medica Ebraica e L'Ospedale Israelitico, "sono state allestite circa 16 postazioni per effettuare test sierologici a circa 700 ragazzi", come ha spiegato il Presidente dell'AME Roma Fabio Gaj.
   "L'iniziativa è partita per proteggere al massimo la nostra scuola", ha detto il Dott. Massimo Finzi, "mentre nelle altre scuole italiane si è registrata un'adesione ai test di 1 su 4, nella nostra scuola abbiamo avuto un'adesione quasi del 100%. Dopo aver fatto il test sul personale, abbiamo deciso di farlo anche ai ragazzi".
18 medici e 4 infermieri volontari ad effettuare i test.
   "Siamo la prima scuola in Italia in cui docenti, personale e studenti si sottopongono spontaneamente al test. La scuola ha fatto un grande investimento, perché crede che la prevenzione sia molto più intelligente che trattare uno stato di malattia", ha raccontato la Dott.sa Elvira Di Cave.
   A salutare i ragazzi al loro rientro a scuola, anche i vertici della Comunità: il Presidente Ruth Dureghello, Il Vice Presidente Ruben Della Rocca, l'Assessore alle scuole Daniela Debach e il Rabbino Capo Di Segni.
   "Finalmente questa mattina i ragazzi sono tornati a scuola: un traguardo che pensavamo difficile da raggiungere, ma grazie al personale e a tutto lo staff e alla sicurezza, lo abbiamo trasformato in essere. Vedere i ragazzi felici fuori dalla scuola è stata una grande gioia, ci appelliamo al senso di responsabilità di tutti, a partire dai genitori e dagli insegnanti e che questo clima così sereno possa continuare e che questi ragazzi beneficino della scuola quanto più possibile" ha dichiarato la Presidente Dureghello.

(Shalom, 14 settembre 2020)


La riscoperta. Angelo Donati, nella storia di un singolo quella di tutti gli ebrei italiani

di Furio Colombo

Ugo Pacifici Noja e Andrea Pettini hanno scritto un libro più importante del loro progetto. E evidente che gli autori, efficaci scrittori ed esperti ricercatori di fatti veri, intendevano colmare un vuoto: raccontare la storia di un grande personaggio del secolo scorso, Angelo Donati, che attraversa l'interventismo, l'imprenditoria, il fascismo, la persecuzione, l'esilio, il ritorno, e si sono trovati di fronte a una realtà raramente visitata e poco nota: il ruolo, spesso molto grande, degli ebrei come cittadini italiani, in molti casi ai piani alti della società italiana. Angelo Donati, che si riconosce ebreo senza assimilazioni e abbandoni, ma altrettanto fermamente italiano di risorse e prestigio e dunque responsabile, come altri grandi italiani del suo ceto, del presente e futuro di questo Paese, diventa per i due autori del libro, uno straordinario punto di riferimento per offrire al lettore un testo che, pur con rigore storico e accademico, racconta un romanzo finora non narrato. Chi erano e come vivevano gli ebrei italiani, spesso cittadini eminenti, che la Shoah, approvata e voluta da leggi italiane, avrebbe poi tentato, con la firma del re, di annientare?
   Ecco che lungo il percorso di una sola vita che i due autori affrontano, dimostrando talento nello scrivere (il racconto diventa romanzo) quanto nel ricercare (il rigore della ricerca garantisce la storia), ci offrono un frammento di storia contemporanea italiana attraverso la storia mancante dell'ebraismo italiano. I punti originali della loro scoperta sono tre. Il primo è un carattere unico dell'ebraismo italiano: non c'è alcuna corsa a un fenomeno di assimilazione, in un Paese che appare accogliente e amico, e non c'è alcuna distanza dall'Italia e dalle sue istituzioni (generali e alti burocrati, non solo accademici e intellettuali). Sono grandi ebrei italiani religiosi o no, gli ebrei italiani restano ebrei, ma sono profondamente italiani, al punto da formare, come si è detto e come il libro Pacifici Noja-Pettini dimostra, parti illustri della classe dirigente (è il caso e la storia di Donati). Il secondo punto nella lealtà profonda che lega gli ebrei italiani (a cominciare dai più rappresentativi) al Paese senza contraddizioni con l'identità ebraica, che resta il chiaro e saldo riferimento della loro vita. Infine l'Italia non appare mai il Paese ospite ma il Paese patria, e l'immagine di Israele (molto prima che esista), perché un vento di sionismo, inteso come sentimento e stato d'animo, percorre l'ebraismo italiano, così italiano, molto di più che nel resto d'Europa. Il libro di cui sto parlando, dunque, mentre appare la rigorosa ricostruzione di una vita e di alcuni, anche drammatici, decenni italiani, è un saggio, organico e rigoroso sull'ebraismo italiano come parte importante, a momenti cruciale, della storia italiana.
   
(il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2020)
   
   

Lo sviluppo dell'AI in Israele: dalla lotta al Covid-19 all'urbanistica "intelligente"

in Israele sono numerose le aziende e le start up che sviluppano progetti basati su big data e intelligenza artificiale. Fra queste, da segnalare ZenCity, che aiuta i governi locali a tradurre ciò che le persone vogliono nelle loro città in modo più efficace

di Alberto Stefani

Negli ultimi anni Israele ha compiuto sforzi significativi per utilizzare l'intelligenza artificiale a favore delle esigenze dei cittadini aumentando gli studi e gli sforzi in vari settori tra cui la sicurezza informatica, la medicina, i servizi bancari o i trasporti.
  Mensilmente numerose start up si affacciano sul mercato con nuove idee e nuovi servizi il tutto a beneficio dello sviluppo economico del paese, dei posti di lavoro nell'ambito della ricerca e sviluppo di nuovi servizi nel rispetto di un'economia sostenibile e vantaggiosa per tutta la comunità.
  Israele promuove lo sviluppo delle nuove startup grazie a un tessuto economico basato su una forte interazione tra università, governo centrale, mondo del lavoro e investitori privati attratti da idee innovative che custodiscono una forte possibilità di sviluppo e guadagno.

 Israele e AI: il progetto Timna e il contrasto all'epidemia di Covid-19
  Volendo fare alcuni esempi sui progetti che hanno preso parte a questa fase di sviluppo possiamo ricordare ad esempio il progetto Timna.
  Timna è una piattaforma nel settore medico di ricerca sui big data, è un archivio di dati che consentono agli scienziati di generare intuizioni e identificare modelli che possono essere implementati nei sistemi di supporto decisionale. Strumenti per big data come Timna consentono la medicina di precisione, la diagnosi precoce e la cura della malattia attraverso modelli predittivi.
  L'iniziativa di medicina denominata Mosaic, cerca di abbinare il trattamento più efficace per ciascuno paziente migliorando drasticamente il tasso di successo evitando cure mediche superflue.
  Il Ministero della Salute israeliano sta lavorando anche alla creazione di depositi di campionamento genetico e biologico dei propri cittadini per monitorare e prevenire la diffusione di malattie.
  Durante la pandemia di Covid-19 alcuni ospedali del Paese si sono organizzati per gestire i malati attraverso l'uso della teleterapia intensiva a distanza associata all'uso dell'intelligenza artificiale.

 Israele e AI: difesa, navigazione stradale, trasporti
  Analizzando l'uso dell'intelligenza artificiale in altri settori e considerata la collocazione geopolitica di Israele in luoghi "complessi" le forze di difesa utilizzano questi strumenti nel campo dell'intelligence per analizzare enormi quantità di dati allo scopo di individuare potenziali minacce sul web e sui social media.
  Nei settori invece più legati ai servizi destinati al benessere dei cittadini nella vita quotidiana va ricordato che Israele è la patria di tecnologie come Waze, un'applicazione mobile gratuita di navigazione stradale per dispositivi mobili basata sul concetto di crowdsourcing sviluppata dalla start-up israeliana Waze Mobile e rilevata poi da Google, oppure Mobileye, una consociata israeliana della società Intel che sviluppa auto a guida autonoma basate sulla visione e su sistemi avanzati di assistenza alla guida che forniscono avvisi per la prevenzione e la mitigazione delle collisioni.
  La salute dei cittadini passa anche attraverso una migliore vivibilità delle città in un mix molto complesso di servizi efficienti, trasporti sicuri, spazi verdi e tante altre peculiarità tali da aumentare il benessere di tutti gli interlocutori. Vediamo come una startup israeliana abbia pensato di dare un contributo al raggiungimento del benessere collettivo delle città attraverso l'intelligenza artificiale.

 La piattaforma di ZenCity
  Esempio di applicazione dell'AI in Israele, ZenCity è una azienda che ha sviluppato uno strumento per il governo locale finalizzato al benessere e alla soddisfazione dei cittadini. Vediamo di capire meglio come funziona questa importantissima applicazione.
  Fondata a Tel Aviv nel 2015, ZenCity aggrega feedback e commenti da più fonti, inclusi social network, siti web di notizie e form di contatto dei canali di comunicazione delle istituzioni locali e applica l'intelligenza artificiale (AI) per aiutare a estrarre dati "strutturati" significativi in modo tale che gli urbanisti, i dirigenti e i responsabili delle aziende al servizio del territorio possano affrontare le questioni più pertinenti per i residenti nella loro zona. In effetti, l'AI garantisce che il feedback sia organizzato automaticamente per argomento, categoria, posizione e numerosi altri parametri tali da ridurre il più possibile le lungaggini burocratiche e i tempi morti.
  La piattaforma può essere utilizzata per qualsiasi apparato relativo ai servizi o alle infrastrutture della città, come il monitoraggio del sentiment riguardo a nuove misure di riduzione del traffico o iniziative di car sharing, o l'identificazione di problemi come la manutenzione dei marciapiedi o lo standard dell'istruzione locale.
  La piattaforma ZenCity utilizza una tecnologia AI all'avanguardia per raccogliere i commenti pubblici online in tempo reale, estrarre automaticamente i punti e gli argomenti principali discussi e analizzare il sentimento che li circonda.
  La capacità di monitorare rapidamente più canali pubblici contemporaneamente, inclusi social media, media locali e canali di assistenza ai cittadini come call center e app, consente di rispondere senza indugio scongiurando ritardi e preoccupazioni dei residenti.
  Analizzando sia i canali gestiti dal governo locale che quelli non direttamente gestiti dalle istituzioni, che rappresentano oltre l'80% dei discorsi pubblici, gli amministratori di città ed enti locali sono in grado di ottenere un quadro completo dell'opinione dei residenti.
  Il sistema di ZenCity invia automaticamente agli organi competenti avvisi in tempo reale tramite e-mail o notifiche push per aumentare la visibilità e non perdere mai un aggiornamento. Inoltre, la provenienza dei dati viene geolocalizzata ed è in grado di individuare il discorso in base a quartieri specifici e allocare in modo efficiente le risorse localizzate e il raggio d'azione da considerare.
  La piattaforma, basata sull'intelligenza artificiale, aiuta i governi locali a tradurre ciò che le persone vogliono nelle loro città in modo più efficace ed elimina le lungaggini dal processo decisionale.
  Quindi si forniscono insight (termine che in psicologia indica la percezione netta e immediata di fatti esterni o interni) affidabili, in tempo reale che aiutano i governi locali a dare priorità alle risorse, monitorare le prestazioni e connettersi con le loro comunità.
  Alla luce degli sviluppi dei mesi passati, la diffusione della pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown si è avuto un aumento esponenziale dei discorsi e delle opinioni online dei residenti ai massimi storici in tutti i paesi del mondo. Internet e i social network sono diventati la bacheca ufficiale per esprimere i propri pensieri, domande e preoccupazioni. Ora, con la riapertura dei governi locali e delle attività, in un clima di incertezza sul futuro, i residenti cercano sempre più informazioni e comunicazioni precise dalle istituzioni.
  Questa nuova realtà inesplorata sottolinea la necessità di comprendere le richieste, le preoccupazioni e le priorità dei cittadini in tempo reale e su vasta scala, in modo che i governi locali possano ottenere un rapido ciclo di feedback mentre definiscono le loro politiche, le loro azioni e le strategie di messaggistica rivolte ai residenti.
  L'intero team di ZenCity ha effettuato un lavoro enorme all'interno di numerose città degli U.S.A. per supportare i passaggi fondamentali nella gestione agile del ripristino delle attività bilanciando il contenimento dei virus e i servizi a supporto della popolazione.
  Questa metodologia è attualmente attiva in oltre 150 enti governativi locali e in 26 stati di tutto il territorio statunitense. L'obiettivo è sfruttare facilmente i discorsi della comunità pubblica per rafforzare le comunicazioni del governo locale, dare priorità ai servizi che i residenti apprezzano di più, contrastare la disinformazione e ottimizzare gli sforzi per la riapertura delle attività.
  La rapida crescita di ZenCity è frutto anche di continui investimenti nel capitale da parte di multinazionali come Microsoft, che nell'ottobre 2017 lanciò il concorso Innovate.AI da 3,5 milioni di dollari per startup di intelligenza artificiale.
  ZenCity fu il vincitore per la regione di Israele e parte del suo premio ha costituito un investimento azionario di 1 milione di dollari da parte di M12 e Vertex Ventures. Il duo è stato chiaramente impressionato da ZenCity a tal punto da garantire che la prossima iniezione di denaro della startup fosse del 600% più grande del solo premio promesso.

 L'importanza dei big data
  I big data sono emersi come una forza chiave nella cosiddetta rivoluzione della "città intelligente" e il traffico in particolare gioca spesso un ruolo fondamentale. In Cina, ad esempio, Didi Chuxing sta prestando i suoi dati di ride sharing alle autorità come parte di un programma per alleviare la congestione del traffico, mentre anche Uber ha precedentemente lavorato con le città per aiutare a gestire la crescita urbana, alleviare la congestione del traffico ed espandere i trasporti pubblici.
  Altrove, la piattaforma di gestione del traffico Waycare sfrutta più fonti di dati storici e in tempo reale, tra cui piattaforme di auto connesse, telematica, telecamere stradali, progetti di costruzione e servizi meteorologici per aiutare gli urbanisti a migliorare la sicurezza e le infrastrutture.
  ZenCity si inserisce perfettamente in un ambito più ampio proponendosi come un'alternativa moderna ai dati, alle riunioni e ai sondaggi.
  "La rapida crescita di ZenCity negli Stati Uniti è una testimonianza dell'impegno che le città hanno nel connettersi e comprendere i propri cittadini", ha affermato Eyal Feder-Levy, CEO e cofondatore di ZenCity. "Riflette anche una crescente domanda da parte delle città statunitensi di essere più guidate dai dati".
  Un'ultima caratteristica particolarmente degna di nota su cui lavorerà la startup sarà la funzionalità di sintesi vocale. Per ora si basa su appunti presi dai lavoratori del contact center che vengono aggiunti manualmente al loro sistema online, ma in futuro ZenCity potrebbe essere in grado di "ascoltare" il feedback verbale e trasformare l'audio in dati di testo significativi da utilizzare per il bene di tutta la comunità.

(Al4Business, 14 settembre 2020)


Israele, nuovo lockdown. Si dimette il ministro dell'Edilizia ultraortodosso Yakov Litzman

A pochi giorni dal Capodanno ebraico e dal Kippur, il governo prende una decisione osteggiata dai partiti religiosi al governo e da chi teme le ricadute economiche. Il Paese è il primo al mondo per numero di nuovi contagi per milione di abitanti, ma terzo per tamponi effettuati ed è in fondo alle classifiche per mortalità.

di Sharon Nizza

 
Yakov Litzman
GERUSALEMME - Il governo israeliano ha deciso di proclamare un nuovo lockdown per arginare l'epidemia. Durerà tre settimane a partire dalle 14 di venerdì 18. Il secondo confinamento sarà articolato in tre fasi e conterrà misure molto rigide. La riunione di governo che doveva stabilire se confermare il nuovo lockdown generale è stata lunga e difficile per via dell'opposizione di diversi ministri, in primis quello del Tesoro Israel Katz. Ma la decisione è arrivata, in tempo per consentire al primo ministro Benjamin Netanyahu di volare a Washington questa sera alle 23:00, per firmare martedì mattina alla Casa Bianca lo storico accordo di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein.
  A confermare la spaccatura nel governo, le dimissioni presentate in mattinata dal ministro dell'Edilizia Yakov Litzman, esponente di uno degli influenti partiti religiosi che formano la coalizione di governo. Litzman, ministro della Salute per diversi anni, compresa la prima fase della pandemia, si era già dimesso a fine aprile dall'incarico, per ottenere il dicastero dell'Edilizia con il giuramento del nuovo governo Netanyahu a maggio.
  Litzman è contrario al lockdown perché impedirebbe le preghiere nel periodo delle festività più solenni del calendario ebraico, Rosh Hashanà (il Capodanno), il digiuno del Kippur e Sukkot (la festa della Capanne), un periodo di circa tre settimane che inizia venerdì 18 settembre. Il lockdown generale arriva proprio in coincidenza di quel periodo, caratterizzato da grandi assembramenti durante i pasti tradizionali e le funzioni religiose, ma anche nei luoghi di intrattenimento, in quanto si tratta di un periodo di ferie. Litzman aveva chiesto con forza di applicare il lockdown ad agosto - quanto già il trend di aumento dei contagi era visibile - per evitare di arrivare alla chiusura durante le festività.
  Il ministero del Tesoro, che insieme a quelli della Scienza, Turismo, Economica e Welfare guida la fronda interna, stima che un nuovo lockdown implica perdite di 1,2 miliardi di euro a settimana e lascerebbe nuovamente a casa altri 300.000 lavoratori.
  Durante l'acceso dibattito tra i ministri - in cui peraltro tutti i dirigenti del ministero della Salute intervenivano in videoconferenza perché in isolamento preventivo, come circa 90 mila israeliani in questo momento - l'unica significativa deroga che è stata fatta è che gli esercizi commerciali nel settore privato potranno continuare a lavorare nella formula attuale, ma senza ricevere il pubblico.
  La proposta era stata già approvata (6 contro 4) giovedì dal gabinetto ristretto per il coronavirus e oggi è arrivata al plenum del governo che ha deciso misure simili a quelle dello scorso aprile: per tre settimane vi sarà il divieto di spostarsi oltre 500 metri dall'abitazione, se non per motivo comprovato, limitazione degli assembramenti a 10 persone in spazi chiusi, attività economiche chiuse salvo esercizi vitali, lavoro remoto, chiusura del sistema scolastico che aveva ripreso il primo settembre dopo la pausa estiva, solo consegna a domicilio per i ristoranti.
  Dopodiché si entrerebbe in una seconda fase con limitazioni meno serrate fino a tornare, dopo un mese e a seconda dei risultati ottenuti dalle misure precedenti, al "Piano semaforo", il programma del Commissario per l'emergenza Covid, Ronni Gamzu, che stabilisce le restrizioni in base al tasso di contagio nell'area di residenza (verde - arancione - rossa).
  Ma non solo la politica è divisa. Nella comunità medica vi sono pareri contrastanti circa l'efficacia del nuovo lockdown generale. Nel comitato degli esperti che supporta il lavoro di Gamzu, molte voci premevano per misure più rilassate. Gli esperti sostengono che si debba tenere conto del prezzo economico e psicologico di un nuovo lockdown. Inoltre c'è chi, in primis tra i ristoratori e gestori di palestre e piscine - che secondo i dati finora non sono stati epicentri di contagio - minaccia di non rispettare le misure.
  La decisione di applicare un nuovo lockdown arriva dopo che i contagi la scorsa settimana hanno superato i 4.000 giornalieri. Israele a oggi risulta il primo Paese al mondo per numero di nuovi contagi per milione di abitanti, ma anche terzo per tamponi effettuati (oltre 30 mila al giorno in un Paese di 9 milioni di abitanti). Inoltre, con 1,108 deceduti dall'inizio della pandemia, è in fondo alle classifiche per la mortalità. Parte dei direttori di ospedali sostengono che, se non si chiudesse ora, le terapie intensive arriverebbero a saturazione nel giro di un mese. Diversi medici invece sostengono che i numeri, e soprattutto la crescita non esponenziale dei pazienti intubati (a oggi 139, a inizio agosto erano 95), non giustifichino una misura così drastica come una nuova chiusura totale.
  La grande confusione nella gestione della crisi e la convinzione da parte del pubblico che le decisioni siano motivate da considerazioni politiche per non alterare gli equilibri di governo, hanno portato la fiducia della popolazione nell'operato dell'esecutivo al 45% secondo i sondaggi, praticamente dimezzando il consenso di aprile che aveva raggiunto anche picchi dell'85%. Il Likud invece, il partito del premier Netanyahu, risulta sempre il primo partito (31 seggi) con oltre 10 punti di distacco rispetto a tutti gli altri rivali.

(la Repubblica, 13 settembre 2020)


Pace in Medio Oriente. Ora Trump accelera

Il presidente americano punta sulla politica estera in vista delle presidenziali per far dimenticare il Covid e le tensioni razziali.

di Francesco Semprini

NEW YORK - Alle prese con le difficoltà interne legate alla gestione della pandemia e le tensioni razziali, Donald Trump punta alla politica estera per rafforzare i consensi e rilanciare la candidatura ad un secondo mandato alla Casa Bianca. È questa la strategia, secondo gli osservatori, che il presidente adotterà nel dibattiti con lo sfidante Joe Biden, il primo dei quali è previsto per il prossimo 29 settembre. E lo farà partendo dal più recente risultato messo a segno, ovvero la decisione del Bahrein di firmare un accordo di pace con Israele, sulla scia di quello già siglato dagli Emirati Arabi Uniti meno di un mese fa, ribattezzato "Accordo di Abramo", la cui ufficializzazione avverrà martedì con una cerimonia solenne alla Casa Bianca. «Un'altra nuova svolta storica oggi» ha esultato su Twitter Trump venerdì all'annuncio giunto da Manama. «I nostri grandi amici, Israele ed il regno del Bahrein, hanno concordato un Accordo di Pace». L' "Accordo di Abramo" è stato patrocinato in particolare dal genero del presidente, Jared Kushner, nell'ottica della risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Al netto del rifiuto palestinese, per Trump la firma di questo accordo è un importante traguardo tanto che per alcuni suoi sostenitori il presidente meriterebbe la candidatura al premio Nobel per la Pace. Con questa mossa, assieme all'eliminazione del califfo Abu Barr al Baghdadi e a quella del potente generale iraniano Qasem Soleimani, Trump punta a mettere in secondo piano i problemi interni, virus e ricadute economiche in testa, per presentarsi all'appuntamento del 3 novembre come il giustiziere che fa trionfare il bene sul male in tutto il mondo.

(La Stampa, 13 settembre 2020)


L'Oman accoglie con favore l'accordo tra Bahrein e Israele

 
La visita di Netanyahu in Oman (2018) ha costituito la prima visita di un leader israeliano al sultanato in oltre due decenni
GERUSALEMME - L'Oman accoglie con favore l'istituzione di relazioni diplomatiche tra il Bahrein e Israele. A riferirlo è l'emittente televisiva nazionale "Oman Tv" in un post su Twitter. "Il Sultanato accoglie con favore l'iniziativa intrapresa dal fraterno regno del Bahrein", si legge nel testo. L'auspicio è che "questa nuova direzione strategica, scelta da alcuni paesi arabi, contribuisca in modo concreto al raggiungimento di una pace basata sulla fine dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi e sulla creazione di una Palestina indipendente con capitale Gerusalemme est". L'Oman ribadisce la propria adesione alla risoluzione della questione israelo-palestinese basata "sul principio dei due Stati, come stipulato nelle decisioni arabe e internazionali". Il Bahrein è il quarto paese arabo e il secondo del Golfo a riconoscere Israele, dopo l'Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994 e gli Emirati Arabi Uniti quest'anno. Secondo un rapporto del ministero israeliano dell'Intelligence, gli "stretti legami" dell'Oman con l'Iran renderebbero difficile la firma di accordi tra Mascate e Israele in materia di armi, ma ci sarebbero potenzialità per la cooperazione in materia di lotta al terrorismo e sicurezza interna. Secondo il rapporto, gli omaniti sarebbero interessati alle tecnologie civili israeliane, per esempio in ambito idrico, agricolo e in tecnologie legate a informatica e comunicazione. Nel 2018 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visitato l'Oman per colloqui sulle iniziative di pace in Medio Oriente con l'allora sultano Sultan Qaboos. In una regione turbolenta, l'Oman ha sempre mantenuto una posizione di neutralità e relazioni amichevoli con una serie di attori regionali, Iran incluso.

(Agenzia Nova, 13 settembre 2020)


La pace con Israele è una presa d'atto della realtà

Lo capiscono tutti, meno che i palestinesi

di Ugo Volli

C'è un aspetto della recente politica mediorientale che non è stato sottolineato abbastanza dalla stampa e che invece è molto significativo. Dopo i recenti accordi fra Israele e gli Emirati (più il Malawi e il Ciad, più Serbia e Kossovo, ma queste sono altre storie) e le concessioni che sono venute da Bahrein e Arabia (il permesso di utilizzare lo spazio aereo, sempre negato a Israele, probabilmente come segnali di analoghi accordi futuri), insomma dopo i grandi progressi diplomatici di Israele sulla via della normalizzazione con realtà musulmane e anche arabe, non ci sono state manifestazioni di protesta. La mitica "piazza araba" non si è manifestata e neppure si sono fatti sentire i religiosi musulmani - con l'eccezione naturalmente di quelli legati a Turchia, Iran e ai loro satelliti come Hamas, Hezbollah, Siria, Houtis. Anche i sudditi dell'Autorità Palestinese non si sono mobilitati, nonostante le dichiarazioni di fuoco della loro burocrazia politica. E' un dato molto significativo. Non che di improvviso, dopo mille e trecento anni di indottrinamento antiebraico dell'Islam, gli arabi si siano trovati a voler bene e a stimare gli ebrei. Molto più probabilmente sono stanchi di guerra, disposti a prendere atto della realtà dello Stato di Israele, come hanno dovuto prendere atto nella storia che la loro espansione è stata respinta in vari tempi nei Balcani, in India e (almeno fino a che non prevalesse l'invasione silenziosa in corso, in Europa). E' un segnale forte, vuol dire che si intravvede finalmente la fine del conflitto arabo-israeliano, che è la vera guerra in corso in Medio Oriente. La pace vera nasce così, dall'accettazione dei fatti, dal commercio, dalla coesistenza, dagli interessi comuni, non dai grandi sentimenti. Di fronte a questo grande sviluppo, è forse caduto il potere di veto attribuito una volta dai paesi islamici e ora quasi solo dall'Europa ai "palestinesi". Il cosiddetto "movimento palestinese" è stato solo un'arma diplomatica e militare in questa guerra, inventato dai servizi segreti sovietici e arabi. Ma come quel soldato che era già morto ma non lo sapeva, così i palestinisti continuano la loro "lotta" contro Israele, a Ramallah e a Gaza come a Bruxelles. Finché, speriamo, si accorgeranno dell'inutilità storica dei loro sforzi, del sangue versato, dei boicottaggi.

(Shalom, 13 settembre 2020)


"E' ora di normalizzare, Abu Mazen e Hamas si decidano a cedere"

L'intervista all'ex ministro dell'Anp Abu Zaida. Se gli Eau mandano un aereo a Tel Aviv con aiuti umanitari per i palestinesi, l'Anp lo respinge. Mentre il Qatar ogni mese si accorda con Israele per dare soldi a Gaza.

di Sharon Nizza

Mohammed Dahlan
«Non entro a Gaza da quando è iniziato il coronavirus. Non posso vivere senza il mare». Sufian Abu Zaida osserva le onde dal lungomare di Tel Aviv, mentre parla del momento critico che sta affrontando la leadership palestinese. In passato più volte ministro dell'Anp, oggi fa parte dell'opposizione più agguerrita contro Abu Mazen: è uno dei punti di riferimento in Palestina di Mohammed Dahlan, l'ex uomo forte di Fatah a Gaza, la vera spina nel fianco di Abu Mazen, che lo espulse dal partito nel 2011. Dahlan da allora vive ad Abu Dhabi, dove è una voce ascoltata a palazzo. Anche Abu Zaida è stato cacciato da Fatah nel 2014. Hanno costituito la Corrente Democratico-Riformista di Fatah, non riconosciuta dal movimento. Sorride alla domanda se Dahlan sia coinvolto - come sostengono le voci infuriate alla Muqata - nell'accordo Israele-Emirati che verrà firmato a Washington martedì insieme a quello con il Bahrein. «La vera domanda è perché esiste una normalizzazione halal (permessa) e un'altra haram (vietata). Se gli Emirati mandano un aereo a Tel Aviv con aiuti umanitari per i palestinesi, l'Anp lo rimanda indietro, mentre l'inviato del Qatar ogni mese si accorda con Israele per portare i soldi nella Striscia di Gaza».

- Ramallah dice che è una violazione del principio «non c'è normalizzazione senza uno Stato palestinese nel confini del '67».
  «La normalizzazione l'abbiamo iniziata noi con Oslo, aprendo la strada agli accordi sottobanco tra Paesi arabi e Israele. Eau e Bahrein hanno deciso di giocare a carte scoperte».

- La Lega Araba ha rifiutato dl sostenere la risoluzione di condanna degli Emirati presentata dafl'Anp.
  «Ogni Stato fa i propri interessi. Inserire la questione palestinese nell'accordo, sostenendo che gli Eau abbiano fermato l'annessione, è stato solo un pretesto».

- Quanto sta accadendo influisce sulla questione della successione ad Abu Mazen?
  «Abu Mazen non è più legittimo. È stato eletto per 4 anni e ne sono passati 14. Dopo di lui ci devono essere almeno tre successori: Olp, Fatah e Anp. Basta con la concentrazione del potere».

- Che probabilità ha Dahlan come candidato in esilio negli Emirati?
  «Le accuse infondate contro di lui l'hanno rafforzato, è l'unico ad avere sostegno popolare. I sondaggi gli danno tra il 7 e il 14% dei consensi, i 99 membri dell'attuale establishment rasentano il 2%. E questo mentre sta all'estero ed è continuamente diffamato».

- I palestinesi sono isolati?
  «Oggi ci sono tanti problemi nell'area che mettono in secondo piano la causa palestinese. In questi anni avremmo potuto fare dell'Anp un gioiello, basato sulla separazione dei poteri, sulla trasparenza. Avremmo potuto essere la consolazione per le sofferenze dell'occupazione. Invece siamo riusciti a fare peggio, ci siamo sparati l'un l'altro. Parliamo dell'iniziativa araba del 2002, ma siamo nel 2020! Pensiamo al rifiuto di Arafat di Camp David nel 2000: chi crede che oggi potremmo ottenere quanto ci hanno proposto allora?».

- Che cosa si può fare in questa situazione?
  «Unità. Nel 2011 l'accordo del Cairo definiva tutto, basta implementarlo. Ma Abu Mazen e Hamas vogliono ricevere tutto senza rinunciare a nulla».

- La settimana scorsa c'è stata la videoconferenza tra Abu Mazen da Ramallah e Hanlyeh da Beirut ed è entrata a Gaza la ministra della Salute dell'Anp. Un cambio di rotta?
  «Non sarei così ottimista. La crisi del virus a Gaza è una priorità ora. Un accordo comporta elezioni. E i vertici dell'Anp non sono interessati ora a una gara tra più candidati».

- Come sono vissute le sue posizioni?
  «Pago un prezzo. Ma nessuno mi toglierà la libertà di dire quello che penso».

(la Repubblica, 13 settembre 2020)


Israele - Paesi arabi: gli unici che si oppongono alla pace sono i pacifisti

Davvero potete credere che il loro obiettivo sia la nascita di uno Stato Palestinese? Ormai non ci credono più nemmeno gli arabi

di Franco Londei

Se gli unici che si oppongono alla pace tra Israele e Paesi Arabi sono quelli che più ne dovrebbero gioire, cioè i pacifisti, un motivo ci deve pur essere.
   Se Israele è l'unico paese democratico dove operano direttamente centinaia di ONG (qui la lunghissima lista) e associazioni come non succede nemmeno nei peggiori teatri di guerra, un motivo ci deve pur essere.
   Se prendiamo una zona come l'Africa dei Grandi Laghi, dove sono in corso centinaia di micro-conflitti con stragi quotidiane, dove la povertà è endemica e le malattie di ogni tipo sono un fatto normale e la paragoniamo con Israele, possiamo notare subito la sproporzione del numero di ONG operanti sul territorio tenendo conto della situazione locale (non di guerra in Israele), delle condizioni sanitarie (Israele è un paese moderno con una sanità di eccellenza), dei valori della povertà e dello sviluppo locale.
   Insomma, se in Israele ci sono molte più ONG che in Congo (tenuto conto delle debite proporzioni) un motivo ci deve pur essere.
   Voi direte che il motivo sono i poveri palestinesi senza terra e senza Diritti. Direte che a Gaza stanno peggio che in Congo e che in Cisgiordania (in realtà Giudea e Samaria) la povertà non sarà come quella in Congo ma ci si avvicina parecchio.
   Beh, vi sbagliate. Sempre tenendo conto delle debite proporzioni, la cosiddetta Palestina ha ottenuto dieci volte di più degli aiuti internazionali destinati al Congo o a uno qualsiasi dei tanti paesi africani in via di sviluppo. Con il denaro destinato alla cosiddetta Palestina ci si sviluppavano una quindicina di paesi africani. Invece i "poveri palestinesi" sono ancora li a prendersela con gli israeliani invece che con chi tutti quei soldoni se li è mangiati.
   Ecco, i soldoni, il fiume di denaro che scorre verso la cosiddetta Palestina è il motivo per cui ci sono tutte quelle ONG e, soprattutto, il motivo per cui queste ONG di pacifisti si oppongono a qualsiasi forma di pace. Con la pace il fiume di denaro si fermerebbe e addio soldoni.
   Pensate solo a cosa succederebbe se dovesse nascere uno Stato Palestinese. Fine delle erogazioni di denaro a fondo perduto. I soldi li prendi in prestito e quindi li devi restituire. Poi devi creare tutta la struttura statale, la sanità, l'economia, una moneta nazionale, devi creare infrastrutture ecc. ecc.
   Davvero qualcuno può credere che i cosiddetti pacifisti e la dirigenza palestinese possano rinunciare a tutto quel denaro in cambio della pace e di tutte le "beghe" che immancabilmente porta la fine di un conflitto, seppure a bassa intensità? Davvero potete credere che il loro obiettivo sia la nascita di uno Stato Palestinese? Ormai non ci credono più nemmeno gli arabi, per questo uno dietro l'altro abbandonano la "causa palestinese" e fanno pace con Israele.
   Rimangono loro, i pacifisti, gli indefessi difensori della causa palestinese purché porti denaro (e fama, qualche volta). Ma ormai, temo, è finita anche per loro.

(Rights Reporter, 13 settembre 2020)



Beitar, da club "senza arabi" a una possibile proprietà di Abu Dhabi

La notizia ha del clamoroso. Tra i tanti effetti che l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti potrebbe sortire c'è anche il cambio di proprietà di uno dei club più importanti ma anche più discussi del calcio israeliano. Un facoltoso imprenditore di Abu Dhabi, di cui non è stata ancora resa nota l'identità ma che ha già rilasciato alcune dichiarazioni ai media locali, sarebbe infatti interessato all'acquisto del Beitar Gerusalemme. "Un accordo è possibile" ha detto l'uomo, la cui proposta è stata veicolata da un membro della famiglia reale.
   Per il club capitolino, costretto da anni a confrontarsi con la violenza e il razzismo anti-arabo di una parte significativa del proprio tifo organizzato, si tratterebbe di una svolta storica. Una possibilità che sembra quasi fantascienza, se si pensa all'orgoglio esibito dai membri de La Familia, l'ala più estrema dei supporter del Beitar, di essere l'unica squadra del campionato a non aver mai avuto un giocatore arabo tra le proprie fila. Sono gli stessi che nel 2008 offendevano dagli spalti Maometto o che nel 2012 si opponevano all'acquisto di due calciatori ceceni perché "colpevoli" di essere musulmani. Proteste in curva che in molti casi sono dilagate in gravissime violenze pubbliche. Un clima denunciato come intollerabile anche dal più autorevole tifoso del Beitar: il presidente d'Israele Reuven Rivlin.
   Si prospetta adesso un incredibile cambio di passo. Un'ipotesi sorprendente, che dovrà però vincere molti ostacoli. L'attuale proprietario, Moshe Hogeg, si dice comunque fiducioso: "Se ci sarà uno spirito di tolleranza, potremo creare un'atmosfera di pura amicizia".

(moked, 13 settembre 2020)


La minaccia iraniana contro il Bahrein dopo l'accordo con lo Stato ebraico

Alla Fatwa della comunità locale sciita si aggiungono gli attacchi dei pasdaran e di Hezbollah.

di Vincenzo Nigro

Un altro Paese arabo, il quarto, fa la pace con Israele. E l'Iran scatena una guerra di parole come non aveva ancora fatto.
   Il Paese è il più piccolo del Golfo Persico, l'isola del Bahrein governata dal re Hamad al Khalifa. Sembrerebbe quasi insignificante, un mini arcipelago con una popolazione di 1 milione 300mila arabi e 200mila stranieri, fra cui molti immigrati asiatici. E invece la mossa del governo che martedì prossimo a Washington si accoderà con Benjamin Netanyahu sotto gli occhi di Donald Trump, sta provocando una tempesta poderosa nel Golfo.
   Gli sciiti dell'area si stanno scatenando contro la dinastia sunnita (minoritaria) che governa l'isola. Una sequela di attacchi come non era accaduto pochi giorni fa con l'annuncio dell'intesa fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.
   I più duri nell'attaccare il re Hamad sono i pasdaran iraniani e l'Hezbollah libanese. Le Guardie della rivoluzione iraniana minacciano: «Il sovrano del Bahrein deve aspettarsi una dura vendetta da parte dei Mujahiddin di al-Quds (al Quds è Gerusalemme, ndr) e della nazione musulmana orgogliosa di questo Paese». La dichiarazione dei pasdaran quasi preannuncia un'azione militare, e segue le critiche durissime del ministero degli Esteri iraniano guidato da Mohammad Javad Zarif: «I dirigenti del Bahrein ormai sono complici dei crimini del regime sionista, sono una minaccia costante per la sicurezza della regione e per il mondo musulmano». Per gli Hezbollah libanesi l'accordo Israele-Bahrein è «una pugnalata alle spalle dei palestinesi».
   Ma ecco che emerge la differenza con gli Eau: la federazione guidata dallo sceicco Mohammad bin Zayed è uno Stato a maggioranza sunnita, con un fortissimo controllo di polizia e un esercito relativamente potente. Ci sono fra Abu Dhabi e Dubai migliaia di espatriati iraniani, ma in gran parte lavorano e pensano solo agli affari, non seguono le direttive politiche di Teheran. E sono tutti sotto stretto controllo. Infine, nessuno, o quasi, dei cittadini degli Emirati ha criticato Trump alla vigilia della firma.
   In Bahrain circa il 70 per cento della popolazione è sciita, sono sottoposti al durissimo regime poliziesco dei sunniti della dinastia Khalifa. Dalla fallita "primavera delle perle" del febbraio del 2011, gli sciiti sono vittime di arresti, torture, vessazioni di ogni tipo. E loro, sostenuti e sobillati dall'Iran, si organizzano sempre meglio.
   Ieri il leader religioso degli sciiti dell'isola ha pronunciato una "fatwa" per dire che la normalizzazione con Israele è "haram", è proibita dalla legge islamica. Sheikh Isa Qassim sostiene che «qualunque normalizzazione dei rapporti con il regime sionista rappresenta un tradimento della nazione islamica». Un'altra condanna interna arriva da "Al Wafaq", il primo partito di opposizione sciita nel Paese (il leader è un carcere). Per loro l'accordo è «un golpe contro la volontà popolare, un tradimento nei confronti di tutti i musulmani».
   In sintesi: se l'Iran vorrà reagire alle mosse di Israele, degli Stati Uniti e dei regni sunniti, in Bahrein potrà farlo con grande efficacia. E ha già minacciato di agire.

(la Repubblica, 13 settembre 2020)



Il segno distintivo di Israele: vita che scaturisce dalla morte

di Marcello Cicchese

In verità, in verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto (Giovanni 12:24).

Nel suo libro "Viva Israele" lo scrittore arabo Magdi Cristiano Allam ha espresso il suo pieno convincimento che oggi più che mai la difesa del valore della sacralità della vita coincide con la difesa del diritto all'esistenza di Israele. Si nasconde dunque in Israele il senso profondo della "sacralità della vita"? Qualcuno potrebbe osservare che certe religioni pagane esaltanti la fertilità e la fecondità esprimono meglio dell'ebraismo l'amore in senso lato per la vita. Non si difende Israele contrapponendo a morbose ideologie esaltanti la morte euforiche ideologie esaltanti la vita, perché anche queste ultime possono rivelarsi come seducenti vie che conducono alla morte.
   In realtà, quello che conta non è l'esaltazione unilaterale dell'uno o dell'altro dei due termini "vita" e "morte", ma il modo in cui vengono collegati fra di loro. Si può dire che nella maggior parte delle ideologie di stampo nazi-fascista o islamico-terroristico, la forza della vita viene esaltata e messa a disposizione della morte in vista di un traguardo glorioso da raggiungere in un futuro più o meno lontano. Si pensi ai "sani e forti" giovani fascisti e nazisti preparati alla guerra di conquista nazionale, o ai "sani e belli" bambini islamici preparati a farsi saltare in aria insieme a tanti ebrei con l'obiettivo di raggiungere uno stato di paradisiaca beatitudine.
   Per l'Israele della Bibbia le cose sono diverse: morte e vita sono entrambe presenti, ma a differenza delle ideologie pagane le vie bibliche non partono dalla vita per finire nella morte, ma incontrano la morte per giungere a una nuova vita.
   Le cose sono cominciate con Abramo. All'età di settantacinque anni, quindi non più nel pieno vigore della vita ma già piuttosto attempato, il patriarca viene chiamato da Dio a "morire socialmente" separandosi dai suoi familiari e da tutto il suo mondo per andare in un luogo ignoto. Lì Dio promette che lo benedirà, lo farà diventare una grande nazione e farà sì che in lui tutte le nazioni della terra saranno benedette. Passano gli anni e non succede niente. Quando Dio si rifà vivo Abramo glielo fa notare: "Tu non m'hai dato progenie" (Genesi 15:3), dice al Signore, e premurosamente chiede se il suo erede sarà Eliezer, il suo servo di Damasco. No, risponde il Signore, non sarà un siriano a portare la benedizione al mondo, ma "colui che uscirà dalle tue viscere sarà erede tuo" (Genesi 15:4). Per fugare i comprensibili dubbi di Abramo, Dio lo porta fuori (evidentemente si trovavano in casa) e gli dice: "Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare. Tale sarà la tua progenie" (Genesi 15:4).
   Dopo di che accade uno dei fatti più importanti della storia dell'umanità:
    "Ed egli credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia" (Genesi 15:5).
Che cosa aveva fatto di tanto straordinario Abramo per essere considerato giusto davanti Dio? Quali opere meritorie aveva compiuto? Quale superiore stile di vita aveva esibito? Quali precetti della Torà aveva diligentemente osservato? Sta scritto soltanto che "Egli credette all'Eterno". Questa è stata l'opera sua. Tutto il resto è stata ed è opera dell'Eterno.
   Il premio però non arriva subito. Gli era stato detto che dai suoi lombi sarebbe uscita una grande nazione, e poiché la sua progenie avrebbe dovuto essere innumerevole come le stelle del cielo, Abramo poteva pensare che sarebbe stato molto meglio per lui se fosse stato avvertito prima, quando era più giovane e più forte. Anche la moglie scelta per lui da Dio avrebbe potuto essere un po' più adatta: fosse stato in lui, forse avrebbe scelto una prolifica donna come quelle che hanno oggi gli ebrei ultraortodossi, capaci di sfornare un figlio all'anno per la durata di vent'anni. Abramo invece era già in età avanzata e sua moglie Sarai si poteva considerare morta dal punto di vista della fertilità: era sterile. I due coniugi non obiettano, ma certamente si saranno chiesti come sarebbe potuto avvenire tutto quello che Dio aveva promesso. E' la donna allora che prende l'iniziativa, e fa quello che fanno spesso quasi tutti i credenti, anche i più pii: elabora una teoria interpretativa della Parola di Dio del tipo "aiutati che Dio t'aiuta". Non dice: "Io sono sterile", ma "L'Eterno m'ha fatta sterile" (Genesi 16:2). Dunque - avrà pensato - se è Dio che m'ha fatta sterile, vuol dire che si aspetta la nostra collaborazione nell'affrontare questa realtà. Poiché io sono prolificamente morta, prenderò tra le mie serve egiziane una forte, gagliarda e prosperosa giovane da offrire a mio marito affinché possa avere da lei un figlio. Partorirà sulle mie ginocchia, e questo significherà che il bambino che nascerà sarà giuridicamente figlio mio, e quindi anche di Abramo. Davanti all'importanza del progetto dinastico voluto da Dio - avrà sempre pensato Sarai -, anche i sentimenti di gelosia devono essere messi a tacere. E ai suoi occhi forse questo sarà sembrato il doloroso sacrificio che si chiedeva a lei per collaborare all'attuazione del piano di Dio.
   "Abramo dette ascolto alla voce di Sarai" (Genesi 16:3), ma non sembra che in questo abbia ricevuto l'approvazione di Dio. Anche Adamo aveva fatto una cosa simile con sua moglie, e come risultato si era sentito dire da Dio:
    "Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie... mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai" (Genesi 3:17,19).
Le conseguenze però furono diverse nei due casi, perché non sono le sole azioni dell'uomo a determinarne gli effetti, ma il rapporto tra le azioni e la Parola di Dio. Ad Adamo Dio aveva dato un ordine e una promessa precisi: "... non ne mangiare, perché nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17). Adamo non ha ascoltato una precisa Parola di Dio, e con la sua disubbidienza ha mostrato di non credere a quella Parola. Ed essa si è puntualmente avverata: dalla vita in cui si trovava Adamo è caduto nella morte, come Dio aveva preannunciato. Ad Abramo invece Dio aveva dato un altro ordine e un'altra promessa:
    "Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione" (Genesi 12:1-2).
Abramo ha ascoltato quella Parola, e con la sua ubbidienza ha mostrato di credere alla Parola di Dio, ed essa ha cominciato a compiersi nella sua vita. Se nel caso di Adamo la Parola di Dio disubbidita ha prodotto un passaggio dalla vita alla morte le cui conseguenze continuano a sentirsi ancora oggi, nel caso di Abramo la Parola di Dio ubbidita ha compiuto e continua a compiere un'opera di passaggio dalla morte alla vita le cui conseguenze valgono ancora oggi e continueranno a valere per l'eternità. La colpa di Abramo non è di non aver ascoltato una precisa Parola di Dio, ma di aver ascoltato le parole della moglie. Le conseguenze sgradevoli ci sono state, ma non potevano essere tali da annullare la promessa di Dio. E l'aspetto fondamentale di questa promessa, come si manifesterà chiaramente in seguito, consiste proprio nell'annuncio di una nuova vita che Dio farà sorgere là dove il peccato dell'uomo ha prodotto la morte. Per questo, ovunque interviene l'azione salvifica di Dio la morte compare per prima, affinché sia evidente che il Dio in cui l'uomo è invitato a credere è Colui che può e vuole vincere la morte in tutti i suoi aspetti: nelle sue cause, nella sua potenza e nei suoi effetti.
   Nella coppia Abramo-Sarai l'elemento prolificamente morto era la donna. Sarai ha tentato di rimediare alla cosa con umana razionalità, cioè sostituendo il pezzo difettoso con uno perfettamente funzionante: la sterile Sarai è stata rimpiazzata dalla fecondissima Agar. Ed è nato Ismaele, da cui è scaturito un mare di guai. La "morte prolifica" di Sarai, espressione della morte presente nella natura come conseguenza della morte spirituale causata dal peccato, è stata aggirata ricorrendo alla "vita prolifica" di Agar, espressione della vita naturale ancora presente dopo il peccato. Ma non poteva essere questo il modo in cui Dio si proponeva di vincere la realtà profonda della morte provocata dal peccato.
   Il Signore non è intervenuto immediatamente per vanificare sul nascere quel tentativo umano di modificare la sua opera di redenzione: ha permesso che Ismaele nascesse e ha lasciato passare nel silenzio altri tredici anni, fino a quando Abramo non era più in grado di generare. Se l'intervento dell'uomo aveva mirato a sostituire il pezzo morto con uno vivo, il non intervento di Dio aveva fatto sì che anche il pezzo vivo arrivasse a morire: all'età di novantanove anni Abramo era ormai prolificamente morto, come Sarai, e proprio per questo era ormai convinto che l'erede promesso da Dio non poteva che essere Ismaele.
   Ma è a questo punto che Dio si rifà vivo con Abramo e gli cambia il nome:
    "Quanto a me, ecco il patto che faccio con te; tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni; non sarai più chiamato Abramo [patriarca], ma il tuo nome sarà Abraamo [padre di una moltitudine], poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni" (Genesi 17:4-5).
Poi, inaspettatamente, Dio nomina per la prima volta sua moglie:
    "Dio disse ad Abraamo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei»" (Genesi 17:15-16).
A questo punto il venerando patriarca ha una umana e molto comprensibile reazione:
    "Allora Abraamo si prostrò con la faccia a terra, rise, e disse in cuor suo: «Nascerà un figlio a un uomo di cent'anni? E Sara partorirà ora che ha novant'anni?» E aggiunge: «Oh, possa almeno Ismaele vivere davanti a te!»" (Genesi 17:17-18).
Ma Dio risponde:
    "No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli metterai il nome di Isacco. Io stabilirò il mio patto con lui, un patto eterno per la sua progenie dopo di lui" (Genesi 17:19).
La difficoltà di Abraamo sta nel credere che la vita promessa da Dio possa scaturire da due corpi prolificamente morti. Proprio questo invece era il proposito di Dio: far sorgere la vita dalla morte. E Abraamo, sia pure dopo qualche esitazione, alla fine crede. Di questo rende testimonianza l'apostolo Paolo quando di lui scrive:
    "Egli è padre di noi tutti (com'è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all'esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». Senza venir meno nella fede, egli vide che il suo corpo era svigorito (aveva quasi cent'anni) e che Sara non era più in grado di essere madre; davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella sua fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli ha promesso, è anche in grado di compierlo. Perciò gli fu messo in conto come giustizia." (Romani 4:16-22).
Anche Sara partecipò a questa fede:
    "Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare" (Ebrei 11:11-12).
La nascita prodigiosa di Isacco doveva significare che la vita promessa da Dio è una vita che sorge dalla morte, e proprio per questo la vince.
   La fede, o è fede in Dio "che fa rivivere i morti" o non è fede.
   La fede di Abraamo però viene ancora una volta messa a dura prova quando Dio gli chiede di restituirgli proprio quel figlio che così miracolosamente gli aveva donato:
    "Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abraamo e gli disse: «Abraamo!» Egli rispose: «Eccomi». E Dio disse: «Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e va' nel paese di Moria, e offrilo là in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò»." (Genesi 22:1-2).
Senza esitare Abraamo parte per il monte Moria, e durante i tre lunghi giorni di viaggio nel cuore del padre il figlio Isacco era già morto. Abraamo era pronto a uccidere suo figlio, come Dio gli aveva ordinato. Aveva forse smesso di credere nella Parola di Dio, che da quel figlio gli aveva promesso di avere un'innumerevole progenie? No, al contrario: Abraamo era pronto a uccidere Isacco proprio perché aveva fede in Dio "che fa rivivere i morti", come la Scrittura attesta:
    "Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: «É in Isacco che ti sarà data una discendenza». Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione" (Ebrei 11:17-19).
Se nelle persone di Abraamo e Sarai la morte era presente come fatto biologico, conseguenza storica del peccato dell'uomo, nella persona di Isacco la morte annunciata era presente come destino storico predisposto da Dio per la salvezza dell'uomo. Isacco fu ridonato ad Abraamo "come per una specie di risurrezione", anticipazione di una risurrezione che rappresenterà la benedizione per "tutte le famiglie della terra", come promesso da Dio fin dall'inizio.
   L'esperienza di Abraamo è tutt'altro che unica nella storia d'Israele. Al contrario, la realtà di una vita che scaturisce dalla morte è una caratteristica ricorrente del popolo di Dio.
   Giuseppe dovette fare l'esperienza di una morte civile nelle carceri di Potifar prima di assurgere ai più alti livelli della vita sociale diventando vicerè d'Egitto. E sarà proprio questa specie di risurrezione a permettere alla sua tribù familiare di rimanere in vita. La Bibbia presenta con parole commoventi il momento in cui Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli:
    "Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Vi prego, avvicinatevi a me!» Quelli s'avvicinarono ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto" (Genesi 45:4-8).
Qui interviene un elemento nuovo. In questo caso l'esperienza di morte, cioè la prigionia di Giuseppe nelle carceri d'Egitto, pur essendo guidata dalla volontà di Dio non avviene come conseguenza naturale dell'originaria caduta di Adamo, ma come conseguenza di un preciso peccato commesso dai discendenti di Abraamo. E questo fa vedere che Dio usa anche e proprio il peccato dell'uomo come strumento di salvezza per fargli giungere la sua grazia.
   E' in Egitto che la tribù patriarcale di Abraamo diventa popolo. Il processo si svolge nell'arco di più di quattrocento anni e non avviene nella terra promessa, ma in un paese pagano. Il popolo non fiorisce sotto la spinta di autonome e brillanti iniziative di formazione delle strutture sociali, come per esempio è avvenuto nell'Israele di questi ultimi decenni, ma languisce sotto una mortale schiavitù. La Bibbia non dice che gli ebrei in Egitto abbiano invocato l'aiuto divino, anche perché nei quattro lunghi secoli di sofferenze subite nel silenzio di Dio avranno probabilmente fatto in tempo a dimenticare che esisteva un Dio che un giorno era intervenuto nella vita dei loro antenati. Le grida che lanciavano erano gemiti di dolore, non invocazioni di aiuto.
   Ma se gli ebrei si erano dimenticati di Dio, Dio non si era dimenticato di loro.
    "Durante quel tempo, che fu lungo, il re d'Egitto morì. I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d'Israele e ne ebbe compassione" (Esodo 2:23-25).
Dio allora sceglie Mosè per liberare il suo popolo e farlo diventare una nazione. E questo difficile ingresso in una nuova vita avviene con ripetuti passaggi attraverso esperienze di morte. Mosè, insieme a tutti i maschi ebrei, era destinato alla morte, ma viene salvato dall'intervento provvidenziale di Dio. Da adulto Mosè si presenta al faraone per chiedergli di lasciare andare il suo popolo, e come primo risultato ottiene che l'oppressione del popolo aumenta fino a diventare insopportabile.
    "Uscendo dal faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli, e dissero loro: «Il Signore volga il suo sguardo su di voi e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano una spada per ucciderci»" (Esodo 5:20-21).
La morte invece si abbatte sugli uomini in Egitto, ma non sugli ebrei. I loro primogeniti, al contrario di quelli degli egiziani, restano in vita.
   Anche poco dopo l'uscita degli israeliti dall'Egitto, Dio fa passare il popolo attraverso un'altra esperienza di morte sicura. Avevano già fatto un po' di strada quando Dio dice in sostanza a Mosè: falli tornare indietro e mettili in una posizione senza via di uscita, in modo che i loro nemici pensino che ormai il popolo non ha più una via di scampo:
    "Il Signore parlò così a Mosè: «Di' ai figli d'Israele che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, fra Migdol e il mare di fronte a Baal-Sefon. Accampatevi davanti a quel luogo presso il mare. Il faraone dirà dei figli d'Israele: "Si sono smarriti nel paese; il deserto li tiene rinchiusi". Io indurirò il cuore del faraone ed egli li inseguirà. Ma io sarò glorificato nel faraone e in tutto il suo esercito, e gli Egiziani sapranno che io sono il Signore». Ed essi fecero così" (Esodo 14:1-4).
Davanti a loro il mare, alle spalle gli egiziani che stavano arrivando, gli ebrei si trovavano ancora una volta in una specie di tomba. Ma proprio questo voleva Dio: dare loro la vita facendoli passare per un'esperienza di morte. Il popolo d'Israele giunge alla vita attraversando miracolosamente il mar Rosso, e la morte attraverso cui erano passati indenni si abbatte sugli egiziani che li inseguivano.
    Tutta la storia successiva del popolo d'Israele, anche dopo la lunga esperienza biblica, può essere letta seguendo l'intreccio sempre ripetuto di morte e nuova vita. Al contrario della pagana esaltazione della vita, che necessariamente deve ignorare o sminuire o addolcire la tetra realtà della morte, la storia e la cultura ebraica, fino a che restano nel quadro biblico, inglobano la morte senza minimizzarne la gravità, ma indicando la possibilità del suo superamento in una nuova vita. "Prigionieri della speranza" è un'espressione biblica (Zaccaria 9:12) che ben si presta a rappresentare sinteticamente la situazione in cui è "costretto" a vivere il popolo eletto.
   Non deve sembrare strano allora che per la salvezza di Israele, e quindi di tutto il mondo, il Re d'Israele, che è anche il Re del mondo, sia dovuto passare attraverso un processo di morte e risurrezione. La realtà di una nuova vita che nasce dalla morte rappresenta la chiave di comprensione del fenomeno ebraico, in tutte le sue espressioni: storiche, sociali e individuali. Di morte e risurrezione parla il profeta Isaia quando scrive:
    "Ma piacque all'Eterno di fiaccarlo coi patimenti. Dopo aver dato la sua vita in sacrifizio per la colpa, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni, e l'opera dell'Eterno prospererà nelle sue mani. Egli vedrà il frutto del tormento dell'anima sua, e ne sarà saziato; per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti, e si caricherà egli stesso delle loro iniquità" (Isaia 53:10-11)
Questo servo dell'Eterno che passa attraverso la morte per vincerla, e non solo per sopravvivere ad essa, dopo la morte fisica e la morte sociale dell'umiliazione e del disprezzo conoscerà la gloria dell'elevazione politica al di sopra di ogni altro potere della terra:
    "Ecco, il mio servo prospererà, sarà elevato, esaltato, reso sommamente eccelso. Come molti, vedendolo, son rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante sì da non parer più un uomo, e il suo aspetto si da non parer più un figlio d'uomo), così molte saran le nazioni, di cui egli desterà l'ammirazione; i re chiuderanno la bocca dinanzi a lui, poiché vedranno quello che non era loro mai stato narrato, e apprenderanno quello che non avevano udito (Isaia 52:13-15)
Questo servo dell'Eterno è il Re de giudei, che è risorto dai morti perché ha vinto la morte. E poiché non si può pensare che un Re esista senza una nazione e un popolo, è evidente che il popolo dei giudei, cioè Israele, vivrà in eterno (Geremia 31:35-37). O meglio, passerà attraverso una traumatica e conclusiva esperienza di morte da cui risorgerà a nuova e immortale vita. Proprio questo è il messaggio lasciato dall'apostolo Paolo, quando parlando degli ebrei aveva predetto che la loro "riammissione" sarà come "un rivivere dai morti" (Romani 11:15).
   Non la generica "sacralità della vita", ma il binomio "morte e risurrezione" è la caratteristica di Israele come realtà storica. Caratteristica che è nello stesso tempo un messaggio rivolto al mondo. E se qualcuno chiede: perché il popolo degli ebrei è sempre riemerso dopo ogni tentativo di sterminio? perché si poteva essere certi che la nazione di Israele sarebbe riapparsa sulla sua terra? perché si può essere certi che Israele sopravviverà a tutti i tentativi di distruggerlo? La risposta è semplice: perché Gesù Cristo, il Re dei giudei, è risuscitato dai morti, e "la morte non ha più potere su di lui" (Romani 6:9).

 


Dopo gli Emirati c'è anche il Bahrein Storico accordo di pace con Israele

È il secondo Paese del Golfo a stabilire relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico

di Sharon Nizza

 
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo con il principe ereditario del Bahrein Salman bin Hamad Al Khalifa durante la sua visita a Manama, Bahrein, il 26 agosto
GERUSALEMME - «Non c'è migliore risposta all'odio generato dall'11/9 che questo accordo». Così, a 19 anni dall'attentato alle Torri Gemelle, Trump ha annunciato un altro storico passo verso il «nuovo Medioriente» delineato dal suo piano "Pace per prosperità", convincendo anche il Bahrein a uscire allo scoperto e a normalizzare i rapporti con Israele, dopo aver ottenuto lo stesso risultato con gli Emirati Arabi Uniti meno di un mese fa. Alla Casa Bianca, quindi, questo martedì si firmerà un doppio accordo di pace. II Bahrein diventa il secondo Paese del Golfo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, il quarto Paese arabo con Egitto e Giordania.
   L'Amministrazione Usa ha trasformato in fatti le molte dichiarazioni più o meno sibilline che prefiguravano un effetto domino dopo la scelta di Abu Dhabi di aprire a Israele. «Un altro Paese dell'area si accoderà presto alla scelta coraggiosa di Mohammed bin Zayed», hanno ripetuto più volte il Segretario di Stato Mike Pompeo e il genero-consigliere di Trump Jared Kushner, visitando, a distanza di pochi giorni, i principali candidati: Oman, Sudan, Arabia Saudita. E il Bahrein, che d'altro canto non aveva tenuto le carte troppo nascoste in questi mesi: era stato il primo Paese arabo a complimentarsi con gli Emirati per l'accordo con Israele. Ma soprattutto, fu proprio Manama a ospitare nel giugno 2019 la conferenza per la presentazione della parte economica del "Piano del Secolo" di Trump, che fu poi rivelato nella sua interezza alla Casa Bianca a gennaio, alla presenza degli ambasciatori a Washington di Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Oman — che non a caso è dato come il prossimo Paese che potrebbe unirsi allo storico disgelo.
   Abu Mazen, come con gli Emirati, ha subito richiamato l'ambasciatore palestinese a Manama. In una dichiarazione ufficiale della Muqata si legge che l'accordo è una «pugnalata alle spalle, un tradimento nei confronti di Gerusalemme, di Al Aqsa e della causa palestinese», esattamente la stessa terminologia usata per condannare l'accordo con Abu Dhabi. Solo mercoledì i palestinesi avevano subito una sconfitta significativa quando la Lega Araba aveva rifiutato di sostenere una risoluzione di condanna degli Emirati. A Ramallah avevano previsto quel giorno che il rifiuto fosse il segnale più concreto del fatto che presto sarebbero arrivate altre dichiarazioni di apertura di Paesi arabi verso Israele, confermando il cambio di rotta rispetto al paradigma «non c'è normalizzazione senza il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini del '67». II presidente egiziano Al Sisi si è affrettato a complimentarsi per l'accordo, definendolo «un passo importante verso il raggiungimento della stabilità e di una pace giusta in Medioriente. Anche per i palestinesi».
   L'Iran — che ora si trova ufficialmente gli israeliani dall'altra parte del Golfo Persico, peraltro in un Paese a maggioranza sciita — condanna i dirimpettai per essersi arresi ai sionisti. In questo scenario, in cui l'alleanza anti-iraniana prende il sopravvento rispetto ai vecchi schemi nello scacchiere mediorientale, il Cairo potrebbe avere un ruolo determinante nel convincere i palestinesi a tornare al tavolo delle trattative.

(la Repubblica, 12 settembre 2020)


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Pace tra Israele e Bahrein. Trump: «Un'altra svolta»

La storica intesa annunciata dal tycoon via Twitter. È il secondo Paese arabo dopo gli Emirati

Un mese dopo lo storico accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Emirati Arabi Uniti, mediato da Donald Trump, il presidente Usa e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno annunciato la pace tra lo Stato ebraico e il Bahrein.
   In un tweet, Trump ha annunciato un'«altra svolta storica» con «l'accordo di pace» tra Israele e il piccolo Paese del Golfo Persico che allacceranno relazioni diplomatiche. «Si tratta del secondo Paese arabo, in 30 giorni, a fare la pace con Israele», ha esultato il capo della Casa Bianca. Subito l'annuncio di Netanyahu: «Cittadini di Israele, sono commosso di potervi dire che abbiamo raggiunto un altro accordo di pace con un altro Paese arabo, il Bahrein. Questo accordo si aggiunge alla storica pace con gli Emirati Arabi Uniti». Il presidente Usa ha anche pubblicato una dichiarazione congiunta su Twitter, in cui si legge che Trump, il re del Bahrein, Hamad bin Khalifa, e Netanyahu, hanno accettato di stabilire relazioni diplomatici tra i due Paesi. «E un traguardo storico verso una pace più forte in Medio Oriente. L'apertura di un dialogo diretto e relazioni tra società dinamiche ed economie avanzate contribuirà alla trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione», si legge in una nota. Lo Stato insulare del Bahrein, retto da una monarchia sunnita ma a maggioranza saudita, è un alleato di ferro degli Stati Uniti e dell'Arabia Saudita che lo sostengono anche in funzione di contenimento dell'Iran. Gli Stati Uniti hanno ringraziato il regno arabo per aver organizzato il forum economico del giugno 2019 a Manama «per promuovere la causa della pace, della dignità e delle opportunità economiche per il popolo palestinese». A questo proposito, la dichiarazione aggiunge che le parti continueranno i loro sforzi per «una soluzione giusta, completa e duratura del conflitto israelo-palestinese che consentirà al popolo palestinese di raggiungere il suo pieno potenziale». Ma, come accadde ad agosto, l'Autorità nazionale palestinese e Hamas, il movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza, hanno condannato l'intesa.
   «E' una pugnalata alle spalle della causa palestinese e del popolo palestinese», ha sottolineato il ministro palestinese per gli Affari sociali, Ahmad Majdalani, mentre Hamas ha denunciato una «aggressione» che causa «gravi danni» alla causa palestinese. Nella nota pubblicata da Trump, il presidente Usa ha aggiunto che Israele ha assicurato che «tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al Aqsa e che i luoghi santi di Gerusalemme rimarranno aperti a credenti pacifici di tutte le fedi». il Bahrein diventa il quarto Paese arabo a stabilire piene relazioni diplomatiche con Israele, dopo Emirati Arabi Uniti (l'accordo sarà firmato il 15 settembre alla Casa Bianca), Egitto (1979) e Giordania (1994).

(il Giornale, 12 settembre 2020)


Israele è il primo Paese al mondo a tornare al blocco totale (per le feste)

Superati i 4 mila casi al giorno per 48 ore di fila: è il numero più alto per milione di abitanti. L'opposizione attacca Bibi.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Riuniti a cena in famiglia per celebrare Rosh Hashana, il Capodanno ebraico. Il prossimo fine settimana avrebbe dovuto essere una festa per gli israeliani. Invece a tavola si ritroveranno seduti in pochi, chi fa parte del nucleo ristretto di parenti: da venerdì diventerà il primo Paese al mondo a imporre una seconda chiusura totale per cercare di rallentare l'epidemia. Il blocco di due settimane è stato definito dal gruppo di ministri che coordina la risposta all'emergenza sanitaria, deve ancora essere approvato domani dal resto del governo: coincide con le festività più importanti nel calendario ebraico, fino a Yom Kippur e Sukkot. Le scuole, i servizi e i trasporti pubblici, tutte le attività commerciali (esclusi supermercati e farmacie) si fermeranno, i ristoranti possono solo preparare piatti da portar via, gli spostamenti sono limitati a 500 metri dall'abitazione. Dopo questa fase ne sono previste altre tre con gradi diversi di limitazioni.
   Tutto ricomincia con la quarantena nazionale. Eppure a maggio sembrava che la crisi fosse sotto controllo, che la start-up nation avesse vinto anche questa guerra. Invece il virus ha infranto il mito della nazione tutta tecnologia e creatività: il numero di infettati ha superato i 4 mila al giorno per 48 ore di fila, i morti sono più di mille, oltre la metà da agosto in avanti. Ormai Israele registra il più alto numero di casi per milione di abitanti, è però uno dei Paesi che esegue più test (terzo al mondo).
   L'opposizione accusa il premier Netanyahu di aver malgestito la crisi, di aver avuto la testa immersa nel processo per corruzione. Anche la scelta di rinviare l'isolamento a settimana prossima è stata criticata: permette al primo ministro e capo della destra di viaggiare tra martedì e mercoledì a Washington per partecipare alla cerimonia di firma dell'accordo con gli Emirati Arabi, Netanyahu ha voluto evitare di trovarsi in volo mentre il resto degli israeliani resta bloccato a terra e in appartamento. Ia comunità più colpita resta quella degli ultraortodossi (16 per cento di positivi ai test), seguita dagli arabi israeliani (11 per cento), con gli altri al 6. Questi numeri avrebbero dovuto legittimare il piano preparato da Ronni Gamzu, che i giornali chiamano lo Zar del coronavirus: per settimane ha proposto di applicare il sistema a semaforo e di chiudere solo una quarantina di città rosse (le altre identificate come gialle e verdi) dove vivono in maggioranza haredim (i timorati di Dio) e arabi.
   È diventata una questione politica: i partiti ultraortodossi sono parte della coalizione al potere e hanno minacciato Netanyahu di fargli saltare il governo se avesse imposto una quarantena mirata alla comunità. Perché fin dall'inizio dell'epidemia i rabbini si sono ribellati a qualunque regola che limitasse lo studio nelle scuole religiose o gli assembramenti dei fedeli. Adesso proclamano di non voler ridurre il numero di partecipanti — anche 10mila — alle preghiere la sera di Rosh Hashana.
   Il virus ha esacerbato le divisioni tra quelle che lo scrittore Etgar Keret chiama le «tribù» israeliane: gli ultraortodossi temono di essere ghettizzati, allo stesso tempo si rifiutano di seguire le norme generali e ascoltano solo le indicazioni dei rabbini; gli abitanti di città come Tel Aviv non vogliono che le autorità religiose estendano la loro influenza sulla quotidianità laica.

(Corriere della Sera, 12 settembre 2020)


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Israele richiude per Covid. Ma tanti pensano di imitarlo

Lo Stato ebraico è il primo Paese a tornare al lockdown (però gli industriali sono contro Netanyahu). II virologo Fauci vuole imporre il blocco anche negli Stati Uniti.

di Carlo Nicolato

Israele sarà il primo Paese a tornare in lockdown per la seconda volta dall'inizio della pandemia di coronavirus. La decisione verrà probabilmente confermata domani dal governo che firmerà il piano in tre fasi messo a punto dal comitato scientifico. La prima fase di due settimane, a cavallo del Rosh haShanah (il Capodanno ebraico) e del digiuno di Kippur, prevede la chiusura delle scuole e il divieto per cittadini di allontanarsi dalle proprie case per più di 500 metri. Rimarranno aperti i negozi essenziali e le attività produttive più importanti. Nella fase due le scuole continueranno a rimanere chiuse, mentre sarà possibile riunire fino a 20 persone all'aperto e 10 all'interno. Si potrà tornare al lavoro ma gli spostamenti tra le città saranno ancora vietati. La terza fase invece si svilupperà a livello regionale, dipendendo dai contagi locali e dall'evoluzione della pandemia. Il piano ha già provocato la durissima reazione delle principali aziende che hanno avvertito il primo ministro Benjamin Netanyahu del rischio di un "coronavirus economico" più distruttivo di quello medico. Le misure però, fanno sapere dal governo, sono necessarie dopo che per quasi una settimana si sono registrati record su record di casi, fino ai 4429 contagi di giovedì (ieri 4038). Per la verità Israele ha cominciato a registrare una crescita costante a iniziare da luglio, con oltre mille casi al giorno, mentre a marzo ed aprile non si era mai andati oltre i 700 giornalieri. Lo stesso dicasi per i decessi, fino a fine aprile poco oltre i 200 in totale, mentre da luglio a oggi se ne contano più di 700, per una somma di 1077 attuali. In Israele dunque la prima ondata è stata molto più blanda di quanto non sia attualmente la seconda.

 Il calo negli Usa
  Negli Usa invece la curva dei contagi è da qualche settimana in calo, si è passati dai 70mila casi giornalieri di luglio ai 38mila registrati il 10 settembre, tanto che il presidente Trump si è azzardato a dire che il Paese sta uscendo dal tunnel. Secondo il virologo Anthony Fauci però i numeri sono ancora troppo alti e con l'arrivo dell'autunno sarebbe il caso di chiudere ancora. A meno di accelerazioni inaspettate sarà molto difficile se non impossibile che Trump accetti un altro lockdown, ma non è detto che ciò possa accadere tra poco più di un mese e mezzo dopo le elezioni, a seconda dei risultati. Per tutti comunque una seconda chiusura prolungata sarebbe una catastrofe da un punto di vista economico e sociale e per questo, nonostante i numeri dei contagi in forte crescita, almeno in Europa si sta pensando a piccole chiusure, a misure ponderate a seconda delle zone e della situazione. La Francia sta registrando contagi che sfiorano le 10mila unità giornaliere e anche se come ha detto il presidente del Comitato scientifico Delfraissy «l'aumento della circolazione del virus ha scarso impatto attuale sul sistema sanitario», le cifre sono però tali che «ci può essere un aumento molto rapido ed esponenziale in una seconda fase».

 La Francia frena
  Per questo Macron aveva lasciato capire che qualcosa di simile a un nuovo lockdown fosse in arrivo, ma ieri il premier Jean Castex ha invece riferito che i francesi devono imparare a convivere con il virus «senza entrare di nuovo in una logica di contenimento generalizzato». Richiamando il popolo al "senso di responsabilità individuale" Castex ha annunciato che molte delle misure di contenimento verranno demandate alle autorità locali, le quali in funzione della situazione specifica avranno per esempio il potere di chiudere le aziende interessate o cambiarne l'orario di apertura. Il premier ha comunque confermato la riduzione per la quarantena dei positivi a 7 giorni. Situazione simile in Gran Bretagna, dove comunque la crescita dei contagi è minore, 3mila circa giornalieri (3539 casi ieri, con 6 morti), a fronte di numeri record di tamponi (175mila giovedì). Boris Johnson si è limitato per ora a una stretta sugli assembramenti che non possono superare le sei persone, in pubblico e in privato, con minaccia di provvedimenti di polizia per i trasgressori. Ma anche qui, come in Francia, è stata lasciata ampia autonomia di azione a livello regionale, tanto che ieri il consiglio comunale di Birmingham, seconda città del Regno, ha deciso che «a partire da martedì 15 settembre, i residenti della città non potranno più socializzare con altre famiglie, al chiuso o nei giardini privati». "Smart lockdown" in vista per l'Olanda che ancora ieri, con 1270 casi registrati, ha confermato il trend in crescita. Numeri simili a quelli italiani ma con una popolazione di un quarto rispetto alla nostra. In attesa di conoscere i particolari "smart" del nuovo stop olandese, arrivano invece le misure di contenimento annunciate dal cancelliere Sebastian Kurz in Austria: da lunedì saranno nuovamente obbligatorie le mascherine in tutti i negozi e nei luoghi pubblici chiusi e il numero di spettatori ammessi a spettacoli o eventi sportivi sarà ridotto a 1.500 al coperto e 3.000 all'aperto. Niente birra al bancone, bisognerà sedersi al tavolo.

(Libero, 12 settembre 2020)


Stoudemire con Bibbia e canestri trascina gli israeliani del Maccabi

di Adam Smulevich

Amar'e Stoudemire
A quasi 38 anni Amar'e Stoudemire, uno dei più grandi cestisti del ventunesimo secolo, continua a sorprendere. Per sei volte All Star e per due volte nel miglior quintetto stagionale della Nba, il "lungo" originario di Lake Wales, Florida, ha da poco trascinato gli israeliani del Maccabi Tel Aviv al terzo titolo nazionale consecutivo (il 54esimo nella storia di questo glorioso club, più volte vincitore anche in Eurolega).
   Quando infiammava i palazzetti d'America era conosciuto come "Stat", acronimo che stava per "Standing Tall And Talented". Da qualche giorno, negli ambienti ebraico ortodossi, è per tutti non Amar'e e neanche Stat ma Yahoshafat Ben Avraham. Il nuovo nome che ha assunto da quando è stata ufficialmente annunciata la sua conversione all'ebraismo (l'ha fatto lui stesso, con un post su Instagram). Per raggiungere questo obiettivo l'ex stella di Phoenix Suns e New York Knicks ha dovuto non solo studiare giorno e notte, ma anche cambiare in modo radicale il proprio stile di vita. Adattandosi cioè ad agire nel pieno rispetto delle regole etico-comportamentali che questo popolo si trasmette da millenni. Dall'alimentazione kasher al rispetto delle solennità festive, dall'osservanza dello Shabbat a quella delle 613 "mitzvot", i precetti che scandiscono non solo la quotidianità ma l'intera esistenza ebraica.
   Per Amar'e/Yahoshafat un percorso iniziato due anni fa, anche se era da un po' che ci stava pensando. Almeno dal 2010, quando per la prima volta raccontò ai media di possibili origini ebraiche della madre. Sull'onda di quella suggestione Stoudemire scelse di recarsi una prima volta in visita a Gerusalemme. E poi di tornarci più volte, decidendo persino di investire nel basket locale (nel 2013 è a capo di una cordata che acquista la squadra capitolina del Beitar). Tra le nuove amicizie che nascono in quel periodo quella con l'allora Capo di Stato israeliano, il Premio Nobel per la pace Shimon Peres, grande appassionato di sport.
   Stoudemire non smette di fare quello che sa far meglio: andare e far andare gli altri a canestro. Ma comincia a interessarsi anche ad altro, di più profondo. Alla scoperta/riscoperta di quelle radici che sono poi la radice stessa dell'umanità. Legge, studia, si confronta con alcuni rabbini disposti ad appagare le sue molte curiosità. Resta affascinato da un mondo che non è più solo suggestione ma incontro reale e stimolante con temi vivi. Agli allenamenti alterna così ore trascorse sulla Torah, sul Talmud, sui commentari biblici. Solo allora matura una scelta più consapevole e determinata.
   In carriera ha affrontato situazioni ad altissimo livello di pathos e adrenalina. Ma il momento più emozionante della sua vita, raccontano, è stato poco più di una settimana fa. Quando, cioè, si è presentato davanti al Beth Din, il tribunale rabbinico incaricato di valutare la sua candidatura. E quando soprattutto, al termine dell'esame, si è sentito dire: "Benvenuto nel popolo d'Israele".

(Avvenire, 12 settembre 2020)


In occasione deli'anniversario della Breccia di Porta Pia

Riceviamo da Emanuel Segre Amar e volentieri pubblichiamo

Mi permetto di segnalare a chi fosse interessato il convegno che si terrà a Saluzzo domenica 13 alle ore 16.30 italiane nel quale, in occasione del 150esimo della Breccia di Porta Pia, si parlerà non solo di Giacomo Segre, ma anche del ruolo di tanti italiani di religione ebraica dal Risorgimento alla I guerra mondiale.
La storia che Giacomo Segre avrebbe sparato il primo colpo è falsa come verrà dimostrato.
Si parlerà anche del figlio di Giacomo, il generale Roberto, figura straordinaria che visse una specie di vicenda Dreyfus in Italia. E anche del nipote di Roberto, Dan, morto il 5 giugno 1967 nel cielo nei pressi di Damasco, mentre comandava uno stormo di aerei israeliani.
Chi lo desidera potrà seguire in diretta su YouTube
Infine domenica 20 settembre verrà inaugurata la lapide in via Nomentana 33 a Roma in memoria di Giacomo Segre. Purtroppo essendo moed le istituzioni ebraiche non potranno essere presenti. Io sarò quindi presente solo a titolo personale. Il ministro della difesa non ha ancora confermato la propria presenza. La sindaco di Roma sarà rappresentata.
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 12 settembre 2020)


Addio a Roberto Finzi, storico dell'antisemitismo

Aveva 79 anni. Con "Cosa hanno mai fatto gli ebrei?" ha raccontato ai ragazzi le origini della Shoah

di Ilaria Zaffino

Il suo ultimo libro è un curioso e appassionante dialogo tra nonno e nipote che si interrogano su Cosa hanno mai fatto gli ebrei? (questo ll titolo), uscito per Einaudi Ragazzi l'anno scorso. Proprio per rispondere alla domanda della nipote Sofia che chiede al nonno, grande studioso e autore di libri e articoli, in Italia e all'estero, «per quale motivo in tanti li odiassero a tal punto da permettere che fossero perseguitati», questo libriccino guida in poco più di 150 pagine la ragazzina — e con lei tutti noi — in un viaggio attraverso la Storia per capire l'origine e il significato dell'antisemitismo e di un odio tanto antico e mai sopito. SI perché Roberto Finzi, scomparso a Bologna a 79 anni — a dame la notizia proprio la nipote Sofia — negli ultimi decenni si è occupato soprattutto di persecuzione contro gli ebrei in Italia e di "questione antisemita": non ebraica, la «questione ebraica non esiste, sono gli antisemiti che l'hanno creata», sostiene nel suo saggio più recente che si intitola Breve storia della questione antisemita, pubblicato da Bompiani sempre nel 2019.
   Non solo antisemitismo, però. Nella sua lunga carriera è stato anche insegnante, alle scuole medie e superiori prima e all'università poi, dove ha tenuto le cattedre di Storia economica, Storia del pensiero economico e Storia sociale tra gli atenei di Bologna, Ferrara e Trieste.
   Nato a Sansepolcro (Arezzo) nel 1941, Roberto Finzi ha spaziato dalla storia dell'agricoltura e delle condizioni di vita nelle campagne tra il XVII e il XX secolo alla storia del pensiero economico — in particolare nel Settecento e del movimento socialista. Ed è stato uno studioso attento anche dei pregiudizi e delle discriminazioni. Per esempio, nei confronti delle donne. Come denuncia nel saggio Il maschio sgomento. Una postilla sulla questione femminile (Bompiani, 2018). Oltre che in Italia, dove i suoi lavori sono stati pubblicati da alcune tra le maggiori case editrici e apparsi in numerose riviste, Finzi è stato tradotto molto anche all'estero: negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia, Spagna, sino all'Argentina, il Brasile, la Cina o il Giappone. E' stato inoltre tra i fondatori dei periodici Storia del pensiero economico e Passato e presente, la rivista di storia contemporanea che, da quando è nata agli inizi degli anni '80, ha cambiato più volte pelle ed editore.

(la Repubblica, 12 settembre 2020)


Israele è orientata a imporre un nuovo lockdown in tutto il Paese dal prossimo 18 settembre

di Giuseppe Ballerini

In Israele l'andamento del contagio da coronavirus sta progressivamente peggiorando, tanto che i dati attuali sono nettamente peggiori rispetto a quelli della scorsa primavera, con nuovi record giornalieri sia per quanto riguarda il numero di nuovi casi, sia per quanto riguardo il numero di nuovi decessi.
  Attualmente, in Israele sono oltre 146mila le persone risultate contagiate dal coronavirus e 1.086 quelle decedute a causa della Covid-19, con 34.731 persone che ad oggi risultano positive al virus.
  Grave la situazione del contagio anche a Gaza e in Cisgiordania, dove il numero complessivo di contagiati finora è stato finora di quasi 30mila, con 224 decessi. Inoltre, le persone attualmente positive sono 10.080 in Cisgiordania e 1.427 a Gaza.
  Numeri che paragonati a quelli della scorsa primavera illustrano una situazione che, oggettivamente, pare essere fuori controllo. Nel solo Stato di Israele, il numero di nuovi casi nelle ultime 24 ore è stato di 4.429 su una popolazione che non raggiunge i 9 milioni.
  Dati che dimostrano quanto seria sia la situazione in quell'area in relazione alla pandemia. Inoltre, ai dati sopra riportati, è da aggiungere che il numero di persone ricoverate è aumentato, tanto da mettere a rischio la sostenibilità del sistema sanitario, a partire dalle terapie intensive dove il numero di malati è intorno ai 150, mentre solo nelle ultime 24 ore circa 1.500 persone hanno avuto necessità di ricorrere alle cure ospedaliere.
  Quella in Israele è una situazione grave a cui il Governo Netanyahu ha ritenuto di dover rispondere con un nuovo lockdown a livello nazionale, a partire dal 18 settembre. Almeno questo è quanto è stato proposto dall'esecutivo. La decisione definitiva sarà presa domenica.
  Nelle intenzioni del Governo si prevede un periodo di isolamento di due settimane con una limitazione degli spostamenti, la chiusura di bar, ristoranti e attività non indispensabili...
  La percentuale di positivi tra gli israeliani ultraortodossi negli ultimi giorni è stata del 16%, tra gli arabi israeliani dell'11%, mentre del 6% nel resto della popolazione di appena il 6%.
  Il coordinatore nazionale della lotta contro il coronavirus nominato poco tempo fa da Netanyahu, il prof. Ronni Gamzu, aveva suggerito di imporre delle zone rosse limitate alle località dove il contagio da coronavirus è maggiore. Ma gli ultraortodossi non hanno gradito l'ipotesi, minacciando una ritorsione nei confronti di Netanyahu al prossimo appuntamento elettorale, così il premier israeliano ha annunciato di voler chiudere, di nuovo, tutto il Paese.
  La decisione finale e le modalità le conosceremo alla fine di questa settimana.

(Fai informazione, 11 settembre 2020)


Palestina, volano parole grosse alla Lega araba

II Bahrain dice no alla risoluzione di condanna chiesta dall'Anp. «Siamo sorpresi»

di Michele Giorgio

 
GERUSALEMME - Invitati, con ogni probabilità, dall'Autorità nazionale a non calcare la mano, i tre giornali nei Territori occupati - Al Quds, Al Ayyam e Al Hayat Al Jadida - ieri titolavano con moderazione sulla batosta subita mercoledì dalla causa palestinese alla riunione dei ministri degli esteri della Lega araba.
   Più che la clamorosa bocciatura della risoluzione di condanna della normalizzazione dei rapporti tra Emirati arabi e Israele avanzata dal ministro degli Esteri dell'Anp Riad al Malld, i tre quotidiani hanno scelto di evidenziare i pochi aspetti positivi di una giornata che avrà riflessi importanti: il no dalla Lega araba ai piani di annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania e l'appoggio confermato dal consesso arabo al piano saudita del 2002 che condiziona la normalizzazione con Israele al suo ritiro dai territori arabi e palestinesi che occupa dal 1967. Ma non è bastato per nascondere sotto al tappeto quanto è accaduto mercoledì, peraltro ampiamente commentato e condannato dai cittadini palestinesi sui social.
   I retroscena emersi sulle fasi che hanno preceduto il meeting parlano di scontro aperto tra i palestinesi e alcuni dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) che riunisce le sei petromonarchie sunnite.
   «L'Oman e il Bahrain hanno stretto i ranghi con gli Emirati e hanno fatto forti pressioni su Riad al Malli, sono volate parole grosse. Anche loro intendono normalizzare al più presto le relazioni con Israele e vedono come un ostacolo i diritti dei palestinesi e l'iniziativa saudita del 2002», ci spiegava ieri un giornalista palestinese con buoni contatti ai vertici dell'Anp. Circostanze confermate indirettamente dallo stesso Al Malli.
   «Siamo rimasti sorpresi che un Paese arabo si sia opposto alla nostra richiesta. Lo Stato di Palestina si è spinto troppo oltre nel chiedere di tenere una riunione di emergenza?» ha detto il ministro degli Esteri palestinese riferendosi con ogni probabilità al Bahrain, indicato come il più disposto a seguire le orme degli Emirati. L'8 settembre il giornale AI Quds Al Arabi - di proprietà del Qatar da anni in rotta con Arabia saudita ed Emirati - aveva scritto di una «guerra nascosta» ai palestinesi scatenata da «chi cercava di salire sul carro degli Emirati». Il Segretario generale del Ccg, Nayef al-Hajraf, avrebbe usato parole di fuoco, intimando ai palestinesi di scusarsi con le monarchie del Golfo pronte a normalizzare le relazioni con Israele.
   Indiscrezioni e rivelazioni a parte, quanto è accaduto mercoledì - a pochi giorni dal 15 settembre in cui alla Casa Bianca Israele ed Emirati firmeranno l'accordo di pace - è la rappresentazione corretta di quel mondo arabo diviso di cui parla spesso con palese soddisfazione il premier israeliano Netanyahu. Più di tutto completa l'isolamento dei palestinesi, che non riescono più a tenere compatti gli arabi dietro al principio della pace in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati.

(il manifesto, 11 settembre 2020)


Accordo Israele-Emirati: un rovesciamento di paradigma

Nessuna meraviglia che gli odiatori di Israele siano furibondi. La loro grande menzogna sta franando: il terribile stato sionista si sta rivelando fonte di soluzioni e speranze, non di odio e disgrazie

Coloro che odiano Israele non devono essere molto allegri, di questi tempi. Tutt'a un tratto, va svanendo la grande menzogna che ha nutrito il loro veleno anti-sionista per così tanto tempo. Per più di mezzo secolo i geni della diplomazia hanno continuato a dire al mondo che "la chiave per la pace in Medio Oriente è risolvere il conflitto israelo-palestinese". Il corollario, molto conveniente, era che la soluzione di ogni guaio mediorientale ricadeva tutta sulle spalle di Israele, il che manteneva costantemente lo stato ebraico nel mirino della condanna globale.
Questo brillante stratagemma cercava di mascherare la semplice verità che i mali più profondi del Medio Oriente non hanno assolutamente nulla a che fare con Israele o il conflitto palestinese. Vediamone solo alcuni: secoli di conflitti tra musulmani sciiti e sunniti, feroci dittature che hanno portato disperazione e miseria generale, un regime iraniano predatorio che persegue il dominio sulla regione, sanguinose guerre civili in Libano Siria e Yemen, ascesa di gruppi terroristici come al-Qaeda e Isis, colossale carenza di garanzie e libertà civili con regolare persecuzione delle voci dissidenti...

(israele.net, 10 settembre 2020)


Sveglia Ue: Erdogan è una minaccia globale. Parla Nirenstein

Conversazione di Mondogreco.net con la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein: vi racconto il pericolo di Erdogan per Grecia e Cipro, e la tragedia guerrafondaia dell'Iran.

di Francesco De Palo

Fiamma Nirenstein
Secondo la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, tra le altre cose membro del Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa), già vicepresidente della commissione per gli affari esteri della Camera dei Deputati per la XVI legislatura (sino a marzo 2013), è giunto il momento che l'Europa guardi meglio alle mosse turche, intrise di violenza e prevaricazione: l'invasione della Siria, la penetrazione in Libia, le provocazioni contro Grecia e Cipro. Per cui la nuova cooperazione militare (ma non solo) tra Israele, Grecia e Cipro si pone come punto di caduta di una più ampia strategia che investe l'intera macro regione euromediterranea, ma che va letta anche alla luce del nuovo accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, che verrà siglato martedì prossimo a Washington. "Stiamo attenti a questa cultura neo-ottomana che disprezza gli europei".

- Atene, Tel Aviv e Nicosia uniscono le Forze Armate conducendo esercitazioni congiunte e attività operative in un momento di fortissime tensioni geopolitiche causate dalla Turchia. E' nata una nuova visione comune contro le policies di Erdogan?
  Penso di sì, è una strategia molto larga che comprende anche l'importantissima pace che verrà siglata martedì prossimo a Washington tra Emirati e Israele. Da una parte abbiamo la tendenza a creare una nuova situazione progressiva di pace, di rapporti rinnovati e diversificati rispetto al passato. Dall'altra invece c'è un fronte che non esito a definire guerrafondaio, formato da Iran e Turchia: è chiaro che Israele in questo suo rapporto mediterraneo con Grecia, Egitto e Cipro svolge un ruolo primario, contro la strada di una guerra al mese intrapresa da Ankara e Teheran. Turchia e Iran, tramite i relativi fiancheggiatori, agiscono solo per fini agitatori. E' contro questa deriva che agisce un orizzonte impegnato in collaborazione, pace e nuove relazioni che porteranno ad un futuro migliore per l'intera area. Si tratta di uno scontro verticale fra due blocchi.

- L'accordo di pace degli Emirati Arabi Uniti con Israele può essere visto anche alla luce dell'ultra-espansionismo turco nel Mediterraneo orientale?
  Non c'è dubbio. Sono sicura del fatto che i paesi sunniti moderati hanno come nemico l'universo sciita guidato dall'Iran con il suo proxy più pericoloso rappresentato da Hezbollah, senza dimenticare il ruolo di Qatar e Hamas nella Fratellanza Musulmana che preoccupano enormemente gli Emirati. Non va dimenticato come il Qatar sia stato oggetto di una vera e propria messa fuori legge da parte di questi paesi: quindi all'interno di questo fronte sunnita c'è una forte spaccatura. E' di pochi giorni fa la visita di una delegazione di Hamas prima da Erdogan e dopo a Beirut: non importa che il primo sia convintamente della Fratellanza Musulmana. Il tutto va letto sapendo che il piano di pace di Trump ha fatto saltare i grandi nemici dell'occidente, ovvero iraniani e turchi. Osservo che la Lega Araba ieri si è rifiutata di condannare l'accordo di pace, come da richiesta dei palestinesi: per cui siamo in presenza di una situazione molto promettente creata dalla Casa Bianca. Non a caso Trump è stato proposto per il Nobel, che invece fu dato gratuitamente a Obama, il quale fu il vero protagonista non solo dell'arrampicata iraniana verso la bomba atomica ma anche della tragedia siriana. Non credo che Trump potrà vincerlo, per come è costruito oggi quel premio. Io però glielo darei senz'altro.

- La forte relazione sul gasdotto Eastmed tra Tel Aviv, Atene, Nicosia e Il Cairo come impatta sulla presenza turca in Libia e con l'imbarazzo della Nato?
  La Turchia è ovviamente un attore significativo in questa fase, soprattutto per le sue mosse scomposte, ma in cima alle preoccupazioni dei paesi arabi resta l'Iran perché ha investito moltissime energie nel prevedere la costruzione della bomba: sono state infatti rimesse in moto le centrifughe. Erdogan mette a rischio l'equilibrio mediorientale e mediterraneo.

- Come giudica la reazione europea?
  Se c'è una cosa spiacevole in tale vicenda è che l'Ue a fronte di questa storica occasione rappresentata dall'accordo tra Israele e gli Emirati, a cui seguiranno anche Barhain e Sudan, non è riuscita a dire nemmeno un bravo a chi ha ispirato quell'accordo. Dove sono le pulsioni europeiste verso la pace? Qualcuno vuole continuare a inseguire la guerra terroristica che per anni hanno fatto i palestinesi, nonostante Israele abbia avanzato svariate offerte di pace? L'ennesima beffa di questo finto pacifismo si ritrova nel fatto che Serbia e Kosovo vogliono portare le rispettive ambasciate a Gerusalemme, ma l'Ue le minaccia di tenerle fuori dall'allargamento degli stati membri.

- Dal possibile ingresso nell'Ue alla profondità strategica neo-ottomana: come è cambiata la politica di Erdogan?
  Non solo Trump, ma tutto il mondo si era illuso sulla possibilità di recuperare Erdogan in un discorso che lo portasse all'interno di un dialogo con il mondo occidentale. Stiamo parlando di un grande paese islamico che ha attraversato un periodo di forte occidentalizzazione, per cui era naturale che si valutasse il suo desiderio di essere ammessa nell'Ue. Il fatto che la Turchia sia un membro della Nato rappresenta però al momento un problema di non piccola dimensione: dal 2016 Erdogan persegue tutti i suoi dissidenti, mette in galera i giornalisti, ha invaso la Siria, ha messo in fuga 160mila curdi, è penetrato in Libia, ricatta l'Europa sui migranti, ordina altri S-400 dalla Russia, trasforma Aghia Sophia in moschea e adesso punta a Kastellorizo. Insomma, un'aggressione continua. Ricordo una frase del ministro degli esteri turco Cavosoglu: "Gli europei sono bambini razzisti e viziati, che devono sapere quale è il loro posto". Stiamo attenti a questa cultura neo-ottomana che disprezza gli europei.

(Mondogreco, 11 settembre 2020)


Daimler Buses conclude un ordine di 415 autobus in Israele

 
Daimler Buses ha ricevuto uno dei suoi più grandi ordini di sempre. In particolare, la divisione autobus di Daimler Truck AG ha presentato un'offerta di successo per una grossa gara d'appalto in Israele e si è aggiudicata l'ordine per un totale di 415 autobus urbani e interurbani.
   I veicoli andranno a Egged, la più grande compagnia di autobus privata presente in Israele. Oltre a questo, l'ordine è il risultato di una proficua collaborazione tra Daimler Buses e Colmobil che è responsabile sia della vendita che dell'assistenza degli autobus Mercedes.
Till Oberwörder, responsabile di Daimler Buses, ha dichiarato: ""Siamo lieti che Egged abbia scelto gli autobus urbani e interurbani del marchio Mercedes-Benz per il loro alto livello di affidabilità e l'ottimo chilometraggio. L'ordine dei 415 autobus è una delle più grandi nella storia della nostra azienda. Inoltre è la prima volta in oltre 15 anni che Daimler Buses vince la gara nel segmento altamente competitivo degli autobus urbani in Israele".
   Il grosso ordine comprende 156 unità del telaio interurbano OC 500 RF 1939 e 259 del telaio urbano OC 500 LE 1830. Gli autobus urbani sono modelli con ingresso ribassato che permettono ai passeggeri di salire a bordo più facilmente.
   I telai vengono prodotti nello stabilimento di Daimler Buses presente a Sàmano (in Spagna) mentre le carrozzerie saranno montate in loco in quanto prodotte dai costruttori israeliani Haargaz e Merkavim. Tutti i veicoli saranno consegnati quest'anno ed entro la fine del prossimo.

(Mbenz.it, 11 settembre 2020)


Hezbollah e Iran non dimenticano: continua lo stato di allerta nel nord Israele

Hassan Nasrallah vuole la sua vendetta anche contro il parere iraniano e a costo di scatenare una guerra con Israele

di Sarah G. Frankl

Più di un mese e mezzo di massima allerta nel nord Israele. I media e la popolazione, sopraffatti da una enorme mole di notizie diverse, se ne dimenticano ma i militari, gli ufficiali, i membri della intelligence israeliana sanno che prima o poi la vendetta di Hezbollah per l'uccisione di un importante agente avvenuta a luglio a Damasco e attribuita a Israele, arriverà.
   Anzi, a dire il vero ci hanno già provato almeno due volte. La prima quando Hezbollah ha inviato tre combattenti oltre il confine per aprire il fuoco su un avamposto ad Har Dov (Shaba Farms), Israele ha lanciato un "attacco di avvertimento" aereo, quindi gli intrusi si sono affrettati a tornare oltre il confine. La seconda quando alcuni cecchini hanno preso di mira un gruppo dell'intelligence israeliana vicino al kibbutz di Manara, anche in quel caso messi in fuga dalla reazione dei militari di Gerusalemme.
   Ma il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, vuole la sua vendetta a costo di scatenare una guerra. Vuole uccidere almeno un soldato israeliano prima di ordinare il ritorno alla calma al confine tra Libano e Israele.
In un breve discorso via radio tenuto ieri Nasrallah ha negato che gli israeliani avessero sventato i due tentativi di vendetta. Tuttavia si è detto molto felice del fatto che lungo il confine i militari di Gerusalemme siano costretti a vivere in costante allerta.
   Ed effettivamente la vita dei militari israeliani lungo il confine nord non è affatto facile. Costantemente in stato di allerta e senza un attimo di respiro.
   Secondo un noto giornale israeliano l'Iran avrebbe vivamente sconsigliato a Nasrallah di andare verso una escalation con Israele, ma sembra che il leader di Hezbollah non voglia sentire ragioni e ha ricordato agli alleati iraniani che anche loro stanno tramando la loro tremenda vendetta contro gli Stati Uniti per l'uccisione di Qassem Soleimani. Iran ed Hezbollah non dimenticano.

(Rights Reporter, 11 settembre 2020)



Milioni dall'Europa all'Ong accusata di aiutare terroristi e odiare gli ebrei

I responsabili di Islamic Relief si sono dimessi in massa dopo i post antisemiti dei dirigenti svelati dal «Times». Più volte sospettata di legami con i fanatici, ha ricevuto fondi per anni.

di Francesco Borgonovo

 
Islamic Relief Worldwide è una delle Organizzazioni non governative più grandi e potenti del mondo, di sicuro la più famosa tra quelle di orientamento musulmano. Ha sede a Birmingham, nel Regno Unito, e ha aperto succursali in 40 Stati. È molto influente a livello sovranazionale, è nota ad esempio la sua azione di lobbying alle Nazioni Unite. Soprattutto, può contare su un notevole patrimonio. Nel solo 2018, per dire, ha ricevuto fondi per la bellezza di 140.657.648,74 euro. Nelle ultime settimane, tuttavia, Islamic Relief ha avuto vari problemi non del tutto irrilevanti. I guai sono cominciati alla fine di luglio, quando Heshmat Khalifa, membro del consiglio di amministrazione e presidente della Ong, ha dovuto dare le dimissioni. La stampa inglese ha scoperto che, sui suoi profili social, aveva pubblicato alcuni post diciamo... poco edificanti. In uno di questi definiva il presidente egiziano Al Sisi un «magnaccia sionista». E ancora un «magnaccia figlio di ebrei» e un «criminale sionista». Giusto per non farsi mancare niente, il simpatico Khalifa ha pensato bene di chiarire le sue posizioni riguardo al popolo ebraico. Sempre nei post sui social ha definito gli ebrei «nipoti di scimmie e maiali».
   Come facile immaginare, dalle rivelazioni mediatiche è scaturito uno scandalo, e Khalifa ha dovuto lasciare l'incarico, che occupava con soddisfazione da parecchio tempo, precisamente dal 1999. Subito dopo, Naser Haghamed, il chief executive di Islamic Relief, si è molto scusato pubblicamente per le orrende uscite del suo collega, e ha promesso che si sarebbe dato da fare affinché cose del genere non avvenissero mai più. Purtroppo, non gli è andata molto bene. A distanza di un mese quasi esatto, un'altra ondata di vergogna si è abbattuta sulla Ong islamica.
   Al posto di Khalifa, nel board dell'organizzazione umanitaria è entrato Almoutaz Tayara. Piccolo problema: costui condivide con il suo predecessore il vizio di pubblicare commenti antisemiti sui social network. Il Times ha scoperto che Tayara ha postato sulla Rete vignette antisemite ed elogi ad Hamas. Inoltre «ha glorificato gli attacchi terroristici contro Israele e condiviso una immagine in cui l'ex presidente americano Barack Obama appariva in abiti marchiati con la Stella di David». Questi delicati commenti risalivano al 2014 e al 2015, anni in cui Tayara era al vertice della filiale tedesca di Islamic Relief.
   In questo caso, tuttavia, le scuse e le promesse non sono bastate. Dopo l'ennesima rivelazione, l'intero board di Islamic Relief Worldwide ha dovuto rassegnare le dimissioni, trascinando l'Ong in un polverone senza pari. In realtà che le posizioni dei capoccia di Islamic Relief nei confronti di Israele e degli ebrei non fossero proprio delle migliori era noto. Nel corso degli anni, la Ong è stata ripetutamente accusata di avere legami con l'estremismo islamico. Nel 2014, Israele l'ha dichiarata illegale sulla base di rapporti di intelligence che parlavano di finanziamenti ad Hamas. Nel gennaio 2016, la banca britannica Hsbc ha annunciato che avrebbe rotto ogni rapporto con l'associazione, preoccupata dal fatto «che il denaro per gli aiuti potesse finire a gruppi terroristici all'estero». Per motivi simili la banca americana Usb, nel 2012, ha chiuso il conto di Islamic Relief. Nel 2016, invece, sono stati ricercatori svedesi ad accusare l'Ong di avere rapporti molto stretti con la Fratellanza musulmana. Nel 2014, addirittura, gli Emirati Arabi hanno inserito Islamic Relief in una lista nera di organizzazioni legate al terrorismo.
   Ovviamente Islamic Relief ha sempre respinto ogni accusa. Resta che, anche alla luce dei recenti avvenimenti, l'associazione si può considerare parecchio discussa. Tutto questo, però, non sembra avere molto preoccupato l'Unione Europea che - come mostra l'elenco di cui pubblichiamo oggi la seconda parte - tra il 2015 e il 2018 ha ripetutamente finanziato l'Ong, per altro senza sapere esattamente per quali scopi utilizzasse il denaro ricevuto. Nel 2015 Islamic Relief ha ottenuto 1.100.000 euro di denari provenienti dalle casse europee. Nel 2016 altri 912.263 euro. Nel 2017 ancora più soldi: 1.800.000 euro e poi altri 400.000 e altri 100.000 ancora da fondi diversi. Davvero interessante: mentre sui «benefattori» islamici piovevano accuse pesantissime, l'Ue continuava a sganciare, e non si preoccupava nemmeno troppo di sapere dove sarebbero andati a finire i suoi denari. Chissà se ora, dopo l'ultima esibizione di antisemitismo, a Bruxelles cambieranno idea.

(La Verità, 11 settembre 2020)


Israele-Emirati: l'accordo di pace con Abu Dhabi può essere un ponte verso l'Asia

GERUSALEMME - Una delle sfide che impediscono alle compagnie israeliane di raggiungere l'Asia orientale è che "non possono volare sopra l'Arabia Saudita e tutti i paesi del Golfo", ma l'accordo fra Israele ed Emirati e la conseguente apertura dello spazio aereo da parte di Riad e del Bahrein potrebbero avere "un impatto importante sui collegamenti di Israele con il mondo, inclusa l'Asia". Lo ha dichiarato Edouard Cukierman, investitore franco-israeliano, secondo il quotidiano finanziario "Nikkei Asian Review". "Ora", prosegue Cukierman, "gli israeliani saranno in grado di prendere più spesso rotte dirette, raggiungendo più rapidamente l'Asia".
   D'altra parte, se le compagnie aeree emiratine Etihad ed Emirates cominceranno a volare a Tel Aviv, sarà anche più semplice per gli uomini d'affari asiatici raggiungere Israele, Europa e Turchia e "questo è un grande vantaggio", secondo l'investitore. "Singapore è diventata una solida base per lo sviluppo delle attività israeliane in tutta l'Asia", ha aggiunto Cukierman, sottolineando che gli Emirati potranno svolgere un ruolo simile e agevolare l'ingresso delle imprese israeliane in altri paesi asiatici. "Siamo molto attivi in Cina ma non siamo attivi in India", ha ricordato l'investitore. Poiché la Cina, che pure ha coinvolto sia gli Emirati sia Israele nel progetto della nuova Via della Seta, sembra al contempo stringere rapporti più solidi con l'Iran, alcuni osservatori hanno ritenuto che gli Stati Uniti abbiano fatto da mediatori fra Abu Dhabi e Tel Aviv per indebolire l'influenza di Pechino. Cukierman non condivide questa lettura: "Israele è parte dell'iniziativa cinese, e se permettiamo ai cinesi di andare in Israele grazie al sostegno dei paesi confinanti questa è una svolta per noi e per gli sviluppi delle relazioni con la Cina".
   Altri investitori dello Stato ebraico elogiano le potenzialità dell'accordo per l'economia di entrambi i paesi. Secondo l'imprenditore Eldad Tamir la complementarità fra i due Stati è "praticamente perfetta", perché Israele "è povero di risorse naturali e ricco di alta tecnologia e biotecnologie, ma l'innovazione richiede di investire sempre più denaro in ricerca e sviluppo e i centri tech israeliani richiedono nuovi investitori per continuare a svilupparsi", mentre gli Emirati "vogliono migliorare la propria economia oltre il petrolio, diversificare le esportazioni e progredire nell'era digitale".

(Agenzia Nova, 10 settembre 2020)


Il coprifuoco «limitato» ha riportato le vecchie paure in Israele

Prima notte di blocco in 40 località. Interessate soprattutto le aree arabe e degli ebrei ultraortodossi. Netayahu respinge le critiche: «La priorità è fermare le infezioni, poi scenderanno».

di Fiammetta Martegani

L'altra sera è calato un insolito silenzio a Nazareth, a Bnei Brak - la cittadina con prevalenza di ortodossi vicino a Tel Aviv- e a Gerusalemme, in molti quartieri. Il coprifuoco notturno in 40 località israeliane considerate "zona rossa" a causa dell'elevato tasso di contagio al Covid-19 era appena stato annunciato.
   Era atteso. Lo stesso, quella calma si è allungata come un'ombra di paura sul Paese che durante i primi mesi della pandemia era diventato il simbolo mondiale nella lotta al virus e che questa settimana si è ritrovato al primo posto nel mondo per il rapporto tra numeri di contagi e popolazione. Nella sola giornata di lunedì sono stati registrati oltre 3.400 casi. Che portano il totale da inizio epidemia oltre quota 139mila. I decessi sono di poco oltre i mille. La ragione di questo incremento esponenziale è stata attribuita, soprattutto, alla tendenza, tipica degli ebrei ultraortodossi e degli arabi, di aggregarsi per pregare, per celebrare matrimoni e funerali, superando di gran lunga i numeri previsti dalle restrizioni.
   Il coprifuoco, infatti, interessa soprattutto aree in cui sono insediate le due comunità. La fascia oraria scelta (dalle 19 alle 5 del mattino successivo) è proprio quella in cui abitualmente famiglie e amici si riuniscono per celebrare le feste: stanno per iniziare quelle legate al Capodanno ebraico. Mentre l'alba e il tramonto sono due dei principali momenti di raccolta per i musulmani. Le nuove misure straordinarie vietano ogni tipo di assembramento. Compresi la preghiera di gruppo e i matrimoni: richiesta formulata con insistenza, già da settimane, da Ronni Gamzu, commissario nazionale per la lotta al coronavirus (che in questo momento si trova in isolamento, dopo aver scoperto di essere entrato in contatto con una persona risultata positiva).
   «Ora la priorità è fermare il forte aumento di contagi. In seguito vedremo anche di farli scendere», ha dichiarato il premier Benjamin Netanyahu. Mentre l'opposizione, su tutti i media, non fa che accusarlo per l'incostanza nella gestione delle misure di contenimento della pandemia.

(Avvenire, 10 settembre 2020)


Addio ad Amos Luzzatto intellettuale, leader ebraico e voce forte del dialogo

È morto nella sua Venezia. Il Patriarca: «Figura luminosa». Paolo Gnignati: Israele era un modello, difendeva la specificità dell'ebraismo italiano.

di Paolo Coltro

Nato a Roma il 3 giugno del 1928 da una storica famiglia ebrea veneta. ha trascorso la sua adolescenza a Gerusalemme e Tel Aviv dopo la fuga dall'Italia delle legge razziali. Tornato nel 1946, diventa medico ma accanto all'attività professionale unisce quella di studioso, filologo. Presidente della comunità ebraica veneziana, nel 1998 viene eletto a capo di tutte le comunità ebraiche italiane, incarico che terrà fino al 2006.

 
Amos Luzzatto
Se n'è andato sommessamente, in quell'appartamento in campo della Lana, ma dopo una vita tutt'altro che sommessa: anzi, piena e sfolgorante di impegno, iniziative, idee. Amos Luzzatto ha lasciato ieri la vita e Venezia, ma ha lasciato una traccia lunga quasi tutti i suoi 92 anni.
   Grande famiglia ebrea, la sua, nel Veneto da secoli: ha scritto di suo pugno nel libro «Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra», scritto a 80 anni e pubblicato da Mursia: «II mio nome esatto è Amos Michelangelo Luzzatto, figlio di Leone Michele e di Emilia Lina Lattes. I Luzzatto sono originariamente ebrei veneti, giunti dalla Lusazia, rintracciabili alla fine del XV secolo fra Venezia, il Friuli e il veneto orientale. La lapide della tomba sul punto più alto del cimitero ebraico di Conegliano appartiene ad un Luzzatto». E con lo stemma: un gallo che tiene tre spighe in una zampa, sormontato da una mezzaluna e da tre stelle a cinque punte. Una storia lunga e antica, che con Amos ha aggiunto un capitolo importante nel presente.
   Da bambino frequenta molto il nonno Dante Lattes, rabbino e figura centrale dell'ebraismo italiano del secolo scorso; e suo padre è un socialista perseguitato dai fascisti. Arrivano nel '38 le leggi razziali e poco dopo la famiglia lascia l'Italia, si trasferisce nella Palestina mandataria, ovvero il futuro Stato d'Israele. Torneranno solo nel `46, e Amos si iscrive a medicina. Ma fare il medico (sarà chirurgo ad Asti, in altri ospedali, al Civile di Venezia, fino a concludere la carriera a Dolo) è solo la professione, non esaurisce la sua curiosità intellettuale. Lo affascina l'ebraismo verso il quale ha però un approccio laico. Studia i testi antichi, «era un filologo — ricorda Paolo Gnignati, attuale presidente della Comunità ebraica veneziana — ma di una profondità tale da essere in grado di discutere con i rabbini». Fuori dalla sala operatoria, Luzzatto studia e scrive, ma da subito con un piglio diverso, da progressista diremmo oggi. E un socialista autentico, tanto che si iscrive al Psiup, farà anche il consigliere comunale a Mira. E suoi libri respirano e fanno respirare: «Ebrei moderni», «Sinistra e questione ebraica», entrambi dell'89; e poi «Oltre il Ghetto» e testi di storia ebraica, di esegesi («Leggere il Midrash»), fino a «Hermann» pubblicato 10 anni fa da Marsilio. Le idee di fondo sono sempre di apertura: il dialogo interreligioso, la difesa del pluralismo e della libertà di tutti.
   Un impegno civile che non si esaurisce nelle pagine scritte: Amos Luzzatto è anche presidente della comunità ebraica veneziana, e poi di tutte le comunità ebraiche italiane, per due mandati, dal 1998 al 2006. Dice a Pagine Ebraiche: «Rappresentare politicamente gli ebrei italiani ha significato per me difendere e valorizzare l'Intesa con lo Stato. Ma anche dare significato al nostro essere minoranza, e con altre minoranze offrire concretezza al pluralismo democratico». Concretezza: non sono solo parole quelle che, davanti a Carlo Azeglio Ciampi, pronuncia contro il razzismo. Erano di 15 anni fa, potrebbero essere ripetute oggi: «Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere fra la lotta di sopraffazione e la convivenza civile nel rispetto dell'altro?». Anche concretezza politica: è Amos Luzzatto che nel novembre porta Gianfranco Fini in Israele, con abiura pubblica dei misfatti del fascismo.
   Talmente poliedrico, Luzzatto, che nelle sue biografie le definizioni si inseguono: medico, scrittore, saggista, intellettuale, storico, filologo... Riassume Riccardo Calimani: «Aveva una cultura enciclopedica». Aggiunge Gnignati: si interessava di matematica, filosofia. Raccontano, i suoi amici, di conversazioni condite di grande umanità e di capacità di ascolto, e di una schiettezza totale. Anche politica: «Vedeva in Israele un modello — dice Gnignati — e difendeva la specificità dell'ebraismo italiano». Di suo, Luzzatto scriveva che bisognava mantenere «uno stretto rapporto con la realtà di Israele, religiosa e laica, senza atteggiarsi a rappresentanti della politica israeliana».
   Arriveranno i figli, per i funerali oggi alle 14.30 in Ghetto a Venezia. Sono tre: Gadi Luzzatto Voghera, che è uno storico; Michele, lavora alla Bollati Boringhieri; Misa, insegnante a Milano, con la loro madre Laura Voghera. Arriveranno gli ebrei veneziani, sono circa 500, che l'hanno avuto come guida; ma ci saranno i molti veneziani e non che per decenni hanno respirato il suo prestigio. II cordoglio ufficiale accomuna il ministro Dario Franceschini, Luca Zaia, il patriarca Francesco Moraglia («luminosa figura»), la presidente Ucei Noemi Di Segni, Gianfranco Bettin, Andrea Ferrazzi.
   Amos Luzzatto verrà domani sepolto nel cimitero ebraico di Padova, accanto alla tomba del nonno Dante Lattes, in quel pezzo di terra donato addirittura dai Carraresi e rimasto lì da allora, inviolabile e quasi invalicabile. Oltre al molto che ha dato, c'è una cosa in più che potrebbe rimanere di Amos Luzzatto: un libro sulla professione medica, scritto ma ancora nel cassetto. La curiosità di Luzzatto, questa volta medico, non si fermava mai. E magari gli sopravviverà.

(Corriere del Veneto, 10 settembre 2020)


Bonhoeffer, essere testimoni contro gli «altari laterali»

di Alessandro Zaccuri

Non sempre stupidi si nasce. Più spesso lo si diventa: per convenienza, per assuefazione, per capitolazione davanti a un potere dal quale si finisce per essere posseduti e come occupati interiormente. A sostenerlo, nel buio del totalitarismo, era Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo luterano la cui figura è stata ricordata ieri al Festivaletteratura presso il Chiostro del Museo Diocesano in un dialogo tra la pastora battista lidia Maggi e don Roberto Fiorini, autore per Gabrielli di un puntuale profilo sull'autore (Dietrich Bonhoeffer. Testimone contro il nazismo, pagine 168, euro 15,00). «Nella prospettiva biblica - ha sottolineato Maggi - "testimone" è una parola che indica qualcosa di diverso e di molto più impegnativo rispetto al semplice fatto di assistere a un determinato avvenimento. La testimonianza, come ci ha mostrato Bonhoeffer, comporta una responsabilità radicale, che induce a prendere su di sé la realtà in tutta la sua complessità e con tutte le sue contraddizioni».
   E' questa l'origine della "teologia della Croce" nella quale culminano il pensiero e la vita stessa di Bonhoeffer, sinteticamente ripercorsa da Fiorini attraverso una serie di tappe che dalla nascita nel 1906 all'interno di un'agiata famiglia della colta borghesia tedesca arrivano all'impiccagione il 9 aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della guerra, nel lager di Flössenburg, dove Bonhoeffer era recluso per aver partecipato al fallito attentato contro il Führer. «Mi sono imbattuto nei suoi scritti all'inizio degli anni Settanta - racconta Fiorini, alludendo anche alla sua esperienza di prete operaio -. Era un periodo fortemente segnato dal conflitto, in ambito sia sociale sia ecclesiale. Le prime traduzioni italiane dei testi di Bonhoeffer, curate da don Italo Mancini, mi avevano molto colpito, inducendomi poi a studiare, ad approfondire. Bonhoeffer ci ha insegnato, tra l'altro, che opporsi alla guerra non significa rinunciare alla lotta, e che non ci può essere vera pace senza piena giustizia». La parola della pace è, non a caso, il titolo scelto per l'incontro. Innegabile, ancora una volta, la risonanza biblica. «Nella Scrittum - insiste Maggi - la pace è tutt'altro che assenza di guerra. L'immagine che meglio rappresenta l'ideale di shalom è il ventre di una donna incinta, in un presente gravido di futuro».
   L'analogia tra il martirio di Bonhoeffer e le inquietudini dei nostri anni corre sottotraccia. Fiorini, per esempio, insiste sul pericolo che la mitologia dell'uomo forte torni a fare presa sui giovani, mentre Maggi ribadisce la necessità di coltivare un atteggiamento di complessità a dispetto di ogni tentativo di semplificazione. «Per il credente- dice - non esistono parole d'ordine alle quali adeguarsi». Del resto, la pensava così anche Bonhoeffer, quando contestava l'appoggio delle confessioni cristiane al nazismo avvertendo che nelle chiese non possono esserci «altari laterali per l'adorazione di uomini».

(Avvenire, 10 settembre 2020)


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Bonhoeffer, gli ebrei e la testimonianza a Cristo

di Marcello Cicchese

Da diverse parti si ricorda ogni tanto la figura di Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti il 9 aprile 1945. Certamente Bonhoeffer è da iscriversi fra le non molte figure pubbliche del mondo cristiano tedesco che seppero riconoscere per tempo la natura perversa del regime hitleriano e assunsero un atteggiamento di opposizione. Purtroppo però anche lui non può essere incluso tra gli amici degli ebrei. Dopo il boicottaggio ai negozi ebrei dell'aprile 1933, Bonhoeffer fece la seguente dichiarazione:
    «Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze» (S. Friedländer, La Germania Nazista e gli Ebrei, Garzanti, p.53).
Anche nella famosa «Confessione di Barmen» del maggio 1934, ispirata in gran parte dal teologo Karl Barth, la «Chiesa Confessante» si oppose pubblicamente al «paragrafo ariano» soprattutto perché tra i pubblici ufficiali di provenienza non ariana che avrebbero dovuto essere messi a riposo comparivano anche i pastori ebrei convertiti delle chiese protestanti di Stato, e questo era visto come un'indebita ingerenza dell'autorità statale nelle questioni ecclesiastiche. Vale la pena di riportare un brano del libro di Friedländer.
    «Il paragrafo ariano venne applicato soltanto a ventinove pastori su ottomila; di questi, undici vennero esclusi dall'elenco perché avevano combattuto nella prima guerra mondiale. Fino alla fine degli anni trenta il paragrafo non venne mai applicato a livello centrale; la sua messa in atto dipese dalle autorità ecclesiastiche locali e dai funzionari locali della Gestapo. Dal punto di vista delle chiese, il vero dibattito era incentrato su questioni di principio e di dogma, il che escludeva gli ebrei non convertiti. Allorché, nel maggio del 1934, si svolse a Barmen il primo congresso nazionale della Chiesa confessante, non si udì una parola sulle persecuzioni, e questa volta non furono menzionati neanche gli ebrei convertiti.»
Quindi la presa di posizione antinazista, che pure fu chiara e coraggiosa, restò una condanna ideologica: allo Stato non fu riconosciuto il diritto di intromettersi in questioni che riguardavano Dio, la salvezza e la chiesa. Fu condannata l'ideologia, non la politica. Il conflitto che per diversi mesi occupò l'attenzione pubblica in Germania col nome di "Kirchenstreit" fu vissuto soprattutto come un contrasto interno alle istituzioni dello stato, ma non fu mai una reale, concreta lotta di opposizione al regime in quanto tale. Per il suo carattere di conflitto istituzionale, la disputa si trasferì all'interno delle chiese protestanti ufficiali, generando una divisione fra pro-governativi e anti-governativi, ma non coinvolse le chiese evangeliche libere, che pure ebbero le loro indiscutibili colpe morali. Si può quasi dire che quel contrasto fu la riedizione in forma moderna della medioevale contrapposizione tra Papato e Impero. Dopo l'avvento di Hitler, il papato vero e proprio si accordò immediatamente con l'impero, mentre una parte degli ecclesiastici di stampo luterano rivendicò la propria ecclesiastica autonomia. Forse è per questo che l'opposizione della Chiesa confessante al nazismo, oltre ad essere ampiamente celebrata dalle chiese protestanti storiche, è oggetto di grande considerazione anche da parte dei cattolici. Sperano sempre di poter dire che anche loro, sia pure in modi diversi, fecero una qualche forma di opposizione alla follia hitleriana.
   Bisogna invece riconoscere, con tristezza e umiliazione, che in campo cristiano gli oppositori al regime nazista per motivi di coscienza e di giustizia furono molto pochi. Quasi tutti i pastori della chiesa confessante andarono poi a combattere nell'esercito tedesco; e della persecuzione degli ebrei in quanto tali non sembra che fossero molti a preoccuparsene. Quanto a Bonhoeffer, che da un certo momento in poi si distanziò dalla Chiesa confessante, perfino il suo amico, parente e biografo Eberhard Bethge fu costretto ad ammettere che nei suoi scritti era presente un certo «antiebraismo teologico». «Antiebraismo teologico» che del resto non era difficile trovare neppure negli altri membri della Chiesa confessante.
   E' giusto dunque onorare la memoria di un uomo come Bonhoeffer, ma purtroppo bisogna dire che agli ebrei la sua figura non può suscitare sentimenti di particolare gratitudine.
   Bisogna aggiungere inoltre che Bonhoeffer non è stato messo a morte come cristiano confessante, ma come partecipante ad una congiura fallita, alla pari di tutti gli altri congiurati. Questa grave carenza dell'aspetto squisitamente evangelico nella morte di Bonhoeffer non è stata adeguatamente messa in risalto. Come Salvator Allende, Dietrich Bonhoeffer è morto col fucile in mano. E questa non è testimonianza cristiana.

(Notizie su Israele, 10 settembre 2020)


Trump candidato al Nobel per la pace per l'accordo Israele-Emirati

NEW YORK - Per il suo merito nel raggiungimento di un accordo di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato candidato al Nobel per la pace da Christian Tybring-Gjedde, deputato del parlamento norvegese. "Credo che abbia fatto più di ogni altro candidato per creare la pace tra i Paesi", ha osservato in un'intervista all'emittente "Fox News" Tybring-Gjedde, che è anche presidente della delegazione norvegese all'Assemblea parlamentare della Nato.
   Nella sua lettera al Comitato per il Nobel, il deputato ha ricordato come l'amministrazione Trump abbia avuto "un ruolo cruciale" nell'apertura di relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati. "Dal momento che ci si attende che altri Paesi mediorientali seguano i passi degli Emirati, questo accordo potrebbe trasformare la regione in una terra di cooperazione e prosperità", ha scritto Tybring-Gjedde, sottolineando inoltre il ruolo del capo della Casa Bianca nel "facilitare contatti e creare nuove dinamiche in conflitti protratti, come quello tra India e Pakistan nel Kashmir e quello tra le Coree".
   Il parlamentare norvegese ha anche elogiato Trump per aver ritirato un gran numero di militari statunitensi dal Medio Oriente. "Trump - ha osservato - è stato il primo presidente in 39 anni a non avviare una nuova guerra e a non portare gli Stati Uniti in un altro conflitto armato internazionale. L'ultimo presidente a riuscirci era stato Jimmy Carter, che vinse il premio Nobel".

(Agenzia Nova, 9 settembre 2020)


La cultura in Israele: un lusso superfluo? Una storia di scelte, tra influenze d'Europa e d'Oriente

Durante una delle sue conversazioni con David Ben Gurion, il pittore Marc Chagall cercò di convincere il fondatore di Israele dell'importanza della cultura in un'epoca in cui la priorità assoluta del movimento sionista e del giovane Stato di Israele era di creare una nazione di soldati-agricoltori.

di Cyril Aslanov

Poco entusiasmato dalla cultura agricola del kibbutz, Chagall usò una metafora, paragonando la cultura al filo rosso dei tappeti persiani: pur tenue e discreto che sia, questo filo rosso è ciò che dà la sua coerenza ai motivi decorativi dell'artigianato iraniano. Come quel filo rosso, la cultura, pur essendo un lusso in un paese sottomesso a delle scelte esistenziali urgenti, ha la sua importanza come fattore strutturante della
 
Marc Chagall, "I colori della vita"
nazione emergente. Ben Gurion, che era una persona colta (benché autodidatta), voleva creare un "uomo nuovo", rompendo il legame con la cultura diasporica alla quale gli ebrei europei erano stati abituati e nella quale eccellevano prima di immigrare in quel piccolo angolo del Mediterraneo orientale.
   Per creare la cultura pionieristica del nuovo paese, Ben Gurion si ispirò alla cultura sovietica del primo decennio della Rivoluzione russa, una cultura che Chagall conosceva bene, essendo stato uno dei protagonisti del Futurismo sovietico all'inizio degli anni '20. Ma Chagall, appunto, non rimase nella Russia sovietica e la lasciò nel 1922. Non volle neanche stabilirsi negli Stati Uniti, dove passò sette anni (1941-1948). E in quanto ad emigrare in Israele, non era disposto a farlo, con il pretesto che, dopo duemila anni di esilio, lui, come molti ebrei ashkenaziti, non era più abituato al clima del paese.
   La sua patria intellettuale era la Francia che, da buon ebreo russo, considerava come il faro della cultura europea. Così si spiega la sua apologia della cultura presso il leader sionista che pensava di creare una cultura senza radici per un "uomo nuovo" che, dalle sue radici, era stato tagliato via.
   Che Chagall abbia avuto un'influenza su Ben Gurion o no, non importa. Fatto sta che la realtà sociologica e umana fu più forte del volontarismo del fondatore dello Stato di Israele. Durante i decenni successivi, Israele sviluppò degli altissimi standard culturali che facevano percepire lo Stato ebraico come un prolungamento della vecchia Europa. Questo paese, fondato nel Medioriente da ebrei est-europei, rivendicava per sé lo status di paese occidentale localizzato sulle sponde del Mediterraneo. Nei primi decenni dell'esistenza dello Stato, i teatri, le università, le biblioteche, i conservatori di musica erano generosamente sovvenzionati. Tuttavia, l'establishment ashkenazita che aveva trasposto a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme le abitudini culturali di Varsavia, Berlino e Vienna dimenticava che il "Secondo Israele" sefardita ed orientale aveva anche la sua propria cultura. Da Baghdad a Oran, i migliori rappresentanti della musica classica araba erano stati ebrei e in molti casi, gli ebrei dei paesi arabi erano stati attivi nella modernizzazione dell'orizzonte politico e culturale del mondo arabo.
 
Miri Regev
   Questo, l'élite ashkenazita non lo riconosceva e pensava che gli ebrei orientali in Israele fossero soltanto capaci di produrre la musica tonitruante dei matrimoni orientali. Le cose non cambiarono molto dopo la vittoria del Likud nel 1977. Nel campo culturale la crisi di identità della società israeliana scoppiò nel 2015 quando la marocchina Miri Regev fu nominata Ministro della Cultura. Odiata dalla bohème telaviviana, Regev volle riequilibrare la bilancia fra la cultura del centro economico e culturale del paese (Tel Aviv) e le periferie dove Ben Gurion e i continuatori della sua politica avevano emarginato gli immigrati venuti dai paesi arabi. Tagliò le sovvenzioni statali a molti rappresentanti della cultura elitaria di sinistra e dispensò la manna del sostegno istituzionale alle periferie, spesso identificate con ebrei non-ashkenaziti. Nel nuovo governo instaurato in maggio 2020, Miri Regev riceve il Ministero dei Trasporti. Comunque, oggi, la politica culturale dello Stato non deve più pensare alla questione "quale cultura" si debba sostenere: la cultura di stampo occidentale, favorita dall'establishment di origine ashkenazita, o la cultura orientale delle periferie? Oggi il Covid-19 ha falsificato i termini del dibattito: nessuno riceve più niente dallo Stato, i teatri e le sale da concerto sono chiusi e i professionisti dello spettacolo sono spesso costretti a diventare fattorini di pizze e sushi.

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2020)


Il 15 settembre alla Casa Bianca la firma dell'accordo Israele-Emirati

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ospiterà una cerimonia alla Casa Bianca il 15 settembre per firmare l'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Lo ha annunciato un funzionario americano. Stabilire relazioni diplomatiche tra Israele e gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, comprese le ricche monarchie del Golfo, è un obiettivo chiave della strategia regionale di Trump per contenere la minaccia rappresentata dalla repubblica islamica dell'Iran. Questo accordo renderà gli Emirati il terzo Paese arabo a stabilire legami diplomatici con Israele, dopo i trattati di pace conclusi con Egitto (1979) e Giordania (1994).
Dopo l'annuncio, a metà agosto, di questo accordo, i palestinesi hanno accusato Abu Dhabi di tradimento e di violare il consenso arabo che ha reso la soluzione del conflitto israelo-palestinese una 'conditio sine qua non' per la normalizzazione con lo Stato ebraico. Otto giorni fa, una delegazione israelo-americana, guidata da Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, si è recata ad Abu Dhabi con il primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati. Aveva ricevuto l'autorizzazione a sorvolare l'Arabia Saudita sebbene Riad non avesse rapporti con lo stato ebraico.

(Shalom, 9 settembre 2020)


Pigiami e biancheria intima nella prima campagna pubblicitaria di Israele negli Emirati

 
GERUSALEMME - La normalizzazione dei rapporti commerciali tra Israele ed Emirati Arabi Uniti potrebbe avere come punto di partenza il settore dei pigiami e della biancheria intima. Secondo quanto riferisce il sito di informazione "Middle East Eye", un noto marchio israeliano di biancheria intima ha organizzato un servizio fotografico a Dubai in quella che si ritiene essere la prima campagna di questo tipo da quando Stato ebraico ed Emirati hanno annunciato la storica intesa per la normalizzazione delle relazioni il 13 agosto scorso. Fix, un'etichetta di indumenti intimi e pigiami per giovani donne, ha lanciato la sua nuova collezione di pigiami con un servizio fotografico in cui figurano la modella israeliana May Tager e Anastasia Bandarenka, indossatrice di origine russa residente negli Emirati. "Una storia in divenire - scrive su Instagram l'agenzia Yuli Model - ecco la prima campagna pubblicitaria israeliana a Dubai con protagonista la nostra May Tager".
L'intesa annunciata il 13 agosto scorso tra Israele ed Emirati prevede la piena normalizzazione delle relazioni tra i due paesi, la sospensione dell'annessione dei territori della Cisgiordania prevista dal piano di pace per il Medio Oriente proposto dagli Stati Uniti e la futura firma di accordi bilaterali nel campo degli investimenti, turismo e sicurezza tra Gerusalemme ed Abu Dhabi. Come annunciato il 13 agosto in conferenza stampa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, è dal 2009 che Israele sta lavorando per normalizzare i rapporti con i Paesi arabi. Negli ultimi anni tali relazioni sono più o meno giunte allo scoperto con un cambio di passo da parte delle monarchie del Golfo nelle relazioni con lo Stato ebraico dall'economia alla cooperazione nel contrasto all'espansionismo dell'Iran nella regione. Il prossimo 15 settembre Netanyahu e il principe ereditario Mohammed bin Zayed saranno a Washington per firmare lo storico accordo che normalizzerà le relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti alla presenza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

(Agenzia Nova, 9 settembre 2020)


La normalizzazione di Israele, in attesa del voto americano

di Francesco Petronella

Sono quasi le 4 del pomeriggio quando le ruote dell'aereo LY-971 della compagnia israeliana El Al toccano l'asfalto della pista di atterraggio. La destinazione raggiunta, dopo un viaggio iniziato a Tel Aviv alle 11.30 del 31 agosto 2020, è l'aeroporto di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. A bordo del velivolo due delegazioni di Israele e Stati Uniti, guidate da Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, e dal consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Meir Ben Shabbat. L'apparecchio espone come insegne le bandiere delle tre nazioni - USA, Israele ed Emirati - e la parola "pace" stampata in inglese, ebraico e arabo sul finestrino laterale del pilota. Il volo viene salutato dai media locali come un momento storico che suggella la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati, primo Paese del Golfo a compiere questo passo e terzo del mondo arabo dopo Egitto e Giordania.
  Il percorso di questa distensione tra lo Stato ebraico e il piccolo (ma importante) Paese del Golfo nasce da lontano. Israele ed Emirati cooperano da tempo nello scambio di informazioni per quello che concerne la sicurezza e la difesa, sebbene Dubai e Abu Dhabi abbiano sempre mantenuto una retorica filopalestinese, almeno pubblicamente. Uno dei temi più discussi, anche se le parti sono molto reticenti sul tema, è la vendita agli Emirati dei caccia statunitensi F-35 di quinta generazione. Si tratterebbe di una mossa che, secondo alcuni esperti, minerebbe la superiorità militare di Israele nella regione, tanto è vero che un regolamento degli Stati Uniti richiede esplicitamente che l'amministrazione si consulti con lo Stato ebraico prima di vendere armi a qualsiasi Paese arabo.
  Fonti coperte riferiscono al New York Times che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe dato all'amministrazione Trump il nullaosta per vendere armi (e aerei) agli Emirati, ma sull'affaire F-35, un tema molto sensibile per gli equilibri regionali, si susseguono le smentite da entrambe le parti. Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan (Mbz per i media occidentali) sottolinea ad ogni occasione possibile che l'accordo con Israele annunciato il 13 agosto "non andrà a scapito della causa palestinese" e che, al contrario, l'impegno assunto dallo Stato ebraico di sospendere le annessioni in Cisgiordania è da salutare come una conquista positiva.
  Quelli dopo lo storico viaggio Tel Aviv-Abu Dhabi del 31 agosto, a cui il 16 settembre farà seguito il primo aereo cargo in volo dallo Stato ebraico agli Emirati, sono giorni di annunci, indiscrezioni e speculazioni su quale sarà il prossimo Paese dell'area ad aprirsi a Israele. Molti osservatori internazionali, confortati dall'insistenza della stampa israeliana, sono pronti a scommettere sul Bahrein. A Manana, capitale della monarchia del Golfo, è stata infatti presentata a giugno 2019 la parte economica del "Piano del secolo" messo a punto dall'amministrazione Trump per la pace tra israeliani e palestinesi. I regnanti del Bahrein, appartenenti alla dinastia Al Khalifa, sono monarchi sunniti in uno Stato a maggioranza sciita (70% della popolazione). Un fatto che mette spesso il Paese al centro della contesa regionale tra Iran e Arabia Saudita. Nonostante la reticenza bahreinita, per i media di Gerusalemme come il portale israeliano Kan 11, l'annuncio di un accordo tra lo Stato ebraico e la monarchia araba ormai non è questione di se, ma di quando.
  Altri ipotizzano che il prossimo Paese a tendere una mano a Israele possa essere l'Oman, importante snodo diplomatico per il Medio Oriente, rimasto orfano a inizio anno dell'ottuagenario sultano Qabus bin Said Al Said, definito da Netanyahu «un grande uomo» in occasione della sua dipartita. Il ministero degli Affari esteri omanita commenta il nuovo accordo tra Emirati e Israele dicendo che «soddisferà le aspirazioni dei popoli della regione nel sostenere i pilastri della sicurezza e della stabilità». Decisamente ostile invece è l'atteggiamento del Kuwait, le cui autorità fanno sapere dalle colonne del giornale locale Al Qabas che «La nostra posizione su Israele non è cambiata, saremo gli ultimi a normalizzare le nostre relazioni» con lo Stato ebraico.
  L'impressione generale, oltre i proclami e la retorica che contraddistinguono eventi simili, è che gli altri Paesi dell'area mantengano una certa cautela rispetto a possibili distensioni con Israele. C'è da aspettarsi che questa reticenza rimanga tale fino al più importante appuntamento in programma nei prossimi mesi, ossia le elezioni presidenziali americane a novembre 2020. Trump punta molto sulla politica mediorientale e sulla distensione con Israele in chiave propagandistica. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha suscitato non poche critiche in patria, intervenendo in videoconferenza alla convention repubblicana direttamente da Gerusalemme, nel corso di una missione che lo ha condotto in Libano, Israele e Kuwait. L'accusa dei democratici è quella di aver usato, cosa mai successa prima, un impegno ufficiale all'estero per meri scopi elettorali. I Paesi del Medio Oriente, però, sembrano rimanere attendisti. Probabilmente aspettano di sapere chi la spunterà nel rush finale della corsa alla Casa Bianca tra l'attuale presidente Trump e lo sfidante Joe Biden. Certamente non ci si aspetta che il candidato democratico, qualora eletto, cambi in modo radicale la politica americana nell'area. Ma al contempo è poco prudente impegnarsi a fondo nelle trame diplomatiche dell'attuale amministrazione - volte alla strategia della "massima pressione" sull'Iran - se alla fine sarà Biden a vincere le presidenziali.
  Ciononostante, l'immobilismo non è uguale ovunque. A quasi un mese dall'accordo Israele-Emirati e a pochi giorni dallo storico volo Tel Aviv-Abu Dhabi, i primi movimenti verso Israele arrivano da un'area apparentemente remota e inaspettata, quella dei Balcani. Il 4 settembre, infatti, Trump ha annunciato che Serbia e Kosovo hanno raggiunto un'intesa per la normalizzazione dei rapporti economici. Parte dell'accordo prevede che il Kosovo riconoscerà Israele, mentre la Serbia sarà il primo Paese europeo a spostare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come fatto dagli USA a maggio 2018. La parte dell'accordo che conta, in una regione dove gli USA vogliono contrastare la penetrazione russa e cinese, riguarda soprattutto gli aspetti economici. Ma l'inserimento del dossier israeliano nella partita ha comunque la sua importanza, facendo parte della corsa di Trump ad accumulare risultati diplomatici da usare in campagna elettorale contro Biden. Se l'esempio di Emirati, Kosovo e Serbia fosse seguito da un altro Paese arabo-islamico, o magari da più di uno, questo costituirebbe un vantaggio non indifferente per l'attuale inquilino della Casa Bianca.

(Atlante, 9 settembre 2020)


Il console eroe che salvò ebrei e Ponte Vecchio

La lapide per Gerhard Wolf

di Marco Vichi

 
Sotto gli archi del Ponte Vecchio c'è una lapide che commemora il console del Terzo Reich che «si adoperò con ruolo decisivo per la salvezza del Ponte Vecchio (1944) dalla barbarie della II guerra mondiale e fu determinante per il rilascio di perseguitati ed ebrei nella drammatica occupazione nazista». Il Console si chiama Gerhard Wolf (1896-1971) ed è andato contro a tutti i «doveri nazisti». Con la collaborazione di Carlo Steinhauslin, console svizzero, ha salvato ebrei fornendo loro documenti falsi, ha salvato partigiani che erano finiti a Villa Triste nelle mani di quello spietato assassino di Mario Carità (mai cognome fu meno appropriato), si è impegnato a salvare le opere d'arte e i monumenti di Firenze.
   A riprova di ciò c'è un libro, «Il Console di Firenze» di David Tutaev, stampato in Germania nel '67 e uscito poi in Italia per AEDA nel '71 (adesso è fuori catalogo, ma mi auguro che presto un editore lo riporti in vita, anche come esempio di quanto il mondo possa regalare sorprese). Nel libro, che ricostruisce bene l'atmosfera dell'Occupazione di Firenze, troviamo anche una bellissima lettera di ringraziamento scritta a Wolf da Bernard Berenson, il famoso storico dell'arte ebreo americano di origini russe, ricercato dai tedeschi, che lo avrebbero acciuffato assai volentieri. Berenson si è salvato dalla cattura grazie al Console, che sapeva bene dove si era nascosto, e che invece di fare il «proprio dovere» per i nazisti, ha fatto il proprio dovere per la giustizia umana.
   La lapide sul Ponte Vecchio è stata messa per commemorare il 50esimo anniversario dell'attribuzione della cittadinanza onoraria a Wolf, conferita nel '55 dal sindaco La Pira, che dopo un lungo discorso per onorare quanto aveva fatto Wolf per Firenze, consegnò al console le chiavi della città. Poi, chissà come, la memoria di questo uomo coraggioso si è perduta, sia in Italia, sia in Germania. Ma Gianmarco D'Agostino, regista di Firenze - a cui prestai il libro di Tutaev, che mi era stato prestato da Lorenzo Cinatti - si è innamorato della sua storia e da anni sta lavorando a un documentario che riporti alla memoria le azioni di Wolf.

(Nazione-Carlino-Giorno, 9 settembre 2020)


L'ayatollah Khamenei lancia una fatwa contro Charlie Hebdo

Non si fermano nel mondo islamico le condanne contro Charlie Hebdo. Dopo le accuse di Turchia e Pakistan, è la Guida suprema iraniana Ali Khamenei a scagliarsi contro la scelta della rivista satirica francese di ripubblicare le caricature del profeta Maometto, che l'avevano resa un obiettivo dei jihadisti. Un "peccato imperdonabile", l'ha definito la massima autorità della Repubblica islamica, dopo che il ministero degli Esteri aveva già bollato le vignette come "una provocazione e un insulto" al mondo islamico. Ma la 'fatwa' pronunciata alcuni giorni fa è ancora più dura. Secondo l'ayatollah Khamenei, la scelta del giornale "ha rivelato l'ostilità e l'odio del sistema politico e culturale occidentale verso l'islam e la comunità musulmana". Nel suo numero della scorsa settimana, Charlie Hebdo aveva replicato le caricature in occasione dell'apertura del processo per le stragi del gennaio 2015 nella sua redazione e al supermercato ebraico Hyper Cacher, che fecero 17 vittime. Un'iniziativa cui ha fatto scudo lo stesso presidente francese Emmanuel Macron, parlando di "una libertà di blasfemia che è legata alla libertà di coscienza". Nel suo messaggio, Khamenei parla invece di "pretesto della libertà di espressione", denunciando come "sbagliato e demagogico" l'atteggiamento dell'Eliseo. "In una congiuntura simile - ha ipotizzato poi la Guida di Teheran - questa mossa potrebbe essere mirata a distrarre l'opinione pubblica dei Paesi dell'Asia occidentale dai malvagi complotti degli Stati Uniti e del regime sionista", riferendosi tra l'altro agli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, che aveva già denunciato come un "tradimento" dell'islam.

(Shalom, 9 settembre 2020)

Coprifuoco in Israele per il boom di contagi

Il governo impedisce assembramenti di religiosi

 
Il Covid avanza in Israele. Così, in un ulteriore tentativo di contrastare la diffusione del coronavirus una commissione interministeriale ha confermato oggi la imposizione di un coprifuoco notturno da oggi, per la prossima settimana, in 40 località di Israele considerate rosse, ossia con un elevato tasso di contagio. Il coprifuoco inizierà alle 19 locali e terminerà alle 5 del giorno successivo.
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Nelle località a popolazione araba, secondo la radio pubblica, il provvedimento si prefigge in particolare di impedire lo svolgimento di matrimoni non autorizzati. In quelle popolate da ebrei ortodossi, il governo vuole impedire assembramenti di religiosi che, in questo particolare periodo dell'anno, si radunano all'alba per recitare preghiere di gruppo. Fra le aree interessate vi sono una decina di rioni (ortodossi o arabi) di Gerusalemme, la città ortodossa di Bnei Brak (presso Tel Aviv), rioni delle città di Ashdod e Ashkelon, nonch´ le città arabe di Nazareth ed Um el-Fahem.

(Il Messaggero, 8 settembre 2020)



UE contro la Serbia: contrari a che sposti l'ambasciata a Gerusalemme

Ennesimo grave atto ostile dell'Unione Europea nei confronti di Israele, ormai diventato l'ossessione dei burocrati di Bruxelles

di Maurizia De Groot Vos

BRUXELLES - L'Unione Europea ha espresso "sconcerto, seria preoccupazione e rammarico" per l'impegno preso dalla Serbia di spostare la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme.
   Secondo i negoziatori europei una tale decisione potrebbe compromettere in modo serio i colloqui tra Serbia e Kosovo in quanto quest'ultimo, di fede musulmana e attualmente aiutato pesantemente dalla Fratellanza Musulmana (Turchia), potrebbe ritirarsi dai suddetti colloqui se Belgrado proseguirà su questa linea.
   In realtà questa è una paura tutta ed esclusivamente europea. Solo pochi giorni fa il presidente serbo, Aleksandar Vucic, e il primo ministro del Kosovo, Avdullah Hoti, si sono incontrati a Bruxelles per finalizzare al meglio le decisioni prese in un precedente incontro a Washington, incontro che ha portato alla firma di un accordo volto a migliorare le relazioni economiche tra i due stati, primo passo per un reciproco riconoscimento.
   Al Kosovo non importa nulla di quello che fa la Serbia con la sua ambasciata in Israele, è l'Unione Europea a non volere questa decisione.
   "La UE si aspetta dai potenziali membri come la Serbia che si allineino con le sue posizioni in politica estera"
   "In questo contesto, qualsiasi passo diplomatico che possa mettere in discussione la posizione comune dell'UE su Gerusalemme è motivo di grave preoccupazione e rammarico", ha detto ai giornalisti a Bruxelles il portavoce dell'UE per gli affari esteri Peter Stano.
   A Stano risponde a stretto giro di posta Sharren Haskel, membro della commissione parlamentare israeliana per gli affari esteri il quale ha detto che "i tentativi della UE di educare la Serbia e il Kosovo sono scioccanti", e ha accusato l'Unione Europea "di criticare ripetutamente lo stato di Israele e di mettere in discussione la sua stessa esistenza".
   E poi Sharren Haskel ha lanciato un appello agli altri Stati: "chiedo ad altri paesi … di trasferire le loro ambasciate a Gerusalemme, l'eterna capitale del popolo ebraico" ha detto Haskel.
   Siamo quindi di fronte all'ennesimo gravissimo atto dell'Unione Europea contro Israele. Forse a Bruxelles farebbero meglio a guardare dove finiscono le centinaia di milioni di euro che ogni anno l'Europa dona a fondo perduto alle casse di Abu Mazen e dei boss palestinesi.

(Rights Reporter, 8 settembre 2020)


Israele-Emirati: successo Usa, ma gli F-35 agitano le acque

Dopo l'annuncio dello storico accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati arabi uniti e il primo volo diretto tra Tel Aviv e Abu Dhabi della settimana scorsa (con sorvolo dello spazio aereo saudita, un altro primato), si sta organizzando la prima visita ufficiale. Come ha riferito la Reuters, da Abu Dhabi una delegazione dovrebbe partire alla volta dello Stato ebraico il prossimo 22 settembre per consolidare l'intesa raggiunta grazie alla mediazione dell'amministrazione americana di Donald Trump. La conferma ancora non c'è, si attende di conoscere la data per la cerimonia di firma dell'intesa che si terrà probabilmente a Washington a metà settembre.

 Israele pensa ai risvolti economici dell'intesa
  Intanto il ministro per l'Intelligence israeliano, Eli Cohen, ha puntato l'attenzione sui risvolti economici dell'intesa, sostenendo che "entro 3-5 anni l'interscambio raggiungerà i 4 miliardi di dollari" annui; i settori interessati sono difesa, energia, salute, turismo, tecnologia e finanza. Già questo mese è prevista la visita negli Emirati dei responsabili delle due principali banche israeliane.

 Gli Usa annunciano "svolta diplomatica storica"
  Gli accordi di Abramo sono stati annunciati dalla Casa Bianca con una nota congiunta il 13 agosto come una "svolta diplomatica storica che farà avanzare la pace" e al contempo "sbloccherà il grande potenziale nella regione". La speranza di Washington, e di Gerusalemme, è che al passo rivoluzionario di Abu Dhabi segua quello degli altri Paesi del Golfo. A spingere in questa direzione c'è la comune opposizione verso l'arcinemico Iran e la sfida posta dall'atteggiamento sempre più aggressivo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan nella regione. I più papabili sono Bahrein e Oman, ma anche il Sudan: in quest'ottica si è inserito il viaggio del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che alla fine di agosto ha visitato Abu Dhabi, Gerusalemme, Manama, Muscat e Khartoum. Caute aperture verso una normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico ce ne sono state, l'accordo è stato accolto con favore da diversi Paesi, ma altri passi ufficiali ancora no.

 Riad frena e ricorda la causa palestinese
  La stessa Arabia Saudita, il pilastro sunnita delle regione, feroce oppositore di Teheran, ha mostrato una certa disponibilità, concedendo il suo spazio aereo ai voli commerciali che uniscono i due Paesi. Tuttavia, nella telefonata di ieri sera con Trump, il re Salman è tornato a ribadire la centralità della causa palestinese per il via libera a futuri rapporti: senza "una soluzione giusta e durevole che porti la pace", non ci sarà normalizzazione. Una puntualizzazione necessaria per non essere accusati di tradire i palestinesi.

 Trump incassa un atout per le elezioni
  Tutti, tranne loro, hanno (già) guadagnato qualcosa dall'annunciato accordo: Trump ha messo a segno un grosso colpo in vista delle elezioni di novembre, gli Emirati possono dire di aver fermato i piani israeliani di annessione della Cisgiordania e Israele allarga la sfera di alleanze, scavalcando Ramallah.

 Gli F-35 agitano le acque
  Un percorso dalle grandi potenzialità, ma ancora pieno di incognite: ad agitare le acque è il piano di vendita di F-35 americani agli Emirati, che minaccia la politica di sicurezza israeliana basata sul 'quantitative military edge', un vantaggio qualitativo militare che nessuno nella regione deve superare. In occasione della recente visita in Israele, Pompeo ha ribadito che gli Usa forniranno armi agli Emirati, stando però attenti a non penalizzare la supremazia israeliana nella regione. Una posizione contro la quale il premier Netanyahu si è espresso duramente in pubblico, anche se - secondo la stampa - ne era a conoscenza e in privato avrebbe dato il via libera per raggiungere l'accordo con Abu Dhabi.

(AGI, 8 settembre 2020)


Dopo l'intesa con Israele gli Emirati puntano di nuovo sull'F-35

 
Il consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, Jared Kushner, accompagnato dal Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Robert O'Brien, hanno incontrato presso la base aerea di al-Dhafra, vicino ad Abu Dhabi, il maggiore generale Falah al-Qahtani dell'Aeronautica degli Emirati Arabi Uniti (EAU).
   L'incontro, tenutosi il 1° settembre, ha rafforzato le indiscrezioni sulla ripresa dei colloqui per l'acquisizione di aerei Lockheed Martin F-35A da parte delle forze aeree emiratine come conseguenza dello storico accordo del 13 agosto scorso che ha portato alla normalizzazione dei rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Israele con la mediazione degli Stati Uniti.
   Kushner e O'Brien hanno trascorso due giorni negli EAU con una delegazione israeliana per colloqui con il governo di Abu Dhabi legati allo sviluppo di numerosi accordi bilaterali e la visita alla base aerea emiratina che ospita un reparto dell'USAF di F-35A ha rinnovato il dibattito che vede da tempo Abu Dhabi, da 30 anni alleato degli Stati Uniti, rivendicare la possibilità di acquisire i Joint Strike Fighter che le intese tra Washington e Gerusalemme hanno finora riservato alle sole forze aeree israeliane nell'area Medio Oriente/Nord Africa.
   Finora Israele si è opposto all'ipotesi che Stati arabi potessero ottenere il velivolo in base alle leggi statunitensi che impegnano Washington a condizionare le forniture di equipaggiamenti militari "made in USA" agli Stati della regione al mantenimento della superiorità militare israeliana sui suoi potenziali avversari.
   Abu Dhabi ha da tempo espresso interesse per l'acquisizione dell'F-35A che Israele ha già utilizzato in operazioni nei cieli siriani e forse iraniani. Il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash ha affermato che la normalizzazione dovrebbe rimuovere "qualsiasi ostacolo" per gli Stati Uniti alla vendita dei velivoli "stealth" agli Emirati Arabi Uniti.
   Un funzionario del governo emiratino ha detto all'agenzia Reuters che la visita alla base aerea di Kushner e O'Brien non era correlata alla questione degli F-35 agli EAU. Il comandante dell'Aeronautica emiratina ha evidenziato gli ottimi rapporti bilaterali affermando che "il nostro rapporto è stato costruito sulla fiducia e sul sostegno reciproco.
   Ci siamo uniti per combattere l'estremismo in tutte le sue forme". Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione con cautela precisando che la fornitura degli F-35 non faceva parte dell'accordo con gli Emirati Arabi Uniti, sottolineando la volontà di Israele di non rinunciare a un accesso prioritario nella regione ai sistemi d'arma americani più avanzati.
   Il premier israeliano ha aggiunto che "gli americani hanno riconosciuto che la nostra posizione non è cambiata" precisando che il Consigliere per la sicurezza nazionale O'Brien ha chiarito durante l'ultima recente visita in Israele che gli Stati Uniti sono impegnati a preservare il vantaggio militare di Israele nella regione.
   Assicurazioni che non verrà penalizzata la supremazia israeliana nella regione sono state fornite a Israele anche dal Segretario di Stato, Mike Pompeo, anche se non si può escludere un compromesso per ora tenuto segreto a Gerusalemme (e di cui ha riferito il quotidiano Yedioth Ahronoth) in cui Israele riceva, oltre alle garanzie di Washington, ulteriori sofisticate forniture militari statunitensi e gli Emirati Arabi Uniti possano ottenere gli F-35, probabilmente con dotazioni meno avanzate rispetto a quelli israeliani che imbarcano sistemi "made in Israel".
   "La questione degli F-35 è una richiesta di vecchia data degli Emirati Arabi Uniti e non è in alcun modo uno strumento chiave ("driver") per raggiungere questo accordo" con Israele, ha detto ai giornalisti Jamal Al-Musharakh, capo della pianificazione politica e della cooperazione internazionale presso il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti.
   In ogni caso la questione è tornata al centro del dibattito e per convincere gli Stati Uniti a concedere la commessa degli F-35 Abu Dhabi non ha esitato in passato a ventilare anche l'ipotesi di acquisire aerei da combattimento russi quali i Sukhoi Su-35.

(Analisi Difesa, 8 settembre 2020)


La pace economica fra Serbia e Kosovo arriva a Gerusalemme

Un piccolo miracolo firmato Trump

di Ugo Volli

Diceva Ben Gurion che chi non crede ai miracoli non può capire niente di Israele. Magari sono miracoli laici, frutto di duro lavoro e non di gratuita benevolenza del cielo, ma è chiaro che questa è davvero una stagione di miracoli politici per Israele. L'ultimo, un po' occultato dalla stampa europea, ma certamente stupefacente, è questo: due paesi nemici, che si sono ferocemente combattuti e si mettono d'accordo per una mossa diplomatica parallela e per nulla banale: l'apertura di ambasciate a Gerusalemme. I due paesi sono la Serbia e il Kosovo, ortodossa la prima e musulmano il secondo. Nel quadro di un accordo economico propiziato da Trump (dopo lunghi anni di fallimenti europei nel sanare la ferita balcanica) hanno deciso anche questa mossa: il Kosovo di riconoscere Israele e scambiare gli ambasciatori, con sede a Gerusalemme; la Serbia di spostare l'ambasciata già aperta a Tel Aviv nella vera capitale di Israele. Naturalmente la Turchia ha protestato e l'Unione Europea ha mascherato nel silenzio l'impotenza che le deriva dalla sua linea filo-palestinista e filo-islamista.
   Certo, la protezione americana in questo accordo c'entra (anche se gli Usa non sono considerati grandi amici di Belgrado, dai tempi della guerra del Kosovo, coi bombardamenti dell'ambasciata cinese e della sede tv). C'entra la grande capacità di Trump di pensare fuori dagli schemi ideologici, puntando a soluzioni concrete, da buon businessman; e per quanto riguarda Israele la sua volontà di estendere il suo progetto di pace a nuovi partner, come è successo con gli Emirati del Golfo. Questa è un'altra prova di quanto sia stata stupidamente sottovalutata dalla stampa internazionale la presidenza Trump. Ma c'entra anche l'attrattiva di Israele come "start-up nation", centro scientifico e tecnologico, modello di piccola economia capace di svilupparsi in un contesto non facile. E certamente Serbia e Kosovo sono, per ragioni complementari, entrambe piuttosto isolate nell'Europa d'oggi . Vi è infine una tradizionale amicizia nei confronti del popolo ebraico, che ha basi storiche sia fra i serbi che fra gli albanesi: entrambe le nazioni durante la Shoah, benché invase dai nazifascisti, hanno evitato di unirsi ai "volonterosi carnefici di Hitler".
Tutte buone ragioni, ma parziali. Resta il piccolo miracolo di due nemici che, al loro primo accordo, si uniscono nel riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, di un nuovo stato musulmano che apre relazioni diplomatiche con Israele, insomma di una dinamica che conferma le grandi linee diplomatiche di Netanyahu: che la pace va fatta in cambio della pace e non di concessioni territoriali; che non bisogna farsi fermare dai ricatti dei palestinisti, perché il loro potere di blocco si è eroso proprio per l'abuso che ne hanno fatto; che Israele può farsi amici nel mondo per quello che è, autonomamente, senza accettare l'egemonia neo-coloniale dell'Europa.

(Progetto Dreyfus, 8 settembre 2020)


Il fronte del rifiuto rifiutato

Il linguaggio usato contro l'accordo Israele-Emirati ricorda da vicino quello del 1977 contro l'Egitto, e il precedente non promette nulla di buono per i nuovi interpreti dell'intransigenza anti-israeliana.

Nel 1977, poco dopo lo storico discorso di Anwar Sadat alla Knesset di Gerusalemme in cui l'allora presidente egiziano delineò le sue proposte di pace con Israele, l'Olp e cinque paesi arabi formarono un blocco il cui unico scopo era rifiutare qualsiasi compromesso con lo stato ebraico.
Definendosi pomposamente il "Fronte della fermezza e dello scontro", gli stati del rifiuto si erano organizzati attorno a un programma in sei punti. I loro obiettivi principali erano "opporsi a tutte le soluzioni provocatorie progettate dall'imperialismo, dal sionismo e dai loro strumenti arabi" e creare uno "stato nazionale palestinese indipendente su qualsiasi parte della terra palestinese, senza riconciliazione né riconoscimento o negoziati, come obiettivo transitorio della rivoluzione palestinese". Quattro decenni dopo, mentre Israele ed Emirati Arabi Uniti annunciano un accordo di pace di importanza politica e commerciale ancora maggiore, può essere utile ricordare i rispettivi destini di ciascun membro di quel "Fronte della fermezza e dello scontro"....

(israele.net, 8 settembre 2020)


Un programma per le startup italiane in Israele

Nuovo bando "Accelerate in Israel" che offre a start-up innovative italiane l'opportunità di un periodo di accelerazione di dieci settimane nell'ecosistema dell'innovazione israeliano.

di Robert Hassan

L'Ambasciata d'Italia in Israele e Agenzia ICE hanno unito le proprie forze per il nuovo bando "Accelerate in Israel" che offre a start-up innovative italiane l'opportunità di un periodo di accelerazione di dieci settimane nell'ecosistema dell'innovazione israeliano, sicuramente uno dei più dinamici al mondo. A questa seconda edizione collaborano il Ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Intesa Sanpaolo Innovation Center, già a bordo lo scorso anno, la Camera di Commercio e Industria Israele-Italia e acceleratori israeliani.
Il programma è stato migliorato e intensificato rispetto alla prima edizione e il finanziamento che verrà concesso alle start-up selezionate è stato sensibilmente incrementato. Compatibilmente con le restrizioni in vigore per il contrasto al Coronavirus, il periodo di accelerazione di 10 settimane avrà inizio a gennaio 2021.
Il termine di presentazione delle domande di partecipazione alla selezione di cui al bando n. SCI01-20 per il finanziamento della mobilità in Israele delle giovani start-up italiane sulla base dell'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica è stato prorogato e fissato al 30 settembre 2020 ore 17:00, ora di Tel Aviv.
Le domande di partecipazione alla selezione dovranno essere presentate esclusivamente tramite posta elettronica certificata all'indirizzo amb.telaviv.archivio@cert.esteri.it entro e non oltre le ore 17.00 del giorno 30 settembre 2020, utilizzando l'apposito modello di domanda e la scheda informativa. Il testo del bando, il modello di domanda e la scheda informativa possono essere scaricati dal sito dell'Ambasciata d'Italia in Israele .

(Il Corriere Israelitico, 8 settembre 2020)


Che bello il nuovo medio oriente. Ai soliti detrattori non piace e vogliono lo scontro

!l volo Tel Aviv-Abu Dhabi può inaugurare una stagione diversa. Perché è auspicabile che altri paesi adottino questa linea di normalizzazione.

Scrive Yedioth Ahronoth (1/9)

Spesso ci preoccupiamo di dettagli banali mentre facciamo fatica a vedere il quadro più ampio" scrive Ben Dror Yemini. "La visita ufficiale della delegazione israeliana negli Emirati Arabi Uniti - giunta su un aereo El Al che ha sorvolato l'Arabia Saudita con il permesso del Regno - è un giorno di festa per Israele. Volevamo un nuovo medio oriente ed ecco che sta prendendo forma davanti ai nostri occhi. Certo, saremmo stati ben felici se anche i palestinesi si fossero uniti a noi. Saremmo stati ben felici di vedere le bandiere israeliane issate anche a Ramallah, come ad Abu Dhabi. Questo non è ancora successo, ma non c'è motivo di lamentarsi del fatto che la bandiera israeliana ha `solo' sorvolato il territorio saudita senza poter scendere su di esso.
   I critici insistono a dire che non è successo niente di così eccezionale dal momento che Israele intrattiene già da parecchi anni rapporti più o meno clandestini con vari stati del Golfo. Personalmente ho visitato due stati del Golfo (Bahrain e Qatar) negli anni 90 e sono persino andato nello Yemen. Ma poi scoppiò la seconda intifada, l'intifada delle stragi suicide, e tutto si è bruscamente fermato. Tutti i rapporti palesi divennero segreti o semplicemente cessarono di esistere. I fautori della normalizzazione hanno rialzato la testa, e non per amore di Israele ma per i loro propri interessi. Il che è meraviglioso. Quanto vorrei che anche i palestinesi potessero aderire e agire nel loro interesse. Ma preferiscono di gran lunga agire contro se stessi. E' diventata per loro una seconda natura: danneggia noi, ma danneggia molto di più loro. Abbiamo invece bisogno di altre svolte come quella odierna anche con il Sudan e l'Arabia Saudita, con il Bahrain e l'Oman. Forse anche con il Marocco, dove i turisti israeliani già si recavano senza difficoltà prima che si scatenasse il coronavirus. Questo nuovo accordo con gli Emirati non allontanerà la pace con i palestinesi più di quanto non sia già lontana. Al contrario, renderà chiaro ai palestinesi che anche loro devono cambiare corso. Vi sono molte persone di buona volontà sul versante palestinese che capiscono quanto hanno bisogno di un cambiamento, e la loro posizione viene rafforzata da questo accordo con gli Emirati Arabi Uniti e dalle relazioni con altri paesi. Quindi, in termini storici, la visita israeliana negli Emirati di lunedì e martedì è sicuramente una cosa da festeggiare e c'è solo da augurarsi che arrivino altri giorni come questo".

(Il Foglio, 7 settembre 2020)


Il capo di Hamas in Libano contestato dai libanesi

Salutato come un eroe dai palestinesi di Sidone, fortemente contestato dai libanesi che giudicano la sua visita "inopportuna" e persino dannosa per il Libano.

di Sarah G. Frankl

 
Il presidente del Parlamento libanese Nabih Berri (sin.) riceve il leader del movimento islamista palestinese di Hamas Ismail Haniyeh
Una accoglienza da eroe quella riservata al capo di Hamas, Ismail Haniyeh, nell'agglomerato urbano palestinese di Sidone, in Libano.
Il leader dei terroristi che tengono in ostaggio la Striscia di Gaza è stato portato in trionfo in mezzo alla folla urlante alla quale ha promesso «missili su Tel Aviv».
  Ismail Haniyeh è il primo leader di Hamas ad andare in Libano dopo 27 anni e il suo viaggio nella terra dei cedri è volto unicamente a riunire le fazioni palestinesi e ad incontrare il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, con il quale decidere strategie comuni contro Israele.
  Dall'incontro con i capi delle fazioni palestinesi ne è emerso un comunicato nel quale gli stessi palestinesi si impegnano a non interferire nelle questioni libanesi e dove si afferma che i "campi" sono un simbolo di stabilità.
Nulla si sa invece sull'incontro con i vertici di Hezbollah, nemmeno se c'è stato.

 Le reazioni in Libano
  Non proprio amichevoli le reazioni dei libanesi al viaggio di Ismail Haniyeh nel Paese dei Cedri. I social si sono riempiti di commenti del tipo "il Libano ha già abbastanza problemi per avere anche Hamas" oppure altri che lo invitavano a minacciare Israele da Gaza o dalla Cisgiordania. In molti hanno ricordato che i palestinesi in Libano sono solo ospiti e che se vogliono fare la guerra a Israele sarebbe più giusto farla da casa loro.
  In ogni caso ai libanesi non piace la visita del capo di Hamas, non sembra "opportuna" tanto più se il capo terrorista palestinese viene in Libano per parlare di Guerra con Israele quando il Libano è in una situazione davvero spaventosa.

(Rights Reporter, 7 settembre 2020)


Israele dà la stretta. Coprifuoco notturno in quaranta città

Il governo israeliano ha deciso nella tarda serata di ieri di imporre il coprifuoco notturno su quaranta città del Paese, dichiarate zone rosse, per contenere il contagio da coronavirus. A partire da oggi le persone dovranno restare a casa dalle 19 alle 5 del mattino. Lo ha anticipato il sito del Jerusalem Post. Il comitato ministeriale ha deciso inoltre - scrive il giornale - che le scuole saranno chiuse tranne alcuni istituti. Gli assembramenti di oltre 10 persone sono vietati al chiuso, di 20 all'aperto. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, citato dal giornale, ha dichiarato che le soluzioni adottate sono considerate «responsabili e realistiche».

(Nazione-Carlino-Giorno, 7 settembre 2020)


Finkielkraut insegna: il popolo ha bisogno di radici e tradizioni

L'esaltazione della migrazione perpetua cancella l'identità La comunità smarrita riscopre così il valore di patria e storia.

Le posizioni critiche del filosofo francese verso l'immigrazione gli hanno procurato feroci attacchi dai partigiani dell'accoglienza senza limiti. L'ex sessantottino torna sul tema dell'antisemitismo. Da quando gli ebrei hanno un proprio Stato, sono diventati bersaglio anche della Sinistra.

di Francesco Borgonovo

Il nuovo libro del filosofo francese Alain Finkielkraut, In prima persona, una sorta di autobiografia intellettuale appena pubblicata da Marsilio, è sottile ma denso, e come sempre accade con questo autore contiene una marea di spunti interessanti. Dopo tutto, Finkielkraut è uno degli intellettuali più celebri d'Europa, sull'immigrazione e sul cosiddetto «scontro di civiltà», che gli hanno procurato ben più di un attacco da sinistra. E dire che lui proviene da li, la sua vocazione alla militanza è esplosa durante il Sessantotto francese. Lui la sintetizza in un pugno di frasi: «All'inizio fu il conformismo. Nel maggio del '68, come la maggior parte di coloro che si cominciava a chiamare, con una tenerezza da cui già traspariva la deferenza, "i giovani", sono stato investito e in seguito trascinato dall'onda», racconta. «Ho manifestato rumorosamente, ho protestato con coraggio, ho corso a perdifiato; ho attinto, per i miei primi interventi, a un lessico che nel mese di aprile mi era ancora estraneo; come tutti, dall'oggi al domani, ho iniziato a utilizzare la parola compagno, sono stato fedele alla mia epoca attraverso la mia stessa ribellione contro le diverse forme di autorità».
   Il punto fondamentale di tutto il volume è questo: come è possibile che un attivista sessantottino sia diventato un punto di riferimento per il pensiero conservatore? In che modo agiscano altri gruppetti francesi scaturiti da quella stagione lo sappiamo: basta leggere le banalità di Bernard Henry-Levy, nemico supremo dei populisti con la passione per le guerre umanitarie, filosofetto di tendenza impegnato ad attaccare «le destre», e per questo funzionale al pensiero dominante, di cui è servo fedele.
   Finkielkraut, invece, si è mosso nella direzione opposta. Ha avuto il fegato di esporsi ad accuse feroci per le sue idee sul multiculturalismo. «Penso che la parola "migrante" sia rivelatrice in sé», ha detto in una recente intervista a Figaro. «Agli occhi dei partigiani dell'ospitalità incondizionata, dell'apertura infinita delle frontiere, l'uomo che arriva non viene definito né per la sua origine né per la sua destinazione, ma solo per il suo essere in viaggio. Non si vuole vedere in lui altro che l'homo migrator. Questo accecamento è evidentemente problematico e pericoloso, perché l'antisemitismo di cui l'Europa è oggi teatro non è più endogeno, ad esempio. È legato all'immigrazione. Questo deve essere detto con il maggior tatto possibile, perché non si possono certo descrivere i migranti come invasori pogromisti. Ma questo problema dovrebbe perlomeno poter essere evocato. Ora se usiamo la parola "migrante" è impossibile. L'immigrazione è l'ultimo rifugio dell'antirazzismo ideologico. È una fortezza che sembra difficile da espugnare».
   Anche nel nuovo libro Finkielkraut ritorna sul tema dell'antisemitismo. Mostra quanto sia diffusa a sinistra l'ostilità verso Israele, e nota un'inversione di tendenza: gli ebrei, quando erano «senza patria», sradicati, suscitavano l'astio di un certo tipo di destra, che li accusava di essere sostanzialmente gli ideatori di questa figura dell'homo migrator. Oggi che la patria finalmente l'hanno ritrovata, subiscono assalti dalla parte opposta.
   Ed eccoci al nodo centrale della questione, alla grande battaglia ora incorso. Il radicamento - di cui tanto ha parlato Simone Weil ne La prima radice - è un bisogno fondamentale di ogni uomo, ma la civiltà occidentale lo respinge. A lungo l'ideologia dello sradicamento ha funzionato. Finkiellkraut, parlando dei suoi connazionali, scrive che «quando era saldamente consolidata, la componente francese della civiltà europea non significava nulla per loro. Ora che la sua esistenza è messa in discussione, si riaffaccia alle loro menti. Scoprendola precaria, diventa per loro preziosa».
   Questo ragionamento vale anche per noi. Se le destre guadagnano consensi, non è per via di un ritorno delle «forze oscure della reazione», e nemmeno c'entra la famigerata «paura del diverso» sempre chiamata in causa. E' come se gli europei, a un certo punto, avessero lasciato parlare il cuore. Immersi nel caotico mondo liquido della globalizzazione, senza certezze né appigli, si sono resi conto dell'importanza del passato, della tradizione, dell'identità. «Nel momento in cui si rivela deperibile», scrive Finkielkraut, «smettono di trattare questa identità con disprezzo o di prenderla per oro colato. Ne riconoscono l'importanza vitale, e i bambini viziati che erano diventano grati a essa».
   Meglio di chiunque altro, Finkielkraut spiega il sorgere di quello che volgarmente viene chiamato sovranismo. Chiarisce - senza pregiudizi né superiorità morale - perché in tanti oggi si spostino a destra: «Se sono diventati conservatori», dice, «senza che nulla li predisponesse a esserlo, non è perché invecchiando considerino nefasta ogni novità, e nemmeno perché abbiano aderito miseramente al partito dell'Ordine e della difesa dei privilegi; è perché rifiutano di veder scomparire l'ambiente che li ha nutriti e di essere sradicati dalla propria terra». Non sono nemmeno diventati «di destra», in fondo: «La verità è che si preoccupano per la sopravvivenza della comunità storica in cui assume un senso e può svilupparsi il grande scontro tra destra e sinistra».
   Se l'intera cultura europea viene distrutta, e la comunità si sregola, perde di senso tutto, anche la divisione politica. Se i pensatori liberal di casa nostra dessero uno sguardo a queste parole, forse riporrebbero almeno per un po' la superiorità morale e la fissazione per la migrazione a tutti i costi. E si renderebbero conto della granitica verità a cui è giunto Finkielkraut: senza patria e senza radici, i popoli muoiono.

(La Verità, 7 settembre 2020)


Maariv: Israele sta cercando di ripristinare il coordinamento attraverso incontri tra le due parti

Secondo il quotidiano Maariv, Israele sta silenziosamente e segretamente lavorando con i palestinesi al rinnovo dei piani di coordinamento della sicurezza, programmi che l'Autorità palestinese aveva fermato quando il primo ministro, Benjamin Netanyahu, aveva cercato di promuovere l'annessione di alcune aree in Cisgiordania.
   Nell'arco di diverse sollecitazioni, nelle ultime due settimane si sono tenuti incontri ad alto livello tra le due parti con la partecipazione di Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore. Un altro incontro ha visto la partecipazione di alti ufficiali del comando centrale dell'esercito di occupazione, tra cui il comandante Tamir Yadai, il coordinatore delle operazioni governative nei Territori Occupati, Kamil Abu Rokon, e altri ufficiali, con alti funzionari palestinesi vicini al presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen.
   Un funzionario della sicurezza israeliana ha dichiarato a Maariv che l'obiettivo di questi incontri è proprio quello di spingere la ripresa dei piani di coordinamento della sicurezza attraverso figure ben note e centrali nella società e nell'economia palestinese; la personalità palestinese che Kochavi ha incontrato non ricopre una posizione all'interno dell'Autorità palestinese, ma è un dirigente di alto rango, conosciuto e vicino alla leadership dell'Autorità.
   Ad ogni modo, Abbas non ha ancora mostrato segnali di cambiamento nella sua decisione di interrompere il coordinamento e difatti, una fonte politica israeliana, ha dichiarato che quest'ultimo formalmente si aspetterebbe prima un impegno o una dichiarazione ufficiale da parte di Netanyahu e dagli americani riguardo l'annullamento del piano di annessione, anche se "si tratterebbe di qualcosa di inaspettato".

(Infopal, 7 settembre 2020) - trad. Alice Bondi)


Territori occupati ... esercito di occupazione, il riferimento all’occupazione non deve mai mancare nel frasario palestinese ogni volta che si nomina qualcosa che ha a che vedere con Israele. La notizia comunque è interessante.


Dirigenti di banche israeliane si recheranno negli Emirati Arabi

GERUSALEMME - I dirigenti delle due maggiori banche israeliane si recheranno negli Emirati Arabi Uniti questo mese. Si tratta delle prime visite del genere da quando i due paesi hanno concordato di normalizzare le relazioni, lo scorso 13 agosto. Lo rende noto il quotidiano israeliano "Haaretz". Una delegazione guidata dalla Bank Hapoalim partirà l'8 settembre e visiterà Abu Dhabi e Dubai, dove incontrerà funzionari governativi e commerciali, nonché i dirigenti delle più grandi banche degli Emirati Arabi Uniti. Oggi, il Ceo di Hapoalim, Dov Kotler, ha definito la visita "un'opportunità unica per stabilire relazioni economiche e una cooperazione tra i nostri paesi e i loro sistemi finanziari, che produrranno una crescita economica per entrambe le parti". Kotler ha aggiunto che c'era un "desiderio bilaterale immediato" di stabilire forti legami economici. Il presidente e amministratore delegato della Bank Leumi, Hanan Friedman, guiderà una seconda delegazione il 14 settembre. Leumi auspica di dare il via alla cooperazione in materia di finanza, tecnologia, salute, turismo, agricoltura e industria.

(Rassegna Stampa News, 6 settembre 2020)


L'accordo fra Israele e Emirati Arabi Uniti è una vera svolta?

di Antonio Armellini

II faro dell'attenzione mediatica sull'accordo di pace fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti si è attenuato e sono cresciute le interpretazioni e i dubbi: accordo fatto più per dividere che per unire il mondo arabo, soffiando sulla rivalità sunnita-sciita; abile manovra per colpire l'Iran e le sue ambizioni di potenza regionale; mossa propagandistica di Trump in chiave elettorale, e così analizzando.
   Ci sono elementi di verità in queste letture, ma resta il fatto che l'intesa annunciata segna un passo concreto — dopo molti anni — verso l'unica soluzione possibile; quella del riconoscimento della mutua legittimazione per israeliani e palestinesi a coesistere in un territorio che appartiene a entrambi. Una soluzione sfuggita a Oslo nel 1993, per la quale Sadat ha probabilmente pagato con la vita e che, a detta di molti, solo un nazionalista israeliano intransigente potrebbe imporre. Ieri Begin, oggi Netanyahu. Era l'unica soluzione anche per Moshe Dayan.
   Nel marzo 1971, al termine di una complessa visita in Israele del ministro degli Esteri Moro, venimmo invitati per il Shabbat nel kibbutz Gesher, come all'epoca di prammatica; era quello del potere e vi si ritrovava in pratica l'intero governo. Nel clima rilassato delle conversazioni serali Dayan, forse incuriosito dal fatto che ero di gran lunga il più giovane della delegazione di Moro, mi prese da parte per chiacchierare. Era il fresco vincitore della prima delle guerre che si sarebbero succedute e l'eroe incontrastato del momento; mi aspettavo che esaltasse il suo successo. Invece si dichiarò pessimista per il futuro e deluso dell'atteggiamento del suo governo, che non capiva come l'essenza della vittoria non risiedesse nel rafforzamento di un dominio territoriale comunque fragile, bensì nell'opportunità di fare da posizioni di forza un'offerta di pace generosa, da cui Israele per primo avrebbe tratto il maggior vantaggio. Siamo un Paese — disse — che in termini di solidità democratica e sviluppo economico non ha eguali in una regione nella quale siamo assediati, ma che rappresenta invece il nostro naturale mercato di sbocco. La combinazione positiva fra la nostra superiorità tecnologica e capacità produttiva da un lato, e l'abbondanza di manodopera unita alla domanda potenziale della regione dall'altro, rappresenterebbe la vera garanzia di sicurezza a lungo termine per Israele. Temo che non succederà, aggiunse, perché il vento sta cambiando e l'intolleranza rischia di prevalere sul ragionamento. Sono passati più di cinquant'anni: che sia la volta buona?

(Corriere della Sera, 6 settembre 2020)


A parte che pare discutibile il collegamento della morte di Sadat con gli accordi di Oslo, di molti anni successivi, il giornalista vanta una sua chiacchierata a due con Dayan in un momento di massima popolarità del generale, che oggi non può evidentemente spiegare che cosa disse veramente. Ma quanto viene raccontato ai lettori del Corriere è in totale contrasto con l'offerta israeliana agli arabi, al termine della vittoria nella guerra dei 6 giorni, di restituire tutti i territori conquistati (all'epoca i "palestinesi" erano appena nati, da due anni, e non avevano ancora voce in capitolo); ma tale offerta venne rifiutata a Khartoum coi ben noti 3 no. Emanuel Segre Amar


Accordo tra Kosovo e Serbia per la normalizzazione dei rapporti. mediato dagli Usa

Le ambasciate di Serbia e Kosovo saranno a Gerusalemme.

di Alberto Galvi

 
Il presidente degli Usa Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca il primo ministro del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic per normalizzare le relazioni politico-economiche tra i due Paesi balcanici, ed in serata, dopo due giorni di colloqui, è arrivato l'annuncio del raggiungimento di un accordo.
   Il vertice a Washington era originariamente previsto per giugno, ma il presidente del Kosovo Hashim Thaci, che doveva guidare la delegazione del suo Paese, è stato formalmente accusato di crimini di guerra dal tribunale internazionale con sede all'Aia e quindi il vertice era stato in un primo momento annullato.
   Tra gli argomenti discussi nel corso delle trattative ci sono lo spostamento dell'ambasciata Serba in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme entro luglio 2021 e il riconoscimento da parte del Kosovo di Israele. Fino ad oggi non vi sono stati legami diplomatici ufficiali tra Israele e Kosovo, in quanto Israele rifiutava di riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ma con l'accordo di Washington le cose sono destinate a cambiare.
   In questi giorni il Kosovo e la Serbia sono stati in grado di fare un vero passo avanti nella cooperazione economica su una vasta gamma di accordi come quelli sui transiti stradali, ferroviari e aerei.La questione più importante è sicuramente quella della creazione di un mercato unico con tra Serbia e Kosovo, garantendo un libero flusso di persone, servizi e capitali. Non è chiaro quando sarà attuato questo accordo, ma i funzionari di entrambi i Paesi hanno affermato che l'attuazione e la tempistica potrebbero dipendere dal fatto che Trump venga rieletto.
   Dopo l'incontro alla Casa Bianca i due leader dei paesi balcanici si sono incontrati separatamente con il segretario di Stato Usa Mike Pompeo al Dipartimento di Stato.
   Le tensioni tra i due Paesi balcanici continuano ormai dal 2008, da quando il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia, ma quest'ultima ha rifiutato di riconoscerla.
   A livello internazionale gli Usa di George W. Bush sono stati il primo Paese a riconoscere il Kosovo come Stato indipendente. Con questa mossa il presidente Usa voleva in qualche modo cercare di allontanare la Serbia dall'influenza russa.
   La Serbia è da sempre sostenuta dalla Russia per via della sua origine slava e cristiano ortodossa, ed oltre Mosca anche Pechino non ha mai riconosciuto l'indipendenza del Kosovo. Tuttavia il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia è una precondizione per la futura adesione di Belgrado all'Unione Europea e alla Nato.
   Tra le ragioni che spinsero il presidente Usa George W. Bush a volere a tutti i costi l'indipendenza del Kosovo è stata quella di smussare i difficili rapporti degli Usa con le comunità islamiche di tutto il mondo dopo l'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre 2001 e le due conseguenti guerre in Afghanistan e in Iraq.
   Una volta il Kosovo era una provincia serba, ma dopo lo scioglimento della Jugoslavia è diventato terreno di scontro tra la maggioranza della popolazione albanese e le forze serbe. Per fermare la pulizia etnica contro gli albanesi a maggioranza musulmani del Kosovo la Nato lanciò nel 1999 una campagna di bombardamenti contro la Serbia.
   A livello internazionale l'indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta da più di 100 Paesi membri delle Nazioni Unite.
   In seguito a questo vertice il Kosovo riuscirà sempre di più a trovare adesioni nelle organizzazioni internazionali in modo da migliorare il suo status quo.

(Notizie Geopolitiche, 5 settembre 2020)


A chi giova l'accordo Israele-Arabia Saudita

di Alessandro Orsini

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi del Golfo potrebbe essere il primo vero successo di Trump in politica internazionale. Dopo gli Emirati Arabi Uniti, anche il Bahrein annuncia di voler abbracciare Netanyahu. Nessuno cada in inganno: la vera posta in gioco è la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, a cui il mondo islamico deve abituarsi un po' alla volta perché è cosa dirompente sotto il profilo emozionale, capace di destabilizzare un regno intero.
   Astuti, i sauditi mandano avanti gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, satelliti riconoscenti: il 14 marzo 2011, i soldati sauditi si sono recati in Bahrein per schiacciare la primavera araba e salvare la casa regnante. Ma quando toccherà al re saudita di stringere la mano di Netanyahu, la fitta sarà dolorosa. L'intesa è un'operazione di palazzo, senza seguito tra le masse musulmane. Però sarebbe un successo "assoluto" per Trump, nel senso che non avrebbe termini di paragone con nessun altro suo successo in politica internazionale, visto che non ne ha riportato nemmeno uno. Sui fronti caldi, non vi è questione che Trump possa rivendicare come un "successo". In Corea del Nord, Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Mar Cinese Meridionale, Hong Kong, Ucraina dell'est e curdi, Trump non ha migliorato la posizione degli Stati Uniti. Semmai l'ha peggiorata, se pensiamo che la Corea del Nord è diventata una potenza nucleare sotto il suo sguardo e che il parlamento dell'Iraq ha votato l'espulsione dei soldati americani, dopo che Trump ha liquefatto il generale Soleimani con un missile nel traffico di Baghdad del 3 gennaio 2020.
   Ma con riferimento al conflitto israelo-palestinese, le cose non potrebbero andare meglio, anzi peggio, dipende dai punti di vista. Peggio, perché i palestinesi hanno perso la speranza di vedere riconosciuti i loro diritti sanciti dalle risoluzioni dell'Onu, che dovrebbero costituire il diritto internazionale, quel materiale plastico modellabile, a cui i grandi della Terra conferiscono la forma a loro più gradita con disinvolte digitopressioni. Meglio, perché Israele ha vinto in modo totale la guerra iniziata nel 1948. Immaginando che si arrivi a un'amicizia tra Israele e Arabia Saudita, nessuno potrebbe negare il successo di Trump: è lui l'artefice di questa operazione, anche se l'avvicinamento tra sauditi e israeliani è iniziato prima che conquistasse la Casa Bianca. Chi pub dimenticare le dichiarazioni rilasciate, il 19 novembre 2017, da Yuval Steinitz, ministro israeliano dell'Energia? Steinitz rivelò che israeliani e sauditi tessevano, da anni, intese segrete contro l'Iran.
   L'avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita risale almeno al 28 marzo 2002, quando la Lega Araba, riunita a Beirut, offri un'amicizia completa agli israeliani, se avessero concesso ai palestinesi uno Stato con capitale a Gerusalemme est e si fossero ritirati dalle alture siriane del Golan. Figuriamoci: oggi Netanyahu vuole annettere il Golan e tanta terra altrui, Cisgiordania inclusa. Per cui adesso le richieste sono altre: basta che Israele, così dicono gli Emirati Arabi Uniti, non conquisti anche l'ultimo mezzo metro di terra palestinese. Tutto qui. La resa dei Paesi del Golfo è totale e mostra il ruolo enorme della forza in politica internazionale giacché il trionfo di Israele è militare e non politico.
   In Medio Oriente, quasi tutto viene deciso con la forza e la politica riconosce le situazioni di fatto. E così in Libano, Yemen, Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria e Libia. Il problema è che l'abbraccio tra Israele e i Paesi del Golfo non porrà fine al conflitto israelo-palestinese. Trump può negare che il conflitto esista, ma sarebbe come negare l'esistenza del sole, che infiamma chiunque si avvicini. Sotto la guida di Trump, l'Arabia Saudita otterrebbe un effetto e un contro-effetto: l'effetto di indebolire l'Iran grazie a un'alleanza con Israele, e il contro-effetto di rafforzare l'Iran e la Turchia in seno al mondo musulmano, che diventerebbero gli unici paladini dei palestinesi.
   Hamas, ancora a Gaza, assicurerebbe la prosecuzione del conflitto. Senza considerare le fiamme dell'inferno jihadista: l'Isis e al Qaeda userebbero la normalizzazione per ribadire che l'Arabia Saudita è asservita agli americani e pure agli israeliani. Per una pace vera, occorre il diritto. Però la forza va benissimo per una pace finta.

(Il Messaggero, 6 settembre 2020)


Netanyahu non ha da annettere il Golan, che fa già parte del territorio di Israele dal 1980, e che gli USA hanno già riconosciuto come Facente parte della terra di Israele, e quanto alla "tanta terra altrui" intende annettere solo il 30% dell'area che, secondo gli accordi di Oslo, è già sotto il totale controllo, militare ed amministrativo, di Israele; si tratterebbe soltanto di applicare, a quel 30%, il codice civile anziché quello militare. Emanuel Segre Amar



Israele: Malawi, piani per ufficio diplomatico a Gerusalemme

 
Il presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, è un cristiano evangelico con una laurea in teologia ed è da tempo un sostenitore dello Stato ebraico
Il nuovo presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, ha annunciato piani per aprire un ufficio diplomatico a Gerusalemme.
Lo riferiscono i media israeliani sottolineando che la mossa segue quelle di Serbia e Kosovo di venerdì sull'apertura di proprie ambasciate a Gerusalemme.
Chakwera, 65 anni, è un cristiano evangelico con una laurea in teologia ed è da tempo un sostenitore dello Stato ebraico, che ha anche visitato l'anno scorso.
Eletto lo scorso 6 luglio, ha annunciato una serie di riforme che coinvolgono le ambasciate del Paese nel mondo. Se il Malawi aprirà l'ufficio diplomatico a Gerusalemme, diventerà la prima nazione africana con una rappresentanza nella città.

(swissinfo.ch, 6 settembre 2020)


Il piano di Trump si allarga ai Balcani, palestinesi isolati

II fronte Usa dal Medio Oriente all'Europa: dopo gli Emirati, tocca a Kosovo e Serbia

di Michele Giorgio

Gerusalemme - «Non mi sorprende che i riflessi dell'accordo di cooperazione tra Serbia e Kosovo arrivino fino in Israele. È un nuovo capitolo, successivo alla normalizzazione tra Emirati e Israele (annunciata a metà agosto, ndr), del piano dell'Amministrazione Trump per il Vicino oriente e il Mediterraneo». Analista esperto della regione mediorientale, Ghassan al Khatib, ha una lettura lucida dell'ultima «sorpresa» partorita da Donald Trump. La Serbia, ha annunciato due giorni fa il presidente Usa, sarà il primo Stato europeo che sposterà dal luglio 2021 l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme (violando le risoluzioni internazionali).
   E così farà il Kosovo, primo paese a maggioranza musulmana che aprirà la sede diplomatica nella città santa e non a Tel Aviv. Comprensibile la soddisfazione del premier israeliano Netanyahu. Qualche giorno fa aveva celebrato l'accordo con Abu Dhabi — di grande rilievo strategico — e applaudito all'apertura a Israele dei cieli di Arabia saudita e Bahrein.
   «Il coinvolgimento di Israele (nelle intese tra Belgrado e Pristina, ndr) è centrale nella strategia di Washington nell'area tra il Mediterraneo e il Medio Oriente — spiega Khatib — Trump sta formando un fronte con i suoi alleati, nuovi e vecchi, nel mondo arabo e nei Balcani. Gli Emirati, l'Arabia saudita e una parte delle monarchie sunnite, facendo capo a Israele, pilastro a difesa degli interessi statunitensi nella regione, potranno fronteggiare il loro nemico comune, l'Iran».
   Serbia e Kosovo, prosegue l'analista, «si aggiungono agli Stati (dell'Europa orientale) che si oppongono alle ambizioni di Mosca. Anche in questo caso Israele è la potenza regionale che garantisce un ombrello protettivo per conto di Washington». Questa analisi si rafforza se si tiene conto dell'appoggio di Tel Aviv alla coalizione Grecia-Cipro-Egitto schierata contro la Turchia nella disputa per lo sfruttamento dei giacimenti di gas (nel Mediterraneo orientale). I palestinesi, sottolinea Khatib, «sono il sacrificio che Trump offre sull'altare di questo nuovo ordine. Il riconoscimento di Israele e di Gerusalemme come sua capitale è una sorta di condizione che Trump pone agli alleati». Il rinvio dell'annessione (prevista a luglio) di ampie porzioni di Cisgiordania è un prezzo che Netanyahu paga volentieri di fronte agli sviluppi in atto. In ogni caso quel territorio sotto occupazione militare è già nelle mani di Israele.
   I palestinesi ingoiano un altro boccone amaro. «Trump continua a violare il diritto internazionale — ha protestato Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp — La Palestina è vittima delle sue ambizioni elettorali. Questo sviluppo nei Balcani, come l'accordo Emirati-Israele, non porta la pace in Medio Oriente». I palestinesi si aspettano altri annunci di Trump nelle prossime settimane. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salina' sarà a Washington poco prima delle presidenziali e potrebbe ufficializzare la normalizzazione tra Riyadh e Tel Aviv. È la fase più negativa da un punto di vista diplomatico e politico che i palestinesi affrontano nella loro storia recente. Una sfida di eccezionale difficoltà che affrontano con leadership litigiose e deboli in Cisgiordania e a Gaza. A metà settimana i capi di tutte le formazioni politiche palestinesi, fuori e dentro i Territori occupati, si sono parlati in videoconferenza tra Ramallah e Beirut. All'incontro presieduto da Abu Mazen ha preso parte anche il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
   Dagli interventi però non è emersa un'immagine di unità e determinazione. Piuttosto di debolezza e inadeguatezza. I palestinesi hanno visto dirigenti politici ottantenni, rare le eccezioni, che ripetevano frasi rituali. Soprattutto hanno visto un presidente, Abu Mazen, stanco, privo della freschezza necessaria per difendere i diritti del suo popolo.

(il manifesto, 6 settembre 2020)


"Tre sorelle" Mafai per tutte le bimbe ebree

La donazione della scultura di Raphaël


di Lorenzo Madaro

 
Le "Tre sorelle" del 1936, qui nella fusione del 2005,
da oggi alla Casina dei Vallati a Roma

ROMA - È un momento intimo, di grande concentrazione; come in uno scatto fotografico, l'artista ha eternato la complicità e l'affetto, ma anche la bellezza celata dietro a un gruppo di fanciulle intente nella lettura. Sono le sue figlie: le Tre sorelle, opera del 1936 della lituana Antonietta Raphael Mafai, uno dei capolavori del Novecento. La fusione in bronzo dell'opera — eseguita nel 2005 — è stata donata dalla figlia Giulia al Museo ebraico, in ricordo delle bambine ebree morte nei campi di sterminio. La presentazione è in programma alle 13.15 alla Casina dei Vallati.
   L'originale, conservato in Galleria nazionale, fu realizzato in cemento nel 1936. Per Giuseppe Appella, autore del catalogo generale della scultura di Raphael, quest'opera è «simbolo della sua ricerca e della sua provenienza, poiché al centro della cultura ebraica c'è la famiglia. Queste tre ragazze guardano con il sorriso il futuro, insieme rappresentano i valori della fratellanza».
   L'artista ritrae quindi un brano del suo teatro quotidiano: Myriam, la più grande di dieci anni legge un libro ad alta voce e le sue sorelle, Simona (8 anni) e Giulia (6) la ascoltano. «Un gesto semplice e sereno, ripetuto chissà quante volte nelle case ebraiche», racconta Giulia Mafai, costumista oggi novantenne. «La storia potrebbe finire qui, invece il dramma è alle porte: nel 1938 vengono emanate le leggi razziali e in tutte le case ebraiche viene distrutta ogni certezza, ogni dolcezza, il sogno di un futuro. Al ricordo delle vite distrutte prima ancora di incominciare a vivere — sottolinea Mafai — , alla memoria di tutto quello che poteva essere e che per crudeltà umana è stato distrutto, poniamo questo ricordo». L'iniziativa è resa possibile grazie alla collaborazione con la Sovrintendenza capitolina, presso il cui Museo della Scuola Romana a Villa Torlonia l'opera è stata esposta (in comodato) per alcuni anni.
   Moglie di Mario Mafai, Raphael per Appella ha rappresentato un «ponte tra la tradizione e il moderno. Infatti, tutti i grandi critici del passato l'hanno rispettata». Morta nel 1975, a ottant'anni, nonostante la sua fondamentale importanza nella storia dell'arte, avrebbe bisogno oggi di una mostra in un grande museo per riaccendere un faro sulla sua straordinaria arte.

(la Repubblica, 6 settembre 2020)




Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
   --> Predicazione
Marcello Cicchese
novembre 2016


 


Dal prossimo anno Serbia e Kosovo avranno ambasciate a Gerusalemme

L'accordo di cooperazione economica tra Belgrado e Pristina, mediato dall'Amministrazione Usa con la giornata di ieri che ha visto anche la partecipazione di Trump, si riflette fino in Israele. Nell'ambito dei colloqui in corso a Washington, il presidente Trump ha fatto sapere che la Serbia - primo Stato del Continente europeo a farlo - sposterà dal luglio 2021 la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. E che lo farà anche il Kosovo, Paese balcanico a maggioranza musulmana, che avvierà relazioni con Israele. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha salutato «con soddisfazione» l'annuncio arrivato dalla Casa Bianca.

(Avvenire, 5 settembre 2020)


Gerusalemme, scoperti i resti di un antico palazzo dell'epoca dei re della Giudea

Rinvenuti dagli archeologi nel quartiere di Armon Hanatziv. La costruzione viene datata dagli esperti nel periodo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a.C., tra il regno di Ezechia e di Giosia

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - L'Autorità israeliana per le antichità ha rivelato ieri al pubblico i resti di un palazzo monumentale dell'epoca dei re della Giudea (età del ferro, X - VI sec. a.C) rinvenuti nel quartiere di Armon Hanatziv, dove si trova oggi una promenade da cui si gode una spettacolare vista sulla città vecchia di Gerusalemme.
   Tra i reperti rinvenuti dagli archeologi vi sono i resti di sontuosi infissi di finestre e tre capitelli proto-ionici perfettamente conservati. Lo stile proto-ionico è tipico della costruzione monumentale del periodo del Primo Tempio di Gerusalemme. Ne sono stati trovati numerosi esempi negli scavi della Città di Davide - il nucleo originario della città ebraica di Gerusalemme risalente al 1000 a.C. - e anche a Ramat Rachel, alle porte sud della città. Per la sua identificazione con il territorio, il capitello fu scelto anche come simbolo della moneta da 5 sheqel del moderno Stato d'Israele.

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La costruzione del palazzo viene datata nel periodo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a.C., tra il regno di Ezechia e di Giosia. Secondo Yaakov Billig, il direttore degli scavi, potrebbe essere indice della ripresa della città a seguito della devastazione causata dall'assedio di Gerusalemme da parte dell'esercito di Sennacherib, nel 701, dopo il quale il Regno della Giudea fu sottoposto all'autorità assira, pur mantenendo l'autonomia. "Negli anni abbiamo rinvenuto sempre più costruzioni imponenti fuori dal perimetro delle mura della città vecchia e questo potrebbe testimoniare la ripresa dello sviluppo urbano di Gerusalemme superata la minaccia assira, quando la gente si sentiva più sicura di vivere anche in altre zone".
   Secondo lo storico Eyal Meron, tra i massimi esperti di Gerusalemme, il luogo del ritrovamento invece rispecchierebbe l'apparato burocratico dell'autorità locale. "La sua posizione, oltre alla maestosità dei reperti, indica che probabilmente si trattava di un palazzo con funzione amministrativa, come quelli rinvenuti ad Arnona in recenti scavi e a Ramat Rachel: palazzi costruiti fuori dalle mura della città vecchia, in posizioni strategiche rispetto alle vie del commercio" ci dice Meron.
   Il luogo dei ritrovamenti, su una collina circa 3 km a sud rispetto alle mura della città vecchia, fu considerato strategico anche dagli inglesi che durante il Mandato britannico stabilirono qui la casa del Governatore di Gerusalemme, che oggi ospita il quartier generale dell'UNTSO, l'organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione dell'Armistizio.
   Secondo la ricostruzione di Billig, il palazzo fu distrutto nel 586 a.C., con la conquista babilonese di Gerusalemme e la distruzione del tempio salomonico. Due dei capitelli, in pietra calcarea, sono stati rinvenuti sepolti in maniera ordinata, segno che furono nascosti intenzionalmente. "Per quale motivo e da chi, sono domande che caratterizzano di certo questo ritrovamento molto particolare e a cui proveremo a rispondere, considerando anche che si tratta dei capitelli proto-ionici più belli e imponenti che abbiamo scoperto fino a oggi" dice Billig.

(la Repubblica, 5 settembre 2020)


Israele-Emirati: il ministro Peretz lancia un'iniziativa di cooperazione

GERUSALEMME - Il ministro per gli Affari e il patrimonio di Gerusalemme israeliano, Rafi Peretz, ha lanciato un'iniziativa di cooperazione con gli Emirati Arabi Uniti per far giungere in Israele migliaia di turisti, aziende hi-tech e studenti. L'iniziativa di cooperazione in diversi settori si inserisce nell'accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche raggiunto il 13 agosto scorso tra i due paesi. "La pace per la pace è il concetto giusto. Stiamo aprendo la città e invitando gli investitori, i turisti e gli abitanti emiratini a venire a Gerusalemme", ha affermato Peretz. Secondo il ministro, "l'iniziativa porterà prosperità e forza alla nostra capitale e sarà un vero ponte verso la pace".

(Agenzia Nova, 5 settembre 2020)


Recensione Final Account, l'olocausto raccontato dagli ultimi nazisti

La recensione di Final Account, nell'ultimo film documentario di Luke Holland l'Olocausto viene raccontato dal punto di vista dell'ultima generazione di nazisti ancora in vita.

di Umberto Stentella

Presentato fuori concorso in questa atipica 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Final Account cambia le carte in tavola, raccontando la Seconda Guerra mondiale attraverso le parole e i ricordi di chi si è trovato dalla parte sbagliata della Storia, diventando esecutore materiale della follia di Adolf Hitler.
  Non possiamo iniziare questa recensione di Final Account senza prima definire brevemente chi era Luke Holland. L'imperfetto purtroppo è d'obbligo, perché il regista è morto poco prima che venisse terminato il montaggio del suo film, a cui aveva iniziato a lavorare ben 12 anni fa, nel 2008. Discendente di una famiglia ebrea dalla parte della madre, originaria di Vienna ma emigrata per scappare dagli orrori della guerra, Holland ha dedicato grossa parte del suo lavoro da documentarista agli orrori del nazismo. Suoi sono Good Morning Mr.Hitler (1993), ritratto atipico del Führer reso possibile da una serie di filmati del 1939 all'epoca ancora inediti, e anche Ich war Hitlers Sklave (2000), documentario per la TV sull'esperienza agghiacciante di una ragazza sequestrata dei nazisti a 13 anni e costretta a lavorare in una delle fabbriche del III Reich.
  Con questo bagaglio alle spalle, oltre che un ottimo tedesco imparato in giovanissima età in una comunità cristiana del Paraguay, gli ultimi suoi anni Holland gli ha spesi intervistando oltre 250 tedeschi e austriaci, tutti membri dell'ultima generazione di uomini e donne che hanno vissuto in prima persona gli orrori del III Reich, dalla parte dei nazisti.
  In Final Account non troviamo volti o nomi noti, i ricordi non sono quelli dei gerarchi che hanno piegato la Germania al loro giogo. I protagonisti di questo racconto sono gli uomini che, poco più che ragazzini e spesso senza l'approvazione dei genitori, hanno prestato giuramento ad Hitler arruolandosi nelle legioni combattenti delle SS. Sono i testimoni passivi dello sterminio che abitavano a pochi chilometri dai campi di lavoro ma hanno scelto di girarsi dall'altra parte davanti alle sofferenze dei prigionieri, o che ne hanno tratto diretto beneficio, come chi a distanza di decenni racconta compiaciuta di quando andava a farsi curare i denti dai dentisti del lager costretti dai nazisti a servire la popolazione locale: «Erano dei prigionieri molto gentili» ricorda con un'affettuosità disturbante una delle signore intervistate dal documentarista. Ognuno di loro viene presentato con il suo nome e con il suo ruolo all'interno del regime nazista.
  The Final Account si prende il suo tempo, parte dai ricordi della primissima gioventù degli intervistati. Le marce all'aria aperta, le attività fisiche quasi da boyscout della Gioventù Hitleriana e perfino le sinistre canzoncine e i cori che dovevano cantare a memoria: «Affila il lungo coltello nel marciapiede, così entra meglio nel ventre dell'ebreo», canticchia uno degli anziani intervistati. «Per noi era normale cantare una cosa del genere, ti immagini?», chiede cercando l'indulgenza dell'intervistatore.
  Nella sua seconda parte il documentario entra presto nella parte più cupa del racconto, mettendo gli ex sostenitori del Reich davanti alla tragedia dell'Olocausto, salvo trovarsi spesso davanti ad un muro di omertà e autocommiserazione.
  Holland non si perde in virtuosismi, mette al centro la testimonianza degli ex nazisti intervallandola di tanto in tanto con immagini d'epoca e schermate di testo utili allo spettatore per contestualizzare le mezze verità degli intervistati.
  Nel corso dei 90 minuti del docufilm, sono tantissimi i "non sapevo" e i "non potevo intervenire, mi avrebbero arrestato", poche le prese di posizioni nette, anche meno (solo uno) i "non rinnego nulla".
  Alla fine della guerra un soldato americano chiese ad un ufficiale delle SS che giaceva nella mia stessa branda se fosse un nazista. Rispose «certamente». L'americano allora gli prese la mano e gliela strinse. «Sei il primo tedesco che conosca che abbia ammesso di essere un nazista da quando sono qui. Piacere di conoscerti».
  racconta con imbarazzo uno dei pochi ex militari di Hitler a dimostrarsi vivacemente critico del III Reich e dispiaciuto per il suo, seppur marginale, ruolo nella Seconda Guerra mondiale.

 Il volto (dis)umano del Male
  Rassicurati dalle rappresentazioni spesso macchiettistiche hollywoodiane e da meccanismi inconsciamente autoassolutori, ci viene facile pensare ai nazisti come mostri inumani: demoni fisicamente e spiritualmente distanti da noi. Final Account ci mette davanti ad una verità più scomoda.
  Le Waffen SS che radevano al suolo intere città obbedendo all'ordine terra bruciata del Führer e quegli stessi nazisti che sono diventati esecutori materiali della soluzione finale di Himmler rendendo possibile lo sterminio di 6 milioni di ebrei sono proprio qui, davanti ai nostri occhi, a raccontare alla telecamera com'è potuto succedere che per dodici anni l'intera Germania venisse sedotta dall'odio totalizzante di Hitler e del suo nazionalsocialismo.
  I nazisti di Final Account non indossano divise, non portano la svastica, l'unico legame con il passato è il minuscolo tatuaggio con il gruppo sanguigno sul braccio sinistro - un privilegio dato solo ai combattenti delle Waffen SS, spiega uno degli intervistati. Hanno le ciglia folte e increspate, il volto scavato dalle rughe, lo sguardo stanco ma non incapace di momenti di vispezza dei nostri nonni.
  Nella loro voce spesso (ma non sempre) c'è vergogna, l'umiliazione di dover trovarsi a giustificare l'ingiustificabile
  Nella loro voce spesso (ma non sempre) c'è vergogna, l'umiliazione di dover trovarsi a giustificare l'ingiustificabile, l'imbarazzo di non poter ammettere nemmeno a loro stessi di essere stati complici, o anche semplici testimoni omertosi, dello sterminio e delle persecuzioni politiche. «Non lo sapevamo», «lo si diceva a bassa voce», «quello che succedeva lì era un segreto» provano a replicare alcuni degli intervistati parlando dei forni crematori e dei campi dove i prigionieri venivano annientati di lavoro. «Chi dice che non sapeva mente, l'odore dolciastro si sentiva da chilometri», sostiene un altro intervistato parlando di uno dei centri di eutanasia del III Reich.
  Un altro uomo racconta di quando da bambino aveva assistito all'incendio della Sinagoga proprio durante la famigerata Notte dei Cristalli, un episodio che ritorna in più occasioni nei ricordi degli intervistati. Holland cerca di estorcergli un minimo senso di empatia, gli chiede se almeno considera quell'evento un crimine. «Da un punto di vista del diritto bruciare la proprietà degli altri è un reato, quindi si potrebbe dire che chi ha bruciato la Sinagoga fosse un criminale», commenta con il rigore logico che ci si aspetta da un tedesco. «Ma io non provavo nulla, non mi interessava. Gli ebrei erano un'etnia separata dalla nostra»

 La minaccia degli uomini comuni
  «Una volta vennero a nascondersi da noi dei fuggitivi, il giorno dopo le guardie del campo vennero a ricatturarli». Ricorda un intervistato che durante la guerra viveva in una piccola fattoria a pochi passi dal campo di lavoro di Bergen-Belsen salvo ammettere, davanti alle sollecitazione dell'intervistatore, che i nazisti li aveva chiamati lui stesso per paura di ritorsioni. «Non ho idea di che fine abbiano fatto».
  I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere, ecita la citazione di Primo Levi con cui Holland ha deciso di aprire il suo documentario.
  È questa la vera potenza del testamento di Luke Holland: se quelle legioni di Hitler non erano composte da mostri, ma da uomini comuni, meri "funzionari pronti ad obbedire senza discutere" storditi dalla propaganda e accecati dal terrore, allora significa che nessuno di noi, con poche, pochissime, eccezioni, sarebbe stato immune.
  L'opera di Holland non assolve nessuno. L'intervistatore incalza gli ex nazisti, chiede come facessero a sapere di alcuni episodi e allo stesso tempo negare di avervi avuto un ruolo, li mette continuamente davanti alle loro colpe cercando costantemente segni di pentimento.
  Dando un volto umano ai nazisti, Final Account rende il nazionalsocialismo un'ideologia ancora più tossica, virulenta e terrificante di quanto già non ci apparisse prima.
  Holland non ci ricorda gli orrori dell'olocausto, se non in senso marginale, li conosciamo già, li abbiamo già assimilati e condannati. Piuttosto, ci rivela quanto sia semplice diventare esecutori del Male. Ci mostra con prepotenza quanto i principi etici e l'empatia che consideriamo parti inscindibili della nostra identità siano molto più fragili di quello che ci piace pensare. Basta poco per disinnescare ogni traccia di umanità da una persona. Il monito di Final Account è chiaro e allo stesso tempo terrificante: pensare che tutto questo non possa ripetersi rischia di essere un'altra ingenua e pericolosa illusione.
  Concludendo la nostra recensione di Final Account, il film documentario di Luke Holland si presenta come un'opera estremamente efficace e dal fortissimo potere pedagogico che, seppur raccontandoci orrori all'apparenza lontani (ma non abbastanza da non aver lasciato superstiti) lancia un avvertimento tragicamente attuale. Una visione straniante, disturbante ma necessaria per poter capire fino in fondo uno dei più spaventosi capitoli della storia del nostro continente.

(Lega Nerd, 5 settembre 2020)


La cucina israeliana

Un melting pot di culture, etnie e tradizioni che rende la cultura gastronomica israeliana ricca e tutta da conoscere

di Elena Stante

 
Non è facile descrivere la cucina israeliana, dal momento che, essendo Israele uno stato relativamente giovane, ha subìto nel tempo influenze sia dalla tradizione gastronomica ebraica dell'Oriente che da quella di altri Stati d'Europa e del mondo. Per questo nei piatti tipici di questa cucina si trovano affiancate la radicata tradizione ebraica e la forte influenza della cucina araba, il tutto infarcito di abitudini culinarie multietniche.
  La tradizione alimentare ebraica si fonda storicamente sul Kosherut, che indica quello che secondo le prescrizioni della Torah è corretto mangiare. Qui si distinguono i cibi puri e commestibili (il kosher) da quelli impuri e vietati (il taref). Mangiando gli alimenti impuri si danneggia l'anima perché questi cibi, una volta digeriti, entrano nel sangue e "il sangue è anima". Tra gli animali "puri" ci sono i ruminanti con lo zoccolo diviso in due parti e quindi ovini, caprini, bovini ,antilopi e anticamente anche le giraffe; tra quelli impuri i conigli e le lepri, i non ruminanti, i suini e gli equini che hanno lo zoccolo intero.
  Per quel che riguarda gli uccelli, sono impuri i rapaci e gli uccelli notturni, e per i pesci quelli che non hanno le squame; vietati sono ancora anfibi, rettili e roditori. Queste e altre regole alimentari sono insegnate ai bambini sin da piccoli e secondo il Kosherut la tavola imbandita è l'altare e la cucina è come il tabernacolo.
  Tra i tipici piatti che costituiscono il classico spuntino tra un pasto principale e l'altro, ci sono i felafel, polpettine fritte a base di ceci, ma anche lenticchie, fagioli o fave, arricchite dal sapore di cumino, aglio e cipolla; nei vicoli della città vecchia di Gerusalemme ci sono diverse botteghe che, con una sorta di stampino, li confezionano velocemente per poi friggerli nell'olio bollente. In accompagnamento ai felafel c'è l'hummus, una crema di origini antiche fatta con ceci, olio e tahini, una saporita pasta di semi di sesamo.
  Il cibo di strada è molto diffuso anche nei mercati della città nuova; qui si alternano bancarelle che espongono veri trionfi di frutta secca ad altre che vendono pane fresco di vario tipo o ancora verdure sottaceto caratteristicamente "fosforescenti" (niente paura, è l'effetto di tanto aceto) che fanno bella mostra di sé. Le spezie poi sono un altro ingrediente fondamentale della cucina israeliana: lo zaatar è una miscela composta da timo, sesamo e sale, talora arricchita da altre erbe aromatiche come santoreggia, maggiorana, semi di finocchio, origano; si usa per preparare la focaccia tipica della colazione, il manakish oppure per arricchire le insalate o ancora nelle marinate per carne o pesce arrostiti.
  C'è poi il sumac, una spezia antica ottenuta polverizzando le bacche essiccate e triturate del sommacco, arbusto piuttosto diffuso in tutta l'area del Mediterraneo e in Oriente; ha un gusto acidulo che ricorda le foglie dell'erba limoncina e si adopera in alternativa allo zaatar soprattutto sull'hummus con un cucchiaio d'olio d'oliva. Per un gusto diverso c'è poi l'harissa, un trito di peperoncino non piccante, cumino, coriandolo e aglio, che si adatta a diverse pietanze. In Israele si beve il caffè nero aromatizzato con del cardamomo o senza, ma è molto diffuso anche il caffè turco.
  Una tradizione ebraica è quella dello "Special Friday", in cui alla cena del venerdì in cui viene sostituito il Qiddush, ovvero il rito che celebra lo Shabbat, un festeggiamento tra familiari e amici; in questa occasione i ristoranti propongono menù speciali di tipo tradizionale per i gruppi ebrei.
  La maniera più popolare per cucinare la carne in Israele è arrostirla: oltre ai popolari Kebab e Shashlik, è qui diffusa anche la Shawarma di origine turca, preparata con carne di pecora tacchino o pollo, ricoperta con grasso di pecora e servita in striscioline accompagnata da verdure e salse. Altri piatti molto diffusi di origine araba sono il mejadra, un piatto di riso e lenticchie servito con cipolle fritte, e il baba ganush, a base di melanzane.
  Tra i dolci, imperdibile per chi viaggia in questi luoghi è la ciambella alla curcuma e datteri, tipica della città vecchia di Gerusalemme. Spesso le torri di datteri canditi o appassiti al sole fanno bella mostra di sé nelle vetrine dei negozi; i datteri si possono trovare anche freschi nei negozi di frutta ed entrano in numerose preparazioni data l'abbondanza dei palmeti della valle del Giordano. In Israele sono diffusi anche altri dolci sia di origine araba (come la baklava a base di pasta phillo, miele e frutta secca) che di origine ebrea (come i kugel, una specie di pudding insaporito con il caramello).
  E non perdetevi un assaggio del succo di melagrana israeliano, spremuto rigorosamente al momento con spremiagrumi a braccio che lasciano integra la parte bianca del frutto, senza intaccare con un tono amarognolo il succo estratto dai semi. Un vero toccasana che in Israele è vera tradizione.

(Prodigus.it, 5 settembre 2020)


L'accordo Emirati-Israele ha svelato la vera natura dell'ostilità palestinese

La "questione palestinese" è diventata molto più una campagna per raccattare soldi dalla comunità internazionale che non una questione politica attorno a una terra contesa.

Sin dalla nascita di Israele, tutti i governi del paese hanno perseguito la pace con i vicini arabi. Il primo ministro Menachem Begin (Likud) firmò lo storico trattato di pace con l'Egitto e il primo ministro Yitzhak Rabin (laburista) firmò un analogo trattato di pace con la Giordania. Lo stato d'Israele è orgoglioso di entrambi gli accordi di pace e ha cercato di replicarli con altri stati arabi. Tuttavia, negli ultimi dieci anni nessuno ha perseguito la pace con il vasto mondo arabo in modo più assertivo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu....

(israele.net, 5 settembre 2020)


Coronavirus: in Israele 2.766 contagi, percentuale record

A Gaza la pandemia si estende, polizia in forze nelle strade

All'indomani della decisione delle autorità israeliane di imporre da lunedì la chiusura di 30 'zone rosse'', dati diffusi dal ministero della sanità confermano che il livello dei contagi è molto elevato.
Ieri ne sono stati registrati 2.766, pari all'8,3 per cento dei test condotti.
La stampa locale cita una ricerca dell'Università Johns Hopkins secondo cui, con 215,6 contagi al giorno per ogni milione di abitanti, Israele è al primo posto della graduatoria mondiale, avendo superato Brasile (188,7), Spagna (182,4) e Usa (127,2). La cifra complessiva dei casi positivi registrati in Israele è 125.755, di cui 25.277 malati attivi. I decessi sono stati 991.
Situazione allarmante anche a Gaza dove i contagi sono saliti in 24 ore a 577, 116 in più rispetto a ieri. I decessi sono stati quattro. Gaza City ed il nord della Striscia sono in uno stretto lockdown. La polizia ha bloccato il traffico con sbarramenti nelle strade mentre, secondo fonti locali, agenti con manganelli intimidiscono i rari passanti. A Gaza è arrivata da Ramallah la ministra palestinese per la sanità May al-Kaileh.
Con lei sono entrati 20 camion carichi di aiuti sanitari.

(ANSAmed, 4 settembre 2020)


Un drone fa piovere bustine di cannabis su Tel Aviv

Centinaia di bustine di cannabis sono cadute dal cielo nella città di Tel Aviv la scorsa notte e questa mattina nelle piazze Rabin e Dizengoff. La dispersione è stata effettuata utilizzando droni che volteggiavano sulle due grandi piazze. L'obiettivo è quello di promuovere un nuovo canale di vendita aperto sotto il nome di "Green Skimmer" un gruppo dell'applicazione telegram che opera in.Telegrass, il supermercato della cannabis. A seguito di questi eventi due sospetti piloti di droni sono stati arrestati dalla polizia subito dopo l'operazione.
Questo drone ha lanciato pacchetti di cannabis dopo che gli attivisti che cercavano di legalizzare hanno promesso di rilasciare l'erba sui social media.
In un comunicato, la polizia ha affermato di sospettare che le borse fossero piene di un "farmaco pericoloso" e che gli agenti fossero riusciti a recuperarne decine. Le foto distribuite dalla polizia hanno mostrato quella che sembrava essere cannabis all'interno.
Il sito web di notizie Maariv, che mostrava le foto del drone che lasciava cadere le borse, ha detto che i passanti ne hanno prese alcune prima dell'arrivo della polizia. Il filmato mostrava persone che camminavano nel traffico per raccogliere pacchi caduti su una strada.
Attualmente, l'uso medico della cannabis è consentito in Israele, mentre l'uso ricreativo è illegale ma in gran parte depenalizzato.
A maggio, Israele ha acconsentito all'esportazione di cannabis medica, aprendo la strada alle vendite all'estero dalle quali il governo spera di guadagnare centinaia di milioni di dollari di entrate.
Nelle ultime ore, al termine dell'evento, si è scoperto che un'operazione simile era già avvenuta ieri sera in piazza Dizengoff in città. Nel video che è stato distribuito, puoi effettivamente vedere la vista spettacolare di centinaia di sacchi di cannabis che cadono dal cielo.

(it.cannabis-mag.com, 4 settembre 2020)


Riad apre i cieli agli aerei israeliani

Una decisione storica: consentito il sorvolo a tutti i velivoli diretti negli Emirati Arabi Uniti

RIAD - L'Arabia Saudita apre i propri cieli a tutti i voli in direzione degli Emirati Arabi Uniti, e rende così anche Israele ancora più vicina ai paesi del Golfo. Con una decisione storica, annunciata ieri, Riad ha autorizzato il sorvolo del proprio territorio da parte degli aerei di «tutti i paesi», incluso Israele, diretti negli Emirati o da essi provenienti.
   L'aereo volato il 31 agosto tra Tel Aviv ed Abu Dhabi passando sopra l'Arabia Saudita non sarà più ricordato dunque come un'eccezione diplomatica ma l'apripista della crescente distensione tra lo Stato israeliano e un parte del mondo arabo musulmano. La decisione saudita è figlia dell'accordo raggiunto di recente da Israele e Abu Dhabi per la normalizzazione dei rapporti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha esitato a definirla «un enorme passo in avanti» e segno di «pace genuina». I voli «saranno più corti e meno cari e questo porterà ad irrobustire il turismo e a sviluppare la nostra economia» ha spiegato il premier sottolineando che la nuova politica saudita apre "l'Oriente" agli israeliani, e non solo, rendendo più semplici i voli in questa parte di mondo. «Voglio ringraziare Jared Kushner (il consigliere del presidente Usa Trump, ndr) e lo sceicco Mohammed bin Zayed (principe ereditario e ministro della difesa di Abu Dhabi, ndr) per l'importante contributo odierno e — ha aggiunto Netanyahu — ci saranno presto molte altre buone notizie».
   Va ricordato che nel volo da Tel Aviv ad Abu Dhabi erano presenti Kushner e due ampie delegazioni: una statunitense (guidata dal responsabile della sicurezza nazionale Usa Robert O'Brien e dall'inviato speciale per i negoziati internazionali Avi Berkowitz) e una israeliana (guidata dal capo della sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat). Ad Abu Dhabi si sono svolti colloqui ad alto livello sulla cooperazione in materia di aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia. Kushner ha definito il volo un «momento storico».
   Secondo gli analisti, la mossa di Riad — annunciata dall'agenzia ufficiale Spa — appare come un ulteriore segnale che si inquadra nella crescente pressione dell'alleanza sunnita-occidentale contro l'Iran sciita. Al tempo stesso, tuttavia, Riad è stata però molto attenta a ribadire — ha scritto su twitter il ministro degli esteri Faisal bin Farhan — che l'apertura dello spazio aereo non cambia di un millimetro «la ferma e stabile posizione del Regno nei confronti della causa e del popolo palestinesi». L'Arabia Saudita «apprezza tutti gli sforzi diretti al raggiungimento di una pace giusta e durevole», ma — ha precisato Bin Farhan — sulla base dell'iniziativa di pace araba, proposta nel 2002 dall'allora principe ereditario saudita, poi re Abdullah.
   Nel gioco diplomatico innescato dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti rientra anche la posizione espressa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. In una conversazione telefonica con Netanyahu ha definito l'accordo con gli Emirati Arabi Uniti «un passo in grado di instaurare la pace in Medio Oriente». Ma ha anche sottolineato «l'importanza di evitare annessioni di territori palestinesi le quali potrebbero far vacillare le possibilità di intesa».

(L'Osservatore Romano, 4 settembre 2020)


Hamas e Jihad islamico hanno incontrato Sayyed Nasrallah

 
l leader di Hamas, Ismail Haniyeh hanno incontrato mercoledì a Beirut il segretario generale del Jihad islamico, Ziad Nakhale.
Insieme, hanno incontrato il segretario generale del movimento di resistenza libanese Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah.
Haniyeh e Nakhale hanno discusso della cooperazione tra i due movimenti della Resistenza palestinese e dei modi per coordinare le loro azioni in risposta al blocco in corso della Striscia di Gaza, al cosiddetto piano di pace del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e all'accordo di normalizzazione tra l'entità sionista e gli Emirati Arabi Uniti. All'incontro hanno partecipato anche altri funzionari dei due gruppi della Resistenza.
L'alto rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan, ha dichiarato che Haniyeh incontrerà Sayyed Nasrallah durante la sua visita a Beirut, sottolineando che i legami tra i movimenti della Resistenza palestinese e libanese sono "strategici".
Haniyeh e al-Nakhale hanno partecipato a una videoconferenza indetta dal capo dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, con la partecipazione di tutte le fazioni palestinesi per discutere l'accordo israeliano con gli Emirati Arabi Uniti.

(Pars Today, 4 settembre 2020)


La vita sotto Hitler narrata in diretta

In «Final Account» la memoria di 300 giovani (allora) aderenti al nazismo

VENEZIA - Dieci anni di lavoro, due Paesi - Germania e Austria - battuti a tappeto, 300 interviste, 11 mesi di montaggio, e un pugno di domande ossessive: in cosa credevano, ieri, i milioni di tedeschi che senza accorgersene divennero nazisti? Cosa pensano oggi di ciò che accadde? E chi paga il conto dell'orrore: solo le vittime, o anche i complici silenziosi del crimine?
   Ed eccolo, il conto finale il documentario Final Account, uno dei primi film selezionati dalla squadra di Alberto Barbera e presentato ieri a Venezia in anteprima mondiale. Quando il cinema è anche Storia, con le sue tragedie. E quando è anche cronaca infelice, con le sue coincidenze beffarde. Il regista, l'inglese Luke Holland, è morto pochi mesi fa. E a portare al Lido la sua opera sono arrivati la moglie, il produttore e il montatore della pellicola. Che è un unicum. Quanti film e documentari abbiamo visto sulla Shoah, dalla parte del popolo ebraico? Ma quanti che hanno come protagonisti gli altri sopravvissuti, non all'Olocausto, ma alla macchina dello sterminio che proprio loro hanno contribuito a far funzionare in maniera perfetta?
   E così nel 2008 Luke Holland iniziò a intervistare l'ultima generazione di tedeschi ancora in vita che avevano fatto parte del Terzo Reich. Conversazioni, più che interviste. E non con gerarchi, politici, ideologhi. Ma comuni cittadini che supportarono i progetti degli architetti del genocidio: giovani uomini e donne - allora, oggi anziani, pensionati, malati, lucidissimi - che entrarono nelle SS o nella Wehrmacht, e che sfilarono nella Gioventù hitleriana. La vita quotidiana sotto il nazismo. Divise, croci uncinate, labari, canzoncine, lettura del Mein Kampf.
   Final Account è un documentario impietoso, in cui il racconto dei testimoni si alterna a filmati del tempo, e le confessioni sono di un candore inversamente proporzionale alla tragedia. «Non c'era tempo per comportarsi come civili». «C'era la disoccupazione...». «Ci avevano insegnato a disprezzare gli ebrei». Sono le voci di chi è stato dall'altra parte e che finiscono con lo svelare che chi dice che non sapeva niente, mente. Come fa notare una ex SA che viveva vicino a un ospedale psichiatrico dove veniva realizzato il programma eugenetico nazista: «C'era un odore dolciastro... Si capiva che lì bruciavano corpi umani. Ce lo dicevamo sottovoce». Ed ecco come uomini fedeli a un'ideologia, ma per il resto assolutamente comuni, hanno finito col prender parte a uno dei più efferati crimini contro l'umanità. Sottovoce.

(il Giornale, 4 settembre 2020)


Bahrein pronto a normalizzare i rapporti con Israele

Il Bahrein potrebbe annunciare la normalizzazione dei rapporti con Israele "molto presto". A renderlo noto questo mercoledì è l'agenzia israeliana Kan 11 News, che menziona un anonimo funzionario israeliano come fonte dell'indiscrezione, che riferisce anche che l'annuncio potrebbe arrivare subito dopo la firma dell'accordo tra EAU e Israele.
   Il regno del golfo potrebbe essere quindi il secondo stato nella regione a stringere relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Il primo passo sembra essere arrivato giovedì sera quando l'Autorità per l'aviazione civile del Bahrein ha annunciato l'autorizzazione dei voli di aerei israeliani nei cieli del Bahrein. Israele ha fatto sapere di essere interessato a un'ulteriore cooperazione nel Golfo, principalmente nei settori della sicurezza e del commercio.
   Il Bahrein è stato uno dei paesi arabi ad aver plaudito all'accordo degli Emirati Arabi Uniti con Israele, senza però aver rilasciato alcun commento pubblico sul fatto che stabilirà legami con lo stato ebraico, ufficialmente boicottato dai Paesi della Lega Araba a causa dell'occupazione dei territori palestinesi.
   Dopo l'annuncio dell'accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele ad agosto, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo e il consigliere del presidente Donald Trump, Jared Kushner, si sono recati separatamente in Medio Oriente per incoraggiare altre nazioni a fare un passo simile.
   Kushner ha incontrato a Manama il re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Durante il vertice il re Khalifa ha ribadito che "la stabilità e la solidarietà nel Golfo dipendono, in tutte le situazioni, dall'Arabia Saudita" e il regno è "con Riad in tutti i casi" per proteggere la stabilità e prosperità della regione. Khalifa ha anche ricordato "le storiche, solide posizioni dello Stato degli Emirati Arabi Uniti nel difendere la causa e i diritti della nazione araba e islamica, e i suoi instancabili sforzi per raggiungere una soluzione giusta e comprensiva" nel rispetto dei diritti del popolo palestinese e per una pace durevole in Medio Oriente.
   Tra i vari Paesi che potrebbero prendere in considerazione la normalizzazione con Israele ci sono l'Oman e il Sudan.

(Sputnik Italia, 4 settembre 2020)


Gruppo di collaborazione tra Camera e Knesset critica l’alleanza di Turchia con Hamas

ROMA - "Esprimiamo una forte critica per l'alleanza della Turchia con Hamas, movimento considerato come terrorista dall'Unione Europea, mentre la situazione in Medio Oriente sta rapidamente evolvendo. Concedere cittadinanza e passaporto a membri del gruppo terroristico islamico è un segnale grave e inaccettabile, che va in direzione opposta a qualsiasi percorso di pace". Così si sono espressi i deputati del Gruppo di collaborazione parlamentare tra Camera e Knesset, i deputati Paolo Formentini (presidente), Emanuele Fiano, Paolo Lattanzio, Andrea Orsini, Emilio Carelli.

(Giornale Diplomatico, 3 settembre 2020)


Coronavirus: nuovo record in Israele. Più di tremila casi in un giorno

di Giacomo Kahn

Nuovo record di casi di coronavirus in Israele, dove per la prima volta sono state superate le 3mila nuove infezioni giornaliere. Le autorità sanitarie hanno riferito che mercoledì sono stati accertati 3.074 nuovi casi, rispetto ai 2.190 del giorno precedente. Nonostante l'aumento dei contagi, martedì è iniziato l'anno scolastico.
Le autorita' si preparano a imporre nuove restrizioni e hanno avvertito che se i contagi non diminuiranno nei prossimi giorni, dovranno essere ripristinate misure di chiusura piu' dure in tutto il Paese e questo proprio nel periodo che precede le grandi festività ebraiche che avranno inizio il prossimo 18 settembre e termineranno a metà di ottobre.
Dall'inizio della pandemia, in Israele sono stati accertati 125.613 casi di coronavirus, con 969 decessi, in un Paese abitato da poco più di 8 milioni di abitanti.

(Shalom, 3 settembre 2020)


Lanciato in orbita il laboratorio di microgravità, frutto di collaborazione italo-israeliana

 
ROMA - Questa mattina è stato lanciato nello spazio il laboratorio di microgravità Dido-3, prodotto di una collaborazione fra l'Agenzia spaziale italiana (Asi) e l'Agenzia spaziale di Israele (Isa), in cooperazione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e il ministero israeliano della Scienza e della Tecnologia. Lo riferisce l'Asi sul suo sito internet. Il laboratorio è stato lanciato insieme ad altri 53 dispositivi (tra nano, micro e minisatelliti) di 13 paesi diversi su un razzo Vega di realizzazione italiana, progettato e costruito dalla società Avio di Colleferro, in provincia di Roma. Il vettore Vega è partito alle 3.51 di questa mattina dalla base spaziale di Kourou nella Guyana francese e la missione "si è conclusa con successo 2 ore e 4 minuti dopo il decollo". A bordo di Dido-3 avranno luogo "quattro esperimenti congiunti italo-israeliani nei settori della ricerca biologica e farmacologica, controllati da terra attraverso un'applicazione mobile". Le università italiane coinvolte sono l'Università Federico II di Napoli, l'Università di Roma 3, l'Università di Roma Tor Vergata e l'Università di Bologna. Dal lato israeliano, secondo il quotidiano "The Times of Israel", sono coinvolte oltre all'Isa anche l'impresa israeliana Space Pharma, il Technion-Israel Institute of Technology, l'ospedale Tel Hashomer, e la Hebrew University di Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 3 settembre 2020)


Attacco israeliano in Siria. Colpita ancora la base T4

Nuovo attacco israeliano alla base T4 in Siria. Come sempre i siriani affermano di aver colpito i missili israeliani, ma testimoni sul campo raccontano un'altra storia.

di Sarah G. Frankl

Un nuovo attacco israeliano in Siria è avvenuto durante la notte appena trascorsa. Ad essere colpita è stata ancora una volta la base aerea T4 nei pressi di Al-Tanf, vicino al confine con l'Iraq.
Secondo l'agenzia di stampa siriana SANA un aereo israeliano avrebbe lanciato diversi missili contro la base T4 ma le difese siriane li avrebbero intercettati e abbattuti quasi tutti.
Un po' diverso il racconto di alcuni testimoni locali i quali affermano che alla base T4 ci sarebbero state diverse esplosioni e che alcuni depositi di armi sarebbero saltati in aria.
Non è chiaro se ci siano vittime. Si parla di alcuni miliziani iraniani che sarebbero deceduti o si troverebbero in gravi condizioni. Ma non ci sono conferme.
Nessuna conferma dell'attacco nemmeno da Gerusalemme che comunque, come al solito, non smentisce.
La base T4 in Siria si trova molto vicino al confine con l'Iraq e per questo viene usata dai pasdaran iraniani per far giungere armi a Hezbollah e alle altre milizie oltre che per trasferire uomini.
Non è la prima volta che Israele colpisce la base T4 ma fino ad oggi nessuno ha elevato formale protesta presso gli organismi internazionali. Un motivo ci sarà.

(Rights Reporter, 3 settembre 2020)


Israele al centro di accordi e intese

Confermate intese sul piano commerciale per Gaza, mentre Israele cerca di organizzare la cerimonia per la firma dell'accordo di normalizzazione delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington.

Israele riapre da oggi il valico commerciale con Gaza di Kerem Shalom e ripristinerà le zone di pesca al largo delle coste della Striscia. Si tratta di provvedimenti che rientrano nelle intese annunciate ieri tra Hamas e il Qatar sulla crisi con Israele. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha sottolineato che si tratta di "fermare l'escalation" lungo il confine dopo un mese di incidenti e riportarvi la calma. E ha precisato che le intese, mediate dal Qatar, includono la realizzazione di progetti a beneficio di Gaza e serviranno a contrastare la diffusione dei contagi di coronavirus.

 Al lavoro per l'attuazione degli accordi di metà agosto
  Ieri l'aereo El-Al LY971, con a bordo il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, e l'inviato speciale di Trump, Jared Kushner, è volato direttamente da Tel Aviv ad Abu Dhabi ed è passato per i cieli dell'Arabia Saudita. Si tratta di sviluppi dell'Accordo raggiunto a metà agosto tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti. Netanyahu e Kushner hanno invocato "pace nella regione". Il lavoro delle delegazioni è cominciato subito dopo l'atterraggio (alle 15.38 locali) con il primo incontro tra il ministro di Stato emiratino Anwar Mohammed Gargash e il capo della delegazione israeliana, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat, al quale ha preso parte anche Kushner. Sono estremamente orgoglioso - ha detto l'israeliano parlando in arabo - di guidare questa delegazione. Sul tavolo ci sono accordi di cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia ma non sulla sicurezza, tema che sarà oggetto di prossimi incontri.
  Per riflettere sul significato e le implicazioni anche simboliche di questo volo, sulle reazioni e sugli sviluppi dell'accordo di metà agosto, abbiamo intervistato Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali alla Luiss:
   Il professor Marchetti sottolinea che l'accordo è senz'altro un passo importante e spiega che si inserisce nel contesto di un avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita in chiave di possibile fronte di alleanza nei confronti del potere sciita in particolare dell'Iran. Ricorda il ruolo dell'amministrazione Trump e la contemporaneità con l'impegno statunitense a spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e ad appoggiare il processo di espansione dello Stato ebraico in Cisgiordania. In questi giorni - ricorda Marchetti - le delegazioni discutono dell'apertura di ambasciate nei rispettivi Paesi, a suggello del terzo accordo di pace tra Israele e un Paese arabo, dopo Egitto e Giordania, che Netanyahu si è detto convinto sarà presto firmato ufficialmente a Washington. A proposito di reazioni all'accordo con gli Emirati, Marchetti commenta che ovviamente c'è quella negativa da parte del mondo sciita e poi spiega che il fronte palestinese è invece meno compatto. Il leader palestinese Mohammad Shtayyeh ha avuto chiare parole di critica parlando di "scena penosa" in relazione al volo aereo con Netanyahu e Kushner, ma si sono levate altre voci palestinesi palesando un approccio più possibilista. In ogni caso, Marchetti nota che ci sono in atto diversi contesti da considerare se si vuole valutare l'accordo nella sua complessità.

 L'aggiornamento sul Covid-19 in Israele e a Gaza
  Il ministero dell'Istruzione israeliano ha autorizzato l'avvio stamane, fra molte misure cautelative, del nuovo anno scolastico malgrado il coronavirus continui a diffondersi a ritmo elevato nel Paese. Nelle località più colpite le scuole sono comunque rimaste chiuse. Ieri, secondo il ministero della Sanità, i contagi sono stati 2.180, ossia il 7,4 per cento dei test compiuti. Complessivamente in Israele i casi positivi sono stati finora 117.241. I malati attuali sono 20.699, 438 dei quali in condizioni gravi. I decessi sono stati finora 946. Situazione preoccupante anche nella Striscia di Gaza, che resta in lockdown da oltre una settimana durante la quale si sono avuti 4 decessi e 286 contagi. Le aree più colpite, riferisce il ministero della Sanità locale, sono Gaza City ed il nord della Striscia, definite adesso 'zone rosse'. Ai loro abitanti viene concesso di uscire di casa solo per rifornirsi di alimentari: ma la polizia presidia gli accessi dei pochi empori aperti ed impone in maniera rigida il distanziamento sociale. Nelle altre aree della Striscia gli abitanti possono spostarsi liberamente entro le loro località di residenza, ma solo nelle ore diurne.

(Vatican News, 3 settembre 2020)


Kalanit Goren Perry: "Momento sfidante ma fonte di opportunità"

 
Kalanit Goren Perry
Debutto ufficiale ieri a Milano per Kalanit Goren Perry, nuovo direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo in Italia. "Sono orgogliosa di essere qui, soprattutto in questo momento particolarmente sfidante che però sarà anche una grande opportunità per studiare nuove iniziative".
   Il Paese, che ha chiuso le frontiere ai flussi turistici dall'Italia lo scorso 29 febbraio a causa della pandemia da Covid-19 ("Purtroppo non abbiamo ancora indicazioni sulla riapertura, a cominciare da quella dell'aeroporto internazionale"), è comunque pronto a giocare le sue carte, non appena le condizioni globali lo consentiranno: "E' indubbio che dovremo attrezzarci con nuove strategie per rilanciare i flussi turistici. In particolare, oltre a Gerusalemme e Tel Aviv, punteremo molto sul deserto del Negev, sulla regione della Galilea, sull'area del mar Morto, zone ideali per stare a contatto con la natura e facilmente raggiungibili dalle città considerate le dimensioni del nostro Paese, in cui viaggiare è davvero facile".
   Nel frattempo sarà "determinante mantenere alta la visibilità della destinazione, anche sul mercato trade attraverso seminari di formazione e attività sui canali social, strumento fondamentale non soltanto per il b2c ma anche per il b2b, oltre ad una rinnovata collaborazione con i tour operator". A proposito di collaborazioni, Kalanit Goren Perry ricorda il recente debutto di El Al sulla rotta Tel Aviv-Abu Dhabi, "potenziale opportunità di interessanti - e inediti - progetti tra le due destinazioni".
   Da sempre appassionata di viaggi, Goren Perry annovera tra le sue esperienze anche una tappa importante in Italia, dove per due anni ha frequentato a Roma la facoltà di Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza, concludendo poi il percorso di studi in Israele con una laurea triennale in cinematografia con tesi in Sound Desgin. Un secondo ciclo di studi la vede impegnata in Scienze Politiche e Diplomazia internazionale con progetto finale dedicato alla comunicazione Visual. Terminati gli studi, un passaggio presso la Società della Protezione della Natura (Spni) concentrandosi su specifici progetti di marketing, approdando poi al Ministero del turismo di Israele attraverso la frequenza al corso di Cadetti a cui hanno fatto seguito l'impegno nel desk Europa e in quello specifico per lo sviluppo del turismo outdoor. Natura, deserto, Eilat, Negev: queste le parole chiave nel lavoro di promozione realizzato da Kalanit in collaborazione con dmc israeliani e to internazionali.
   L'insediamento della consigliera per gli affari turistici dell'Ambasciata di Israele si insedia al posto di Avital Kotzer Adari, che ha chiuso il suo mandato nel nostro Paese lo scorso luglio.

(Travel Quotidiano, 3 settembre 2020)


Tensioni Netanyahu-Gantz, possibile annullamento della riunione di governo

GERUSALEMME - La riunione settimanale del governo di Israele prevista per domenica prossima, 6 settembre, potrebbe essere annullata per la quinta volta in tempi recenti, in seguito a tensioni fra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Benny Gantz. Lo riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel", citando i media locali.
Gli annullamenti delle riunioni, un tempo molto rari, si sono moltiplicati nelle ultime settimane a fronte della crisi che attraversa la coalizione al potere. Lo scorso 24 agosto la Knesset (il parlamento monocamerale di Israele) ha approvato, nell'ultimo giorno utile, un'estensione di 120 giorni della scadenza per la presentazione della legge di bilancio, impedendo così la fine d'ufficio del governo e l'indizione di elezioni anticipate.
Secondo fonti politiche interpellate dall'emittente israeliana "Channel 12", dietro l'annullamento ci sarebbero tensioni fra Netanyahu e Benny Gantz, ministro della Difesa, per le "combattive" dichiarazioni pronunciate da quest'ultimo alla vigilia del voto della Knesset. Gantz aveva infatti dichiarato che il suo blocco politico, la coalizione centrista Kahol Lavan, avrebbe votato in favore dell'estensione, ma nello stesso tempo aveva accusato Netanyahu di non essere riuscito "ad agire nell'interesse nazionale", affermando che in caso di elezioni anticipate "sangue" avrebbe potuto "essere versato per le strade".

(Agenzia Nova, 3 settembre 2020)



La politica antisemita del Vaticano durante la Shoah

Il lavoro dello storico David Kertzer evidenzia chiaramente ancora una volta il pregiudizio antisemita della Chiesa di fronte alle persecuzioni naziste.

di Ugo Volli

A Febbraio scorso, finalmente, dopo molti anni di richieste, il Vaticano ha aperto agli studiosi i suoi archivi riguardanti il papato di Pio XII: il periodo della Shoah e gli anni immediatamente precedenti e successivi. Molti storici si erano prenotati per accedere alle carte, sperando di capire meglio le scelte del Papa che tacque durante la Shoah e non intervenne nemmeno quando i nazisti deportarono buona parte della comunità ebraica romana, praticamente sotto i suoi occhi. Gli archivi hanno funzionato per poco tempo, prima della chiusura generale dovuta al Covid, ma qualche risultato di queste ricerche è già uscito. In particolare è interessante il resoconto che ne dà David Kertzer, lo storico della Brown University che da molti anni lavora sul rapporto del Vaticano con gli ebrei e ne ha tratto diversi libri ben documentati e molto coraggiosi (per esempio Prigioniero del papa re Rizzoli 1996; I papi contro gli ebrei, Rizzoli 2002; Il patto col diavolo Rizzoli 2014).
  L'articolo di Kertzer si può consultare qui e riguarda due episodi molto significativi, di cui quasi solo uno è stato illustrato, in maniera molto parziale e discutibile, nell'unico articolo che la stampa italiana gli ha dedicato (Antonio Carioti sul Corriere della Sera, riportato qui). Questo primo episodio riguarda la proposta che un gesuita, già addetto ai rapporti del Vaticano col governo italiano, padre Pietro Tacchi Venturi (quello che dopo la liberazione cercò di convincere il governo italiano a mantenere in vigore buona parte delle leggi razziste contro gli ebrei) fece a Pio XII a Dicembre '43, ben due mesi dopo il rastrellamento degli ebrei di Roma, di mandare una nota diplomatica di dissenso al regime nazista, peraltro scritta in un linguaggio esplicitamente antisemita. Vi sono, diceva la bozza di Tacchi Venturi, "gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione, ma in Italia le leggi razziali del fascismo hanno già ridimensionato questo pericolo e dunque non serve deportarli". Anche a questo linguaggio, sostanzialmente complice col nazismo, si oppose un altro prelato di curia che aveva un ruolo importante nella diplomazia vaticana, e sarebbe stato poi nominato vescovo (da Giovanni XXIII) e cardinale (da Paolo VI): Angelo Dell'Acqua. Costui sosteneva che era meglio non irritare i tedeschi neanche con discorsi così "comprensivi". E il Papa naturalmente accettò il suo suggerimento. Del suo silenzio si sapeva, se n'è discusso moltissimo: ma è importante trovare la prova che questo silenzio non fu casuale o distratto, ma una presa di posizione politica decisa dopo ragionamenti e discussioni approfondite: meglio ignorare il genocidio e non avere guai.
Gerald e Robert Finaly
La seconda vicenda riguarda meno persone, ma è altrettanto significativa sul piano morale. Riguarda Gérald e Robert Finaly, due bambini figli di una coppia di ebrei austriaci, Fritz e Anni Finaly, che nel '38, dopo l'annessione alla Germania erano fuggiti dall'Austria cercando di arrivare in Sudamerica, ma non avevano ottenuto il visto e si erano trovati bloccati nella Francia meridionale, a Grenoble. . Nel '44, intuendo di essere sul punto di essere catturati dai nazisti, che poi in effetti li catturarono e li deportarono ad Auschwitz e li uccisero lì, Fritz e Anni Finaly affidarono i loro due figli, che allora avevano tre e quattro anni, a un'amica, Marie Paupaert, che a sua volta, terrorizzata dalla loro cattura, li consegnò subito a un convento di monache, le quali a loro volta li affidarono alla direttrice della locale scuola per infermiere, Antoinette Brun, che li trattenne negli anni successivi. Nel febbraio del '45, quando la Francia del Sud era stata liberata dalle truppe alleate, la zia dei bambini, Marguerite, che era rifugiata in Nuova Zelanda, scrisse al sindaco di Grenoble per recuperare i nipotini e poi un altro fratello si presentò di persona da Brun, che però si rifiutò di restituirle i bambini, che nel frattempo aveva fatto battezzare.
  Inizia qui un'odissea che si concluse solo otto anni dopo. Brun continuò a rifiutarsi anche di fronte a un ordine del tribunale, nascose i bambini in un convento e poi li fece espatriare clandestinamente in Spagna. Fu arrestata e con lei diversi religiosi cattolici che le furono complici. Il rapimento di due figli di vittime della Shoah fece molto rumore in Francia, con numerosi articoli di giornale, interventi politici e giudiziari. Era quindi un episodio conosciuto, anche se ormai largamente dimenticato. Quel che Kerzer ha trovato sono gli atti interni al Vaticano, che mostrano come il rapimento dei bambini fosse stato direttamente voluto da Pio XII e coordinato dalle massime autorità del segretariato di stato e della nunziatura (l'ambasciata) vaticana in Francia. Da parte ebraica vi furono interventi del World Jewish Congress e del rabbino capo di Israele Itzhak Herzog che portarono a trattative infruttuose, perché il Papa, per restituire i bambini rapiti alla famiglia voleva la garanzia che non sarebbero stati messi a contatto con l'ambiente ebraico, perché ormai "appartenevano alla Chiesa". Chi per il papato trattava con il mondo ebraico era proprio quell'Angelo Dell'Acqua che qualche anno prima aveva sconsigliato di protestare coi tedeschi e consigliato Pio XII a "diffidare dell'influenza degli ebrei" Alla fine, dopo otto anni di resistenza, nel 1953, solo l'enorme danno di immagine provocato dalla resistenza alle decisioni dei tribunali francesi e dall'arresto di preti e monache sotto l'accusa infamante di rapimento obbligò il Vaticano a cedere, e i bambini poterono arrivare dai loro parenti in Israele, dove in seguito hanno vissuto da ebrei vite normali e ben integrate.
  Solo la felice conclusione differenzia questa storia dall'altra ben nota agli ebrei italiani, il rapimento di Edgardo Mortara a Bologna nel 1858 ad opera di sgherri della Chiesa e il rifiuto di Pio IX di restituire il bambino alla famiglia col pretesto che era stato battezzato. Ma da allora era passato quasi un secolo e in mezzo c'era stata la Shoah, che evidentemente non aveva insegnato nulla alla curia romana, almeno sul rispetto della libertà di religione e dell'integrità della famiglia. Vale la pena di ricordare che chi gestì sul piano diplomatico la difesa del rapimento e coordinò tutti gli sforzi della Chiesa per non restituire i bambini fu il pro-segretario di Stato Giovanni Battista Montini, destinato a diventare papa Paolo VI. Di sua mano, per esempio, è l'istruzione per le trattative con Rav Herzog, in cui si dice che "bisogna prendere le opportuna precauzioni perché essi (i bambini) non tornino a essere ebrei". Sua è la lettera al nunzio vaticano a Parigi in cui si lamenta che "alcuni giornali riferiscono che i fratelli Finaly saranno presto portati in Israele per essere rieducati al giudaismo. Ciò è in contrasto con gli accordi che il cardinale Gerlier ha concluso tempo fa". Sua è la protesta con il governo francese, dopo che i due bambini furono finalmente riconsegnati e portati in Israele dalla famiglia, perché la liberazione dei due rapiti "aveva inflitto un duro colpo ai diritti della Chiesa e anche al suo prestigio nel mondo". Bisogna aggiungere ancora che alla campagna di Pio XII collaborò anche monsignor Roncalli, nunzio a Parigi all'inizio dell'affare (che poi però all'inizio del '53 fu nominato cardinale e trasferito come patriarca di Venezia). Un altro nome pesante della Curia coinvolto in questa vicenda è quello del Cardinale Ottaviani, allora capo del Sant'Uffizio.
  Ricordare questi episodi non vuol dire naturalmente esprimere un giudizio definitivo su tutti gli ecclesiastici coinvolti, che dovevano certamente una rigida obbedienza al Papa. Di qualcuno fra essi, come il futuro Giovanni XXIII, sono documentati numerosi gesti di solidarietà verso gli ebrei perseguitati dai nazisti. Altri erano francamente antisemiti, a partire probabilmente da Pio XII. Quel che storie come questa confermano è l'atteggiamento costante del Vaticano di privilegiare "il prestigio della Chiesa" e i suoi "diritti" sulla vita delle persone. Lo vediamo ancora oggi. E inoltre bisogna leggere in questi fatti una generale diffidenza, un fastidio verso gli ebrei che traspaiono in ogni dichiarazione riportata da Kerzer. Del resto negli anni Cinquanta la "Civiltà Cattolica" organo dei gesuiti ma sempre soggetto all'approvazione papale, continuò la sua secolare campagna contro gli ebrei. La dichiarazione "Nostra Aetate" arriverà solo nel '63, la visita di Papa Wojtyla alla Sinagoga di Roma nell'86, il riconoscimento vaticano dello stato di Israele solo nel '93, quarantacinque anni dopo la sua fondazione. Nei termini di una storia due volte millenaria di persecuzioni e calunnie sono passati solo pochi momenti, si tratta di una tendenza iniziata ma non ancora consolidata come un fatto compiuto: non bisogna illudersi troppo. Per questo il lavoro di chi come Kerzer indaga sulla persistenza del pregiudizio antiebraico nella Chiesa è prezioso.

(Progetto Dreyfus, 3 settembre 2020)



Tra Emirati e Israele accordi su finanza e innovazione

Delegazione di Israele ad Abu Dhabi

Un comitato congiunto per la cooperazione nei servizi finanziari e la promozione degli investimenti è stato istituito da Israele e gli Emirati arabi uniti nel corso della visita di una delegazione israeliana ad Abu Dhabi.
Dopo lo storico avvicinamento tra i due Paesi, i governi stanno ora mettendo a fuoco le aree di partnership economica. «L'obiettivo è rimuovere le barriere finanziarie per permettere investimenti reciproci e promuovere investimenti congiunti nei mercati dei capitali» ha sottolineato un comunicato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
«Le opportunità di partnership per le imprese israeliane ed emiratine - ha specificato il comunicato - avranno un focus molto forte sull'innovazione e la tecnologia».
È stato inoltre concordato un piano di cooperazione tra l'Abu Dhabi Investment Office (Adio) e Invest in Israel. «L'ecosistema di Israele può offrire molto all'economia degli Emirati in termini di innovazione, soprattutto nei settori delle scienze biologiche, delle tecnologie per l'agricoltura e l'ambiente, dell'energia» ha dichiarato Ziva Eger, amministratore delegato di Invest in Israel. Nel prossimo futuro verranno conclusi accordi, oltre che nel campo dei servizi finanziari, anche in altri settori: turismo, energia, sanità e sicurezza.

(Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020)


Rivelazione media israeliani: "Netanyahu in segreto nel 2018 a Abu Dhabi"

 
Rivelazione odierna del quotidiano Yediot Ahronot, dopo lo storico volo che ieri ha portato per la prima volta un aereo della El Al da Tel Aviv a Abu Dhabi sorvolando l'Arabia Saudita. Il premier Benyamin Netanyahu nel 2018 ha visitato in segreto gli Emirati Arabi incontrando il principe della corona Mohammad bin Zayed. Secondo il quotidiano, che cita fonti diplomatiche, all'incontro tra i due leader prese parte anche il direttore del Mossad, Yossi Cohen e la riunione si svolse in una buona atmosfera. Nonostante il fatto non sia stato confermato dall'ufficio del premier, il quotidiano ha ricordato che proprio ieri Netanyahu, all'atterraggio del volo ad Abu Dhabi, ha accennato di aver incontrato "molti leader nel mondo arabo e musulmano" ancora non noti al pubblico.
Intanto nel Golfo proseguono oggi gli incontri delle delegazioni israeliana e Usa con quella degli Emirati prima della ritorno in Israele previsto per questa sera. Al termine della prima tornata di riunioni, ieri sera ad Abu Dhabi si è svolta una funzione religiosa a cui hanno partecipato il capo della delegazione, Meir Ben Shabbat ed esponenti della comunità ebraica locale.

(Politica News, 1 settembre 2020)


Tregua tra Israele e Hamas

L'accordo reso possibile dalla mediazione del Qatar

Spiragli di dialogo in Medio Oriente. Hamas, il movimento islamico che controlla la Striscia di Gaza, e Israele hanno annunciato ieri sera un accordo per porre fine alle ostilità al confine. Da oltre un mese, infatti, quasi quotidianamente razzi e palloni incendiari lanciati dalla Striscia di Gaza hanno colpito il territorio israeliano, particolarmente nel sud. Da parte sua, Israele ha risposto con raid aerei.
   «Grazie a una serie di contatti, i più recenti con l'inviato del Qatar Mohammed el-Emadi, è stato raggiunto un accordo di tregua per contenere l'escalation e porre fine all'aggressione contro il nostro popolo» ha dichiarato, in un comunicato, il leader politico di Hamas a Gaza, Yahya Sinouar. La trattativa «ha portato a un accordo tra noi e Israele per far tornare la calma nella regione e prevenire un'escalation di violenza». I palloni incendiari lanciati dalla Striscia hanno causato — secondo la France Presse — più di 400 incendi nelle piantagioni israeliane, con un bilancio drammatico per molti agricoltori e imprenditori. Da parte sua, oltre ai raid, Israele ha intensificato il blocco sulla Striscia con nuove restrizioni, soprattutto sulla pesca.
   «Se Hamas, che è responsabile di tutte le misure prese nella Striscia di Gaza, non adempie ai suoi obblighi per riportare la calma lungo il confine, Israele agirà di conseguenza» hanno dichiarato ieri sera esponenti israeliani citati dalla France Presse. Va ricordato che, sotto l'egida del Qatar, dell'Egitto e delle Nazioni Unite, Hamas e Israele lo scorso anno avevano raggiunto un accordo di tregua che prevede un aiuto mensile di 30 milioni di dollari, pagato dai qatarini, a Gaza, oltre a una serie di progetti economici per frenare la disoccupazione, che oggi supera il 50%. Con il nuovo accordo raggiunto ieri, secondo una fonte del movimento islamico, il finanziamento del Qatar aumenterà da 30 milioni di dollari a 35 milioni di dollari al mese. Inoltre, il governo del Qatar ha annunciato anche nuovi progetti volti a migliorare le condizioni economiche e sanitarie degli abitanti della Striscia.

(L'Osservatore Romano, 2 settembre 2020)


E’ un collaudato giochino di Hamas che si ripete da diversi anni: lancia missili e bombe incendiarie su Israele, provoca danni e molto fastidio, Israele si stufa e comincia a colpire duro, Hamas allora minaccia sfragelli, tutti sanno che è un bluff, ma per evitare noiose rotture di equilibri gli usuali elemosinieri di Gaza si decidono ad allargare la borsa. Obiettivo raggiunto, accordo concluso, tregua d’armi annunciata, la pace a intermittenza continua. In attesa della prossima richiesta di fondi avanzata in forma di lancio di missili e bombe incendiarie su Israele. E’ così che Israele contribuisce, passivamente e suo malgrado, a quella che è “la migliore pace possibile” in Medioriente. M.C.


Conversazione in ebraico tra Netanyahu e un rappresentante degli Emirati Arabi Uniti

Chi l'avrebbe detto solo poche settimane fa: una conversazione in ebraico tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e uno degli accompagnatori della delegazione israelo-americana ad Abu Dhabi. Durante il loro scambio, il Primo Ministro è colpito dal livello di ebraico rivelato dal suo interlocutore - che gli confida di aver imparato tramite Zoom - e si congratula per il suo contributo alla costruzione della normalizzazione tra Israele ed Emirati. "Una pace non solo tra i leader ma anche tra i due popoli". Il rappresentante degli Emirati spera che Benjamin Netanyahu venga presto a trovarlo, e da parte sua, Netanyahu gli chiede personalmente di far parte della delegazione degli Emirati che verrà in Israele, "dove sarà accolto calorosamente, come la delegazione israeliana ad Abu Dhabi" .
"Beezrat HaShem" (con l'aiuto di Dio), risponde il suo interlocutore!

(lphinfo.com, 1 settembre 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Raid aerei sulla Siria, vittime civili. Israele principale sospettato

Contraddittorio il ruolo russo: Putin non ferma Netanyahu e spera nel ritiro dell'Iran.

di Michele Giorgio

Un'altra notte di bombardamenti. Scie luminose di missili che attraversano l'oscurità, seguite da esplosioni. Gli abitanti di Damasco e di altre località siriane le vedono spesso, da anni. E talvolta pagano con la vita questi attacchi notturni. Israele non conferma ma sono pochi i dubbi sulla paternità del pesante raid aereo che lunedì notte si è concentrato su «obiettivi» a sud della capitale siriana e nei pressi della città meridionale di Deraa.
   I media ufficiali siriani parlano di un nuovo attacco israeliano, aggiungendo che la difesa antiaerea ha abbattuto buona parte dei missili sganciati dai cacciabombardieri. Anche questo attacco ha causato vittime ma non se ne conosce con precisione il numero. Sana, l'agenzia di stampa statale siriana, ha riferito di due civili uccisi — tra cui una donna —e di sette feriti. Per l'Osservatorio siriano per i diritti umani, a Londra e legato all'opposizione, i morti sarebbero 11, tra cui sette combattenti stranieri filoiraniani.
   La posizione di Israele è nota. Il premier Netanyahu descrive i raid come operazioni preventive volte a impedire che l'Iran e i suoi alleati possano allestire in Siria basi da dove lanciare attacchi a Israele. Una «difesa attiva», così è definita, che la Siria, alle prese con lo scontro tra l'esercito e le organizzazioni armate islamiste e jihadiste, ha dovuto assorbire senza reagire. La superiorità militare di Israele, soprattutto aerea, di cui si è fatta garante l'amministrazione Trump di nuovo nei giorni scorsi, è netta e non colmabile dalla Siria.
   I russi, alleati di Damasco, mantengono inattivi gli S-300 che hanno schierato in Siria che sarebbero in grado di respingere gli attacchi. Il modus vivendi stabilito da Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu per la crisi siriana prevede che Mosca lasci a Israele il diritto di autodifesa, ossia di attaccare indisturbato le postazioni iraniane e le milizie sciite in Siria. Non è un mistero che il Cremlino vedrebbe con piacere il ritiro delle forze di Tehran dalla Siria. Così come è noto che la Russia stia chiedendo a Bashar Assad di fare concessioni al tavolo dei negoziati sulla futura carta costituzionale che il presidente siriano non è pronto a fare.
   A preoccupare Damasco più di tutto però è il piano statunitense in Medio Oriente che non è limitato solo alla questione israelo-palestinese. In esso rientrano, ad esempio, la recente normalizzazione tra Israele ed Emirati e politiche volte a provocare la caduta di Assad e la fine dell'alleanza tra Siria, Iran e il movimento libanese Hezbollah. Il 17 giugno Washington ha varato sanzioni dure contro la Siria impegnata a combattere la pandemia e una grave crisi economica. E stando all'agenzia curda Basnews sta ora lavorando al riconoscimento Usa dell'indipendenza o della piena autonomia da Damasco della regione di Jazira, nel Rojava. Secondo l'agenzia, gli Usa starebbero discutendo con i clan arabi locali e i rappresentanti dei partiti curdi di una soluzione che vedrebbe ogni componente etnica amministrare la propria area, grazie anche al sostegno americano e saudita.
   Per raggiungere l'obiettivo, aggiunge Basnews, Washington vuole riunire sotto un unico ombrello le varie organizzazioni politiche e militari curde, divise sui passi da fare e sui rapporti con Damasco, con gli Usa e vari sponsor regionali. Se è vero, si tratterebbe della realizzazione del progetto di cui si parla di frantumazione del territorio siriano, suddiviso nel nord-est sotto controllo curdo, nella regione occidentale di Idlib nelle mani dei jihadisti e della Turchia e il resto del paese (più o meno) sotto il controllo del governo centrale.

(il manifesto, 2 settembre 2020)


Israele-India: Nuova Delhi verso acquisto due sistemi radar Phalcon

GERUSALEMME - Il governo dell'India starebbe per approvare l'acquisto di due sistemi radar di preallarme e controllo (Awacs) Phalcon da Israele. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", citando i media indiani. L'acquisto, del valore di circa 1 miliardo di dollari, sarebbe in corso da alcuni anni e dovrebbe essere discusso dal governo indiano nella prossima riunione della Commissione di gabinetto per la sicurezza. I sistemi in questione, montati su un aereo russo Ilyushin-76, permettono la scansione elettronica e possono rilevare e tracciare aerei, missili cruise e droni prima dei radar di terra.
   L'aeronautica dell'India ha ottenuto i primi tre sistemi radar Phalcon nel 2009, dopo un accordo da 1,1 miliardi di dollari firmato tra Nuova Delhi, Israele e Russia. La notizia giunge in un momento segnato da crescenti tensioni fra l'India e la Cina, che come il Pakistan possiede più sistemi radar Awacs delle forze indiane. Secondo il "Jerusalem Post", dopo l'acquisto la consegna dei sistemi potrebbe richiedere dai due ai tre anni.
   Negli ultimi anni Israele ha fornito vari sistemi di armi, missili e droni all'India, che figura tra i principali compratori di forniture militari israeliane. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso marzo dall'International Peace Research Institute di Stoccolma, lo Stato ebraico è l'ottavo fornitore al mondo di armi, vendute principalmente in India (45 per cento del totale), Azerbaigian (17 per cento) e Vietnam (8,5 per cento).

(Agenzia Nova, 2 settembre 2020)


Il primo storico volo tra Tel Aviv e Abu Dhabi. Tre ore verso la pace

Sorvolati i cieli sauditi. E il Qatar negozia un accordo Israele-Hamas

di Sharon Nizza

 
TEL AVIV — «Benvenuti a bordo dello storico volo 971 Tel Aviv-Abu Dhabi». L'atteso annuncio è stato pronunciato ieri alle 11:30 dal capitano del primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati. L'aereo ha condotto nella capitale emiratina una delegazione diplomatica per avviare le trattative bilaterali in vista della firma dell'accordo tra i due Paesi, a Washington forse già il 15 settembre. Sul volo anche una delegazione americana guidata dal consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, l'artefice dell'avvicinamento strategico tra Israele e l'asse sunnita in chiave anti-iraniana, che da Abu Dhabi proseguirà per Riad, per convincere i reali a presenziare alla cerimonia alla Casa Bianca.
   Una tratta di tre ore, grazie all'autorizzazione concessa da Riad al primo velivolo con bandiera israeliana a sorvolare lo spazio aereo saudita, che dice molto sul nuovo corso. Una traversata dei cieli sauditi "alla luce del sole", ha detto il premier Netanyahu da Gerusalemme: è ormai noto che per anni questa rotta è stata battuta da jet anonimi che hanno trasportato alti funzionari e almeno in un'occasione Netanyahu stesso, oltre a Tahnun bin Zayed, il Consigliere per la Sicurezza nazionale emiratino. All'atterraggio la delegazione è stata accolta dal Ministro degli esteri Anwar Gargash. Meir Ben Shabbat, il Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, ha fornito un'immagine ad effetto pronunciando il primo discorso pubblico su suolo emiratino con la kippà in testa, in arabo e in ebraico. Le relazioni sono state avviate in sette settori: aviazione civile, visti, finanza, innovazione, turismo, salute e cultura.. Una delegazione dedicata solo a questioni di sicurezza partirà nei prossimi giorni. Significativo perché, se è vero che alla base del disgelo annunciato a sorpresa il 13 agosto vi è l'interesse comune ad arginare le mire iraniane e turche sull'area, la percezione è che ci sia anche una sincera volontà di mutuo scambio a livello della società civile, a differenza di quanto accaduto con Egitto e Giordania, dove la "pace fredda" è sempre rimasta sul piano degli interessi strategici nazionali.
   Quanto ai palestinesi, il premier Shtayyeh ha espresso dolore nel «vedere un aereo israeliano atterrare negli Emirati, in una chiara violazione della posizione araba sul conflitto». Kushner ha ribadito: «C'è una proposta che li aspetta, sta a loro decidere quando tornare al tavolo». Le mosse nel Golfo si riverberano anche su Gaza: dopo settimane di scontri con Idf, ieri sera Hamas ha annunciato la tregua «grazie alla mediazione dell'inviato del Qatar». Al-Emadi ha trascorso una settimana nella Striscia per raggiungere l'accordo a ogni costo e rivendicare così il ruolo strategico di Doha rispetto ai vicini emiratini.

(la Repubblica, 1 settembre 2020)


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In viaggio verso la pace. Primo volo commerciale Israele-Emirati Arabi

È partito da Tel Aviv diretto ad Abu Dhabi. Il premier Netanyahu: «Giornata storica»

PASSO DOPO PASSO
L'annuncio: «Ho invitato una delegazione nel nostro Paese»
CLIMA CAMBIATO
«Stenderemo il tappeto rosso per loro come hanno fatto con noi»

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Alle 11,15 di ieri il volo LY971 dell'El Al ha intrapreso il suo viaggio verso il futuro, per la prima volta nella storia un aereo israeliano carico di diplomatici, businessman, giornalisti si è avventurato sul deserto saudita col permesso di sorvolarlo in pace. L'avventura della più grande sfida che l'uomo deve affrontare, la pace, ha toccato un'altra tappa in cui Israele e il mondo arabo sono i protagonisti. «Una giornata storica», dice il premier Benjamin Netanyahu, che invita una delegazione di Abu Dhabi nello Stato ebraico: «Stenderemo loro il tappeto rosso come hanno fatto con noi».
   È la terza volta, dopo le intese con Egitto e Giordania, che lo Stato ebraico sormonta divieti più spessi di qualsiasi muraglia: ma è accaduto e sull'aereo del ritorno, LY972 (all'andata col prefisso telefonico degli Emirati, al ritorno con quello di Israele), hanno viaggiato travolti dall'emozione il direttore del ministero degli Esteri Meir Ben Shabbat con i rappresentanti governativi della sicurezza, della salute, della tecnologia. Con loro, indispensabili angeli custodi dell'accordo preceduto dalla cancellazione del boicottaggio, il consigliere e genero di Trump Jared Kushner, quello per i negoziati internazionali Avi Berkovitz, per gli Affari iraniani Brian Hook e per la Sicurezza nazionale Robert O'Brian.
   L'evidente importanza del gruppo americano, che prosegue nel suo giro mediorientale dopo avere incontrato Netanyahu a Gerusalemme, è un segnale chiaro, alla vigilia delle elezioni di novembre, dell'importanza che Trump attribuisce all'accordo «Abraham», alla sua capacità di spostare l'opinione pubblica americana dall'idea suggerita dai nemici di Trump, che abbia reso il mondo un luogo più pericoloso, a quella che sia il presidente che porta la pace in un Medioriente certo non perfetto, ma migliorato. Una pace realista e non ideologica, come l'invito negli Emirati a Papa Francesco.
   Che cosa è questa pace? È una svolta fondamentale che - come ha detto Kushner - «non permette al passato di disegnare il futuro», ovvero cancella i «no» dettati dalla questione palestinese e dalla politica anti normalizzazione che Abu Mazen ha scelto come strada per mantenere il potere, col rifiuto delle offerte di pace, la scelta di finanziare i terroristi. Lo sfondo ideologico su cui l'amministrazione Trump ha potuto lavorare è doppio: da una parte la garanzia israeliana anti Iran; dall'altra un campo arabo in cui primeggiano gli Emirati di Mohammaed bin Zayed, grande costruttore dell'accordo, appassionato del dialogo interreligioso come dell'idea grandiosa di un Paese unico al mondo, legato alla tradizione araba ma modernizzatore. E molto distante dall'idea della Ummah islamica, un immenso territorio per il miliardo e 800 milioni di musulmani del mondo, un solo impero, un leader, molti nemici da battere: il panarabismo e poi l'Islam sciita dell'Iran e ora quello sunnita di Erdogan ne sono i portabandiera. Ma il pericolo che rappresentano è cresciuto negli anni. E intanto si è presentata l'opportunità per MbZ di diventare il salvatore dei palestinesi dalle annessioni previste dal piano Trump. Netanyahu ha pagato volentieri il prezzo della rinuncia alla sovranità sul 30% della zona C sperando prima di tutto nella pace oltre che con gli Emirati anche con gli altri che vorranno seguire (Bahrain e Oman, si desidera l'Arabia Saudita) e si disegna che finalmente i palestinesi vogliano approdare a una trattativa.
   Le possibilità esistono, dato che il loro veto si è spezzato. II mondo arabo ripete che «due Stati per due popoli» rimane il suo obiettivo, Israele conferma che è disposto alla trattativa, ma nessuno accetta la premessa della solita serie di no a qualsiasi soluzione che non sia quella imposta da una leadership palestinese di volere solo la guerra. Invece ora chi vuole la pace abramitica (fra ebrei, musulmani e cristiani) potrebbe crescere di giorno in giorno. Da una parte il Medioriente disegna l'immagine di alleanze con i colori di Tel Aviv e dei grattacieli di Abu Dhabi. Dall'altra, lo scoppio di Beirut e le stragi in Siria, le riunioni di Erdogan con Hamas e le minacce di Nasrallah, colorano di nero il panorama.

(il Giornale, 1 settembre 2020)


Il pilota israeliano che ha rotto il tabù. "Un'emozione volare nei cieli sauditi"

Primo volo commerciale tra Tel Aviv e Abu Dhabi dopo la apertura delle relazioni diplomatiche tra i due ex nemici Riad concede l'autorizzazione a sorvolare lo spazio aereo. A bordo l'inviato della Casa Bianca Kushner: "Giornata storica".

La storia della hostess che aveva cominciato con i voli per l'Iran: "Ora vado in pensione" Hamas annuncia la tregua con lo Stato ebraico sulla pesca al largo di Gaza

di Fabiana Magri

 
L'arrivo sulla pista dell'aeroporto di Abu Dhabi
TEL AVIV - Oltre alla portata epocale per gli equilibri in Medio Oriente, il primo volo commerciale senza scalo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, operato dalla compagnia israeliana El Al, ha travolto anche la sfera privata dell'equipaggio: due piloti, un primo ufficiale, cinque hostess e uno steward. Ieri sera, al telefono con La Stampa dalla stanza dell'hotel dove ha alloggiato ad Abu Dhabi prima di ripartire oggi per Tel Aviv, il capitano Tal Becker, quarantacinque anni di carriera, di cui gli ultimi venticinque al comando di aerei di linea, aveva la voce rilassata. Sostiene che ai piloti insegnino a mettere da parte le emozioni. Ma i dettagli del suo racconto, un po' di emozione la tradivano. «Giornalisti e fotografi andavano e venivano in cabina di pilotaggio. Il cielo era limpido, senza nuvole e turbolenze che a volte incontri sorvolando l'Europa. Le procedure sono sempre le stesse, stesso il linguaggio e la terminologia. Solo che il controllore che mi rispondeva, questa volta era un arabo saudita». L'emozione in realtà era trapelata già alla partenza, nella foto che l'ha ritratto affacciato al finestrino della cabina di pilotaggio, mentre sistemava le due bandierine - israeliana ed emiratina - proprio sotto la parola «pace», scritta in arabo, inglese ed ebraico applicata sulla carlinga dell'aereo.
   Il check-in per il volo LY 971 - AUH, con a bordo due consistenti delegazioni ufficiali, l'israeliana e la statunitense, si è aperto poco dopo le sette del mattino di ieri e l'imbarco è avvenuto dal Gate El del Terminal 3.11 nome dell'aeromobile, un Boeing 737-900, è Kiryat Gat, come la città nel centro di Israele. Il carrello ha sollevato le ruote dalla pista del Ben Gurion alle 11:22 (ora israeliana) per atterrare ad Abu Dhabi alle 15:38 (ora locale del Golfo). Dopo trenta minuti di volo, il capitano Becker annunciava che, per la prima volta, un aeromobile registrato in Israele sorvolava i cieli dell'Arabia Saudita grazie a una speciale autorizzazione concessa da Riad. A quarantacinque minuti dall'atterraggio, l'inviato speciale (e genero) del presidente Usa, Jared Kushner, ringraziava i sauditi: «Sono stati molto gentili a permetterci di sorvolare il loro spazio aereo. Anche questa è una svolta storica». Il volo è durato poco più di tre ore e un quarto. Se non fosse stato per l'Arabia Saudita, ce ne sarebbero volute più di sette. A bordo con il funzionario della Casa Bianca, c'erano il Consigliere per la sicurezza nazionale Robert O'Brien, e gli inviati di Trump Brian Hook e Avi Berkowitz, rispettivamente per l'Iran e il Medioriente.
   Mentre i canali istituzionali veicolavano foto e immagini delle rappresentanze ufficiali, la stampa si interessava alle vicende personali dell'equipaggio. Nelle "stories" su Instagram di Shimon Yaish, corrispondente di «Israel Hayom», c'era Hedva, responsabile della cabina. Quello odierno sarà il suo ultimo volo. Hostess El Al fin dai tempi dei voli diretti con l'Iran, al ritorno da Abu Dhabi andrà direttamente in pensione. Un'assistente di volo, Liat Elazar, ha confessato al reporter che nelle ultime notti l'emozione le ha tolto il sonno. Pensava a come sarebbe stato orgoglioso suo padre, ucciso in un attacco terroristico in Turchia, con indosso l'uniforme El Al.
   C'è da aspettarsi che questo storico volo di andata (ieri) e ritorno (oggi) avrà un impatto anche sul destino della compagnia di bandiera dello stato ebraico, che da due mesi aveva lasciato a terra tutti i suoi aerei, effetto della crisi per il coronavirus. Un altro primato da ricordare per i voli LY 971 e LY972, numeri che corrispondono rispettivamente ai prefissi telefonici degli Emirati Arabi Uniti e di Israele. Il direttore ad interim degli affari internazionali di El Al, Stanley Morais, non se la sente di affermare che questa tappa salverà la compagnia, piagata dalle ingenti perdite (244 milioni di dollari) nella prima metà del 2020. Ma queste giornate hanno soffiato una ventata di ottimismo anche sul destino del vettore israeliano. «Del resto - ha commentato Morais - El Al esiste da quando esiste Israele, è un po' il suo brand, c'è sempre stato nei momenti storici». Nell'aprile 1980, un anno dopo la sigla degli accordi di pace tra Israele ed Egitto, aprì la rotta Tel Aviv - Il Cairo. «La situazione era molto diversa - ricorda il dirigente -. L'Egitto è stato il primo Paese arabo in assoluto a fare la pace con Israele, si trattava di una nazione confinante, da lungo tempo in guerra. Quello di oggi è un traguardo dell'epoca moderna, tecnologica, cyber». E poiché di business prevalentemente era stato stabilito che si sarebbe parlato, lasciando i temi di sicurezza e difesa a una delegazione in partenza nei prossimi giorni, a bordo del volo c'erano tecnici e diplomatici, direttori di ministeri ed esperti nei settori del turismo e della cultura, dell'innovazione e dell'hi-tech. Nessun politico, a parte il coordinatore della rappresentanza israeliana Meir Ben Shabbat, Consigliere per la Sicurezza Nazionale.
   E mentre si levavano gli scudi palestinesi contro l'evento, giudicato «una scena penosa» dal premier Shtayyeh e «una coltellata nella schiena del popolo palestinese» dal portavoce di Hamas, fonti israeliane citate dal sito Ynet confermavano le intese tra Hamas e il Qatar sulla crisi con lo stato ebraico. Da oggi riaprono il valico commerciale di Kerem Shalom e le zone di pesca al largo della costa della Striscia. Prima di avallare le altre richieste, Israele attende l'interruzione dei lanci di palloni incendiari da Gaza.

(La Stampa, 1 settembre 2020)


Un patto storico con gli arabi per arginare turchi e iraniani

II decollo è stato preceduto da una missione del Mossad. La nuova alleanza mette nell'angolo i palestinesi. Kushner: "Ora negoziate"

di Giordano Stabile

Le immagini delle bandiere israeliana ed emiratina affiancate, che dilagano ad Abu Dhabi e su Internet, fanno il paio con i poster del principe ereditario Mohammed bin Salman con la Stella di David impressa sulla tunica, a mo' di spregio, branditi dai manifestanti di fronte alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. «Adesso sarà più facile per un emiratino visitare Al-Aqsa che per noi palestinesi», ragionava uno di loro. Il volo fra la capitale dell'emirato e Tel Aviv dura tre ore. Il nuovo treno veloce porta dall'aeroporto alla Città Santa in trenta minuti. Il pellegrini benestanti del Golfo potrebbero presto affollare il terzo luogo santo dell'islam. Una sconfitta epocale per la causa palestinese.
   Anche se Jared Kushner ha invitato la dirigenza a rimettersi al tavolo del negoziato, Abu Mazen è all'angolo. Dopo il trasferimento dell'ambasciata Usa, dopo "l'accordo del secolo" che lo privava di un pezzo della Cisgiordania, ha puntato sulla solidarietà araba. Nessun accordo di pace con Israele se prima non nasce uno Stato palestinese, nei confini del 1967. Questo era il patto tacito.
   Bin Zayed ha rotto il tabù. Kushner e Donald Trump contavano che si trascinasse dietro altre nazioni arabe, Bahrein, Sudan l'Arabia Saudita. Prima delle elezioni del 3 novembre. Sarà difficile. Re Salman, a differenza del figlio Mohammed, pensa ancora in vecchio stile, non vuole correre rischi con l'opinione pubblica interna. E ha preferito che fosse l'uomo forte di Abu Dhabi a fare da apripista. Se la sua `visione" avrà successo, e il dissenso limitato, anche Riad seguirà. È una visione che verte soprattutto sulla sicurezza regionale. Bin Zayed vede i due fronti avversari sempre più uniti. Il primo nemico è l'Iran e il messianesimo sciita che infiamma le minoranze nel Levante e nella Penisola arabica. Non a caso il primo alto ufficiale israeliano a essere accolto è Meir Ben-Shabbat, a capo del Consiglio nazionale di sicurezza. Prima di lui era arrivato la settimana scorsa il numero uno del Mossad, Yossi Meir Cohen.
   Lo scambio di informazioni sarà cruciale per frenare i Pasdaran. Ma anche per affrontare il secondo fronte ostile, e cioè Turchia, Qatar e Fratellanza musulmana. Gli analisti israeliani sottolineano come le reazioni di Ankara e Teheran all'accordo di pace con gli Emirati siano state dello stesso tono. Subito dopo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha incontrato il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Istanbul. Lo stesso Erdogan ha evocato più volte la necessità di «liberare Gerusalemme». Retorica, propaganda, certo. Ma anche un modo per inserirsi nella spaccatura fra palestinesi e Stati arabi del Golfo.
   Abu Dhabi la giudica una dinamica pericolosa, perché può contare sulle finanze del Qatar, le meglio fornite nel Golfo. Doha finanzia Hamas, ma anche le milizie libiche, Ankara fornisce consiglieri militari, droni, la forza del secondo esercito della Nato. Messi assieme sono due rivali formidabili e questo ha spinto il principe Bin Zayed a osare sempre più.
   Lo Stato ebraico può dargli una grossa mano. I servizi emiratini già collaborano con il Mossad, sottobanco, da anni. Ora è probabile che ricevano supporto tecnologico. Il principe conta sull'ok di Benjamin Netanyahu per l'acquisto dei caccia invisibili americani F-35. Il che farebbe dell'aviazione di Abu Dhabi la seconda più letale in Medio Oriente, dopo quella israeliana. Il premier israeliano ha invitato una delegazione emiratina e precisato che «li accoglieremo con il tappeto rosso». Seguirà la firma degli accordi alla Casa Bianca, a metà settembre. Poi ci sono i dividenti economici. La legge sul boicottaggio contro Israele, che risaliva al 1972, è stata abrogata. Israele è collegata per la prima volta con il Golfo e gli hub aeroportuali che servono tutta l'Asia. Questo significa incrementare il traffico, soprattutto d'affari, e agevolare la trasformazione dell'emirato da rentier petrolifero a snodo del commercio e della finanza.
   Una scommessa che vale forse la rabbia dei palestinesi e il rischio di una fronda interna nel nome della "causa araba".

(La Stampa, 1 settembre 2020)


Israele nella nuova "Nato araba", mirino puntato su Iran e Erdogan

Il primo volo fra Tel Aviv e gli Emirati archivia anche il sogno palestinese di una patria autonoma

di Alberto Negri

Il volo commerciale tra Israele ed Emirati effettuato ieri è sicuramente un evento storico ma anche una storica presa in giro. II nome dell'aereo israeliano scritto sulla fusoliera è quella di una colonia, cioè quello di una terra strappata ai palestinesi, un nome ebraico che ha sostituito quello arabo originale.
   Ma non c'è dubbio che si sia trattato di un volo storico, anche per un altro motivo: l'Arabia Saudita ha concesso il suo spazio aereo, confermando due cose. In primo luogo lo stretto legame tra la monarchia degli Zayed negli Emirati e Riad, dove comanda il principe assassino Mohammed bin Salman, mandante dell'omicidio del giornalista Jamaal Khashoggi. In secondo luogo abbiamo l'indicazione che l'Arabia Saudita, pur con grandi esitazioni, potrebbe in un prossimo futuro seguire gli Emirati e riconoscere lo stato ebraico: un evento epocale perché i sauditi sono i custodi dei luoghi sacri dell'Islam.
   Ma anche restando ai dati attuali non si può non notare che questo accordo tra Israele ed Emirati sta delineando un asse di alleanze in Medio Oriente e nel Mediterraneo di grande rilevanza. Gli Emirati e l'Arabia Saudita, con il pieno appoggio americano, sono tra i maggiori sostenitori del generale egiziano Al Sisi che ha con Israele buoni rapporti nel campo della difesa e dell'intelligence. Questa alleanza che ha avuto e ha ancora il suo campo di battaglia nel sostegno, anche se molto meno convinto di prima, al generale libico Khalifa Haftar _ insieme a Russia e Francia _ fonda il suo collante ideologico nel fronte comune contro i Fratelli Musulmani e in generale contro i movimenti riformisti o rivoluzionari del mondo arabo.
   Ma ha soprattutto come nemico sul terreno la Turchia di Erdogan che si è impadronita della Libia e punta alla risorse energetiche di gas offshore nel Mediterraneo orientale. Non è certo un caso che in questa coalizione anti-turca ci sia in prima istanza la Grecia, avversario storico della Turchia, ma anche la Francia e Israele che hanno espresso solidarietà alle posizioni di Atene. Rafforzate dall'accordo sulle zone economiche speciali nel Mediterraneo proprio tra Grecia ed Egitto, un'intesa del mese di agosto che fa da controaltare a quella tra la Turchia e il governo del presidente Sarraj a Tripoli sulle acque territoriali e che ha poi condotto alla concessione ad Ankara di basi militari navali e aeree.
   Questo asse tra potenze arabe regionali e Israele è già stato definito come una sorta di "Nato araba" a trazione ebraica che oltre alla Turchia ha come avversario l'Iran, fortemente temuto proprio dalle monarchie del Golfo e dallo stesso Israele. Non dimentichiamo che l'anno è cominciato il 3 gennaio con l'assassinio da parte dell'America di Trump del generale iraniano Qassem Soleimani, colpito da i missili di un drone all'aeroporto di Baghdad, in violazione di ogni norma del diritto internazionale.
   Ma anche un altro episodio clamoroso va letto in questa ottica delle coalizioni nascenti: l'immane esplosione il 4 agosto al porto di Beirut. Incidente, attentato sabotaggio che sia, possiamo misurarne in queste ore le conseguenze. Il presidente francese Macron, esponente dell'ex potenza coloniale, si trova a Beirut - dove si è appena insediato il nuovo premier Mustafà Adib - per negoziare con i poteri libanesi ma soprattutto con Hezbollah, il movimento sciita protetto dall'Iran e che aveva proprio nel generale Soleimani un punto di riferimento militare ineludibile. La reazione di Hezbollah è stata interessante: il segretario generale di Hassan Nasrallah, ha aperto alla proposta di Macron di stringere un nuovo patto politico "ma a condizione che la discussione sia condotta con la volontà ed il consenso delle varie fazioni libanesi".
   Le mosse di Macron possono essere lette in due modi. II primo è che l'ex potenza coloniale ridiventa protagonista, si erge a protettrice di cristiani ma riconosce il peso politico di Hezbollah. Il secondo che gli Usa potrebbero essere irritati da queste ingerenze francesi perché il piano americano per il Medio Oriente, appoggiato dalla "Nato araba" e da Israele prevede, oltre all'annullamento dei diritti dei palestinesi, che sia totalmente ridimensionata l'influenza nella regione dell'Iran e dei suoi alleati, a partire da Hezbollah. Per questo gli Usa hanno varato pesanti sanzioni economiche contro Iran e Siria che colpiscono anche il Libano e in generale tutta la "Mezzaluna sciita".
   Ecco perché definire in questo contesto "accordo di pace" quello tra Israele ed Emirati è falso e fuorviante. In primo luogo Emirati e Israele non sono mai stati in guerra e non è previsto nulla che vada incontro alle esigenze di palestinesi e alla soluzione dei due stati: si tratta invece dell'affossamento di queste speranze. E poi in realtà siamo di fronte al varo di una coalizione politica e militare che gli Usa e Israele vorrebbero allargare ad altri stati arabi. Viene chiamata "Nato araba" perché affianca quella originale percorsa da tensioni altissime tra Grecia, Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale.
   Un'alleanza atlantica dove la Germania cerca di ritagliarsi anche a Sud spazi di diplomazia autonomi ma che allo stesso tempo è nel mirino degli americani per il gasdotto Nord Stream II con la Russia e che è stata "punita" da Washington con lo spostamento di truppe americane in Polonia. Questo nasconde lo "storico" volo commerciale Israele-Emirati: allacciate le cinture.

(il Quotidiano, 1 settembre 2020)


Ma ora Israele teme la Turchia: "Erdogan il vero pericolo"

L'intelligence incontra i servizi arabi: "Oggi Iran più fragile. È Ankara la minaccia"

di Marco Ansaldo

Ora Israele teme la Turchia e lavora ad una strategia dotata di almeno tre obiettivi per indebolire Recep Tayyip Erdogan. Perché oggi non è più l'Iran, "potenza ormai declinante", nelle parole del direttore dell'agenzia di intelligence israeliana, Yossi Cohen, la "vera minaccia". Ma un Paese emergente e considerato più pericoloso.
   La recente intesa fra Israele e Emirati Arabi sta aprendo fronti inattesi in Medio Oriente. Altri Stati arabi si preparano all'iniziativa israeliana di un accordo. Ma il governo guarda con preoccupazione ai contatti sempre più frequenti di Ankara con Hamas a Gaza, i Fratelli musulmani in più Paesi arabi e Con i gruppi islamici anche in Galilea, fra gli araboisraeliani. Per non parlare di Gerusalemme Est, la parte palestinese della città, dove nei negozi e ristoranti un tempo si vedevano ritratti di Yasser Arafat ed ora sono stati sostituite da foto del presidente turco, vero anello di congiunzione con il network dei Fratelli musulmani, formidabile in termini di unione spirituale quanto finanziaria. In Galilea e in altre zone di Israele con una forte presenza araba Erdogan pompa fiumi di denaro attraverso le moschee.
   L'allarme, e il cambio di strategia di Gerusalemme, è arrivato in un vertice con i servizi segreti, non a caso di Paesi arabi: gli Emirati, l'Egitto e l'Arabia Saudita, quest'ultima sede del summit. "Il potere iraniano oggi è fragile - ha sostenuto Cohen - la Turchia ha capacità militari ben superiori". E l'intelligence israeliana per depotenziare Ankara si concentra su tre direzioni.
   Il piano discusso ha l'obiettivo di lavorare il "Rais" ai fianchi. La leva principale sono i curdi. I guerriglieri impegnano da quasi 40 anni l'esercito turco nel Sud Est dell'Anatolia in una guerra logorante. Un conflitto endemico, con decine di migliaia di vittime. Israeliani e Paesi arabi sono convinti di poter impegnare le forze armate di Erdogan su più fronti curdi, come Siria e Iraq, per arrivare a sfiancarlo.
   Punto numero due: la Siria di Bashar el Assad, da anni nemico giurato di Erdogan. L'idea è quella di usare, su quel fronte, gli iraniani alleati di Damasco mettendoli contro i turchi, cercando di indebolire ulteriormente Ankara piazzatasi nel nord curdo dopo l'offensiva militare dell'autunno scorso.
   Infine, l'Iraq. Nel nord Ankara intrattiene fruttuose relazioni commerciali con il governo del Kurdistan iracheno. Il sud è in mano agli sciiti, fino iraniani. L'intento è invece di agire sui partiti che rappresentano la comunità sunnita, togliendo alleati ad Ankara, e tentando un ribaltamento a favore degli arabi ora amici di Israele.

(la Repubblica, 1 settembre 2020)


Da 40 anni scomparsi De Palo e Toni. Giallo tra stragi e Olp

di Fulvio Scaglione

Italo Toni e Graziella De Palo
E' il 2 settembre 1980. I giornalisti italiani Graziella De Palo e Italo Toni escono dall'Hotel Triumph di Beirut e salgono su un'auto mandata dall'organizzazione palestinese Al Fatah. Hanno avvertito l'ambasciata d'Italia in Libano: se non torniamo entro tre giorni, venite a cercarci. Infatti non tornano, se ne perde ogni traccia. 2 settembre 2020, oggi: sono passati quarant'anni e la verità sulla sorte dei due giornalisti sembra ancora lontana. De Palo (24 anni) e Toni (50), compagni nella vita e vicini al Partito radicale, erano esperti di politica internazionale e si erano segnalati, poco prima del fatale viaggio in Libano, per inchieste che avevano fatto molto rumore (in particolare su "Paese Sera"). Lei aveva raccontato il traffico delle armi che partivano dall'Italia e, invece che ai destinatari "ufficiali", finivano a terroristi di vario genere, compresi i brigatisti nostrani. Lui aveva descritto i campi di addestramento in cui i miliziani palestinesi si preparavano alla guerriglia. Il viaggio in Libano, organizzato con la collaborazione dei rappresentanti in Italia dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, li portava nel cuore delle loro indagini. Il Paese era devastato dalla guerra civile, dall'ingerenza armata della Siria e dal perpetuo scontro tra i palestinesi e Israele. Ed era l'epicentro, anche spionistico, di una lunga serie di questioni mediterranee.
   Il 2 agosto di quell'anno, inoltre, la strage alla stazione di Bologna, con i suoi 85 morti, aveva sconvolto l'Italia. E tra le tante piste d'indagine era poi spuntata anche quella che legava l'attentato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: poco prima della strage, infatti, un militante del Fronte era stato arrestato a Ortona (Chieti) con due lanciamissili Sam-7 di produzione sovietica. Un intervento che annullava il cosiddetto "logo Moro", ovvero quel tacito patto politico per cui l'Italia sarebbe rimasta al riparo da attentati finché le organizzazioni palestinesi avessero potuto muoversi senza ostacoli nel nostro Paese. Il presidente Cossiga e la Commissione Mitrokhin, in seguito, indicarono proprio nei palestinesi i veri autori dell'attentato a Bologna. E da li a dedurre che il rapimento dei giornalisti italiani, a Beirut, avesse potuto essere una rappresaglia dei palestinesi per la questione dei lanciamissili, il passo era stato breve.
   Comunque sia, quel 2 settembre del 1980 Graziella De Palo e Italo Toni spariscono nel nulla. I palestinesi, che controllano la parte Ovest della città in cui si trova l'albergo dei giornalisti, accusano le milizie cristiane che controllano la parte Est, e viceversa. Nel mezzo la figura del colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut, vecchia conoscenza di Aldo Moro che l'aveva anche nominato due volte nelle lettere scritte prima di essere ucciso dai brigatisti. Giovannone era stato tirato in ballo dalla De Palo nella sua inchiesta sui traffici d'armi ma è proprio a lui che, di fatto, viene assegnato il compito di indagare sulla sorte dei giornalisti. Giovannone diffonde tesi diverse, prima sostenendo che la De Palo è viva, poi che è morta. Nel 1982 la Procura di Roma apre una vera inchiesta giudiziaria ma il colonnello muore a sua volta nel 1985, quando è in attesa di giudizio.
   Della sorte dei due giornalisti italiani oggi non sappiamo molto più di allora. Inchieste giornalistiche e libri sono stati scritti negli anni, senza però venire a capo del mistero. Nel 1984 il Governo Craxi appose all'inchiesta il segreto di Stato, in seguito prorogato dal Governo Berlusconi. Nel 2014, essendo trascorsi i trent'anni previsti come limite massimo a tale provvedimento, una parte dei documenti è stata desecretata. Non però le carte decisive. Tanto da spingere la Federazione Nazionale della Stampa, il 25 giugno di quest'anno, a chiedere il sequestro presso la presidenza del Consiglio di tutti gli atti relativi all'inchiesta.
   A non arrendersi mai, in questi quarant'anni, sono stati i familiari dei due giornalisti, insieme ad alcuni esponenti politici e intellettuali. Nel dicembre del 2019, su richiesta loro e di alcuni colleghi di Graziella De Palo e Italo Toni, la Procura di Roma ha accettato di riaprire le indagini. L'esperienza non insegna a essere ottimisti. Ma la tenacia di chi cerca la verità si è mostrata più forte di tante, troppe delusioni.

(Avvenire, 1 settembre 2020)


Partito primo volo commerciale Israele-Emirati, sorvolerà l'Arabia Saudita

di Giacomo Kahn

 
 
E' partito alle 11:21 ora locale (10:21 ora italiana) il primo volo commerciale diretto di una compagnia di bandiera israeliana, la El Al, tra Tel Aviv e Abu Dhabi. A bordo del volo LY971 ribattezzato 'Aereo della pace', che per la prima volta sorvolerà lo spazio aereo saudita, una delegazione di funzionari israeliani e americani, che ad Abu Dhabi incontreranno una serie di rappresentanti locali per discutere i dettagli dello storico accordo di pace tra i due Paesi. "Per la prima volta, un aereo registrato in Israele sorvolerà l'Arabia Saudita e, dopo un volo non-stop da Israele, atterrerà negli Emirati Arabi Uniti", ha detto il capitano Tal Becker. "Siamo tutti entusiasti e non vediamo l'ora di altri voli che ci porteranno in altre capitali della regione, conducendoci verso un futuro più prospero", ha aggiunto.
   Della delegazione americana fanno parte, tra gli altri, il genero e consigliere di Donald Trump, Jared Kushner, e il consigliere per la sicurezza nazionale, Robert O'Brien. "Stiamo per imbarcarci su un volo storico, il primo volo commerciale della storia tra Israele e un paese arabo del Golfo", ha detto Kushner dall'aeroporto di Ben Gurion prima di salire sull'aereo. "Anche se questo è un volo storico, speriamo che inizi un viaggio ancora più storico per il Medio Oriente e oltre", ha aggiunto. Presente anche il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati Sheikh Tahanon Ben Zayed. Il Boeing 737 che trasporterà la delegazione è equipaggiato con un sistema di difesa missilistico e riporta la scritta "Hello" in ebraico, arabo e inglese sullo scafo. L'atterraggio ad Abu Dhabi è previsto attorno alle 14 e 30. Secondo l'emittente Kan, il ministro degli Affari esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash sarà all'aeroporto per accogliere il volo. Secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, ad Abu Dhabi potrebbero arrivare anche emissari sauditi perche' Kushner vorrebbe convincere l'Arabia Saudita a partecipare alla cerimonia di firma alla Casa Bianca, prevista ad ottobre, dell'accordo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.

(Shalom, 31 agosto 2020)



Netanyahu: basta ai veti palestinesi

Il premier israeliano ribadisce il piano di pace di Trump con gli arabi

'L'Accordo di Abramo 'ha rimosso il veto palestinese ad una pace tra Israele e i Paesi Arabi. Alla vigilia del primo volo commerciale con gli Emirati, il premier Benyamin Netanyahu e il consigliere di Trump Jared Kushner hanno rivendicato in conferenza stampa da Gerusalemme la validità dell'Intesa raggiunta di recente con i Paesi del Golfo, prima di una serie di altri che verranno presto e che "diventeranno la norma". "Per lungo tempo i palestinesi - ha detto il premier israeliano - hanno avuto un veto sulla pace tra Israele e i Paesi arabi. Se avessimo aspettato loro avremmo aspettato per sempre". Invece, ha confermato, sul tavolo non ci sono solo gli incontri avuti negli ultimi anni con dirigenti dell'Oman, del Chad e del Sudan - "la parte minore dei passi resi pubblici" - ma "molti ancora, con altri leader islamici, finora non divulgati". Il piano di pace di Trump che ha portato all'Accordo e alla rinuncia per ora di Israele alle annessioni di parti della Cisgiordania - ha incalzato Kushner - è "uno scenario realistico e pragmatico, basato su fatti che esistono sul terreno... L'offerta fatta ai palestinesi è generosa. Quando saranno pronti a fare la pace, ora hanno l'opportunità". Trump ha "scritto il copione per un nuovo Medio Oriente", ha proseguito Kushner dicendo di "sentire un nuovo senso di ottimismo" che porterà "a nuovi accordi". Per questo Netanyahu ha ribadito che Israele è "disponibile" sulla base del Piano a colloqui con i palestinesi che si sono messi "a margine" con il loro rifiuto".
   A suggellare quell'Accordo di Abramo sarà dunque oggi alle 10.30 (ora locale) il decollo del primo volo commerciale - ma dotato di opportune difese secondo i media - per i Paesi del Golfo con a bordo la delegazione Usa (oltre Kushner, anche il responsabile della Sicurezza Nazionale Usa Robert O'Brien e l'inviato speciale per i negoziati internazionali Avi Berkowitz.). Quella israeliana sarà guidata dal capo della Sicurezza Nazionale Meir Ben-Shabbat; insieme a loro la stampa israeliana. Il volo della El Al (sigla LY971, in omaggio al prefisso telefonico internazionale degli Emirati, e con la carlinga griffata dalla scritta 'Pace' in arabo, ebraico e inglese) andrà ad Abu Dhabi e potrà vantare un'altra eccezione se sarà confermata come sembra la rotta: il primo velivolo israeliano a sorvolare lo spazio aereo dell'Arabia Saudita con cui Israele non ha relazioni diplomatiche. Al ritorno, lo stesso volo porterà la sigla di LY972, in omaggio al codice telefonico israeliano. I colloqui ad Abu Dhabi riguarderanno la cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità energia ma non la sicurezza. L'ufficio di Netanyahu ha fatto sapere che i rappresentanti della difesa e dei servizi di sicurezza andranno ad Abu Dhabi nelle prossime due settimane.

(America Oggi, 31 agosto 2020)



Palestinesi che condannano la crescita dei "sionisti arabi"

di Ryan Jones

Piaccia o no, molti arabi hanno convissuto per anni con gli ebrei e si godono persino la vita in Israele
Saeb Erekat
La risposta dei funzionari dell'Autorità Palestinese all'annunciata normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti fa capire ancora una volta che il loro obiettivo finale non è la vera pace e la convivenza.
  Mentre gran parte del resto del mondo arabo ha apertamente appoggiato l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, i funzionari di Ramallah hanno avuto soltanto scoppi di collera, e nessuno più del capo negoziatore dell'Autorità Palestinese (AP) Saeb Erekat.
  In un articolo intitolato "La nascita dei sionisti arabi", pubblicato questa settimana sul sito ufficiale dell'OLP (ricordate, l'AP è soltanto una facciata dell'OLP), Erekat si è lamentato dicendo che quelli del mondo arabo che sostengono l'accordo, "glorificano Israele, la sua libertà e il suo progresso".
  Come ogni regime dispotico, quello che teme di più la leadership palestinese è che ci siano arabi che apertamente riconoscono che la vita sotto il dominio israeliano, anche se si tratta di una "occupazione", è migliore di quella che stanno sopportando attualmente gli altri palestinesi. D'altra parte, perché arrabbiarsi perché altri arabi semplicemente riconoscono il dato di fatto della libertà e delle conquiste di Israele? Le uniche spiegazioni che vengono in mente sono:
  1. L'Autorità Palestinese è invidiosa e gelosa di Israele; oppure
  2. non vuole che il palestinese medio abbia un'idea positiva di come potrebbe essere il suo futuro in uno stato palestinese.
 La questione palestinese è caduta
  Erekat è stato almeno abbastanza onesto da riconoscere che molti nel mondo arabo sono stufi della questione palestinese.
  "Alcuni arabi hanno persino detto che "la Palestina non è affar mio" e che "Israele è un alleato leale", ha sospirato Erekat. "Insultano anche il popolo palestinese per la sua mancanza di lealtà, la sua ingratitudine e la corruzione dei leader palestinesi, tutto perché il popolo palestinese insiste per portare a termine l'iniziativa di pace araba".
  No, signor Erekat, non è per questo che così tanti nel mondo arabo stanno abbandonando la causa palestinese. Nel caso l'avesse dimenticato, vorrei ricordarle le aspre critiche del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman nel 2018:
  "Negli ultimi 40 anni, la leadership palestinese ha ripetutamente perso opportunità e rifiutato tutte le offerte loro fatte. È tempo che i palestinesi accettino le offerte e acconsentano a venire al tavolo delle trattative - o tacciano e smettano di lamentarsi".
  O quello che ha detto lo scrittore saudita Abdulhameed Al-Ghobain in un'intervista con BBC Arabic all'inizio di quest'anno:
    "Oggi il pubblico è informato. C'è un diluvio di opinioni contro i palestinesi ... [che] non hanno contribuito a nulla. Si può dire che sono persone emotive il cui comportamento è determinato dai loro sentimenti".
Signor Erekat, molti dei suoi fratelli arabi sono semplicemente stufi di questo gioco. Contrariamente ai palestinesi, molti arabi hanno da tempo accettato che Israele non scomparirà e quindi non sono più interessati a un "processo di pace" che indebolirà lo Stato ebraico. Il sogno di Arafat di negoziare ciò che non poteva essere ottenuto sul campo di battaglia, vale a dire la distruzione di Israele, è finito. Purtroppo, i palestinesi sono gli ultimi a svegliarsi.
  Il resto del mondo arabo ha altri interessi e sa che il modo migliore per raggiungerli è lavorare con Israele.
  Inoltre, signor Erekat, con il suo sostegno ai Fratelli musulmani, all'Iran e all'Iraq di Saddam Hussein, che erano o sono tuttora nemici del resto del mondo musulmano sunnita, certamente lei non si è guadagnato degli amici. E non parleremo nemmeno di come la precedente aggressione dell'OLP abbia portato morte e distruzione in Giordania e in Libano.
  A meno che non voglia nascondere la testa sotto la sabbia, lei non può davvero essere sorpreso dalla crescente ostilità araba verso la causa palestinese.

(israel heute, 31 agosto 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Ucraina e antisemitismo: scontri fra chassidim Breslov e residenti a Uman

È accaduto nel corso dell'annuale pellegrinaggio a Uman sulla tomba di Rabbi Nachman.

di Roberto Zadik

Ogni anno nel periodo di Rosh haShanà, una delle ricorrenze più solenni del calendario ebraico, migliaia di ortodossi israeliani del movimento Breslov e di ebrei da vari Paesi del mondo si recano a Uman, cittadina ucraina, famosa per la tomba di Rabbi Nachman di Breslov. Bisnipote del Baal Shem Tov, carismatico maestro e mistico, vissuto solo 38 anni e scomparso nel 1810, i suoi insegnamenti - espressi nella sua opera più famosa Likutei Moharan - mescolano gioia e rigore nel rispetto dei precetti. Ogni anno sono sempre di più, israeliani e no, specialmente giovani, coloro che diventano membri nel movimento dei suoi seguaci, i chassidim Breslov.
  Ma quest'anno il consueto e affollatissimo pellegrinaggio è stato teatro, già dalla fine di questo mese di agosto, di scontri fra i chassidim del movimento Breslov con la popolazione locale ucraina residente a Uman nelle vicinanze della tomba del Maestro chassidico. A darne notizia il sito Jewishpress.com che, con tanto di video (ved. a lato) ha documentato l'accaduto in un articolo di David Israel. Le proteste sono state ricostruite da un breve filmato, davvero sgradevole, che testimonia l'antisemitismo ancora presente in Ucraina e nella città di Uman, dove già negli anni scorsi la tomba di Rabbi Nachman era stata vandalizzata diverse volte.
  Il filmato è stato pubblicato su Twitter da Eduard Dolinsky, direttore generale del Comitato ebraico ucraino, organizzazione situata a Kiev, e testimonia lo spiacevole episodio in cui un gruppo di chassidim Breslov, dopo essersi recati a Uman per le consuete celebrazioni di Rosh haShanà sono stati subito osteggiati dall'insofferenza della popolazione locale. Originariamente il video è stato postato da Sergiy Alekseev membro del Consiglio cittadino di Uman, deputato del partito politico nazionalista e di estrema destra Svoboda, noto per le sue posizioni antisemite.
  Come la Lituania, anche l'Ucraina ha una storia ebraica particolarmente difficile e Rabbi Nachman, nella sua breve vita, soffrì anche per diversi episodi di antisemitismo, scegliendo di morire a Uman, che anni prima era stata bersaglio di uno spaventoso massacro (pogrom) da parte dei Cosacchi e di diverse persecuzioni. Purtroppo dopo due secoli non sembrano esserci stati grandi miglioramenti. A questo proposito, sempre secondo Jewishpress, Dolinsky ha sottolineato che questi disordini sono avvenuti nello stesso periodo in cui ricorre il 79esimo anniversario della strage di Kamenetz Podolsk in cui, dal 26 al 29 agosto del 1941, oltre 23mila ebrei vennero massacrati.
  Nel suo resoconto storico, ha ricordato il ruolo dei nazisti capeggiati dal generale Friedrich Jeckeln che, con la spietata cooperazione dei soldati ungheresi e della polizia ausiliaria ucraina, uccise tutta la popolazione del Ghetto ebraico di Kamenets, compresi gli ebrei ungheresi che erano stati espulsi dal Paese.
  Tornando ai disordini presenti, sempre lo stesso sito ha raccontato le tensioni dei giorni scorsi fra il Governo Ucraino e Israele in vista di questo pellegrinaggio e il divieto emesso per un mese, dal 29 agosto al giorno di Kippur 28 settembre, delle autorità locali ucraine di qualsiasi ingresso nel Paese dall'esterno, per timore di un aumento di casi di Covid. Questa però secondo Jewishpress sarebbe stata una "scusa" delle autorità per impedire l'arrivo in massa a Uman e nel Paese di migliaia di Chassidim diretti verso la tomba di Rabbi Nachman.
  La settimana scorsa il presidente ucraino Zelensky, di origine ebraica, avrebbe cercato di "smorzare" la tensione incontrando i rappresentanti delle organizzazioni ebraiche del Paese e discutendo con loro le problematiche organizzative di questo pellegrinaggio dei Breslov e l'applicazione di misure restrittive sui raduni di massa a Uman. Durante l'incontro, concordi con quanto stabilito dal presidente, diversi esponenti del mondo religioso locale come Rav Meir Stambler, Rabbino a capo del Concilio delle Federazioni delle Comunità ebraiche ucraine, che ha ricordato l'importanza della tutela della vita e della salute, secondo la Torah e Rabbi Yaakov Dov Bleich Rabbino Capo di Kiev che ha definito fondamentale la regolamentazione normativa di questa situazione. Nonostante questo ha specificato che queste restrizioni devono valere non solo per pellegrinaggi dall'esterno ma anche per quelli interni al Paese. Tutto questo fino all'arrivo dei primi gruppi Breslov nel Paese e i disordini di venerdì scorso.

(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2020)


Libano: la mossa di Hezbollah la mano a Macron

di Lorenzo Cremonesi

L'annuncio sembrerebbe capace di stravolgere la scena politica libanese. «Siamo pronti ad un nuovo patto politico, a condizione che sia discusso tra tutte le componenti libanesi», dichiara in un proclama pubblico Hassan Nasrallah. Il leader indiscusso del partitomilizia sciita Hezbollah («Il Partito di Dio») sembra così andare per la prima volta incontro alle richieste dei manifestanti di Beirut, che dopo la terrificante esplosione del 4 agosto inneggiavano alla «rifondazione dello Stato contro i partiti corrotti». E soprattutto tende la mano ad Emmanuel Macron, che, due giorni dopo il disastro, visitando le rovine attorno al porto della capitale aveva appunto parlato della necessità di rifondare radicalmente il sistema di governo libanese. Il presidente francese tornerà a Beirut nelle prossime ore. Nasrallah lo accoglierà con tutti gli onori. «Abbiamo udito l'appello di Macron durante la sua ultima visita e siamo pronti a discutere in modo costruttivo sul tema».
   Tuttavia, le prime reazioni tra le comunità cristiana, sunnita e in generale l'intellighenzia laica sono di estremo scetticismo. «Tutto cambia perché nulla cambi?», si chiedono polemici i reporter del quotidiano cristiano L'Orient-Le Jour. Pare molto difficile che Hezbollah possa accettare di minare le fondamenta confessionali della sua legittimità politica, create ai tempi degli accordi di Taif con la partecipazione siriana nel 1990, per soddisfare Parigi e le piazze, al momento tornate silenziose. Tra i temi più contestati, il diritto di Hezbollah di mantenere milizie armate e addestrate dall'Iran. I sospetti che avesse armi al porto sono diffusi. I suoi sponsor a Teheran sono isolati, in piena crisi economica, marginalizzati dal recente accordo di pieno riconoscimento tra Israele ed Emirati. Nasrallah necessita di alleati Nei prossimi giorni dovrebbe venire nominato un nuovo premier. Un accordo con Parigi e l'Europa potrebbe fargli comodo per arginare la politica Usa in Medio Oriente e guadagnare tempo, nella speranza che Trump perda le elezioni.

(Corriere della Sera, 31 agosto 2020)


XXI Giornata Europea della Cultura Ebraica

Comunicato EDIPI

Domenica 6 settembre si celebrerà la XXI Giornata Europea della Cultura Ebraica in 32 paesi dell'Europa e per l'Italia in ben 90 località diverse tra grandi e piccole.
Roma sarà la città capofila sviluppando la tematica "PERCORSI EBRAICI". Sarà comunque, nel suo complesso, una celebrazione particolare a causa dell'emergenza sanitaria, per cui molti eventi ed iniziative saranno organizzati fuori dagli schemi tradizionali.
Padova, Venezia, Ferrara, Bologna e Mantova al Nord, Firenze, Pisa in Toscana e Lecce con Palermo al Sud presenteranno programmi particolari e tradizionali; senza dimenticare piccole località ma ricche di storia ebraica come Pitigliano, Soncino e Sabbioneta.
Tutte le località, con significativa presenza di associati EDIPI, assisteranno alla gradita sorpresa di una distribuzione gratuita di alcune copie della nostra attività editoriale.

(EDIPI, 31 agosto 2020)


Israele spera di fare la firma dell’accordo con gli Emirati entro metà settembre

GERUSALEMME - Israele spera di tenere una cerimonia per la firma dell'accordo di normalizzazione delle relazioni con gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington. Lo ha annunciato oggi il ministro della Cooperazione regionale di Israele, Ofir Akunis. La data per un tale evento dovrebbe essere decisa durante i colloqui ad Abu Dhabi tra i funzionari emiratini e la delegazione israelo-statunitense che partirà domani alla volta degli Emirati al volo del primo volo diretto tra i due Paesi. Alla visita parteciperà anche il consigliere e genero del presidente Donald Trump, Jared Kushner. Akunis ha aggiunto che il governo Netanyahu spera che la cerimonia si svolga "prima del nostro Rosh Hashanah" o capodanno ebraico, che cade il 18 settembre. Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato il 13 agosto che avrebbero normalizzato le relazioni diplomatiche in un accordo mediato dagli Stati Uniti. Ieri, 29 agosto, il presidente della federazione emiratina Khalifa bin Zayed al Nahyan ha firmato un decreto che abolisce il boicottaggio economico contro Israele, consentendo accordi commerciali e finanziari tra i due Paesi.

(Agenzia Nova, 30 agosto 2020)


Israele spezza la linea saudita

I palestinesi si sentono traditi: per loro in passato Riad chiedeva un Paese, gli Emirati ora no

di Davide Frattini

Le racchette da tennis servono per la copertura, le fasce di spugna raccolgono il sudore sulla fronte. Le goccioline sono vere anche se tutto il resto attorno è falso: la tensione di interpretare per qualche ora il ruolo di agenti del Mossad strizza i nervi e i pori. L'escape room tra le colline della Galilea, verso il confine con il Libano, promette di ricostruire il percorso e restituire l'adrenalina di una missione del 2010 in un hotel di Dubai: a giudicare dai sorrisi soddisfatti pubblicati su Facebook gli 007 israeliani del fine settimana sembrano avere in media più successo della squadra di 27 tra uomini e donne che partecipò all'operazione nel gennaio di dieci anni fa.
   Com'è normale i capi dell'Istituto non hanno mai ammesso di aver organizzato e perpetrato l'assassinio del palestinese Mahmoud al-Mabhouh, considerato il collegamento tra Hamas e gli iraniani, incaricato di fornire le armi e le tecnologie per accrescere l'arsenale del organizzazione fondamentalista che spadroneggia sulla Striscia di Gaza. Sono stati i poliziotti degli Emirati Arabi — con l'aiuto dell'intelligence occidentale — a mettere insieme i pezzi e le riprese delle telecamere di sorveglianza fino a stabilire che i passaporti tedeschi, britannici, irlandesi, francesi, australiani usati dagli operativi israeliani erano contraffatti quanto i turisti che li avevano mostrati ai doganieri. Il raid nel cortile di casa luccicante di grattacieli ha offeso e irritato lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il principe ereditario che guida la monarchia del Golfo, e ha interrotto per un anno e mezzo il dialogo segreto che ha portato in queste settimane a una svolta definita «storica» dal presidente Donald Trump attraverso il suo megafono preferito, Twitter.
   Il governo di Benjamin Netanyahu e lo sceicco hanno infatti appena definito un'intesa che porterà alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Quando i primi turisti potranno arrivare dagli Emirati, è improbabile che raggiungano la Galilea per tentare la sorte nella escape room. L'accordo ribalta la formula che fino a ora i Paesi arabi hanno voluto imporre: nella proposta presentata a George W. Bush nel 2002 l'Arabia Saudita indica i passi per arrivare all'apertura di relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Il primo — e imprescindibile — era la firma di un trattato di pace con i palestinesi che portasse alla nascita di uno Stato dentro i confini del 1967, i territori catturati ai giordani da Israele nella guerra dei Sei giorni, con capitale a Gerusalemme Est. Cambiano i presidenti americani e la situazione in Medio Oriente. Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale «indivisa» di Israele e ha presentato il suo piano per arrivare all'«accordo del secolo». I Paesi sunniti sono preoccupati da quella che considerano la minaccia iraniana — l'espansionismo sciita nella regione — e molto meno dall'avanzare della causa palestinese. Così Mohammed bin Zayed Al Nahyan ha ottenuto come contropartita da Netanyahu l'impegno a fermare l'annessione di parte della Cisgiordania: non più terra in cambio di pace — secondo lo schema dei sauditi — ma pace in cambio della rinuncia a una promessa da campagna elettorale.
   In mezzo è rimasto Abu Mazen, il presidente palestinese che si è sentito «pugnalato alle spalle» dal reggente degli Emirati: due volte, perché il bersaglio sulla schiena sembra disegnato da Mohammed Dahlan, almeno ad ascoltare le teorie della cospirazione che circolano nel palazzo presidenziale a Ramallah. Ex capo della sicurezza preventiva a Gaza (si è fatto portare via la Striscia da Hamas), assistente dello stesso Abu Mazen, è diventato il suo principale rivale, in corsa per la successione fino a quando non è stato costretto a lasciare la Cisgiordania dopo avere passato ai giornali arabi le carte che accusano di corruzione i due figli del rals.
   Dahlan si è insediato negli Emirati dove è diventato amico e consigliere del principe ereditario, ha ammassato una fortuna e a quanto pare l'influenza per ispirare le scelte diplomatiche. Le trattative tra israeliani e palestinesi sono congelate (ormai ibernate) dal 2024. Abu Mazen ha interrotto i rapporti anche con gli inviati di Trump, non considera più gli Stati Uniti un mediatore imparziale, forse aspetta una possibile vittoria di Ice Biden. A 84 anni, fumatore accanito e incallito con problemi di cuore, non ha mai voluto affrontare la questione della sua successione. Il «tradimento» ha allontanato ancora di più Dahlan dall'anziano leader ma potrebbe averlo avvicinato a prenderne lo scettro.

(Corriere della Sera, 30 agosto 2020)



Stop degli Emirati arabi al boicottaggio di Israele

Dopo l'accordo mediato dagli Stati Uniti

Il presidente degli Emirati arabi uniti, lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, ha emesso un decreto con il quale il Paese mette formalmente fine al boicottaggio del Paese nei confronti di Israele. Lo riferisce l'agenzia di Stato Wam. Il provvedimento arriva dopo l'accordo, mediato dagli Stati Uniti, tra gli Emirati arabi e lo Stato ebraico volto a normalizzare le relazioni tra i due Paesi. Il decreto permette ai cittadini e alle aziende israeliane di fare affari negli Emirati arabi uniti e fa si che si possano commerciare e acquistare beni prodotti nello Stato ebraico. Secondo l'agenzia di stampa statale Wam, insieme al provvedimento viene presentata anche una sorta di road map con la quale si regolano le tappe per sviluppare le relazioni tra i due Paese attraverso la crescita economica ed il sostegno all'innovazione tecnologica. Con l'accordo realizzato attraverso la mediazione di Washington, Israele ed Emirati avevano stabilito di voler normalizzare le proprie relazioni diplomatiche.

(il Giornale, 30 agosto 2020)


Continuano le ostilità tra Hamas e Israele

L'Esercito israeliano ha affermato di aver colpito obiettivi militari appartenenti ad Hamas, ufficialmente detto il Movimento Islamico di Resistenza, lungo la Striscia di Gaza con i propri carrarmati, il 30 agosto, dopo aver constatato il perdurare di attacchi compiuti per mezzo di palloni gonfiabili incendiari lungo il confine. Fonti palestinesi hanno poi specificato che i colpi d'artiglieria sferrati da Israele sono stati indirizzati verso un centro di controllo a Est di Khan Younis e in direzione Est rispetto a Deir al-Balah, due città situate rispettivamente a Sud e al centro della Striscia di Gaza, controllata dal Movimento Islamico di Resistenza.
   Una dichiarazione dell'Esercito israeliano ha rivelato, nelle prime ore del 30 agosto, che il Sud di Israele aveva subito attacchi per mezzo di dispositivi rudimentali aerei esplosivi e incendiari, nel corso della giornata del 29 agosto, i quali, tuttavia, non avevano causato vittime. Secondo i vigili del fuoco Israeliani, tale tipo di ordigni che vengono realizzati per sorvolare il confine di recente hanno causato oltre 400 incendi nel Sud del Paese, dove avrebbero altresì distrutto ampi appezzamenti di terreni coltivati. Israele ha più volte risposto a tali attacchi in più forme, principalmente con raid aerei, e, dallo scorso 6 agosto, le operazioni dell'Esercito israeliano contro Gaza sono avvenute a cadenza pressoché giornaliera.
   Oltre alle ripercussioni armate, il governo di Tel Aviv ha anche dato una dura stretta sui blocchi imposti al territorio palestinese sin dal 2007. Lo scorso 11 agosto, Israele aveva dapprima chiuso il transito commerciale di Kerem Shalom, uno dei tre passaggi principali della Striscia di Gaza verso Israele ed Egitto, impedendo l'attraversamento di qualsiasi bene, fatta eccezione per aiuti umanitari essenziali e carburante, per poi interrompere definitivamente anche il passaggio di quest'ultimo, il 13 agosto. Tre giorni dopo, Israele aveva poi deciso di chiudere totalmente l'area di pesca nella Striscia di Gaza, con effetto immediato e fino a nuova comunicazione, nonostante in precedenza avesse già posto delle limitazioni in tal senso, adottando così un'ulteriore misura restrittiva e di punizione contro il territorio.
   In tale quadro, il 18 agosto, la compagnia di distribuzione di elettricità ha annunciato che le operazioni dell'unica centrale elettrica presente nell'enclave costiera sono state sospese, dopo che le riserve di carburante necessarie al suo funzionamento sono terminate. Tali azioni si sono rivelate particolarmente dannose per la Striscia di Gaza, la quale dipende da Israele per la maggior parte del proprio fabbisogno di gas e carburante.
   A tal proposito, sempre il 30 agosto, il capo dell'Ufficio politico di Hamas, Ismail Haniya, ha affermato che la sua organizzazione non desisterà dal richiedere la fine del blocco posto sulla Striscia di Gaza e ha aggiunto che la sua organizzazione sta seguendo con attenzione la situazione riguardante la comunicazione e la mediazione nella quale sono coinvolte più parti.
   Al momento, una delegazione egiziana sta cercando di ripristinare il dialogo tra le parti, nella speranza di porre fine al blocco imposto sul territorio in questione e di ridurre le crescenti tensioni tra le parti. Anche l'inviato del Qatar a Gaza, Mohammed al-Emadi, si è unito al gruppo di mediazione, dopo aver consegnato, il 26 agosto scorso, l'ultima tranche dei 30 milioni di aiuti devoluti, dal 2018, dal proprio Paese alla Striscia di Gaza. In tale occasione, al-Emadi si era poi recato a Tel Aviv dove aveva incontrato funzionari israeliani, i quali, secondo alcune fonti, si sarebbero detti disposti a consentire il passaggio di carburante necessario alla riattivazione dell'impianto energetico di Gaza se venissero interrotti gli attacchi con palloni incendiari.

(Sicurezza Internazionale, 30 agosto 2020)


Hezbollah: pronti a discutere un patto politico in Libano

BEIRUT - Hezbollah è pronto a discutere di un nuovo "patto politico" in Libano, proposto dalla Francia: lo ha detto Hassan Nasrallah, leader della formazione filo-iraniana. "Siamo aperti a qualsiasi discussione costruttiva sull'argomento ma a condizione che sia volontà di tutti i partiti libanesi", ha detto in un discorso il segretario generale di Hezbollah, riferendosi all'appello fatto dal presidente francese Emmanuel Macron, atteso domani a Beirut per la seconda volta dopo la devastante esplosione del 4 agosto.

(Corriere Quotidiano, 30 agosto 2020)


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Nasrallah: la Resistenza continuerà a combattere i nemici

La resistenza islamica continuerà ad esistere malgrado tutti gli sforzi dei nemici. A dirlo è il segretario generale di Hezbollah, Sayyed Hasan Nasrallah, in occasione dell'Ashura, anniversario del martirio dell'Imam Hussein (AS). "E' in corso una vera e propria guerra mediatica contro Hezbollah. I nemici spendono decine di milioni e milioni di dollari per creare e diffondere notizie contro il movimento della resistenza, utilizzano ogni mezzo per influenzare l'opinione pubblica", ha aggiunto.
Nasrallah ha così parlato di una nuova fase di guerra contro Hezbollah: "grazie ai soldi dei regimi arabi del Consiglio di cooperazione del Golfo Persico, la fabbrica delle fake news non si ferma; continua a pubblicare notizie avvelenate contro Hezbollah".

(Pars Today, 30 agosto 2020)


Kappler a Gaeta tra carbonara e pesci tropicali

E poi il violino, gli attendenti camerieri, le visite dei politici austriaci e le iscrizioni runiche disegnate sui muri. Quella del boia nazista, responsabile delle Ardeatine, fu una detenzione dorata. Con vista sul golfo. Le persone addette al suo servizio dovevano indossare scarpe da ginnastica per non fare rumore e non disturbarlo mentre scriveva a macchina.

di Clemente Pistilli

Sembra di immaginarlo, il boia, mentre passeggia in vestaglia dentro la sua stanza. Un occhio all'acquario dei pesci tropicali l'altro all'orologio, in attesa del pranzo che di lì a poco gli verrà servito dal suo attendente. Il boia è Herbert Kappler e la sua stanza è la cella nel carcere di Gaeta. Carcere si fa per dire visto che il criminale di guerra tedesco, responsabile tra l'altro dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro era riuscito, avvalendosi dello status di "prigioniero di guerra" e avendo mantenuto il grado di "tenente colonnello", a garantirsi condizioni di vita invidiabili oltre a un certo livello di libertà individuale.
   A riportare alla luce la storia della "prigionia dorata" dell'uomo che dettò a Erich Priebke la lista degli italiani da decimare in via Rasella è l'ultimo tassello di un lavoro in progress di Nicola Ancora, storico contemporaneo presso il museo dell'ex carcere militare, grazie al quale è stato possibile ricostruire la lussuosa quotidianità dell'ufficiale che continuava a ricevere la pensione dalla Germania e spediva a casa cartoline di saluto dal mare di Gaeta e che soprattutto — come si evince da alcune iscrizioni runiche che si permise di incidere, a futura memoria, nei corridoi del carcere — mai si penti del suo operato né mai rinnegò la fede nazista.
   Le più recenti scoperte dicono che Kappler, come l'altro criminale nazista detenuto nel castello angioino di Gaeta, Walter Reder, responsabile tra l'altro delle stragi di Marzabotto e Vinca, aveva a sua completa disposizione una spaziosa stanza con terrazza vista sul golfo, ambienti ristrutturati di fresco, attorno alla metà del 1940, con bagno privato, riscaldamento (una stufa elettrica), una macchina da scrivere, abbondante cancelleria, piante ornamentali. Oltre ai due acquari — di cui si era già a conoscenza — in cui allevava amorevolmente piccoli pesci tropicali, una ricca libreria e strumenti musicali. Amava suonare il violino. E andare a fare il bagno al mare, anche se, in questo caso, doveva sopportare l'incomodo di una scorta personale.
   I due avevano potuto mantenere i gradi e li facevano pesare. Disponevano di due attendenti militari, dei camerieri in divisa, dai quali si facevano assistere nelle piccole incombenze di ogni giorno, comprese il bucato e la cucina. Dagli studi di Ancora emerge che Kappler fosse goloso, in particolare, della carbonara preparata da un sottufficiale siciliano condannato per insubordinazione. Col tempo, il loro potere interno al carcere divenne tale che i due riuscirono a imporre che le persone addette al loro servizio indossassero scarpe da ginnastica al posto di quelle di cuoio, perché il rumore dei tacchi — dicevano — li disturbava mentre scrivevano. Già, scrivevano molto, i due. E potevano inviare lettere e cartoline senza nemmeno pagare la relativa tassa postale. Kappler, dopo una corrispondenza epistolare durata due anni, nel 1972 sposò all'interno del castello angioino Anneliese Wenger, infermiera ed ex moglie divorziata del capitano della Wehrmacht, Karl Walther. Un matrimonio celebrato in una stanza vicina a quella del comandante della struttura carceraria e con testimone di nozze lo stesso Reder. Anneliese si recava speso a Gaeta a trovare il marito, scendeva in una pensione lì vicino e poi si intratteneva con il marito all'interno del castello-carcere.
   Dalle ricerche di Ancora emerge che i contatti con la Germania erano continui e frequenti. I due criminali nazisti, che tra di loro mantenevano un certo distacco, dandosi del lei, ricevevano poi spesso visite di politici austriaci e pacchi di cibo, documenti e libri. Traccia di una inquietante attività intellettuale i cui segni sono a tutt'oggi visibili: sui muri della prigione, poco fuori dalla sua stanza Kappler incise delle rune. E fa impressione pensare che il responsabile delle Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro sia stato lasciato libero di utilizzare la scrittura pagana per eccellenza, cara ai nazisti, in un carcere militare italiano dove si trovava condannato all'ergastolo e in cui erano detenuti. — in ben altre condizioni — altri militari italiani, condannati per insubordinazione o per obiezione di coscienza in quanto testimoni di Geova. Quelle scritte sono state oggi decifrate dal lavoro di Ancora. Il tenente colonnello delle SS incise una triade runica ai piedi di un arco che dà verso il comando dell'ex carcere. Si tratta delle rune Isa, Kenaz ed Othilaz, sopra le quali campeggia una svastica, inscritta in un cerchio, mentre sulla destra c'è la parola Karm (karma). Isa simboleggia la stasi, dunque l'arresto, Othilaz, l'ultima runa, la liberazione dal karma, l'eredità, la casa, i beni materiali, e la runa centrale è Kenaz, un catalizzatore, che secondo lo studio di Ancora simbolicamente rappresenta Kappler medesimo, il quale, incidendo tale talismano runico, avrebbe espresso il desiderio di andare via e tornare in Germania. Proprio quello che il tenente colonnello riuscirà a fare aiutato dalla moglie Anneliese Wenger, dopo che nel 1977, vittima di un tumore al colon, su ordine del ministro della difesa Arnaldo Forlani e dopo tante pressioni da parte delle autorità tedesche, venne trasferito al Policlinico militare Celio di Roma, da cui fuggì. Reder, rinchiuso a Gaeta nel 1951, ne uscì invece nel 1985, quando venne estradato in Austria con un volo di Stato. Entrambi restando nazisti fino alla morte.

(la Repubblica, 30 agosto 2020)



Grazia a buon prezzo

La grazia a buon prezzo è giustificazione del peccato, non del peccatore.
    Subito dopo [Gesù] ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla.
    Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù.
    La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario.
    Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.
    I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: «È un fantasma» e si misero a gridare dalla paura.
    Ma subito Gesù parlò loro e disse: «Rassicuratevi, sono io, non temete».
    Pietro gli disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque».
    Ed egli disse: «Vieni!». Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.
    Ma per la violenza del vento, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!».
    E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
    Appena saliti sulla barca, il vento cessò.
    Allora quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, dicendo: «Tu sei veramente il Figlio di Dio!».
    Dal Vangelo di Matteo, cap. 14

Pietro sa di non poter uscire dalla barca di propria volontà; già il primo passo sarebbe la sua rovina, perciò grida: «Comanda che io venga da te sulle acque» e Cristo risponde: «Vieni». Dunque Cristo chiama; solo in obbedienza alla sua Parola possiamo fare il primo passo. Questa chiamata è la sua grazia, che chiama dalla morte alla nuova vita dell'obbedienza. Ora, però, che Cristo ha chiamato, Pietro deve uscire. dalla barca per venire da Gesù. Così, in realtà, il primo passo dell'obbedienza è già un atto di fede nella Parola di Cristo. Ma si fraintenderebbe completamente il vero senso della fede se si volesse, da questo fatto, dedurre che il primo passo non è più necessario, dato che c'è già la fede. Di fronte a questo pensiero si deve proprio osare di affermare che si deve compiere il passo dell'obbedienza prima di poter credere. Chi disobbedisce non può credere.
  Ti lamenti di non poter credere? Nessuno deve meravigliarsi di non essere capace di credere, finché disobbedisce o si oppone coscientemente in un qualche punto al comandamento di Gesù. Non vuoi sottomettere al comandamento di Gesù una tua qualche passione peccaminosa, un'inimicizia, una speranza, i piani che ti sei fatto per la tua vita, la tua ragione? Non meravigliarti di non ricevere lo Spirito Santo, di non saper pregare, di non veder esaudita la tua preghiera di poter aver fede. Va piuttosto a riconciliarti con il tuo fratello, abbandona il peccato che ti tiene prigioniero e sarai di nuovo capace di pregare. Se rifiuti la Parola di Dio che ti dà un ordine, non puoi neppure ricevere la Parola di grazia. Come potresti trovare la comunione con Colui al quale ti sottrai coscientemente in qualche punto? Chi disobbedisce non può credere, credere può solo chi obbedisce.
  In questo punto la benevola chiamata di Gesù Cristo a seguirlo diviene dura legge: fa questo, non fare quello. Esci dalla barca e vieni da Gesù. A chi cerca di giustificare la sua reale disobbedienza alla chiamata di Gesù con la fede o con l'incredulità Gesù dice: «Prima obbedisci, fa l'opera esteriore, abbandona ciò che ti lega, lascia ciò che ti separa dalla volontà di Dio. Non dire: non ho la fede necessaria. Non ce l'hai finché disobbedisci, finché non vuoi fare il primo passo. Non dire: ma io ho fede, non occorre più che faccia il primo passo. Tu non ce l'hai finché e perché non vuoi fare il primo passo, ma ti indurisci sotto le apparenze di umile fede. E' una cattiva
  scusa rimandare dalla propria mancata obbedienza alla mancanza di fede, e dalla fede mancante alla mancanza di obbedienza. La disobbedienza dei 'credenti' consiste appunto nel confessare la propria incredulità, quando viene chiesta obbedienza, e giocare con questa confessione (Marco 9,24). Se credi fà il primo passo. Esso conduce a Gesù Cristo. Se non credi, fallo lo stesso, così ti è comandato. Non è tuo compito preoccuparti della tua fede o della tua mancanza di fede; ti si ordina di obbedire immediatamente. Nell'atto dell'obbedienza si crea la situazione in cui la fede è resa possibile ed esiste realmente».
  Dunque non è una situazione, ma Egli crea una situazione, nella quale sei in grado di credere. Si tratta di mettersi in quella situazione perché la fede sia vera e non un autoinganno. Proprio perché si tratta di vera fede in Gesù Cristo, perché la fede è e resta unica meta («da fede a fede» Romani 1, 17), questa situazione è indispensabile. Chi protesta troppo in fretta e in maniera troppo protestante deve lasciare che gli si chieda se non sta difendendo la grazia a buon prezzo. Infatti, se le due proposizioni restano lì, l'una accanto all'altra, non possono essere causa di scandalo per la vera fede, mentre ognuna di esse, presa a sé, è necessariamente di grave scandalo. Solo il credente obbedisce - ecco quel che vien detto al credente a proposito dell'obbedienza; solo l'obbediente crede - ecco quel che vien detto all'obbediente a proposito della fede. Se la prima proposizione resta sola, colui che crede è lasciato in balìa della grazia a buon prezzo, cioè della dannazione; se la seconda frase resta sola, allora chi crede è lasciato in balìa a delle opere, cioè della dannazione.
  In base a ciò possiamo gettare uno sguardo nella cura d'anime cristiane.
  È molto importante che un pastore parli conoscendo bene ambedue le proposizioni. Egli deve sapere che il lamento di mancanza di fede proviene sempre di nuovo da cosciente o non più cosciente mancanza di obbedienza e che a questo lamento corrisponde troppo facilmente il conforto della grazia a buon prezzo. E allora la disobbedienza resta e la parola della grazia si muta in quel conforto che il disobbediente si dà da sé, in quel perdono dei peccati che egli si concede da se stesso. Però così l'annunzio si svuota di senso per lui, egli non lo sente più. E anche se si perdona da sé i peccati mille volte, non è in grado di credervi, appunto perché in realtà il perdono non gli è stato concesso. L'incredulità si alimenta della grazia a buon prezzo, perché vuole persistere nella disobbedienza. Questa è una situazione che, oggi, si incontra spesso nella cura d'anime cristiana. In seguito al perdono dei peccati concesso a se stesso l'uomo giunge necessariamente ad un indurimento nella propria disobbedienza; egli asserisce di non saper distinguere il bene ed il comandamento di Dio; questo sarebbe ambiguo e permetterebbe varie interpretazioni. La coscienza della propria disobbedienza, che in principio ci vedeva ancora chiara, si offusca sempre più e si giunge ad un indurimento del cuore. Il disobbediente si è tanto ingarbugliato e preso nel proprio laccio che non può più sentir la Parola, non è realmente più in grado di credere. Tra colui che è indurito ed il pastore nascerà pressappoco il seguente dialogo:
 - «Non posso più credere».
 - «Ascolta la Parola che ti viene annunziata».
 - «La sento, ma non mi dice più nulla, mi passa accanto».
 - «Tu non vuoi ascoltare».
 - «Eppure, sì».
A questo punto di solito la conversazione pastorale cessa, perché il pastore non sa più che pensare. Egli conosce solo la proposizione: chi crede obbedisce. Con questa affermazione non può più aiutare l'indurito di cuore, che appunto non crede e non può credere. Il pastore perciò pensa di trovarsi già a questo punto di fronte all'ultimo mistero, che cioè Dio dona la fede a uno e la nega all'altro. Con questa frase si cedono le armi. L'impenitente resta solo, e, rassegnato, continua a lamentarsi per le sue difficoltà. Ma proprio qui sta la svolta del dialogo. E la svolta è totale. Non si discute più e le domande e le difficoltà dell'altro veramente non sono più prese sul serio; tanto più sul serio si deve prendere l'uomo stesso che cerca di nascondersi dietro i suoi problemi.
  A questo punto si irrompe nella fortezza, che egli ha costruito attorno a sé, con le parole: «solo chi obbedisce crede». Si interrompe il dialogo e il pastore dice: «Tu sei disobbediente, tu rifiuti di obbedire a Cristo, vuoi mantenere il dominio su una parte di te stesso. Non puoi ascoltare Cristo, perché sei disobbediente; non puoi credere alla grazia, perché non vuoi obbedire. Tu indurisci parte del tuo cuore di fronte alla chiamata di Cristo. La difficoltà sta nel tuo peccato». E con ciò Cristo stesso è di nuovo sulla scena; egli attacca il diavolo nell'uomo che si è nascosto sinora dietro la grazia a buon prezzo. Ora tutto dipende dal fatto che il pastore abbia pronte le due proposizioni: «solo chi obbedisce crede», e, «solo chi crede obbedisce». Nel nome di Gesù egli deve incitare all'obbedienza, all'azione, al primo passo. «Abbandona ciò che ti tiene legato e segui Gesù». In questo momento tutto dipende da questo passo. La posizione occupata dall'impenitente deve essere abbattuta; in essa infatti Cristo non poteva più essere sentito. Il fuggitivo deve uscire dal nascondiglio che si è costruito. Solo dopo esserne uscito è di nuovo libero di vedere, udire, credere. Di fronte a Cristo non si è, veramente, guadagnato nulla con questa opera, che come tale resta un'opera senza vita; eppure Pietro deve uscire sul mare mosso per poter credere.
  Dunque, il fatto in breve è questo: l'uomo, affermando che solo chi crede obbedisce, si è avvelenato con la grazia a buon prezzo. Egli rimane nella sua disobbedienza e si consola con il perdono che egli stesso si aggiudica, e così si chiude di fronte alla Parola di Dio. Non si riesce a irrompere nella fortezza, finché gli si ripete sempre solo la proposizione dietro la quale egli si nasconde. Bisogna che avvenga la svolta; bisogna che lo si inciti ad obbedire: solo chi obbedisce crede.
  Ma così lo si induce a seguire la via della giustificazione per opere? No, gli si fa solo comprendere che la sua fede non è fede; egli viene liberato dall'irretimento in se stesso. Deve uscire all'aria aperta, alla libertà data dalla decisione. Così egli può sentire di nuovo l'invito di Gesù a credere e a seguirlo.
(Da “Sequela” di Dietrich Bonhoeffer)


    L’Eterno disse ad Abramo: “Vattene via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò...”
    E Abramo partì, come l’Eterno aveva detto.
Il piano di salvezza è iniziato con un ordine di Dio con cui Egli ha espresso la sua grazia,
e si è messo in moto per l’ubbidienza di un uomo con cui egli ha espresso la sua fede.

 


Decolla il primo volo Israele-Emirati

Ci saranno esponenti del governo americano e israeliano a bordo del primo volo commerciale che collegherà Tel Aviv ad Abu Dhabi, incluso il genero di Trump, Kushner. Il presidente degli Eau ha emesso un decreto sull'abolizione del boicottaggio economico di Israele a seguito della firma dell'accordo.

di Sharon Nizza

 
"Benvenuti a bordo del volo 971 diretto da Tel Aviv ad Abu Dhabi": lo storico annuncio verrà pronunciato dal pilota della compagnia israeliana El Al che opererà lunedì 31 agosto il primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (Eau).
   Il volo - non acquistabile per ora dal grande pubblico - trasporterà la delegazione israelo-americana diretta nella capitale emiratina per avviare le trattative bilaterali in vista della firma dell'accordo di pace tra i due Paesi, che, secondo fonti diplomatiche non ancora confermate, potrebbe avvenire già a metà settembre a Washington.
   Sul volo El Al vi sarà anche una delegazione americana composta dal mallevadore dell'accordo, Jared Kushner, consigliere e genero del Presidente Trump, Robert O'Brien, il Consigliere per la Sicurezza americana della Casa Bianca e Avi Berkowitz, l'inviato di Trump per il Medioriente. La delegazione israeliana sarà guidata da Meir Ben Shabbat, l'omologo di O'Brien e dai Direttori del Ministero degli Esteri e della Difesa. Vi prenderanno parte anche esperti nei settori dell'aviazione civile, energia, spazio, salute e finanza. In parallelo, Wam, l'agenzia stampa di stato, ha annunciato che lo Sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, il reggente emiratino di fatto, ha dichiarato "la fine formale del boicottaggio verso Israele", autorizzando quindi i rapporti con firme e istituzioni israeliane per "stimolare la crescita economica e promuovere l'innovazione tecnologica".
   In realtà, la cooperazione economica tra Israele e Eau andava avanti da anni sottobanco, ma con l'annuncio dell'accordo il 13 agosto, sempre più compagnie già attive sono uscite allo scoperto. Solo a pochi giorni dall'annuncio, hanno pubblicizzato nuovi contratti diverse aziende, tra cui l'Apex emiratina e TeraGroup israeliana per lo sviluppo della ricerca scientifica sul Covid, la Pluristem Therapeutics di Haifa e la Abu Dhabi Stem Cells per la ricerca sulle cellule staminali e l'israeliana Bo&Bo ltd che ha annunciato il proprio ingresso nel mercato emiratino con la sua tecnologia di tele-riabilitazione. Le stime indicano investimenti emiratini nello Stato ebraico per 350 milioni di dollari solo in questa prima fase di disgelo. La crescita improvvisa del volume degli scambi ha anche portato a un incremento dello studio della lingua ebraica nel Paese del Golfo, facendo ora emergere alla luce del sole il programma "Wcje Gulf Ulpan", avviato già a giugno, per l'insegnamento dell'ebraico su una piattaforma online da parte di insegnati israeliani certificati.
   Uno dei segni dell'apertura si era intravisto già il 19 maggio, quando all'Aeroporto Ben Gurion era atterrato il primo volo cargo con il logo di Etihad Airways, la compagnia di bandiera emiratina, che trasportava aiuti umanitari per i palestinesi - rifiutati in seguito dall'Autorità Nazionale Palestinese in protesta al gesto di normalizzazione verso lo Stato ebraico.
   Il volo 971 di lunedì e quello di ritorno 972, previsto per il giorno seguente, indicano i prefissi telefonici rispettivamente di Eau e Israele. La pagina Twitter in arabo del Ministero degli Esteri israeliano ha condiviso il cartellone dei voli dell'Aeroporto Ben Gurion in cui è elencato lo storico volo, suscitando interesse non solo tra gli emiratini: Jinan scrive "Inshallah un giorno anche con l'Iraq"; Ahmed chiede se potrà partire da Abu Dhabi con la cittadinanza saudita.
   Non è ancora chiaro quale sarà la rotta del volo: a metà agosto il premier Netanyahu, annunciando l'imminente apertura della nuova tratta aerea, aveva parlato di un volo della durata di tre ore, sorvolando i cieli sauditi. Al momento non è stato reso noto se sia arrivato il consenso di Riyad, che l'amministrazione USA continua a insinuare potrebbe presto aggregarsi all'apertura di Abu Dhabi verso Israele.
   L'Arabia Saudita, pur non avendo condannato l'accordo, non si è ancora esposta pubblicamente in merito, rilasciando finora un'unica dichiarazione da parte del ministro degli esteri Faisal bin Farhan, secondo cui la normalizzazione con Israele va conseguita di pari passo con una risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Va ricordato che Riyad già in passato ha concesso a voli israeliani di sorvolare il proprio spazio aereo, nella rotta Tel Aviv-Nuova Delhi. Se l'ok saudita non dovesse arrivare, fonti diplomatiche riferiscono che il volo dovrebbe sorvolare l'Iraq, e si tratterebbe in ogni caso di un precedente storico.

(la Repubblica, 29 agosto 2020)


Libano-Israele: ennesima presa in giro di UNIFIL verso Gerusalemme

di Maurizia De Groot Vos

Era il 1978 quando l'ONU creò UNIFIL per supervisionare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale. Ma fu nel 2006, dopo l'ultima guerra tra Israele ed Hezbollah, che la missione divenne (teoricamente) di fondamentale importanza.
   Infatti, teoricamente, avrebbe dovuto vigilare sul riarmo di Hezbollah e impedire che i terroristi libanesi entrassero in possesso di missili e di armi avanzate.
   Il risultato è, purtroppo, davanti agli occhi di tutti. Oltre 150.000 missili in possesso di Hezbollah, armi di ogni tipo giunte dall'Iran per via aerea, marittima e terrestre, la parte a sud della cosiddetta "linea blu" praticamente interdetta ai controlli, tanto che i terroristi libanesi hanno potuto tranquillamente scavare lunghi tunnel che sbucavano in Israele.
   Poi ieri alle Nazioni Unite, improvvisamente, si svegliano i francesi che al Consiglio di Sicurezza redigono una risoluzione dove chiedono (CHIEDONO) al governo libanese (che nel sud del Libano nemmeno conoscono) di "facilitare un accesso rapido e completo ai tunnel e ai siti sospettati di nascondere armi".
   Ma aspettate perché non è finita qui. La risoluzione "sollecita la libertà di movimento dei militari dell'ONU all'interno della linea blu".
   Cosa si deduce da questa risoluzione fortemente voluta dalla Francia? Una cosa che già sapevamo, cioè che fino ad oggi UNIFIL non ha fatto quello per cui è stata creata e che per 14 anni ha sostanzialmente collaborato con Hezbollah girandosi semplicemente dall'altra parte o evitando di ispezionare i siti sospetti.
   15.000 militari (ora ridotti a 13.000), mezzi di ogni tipo compresi aerei e navi, in Libano da 14 anni per fare nulla.
   E anche ora non cambia nulla, nemmeno con questa risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che è chiaramente indirizzata al governo libanese, il quale però da quelle parti conta meno di niente. Fumo negli occhi, l'ennesima presa in giro nei confronti di Israele.

((Rights Reporter, 29 agosto 2020)



La Shoah e il Vaticano diviso

Nuovi documenti pubblicati dallo storico Kertzer sulla persistenza del pregiudizio nella Santa Sede. Vinse la scelta del silenzio. II gesuita Tacchi Venturi propose di protestare presso i tedeschi, ma non fu ascoltato

di Antonio Carioti

La questione del silenzio di Pio XII sulla Shoah esplose negli anni Sessanta ma il problema era già ben presente allo stesso Papa e ad altri esponenti della Chiesa durante la guerra. Tanto che il gesuita padre Pietro Tacchi Venturi, addetto in precedenza al rapporti della Santa Sede con il regime fascista, propose nel dicembre 1943, due mesi dopo la razzia del 16 ottobre nel ghetto di Roma, di presentare una nota verbale di protesta alle autorità tedesche per le deportazioni in corso in Italia. E tuttavia non se ne fece nulla, anche perché un altro eminente prelato e futuro cardinale, Angelo Dell'Acqua, richiesto di un parere, criticò il testo e suggerì in un suo promemoria di lasciar perdere.
   I due documenti, rimasti finora inediti, sono emersi grazie alla decisione, assunta da papa Francesco, di aprire gli archivi vaticani per quanto riguarda il pontificato di Eugenio Pacelli, durato dal 1939 al 1958. Li presenta lo storico americano David Kertzer, al quale sono stati segnalati dal collega italiano Tommaso Dell'Era, sul sito web della rivista «The Atlantic», nell'ambito di un articolo dedicato al «caso Finaly»: l'odissea, su cui lo stesso Kertzer si propone dl tornare più ampiamente insieme allo studioso Roberto Benedetti, di due piccoli fratelli ebrei francesi, rimasti orfani e fatti battezzare dalla direttrice cattolica dell'asilo dove erano rimasti nascosti per sfuggire alla persecuzione, che solo dopo una lunga battaglia legale e complesse trattative vennero affidati alla zia residente in Israele. «Entrambe le vicende riflettono il radicamento del pregiudizio antiebraico nelle gerarchie ecclesiastiche anche durante il genocidio perpetrato dai nazisti, di cui il Vaticano era ben informato, e persino dopo la guerra» dichiara al «Corriere» Kertzer. «Nel 1953 Giovanni Battista Montini — continua — sull'affare Finaly seguì la linea del Sant'Uffizio, per cui i due bimbi dovevano essere educati nella fede cattolica. Eppure in seguito, divenuto papa Paolo VI, avrebbe segnato una svolta nei rapporti tra la Chiesa e il mondo ebraico con la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II».
   Torniamo ai documenti del 1943. Il giudizio di Kertzer è netto: «La nota proposta da Tacchi Venturi, per quanto il suo scopo fosse indurre i tedeschi a cessare le deportazioni, non era benevola verso i perseguitati. Parlava dl "gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione". E sosteneva che l'influenza ebraica in Italia era già stata limitata dalle leggi razziali del fascismo e quindi non si vedeva la necessità di misure brutali come quelle poste in atto dalle autorità di occupazione tedesche».
   Più articolata la valutazione dello storico Andrea Riccardi, autore del libro L'inverno più lungo (Laterza) su Roma e il Vaticano sotto l'occupazione nazista: «Tacchi Venturi non era certo un filosemita. Dopo la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, aveva fatto presente al governo italiano che forse non conveniva abrogare del tutto le leggi razziali. Tuttavia si rendeva conto della drammaticità di una situazione che, dopo la razzia nel ghetto, vedeva in quel periodo una recrudescenza della persecuzione. Si era anche adoperato a favore di alcuni ebrei. In questo documento, che in parte era già noto (lo richiamo anch'io nel mio libro), si sforza di entrare nella mentalità dei tedeschi, per convincerli che non è utile neppure dal loro punto di vista proseguire in una condotta così brutale. E comunque prospetta un intervento pubblico della Chiesa per "commiserare altamente, innanzi a tutto il mondo, la sorte di uomini e donne non colpevoli di alcun delitto", cioè degli ebrei. E' un linguaggio forte, non da diplomatico».
   Però Dell'Acqua il 20 dicembre 1943 disapprovò il testo preparato da Tacchi Venturi: «E non solo — osserva Kertzer — per evitare di turbare i rapporti con la Germania usando espressioni di condanna a suo avviso troppo forti o esplicite. Dell'Acqua, pur consapevole della gravità delle persecuzioni naziste, scriveva che comunque "diffidare dell'influenza degli ebrei" poteva essere "cosa assai opportuna". Ricordava i provvedimenti presi in passato dai pontefici proprio "per limitare l'influenza degli ebrei". E suggeriva soltanto di parlare con l'ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, "raccomandandogli che non si aggravi la già grave situazione degli ebrei". Un atteggiamento di carattere esclusivamente umanitario, dal quale comunque traspare la persistenza di un'antica avversione che nemmeno la Shoah riusciva ad attenuare».
   Secondo Riccardi, lo scritto di Dell'Acqua «riflette da una parte una scarsa comprensione della tragedia in corso, dall'altra un'impostazione rigidamente diplomatica. Si chiede se sia il caso di rinfacciare ai tedeschi le loro atrocità, prendendoli di petto, e consiglia un atteggiamento più morbido. Evidentemente non aveva sviluppato verso le vittime dei nazisti la pietas che troviamo in altri esponenti della Chiesa».
   Colpisce comunque la frase con cui Dell'Acqua concludeva il suo promemoria, affermando che «bisognerebbe anche far sapere ai Signori ebrei di parlare un po' meno e di agire con grande prudenza...». Si riferiva a un popolo vittima di un'azione spietata di annientamento.
   «Sono parole che suonano sprezzanti - nota Riccardi - nelle quali si può avvertire un fondo antisemita. Ma credo che rivelino soprattutto l'inadeguatezza di un funzionario vaticano di fronte a una situazione senza precedenti, della quale non coglieva le spaventose implicazioni».

(Corriere della Sera, 29 agosto 2020)


La forma di difesa della CCR (Chiesa Cattolica Romana) davanti all’evidenza di una dottrina apertamente antiebraica e di una politica viscidamente antisemita è sempre dello stesso tipo: la CCR come istituzione per principio vuole bene a tutti, perfino agli ebrei. A fare ogni tanto qualcosa di sbagliato sono sempre e soltanto i singoli, cosa che la CCR sospirando ammette, invitando però tutti a contestualizzare culturalmente e psicologicamente. Bisogna dire allora, una volta per tutte, che se la CCR è quella che pretende di essere, il papa di quel tempo, Pio XII, ha fatto bene a fare quello che ha fatto. E’ l’Istituzione Sacra che in primo luogo deve essere protetta, perché è il centro dell’azione salvifica del mondo da parte di Dio, e non potranno certo essere alcune centinaia di poveretti, tanto più se ebrei, a far mettere a rischio la solidità della sacra istituzione. Certe azioni “discutibili” dell’istituzione CCR sono in realtà forme corrette di funzionamento della stessa. E’ dunque la sacralità dell’autocoscienza istituzionale della CCR che deve essere messa in discussione, soprattutto da chi si dichiara discepolo di quel Cristo il cui nome da quell’istituzione è profanato tra gli ebrei. Quello che ha fatto ieri l’aristocratico papa Pio XII lo sta facendo oggi, in forma adatta ai tempi, il popolano papa Francesco. La CCR non attacca per principio nessuno, si limita a difendere se stessa. A tutti i costi. Badando bene che siano altri a pagarli. M.C.


Israele-Palestina, la pace è un'orchestra

Nel film "Crescendo" storia d'amore tra musicisti arabi e israeliani, è ispirato alla West-Eastern Divan Orchestra fondata nel 1999 da Daniel Barenboim ed Edward Said
    Lei si chiama Layla, è palestinese di Qalqilya, ha 24 anni e una madre inquieta perché ancora non ci sono fidanzati alle viste. Quando il vapore dei lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani le entra dalla finestra, Layla va in cucina e taglia una cipolla che le serve da antidoto. Suona il violino. Bene, ma non tanto quanto lui, che si chiama Ron, è israeliano di Tel Aviv, è sexy, arrogante e sa di esser nato per diventare una star.
   Con un po' di "X Factor" e un po' di "Compagnia del cigno", ma con una svolta drammatica che dissipa ogni possibile zuccherosità, "Crescendo" è ispirato alla West-Eastern Divan Orchestra fondata nel 1999 da Daniel Barenboim ed Edward Said, con molte fondamentali differenze. Una, soprattutto: qui a mettere insieme il gruppo non è un direttore dal doppio passaporto israeliano e palestinese, com'è Barenboim nella realtà, ma un tale Eduard Sporck (soprannominato Porsche per il prestigio e l'energia da chi vuole affidargli il figlio principiante, lo impersona l'attore austriaco Peter Simonischek, quello di "Vi presento Toni Erdmann" ) nato addirittura da due criminali nazisti, medici in un Lager: perché, spiega il regista, «il conflitto fra ebrei e tedeschi è il più grave immaginabile, e serve pensare che anche quello può essere superato».
   L'orchestra del film nasce per un concerto soltanto, da tenere a Vipiteno in occasione di certi colloqui di pace, mentre quella vera dura felicemente da più di vent'anni, ultime performance in ordine di tempo al Festival di Salisburgo e due settimane fa a Berlino. Abbastanza simili e irti di problemi devono però essere stati i primi incontri fra i ragazzi. Racconta il componente dell'orchestra Daniel Cohen nel libro "Insieme" di Elena Cheah, pubblicato in Italia da Feltrinelli, che una volta, proprio agli inizi, scappò via «tremando come una foglia», per colpa di un film proiettato al gruppo, "Route 181": «Se avessi voluto ascoltare tutta questa propaganda - pensò- non sarei venuto al Divan». Elena Cheah, violoncellista, ricorda i «gravi screzi« per il ciondolo di una collega di Ramallah, «che raffigurava la forma attuale di Israele con la scritta Palestina». In "Crescendo", analogamente, dalle invidie e incomprensioni perché i palestinesi, svantaggiati, sono meno preparati tecnicamente, si passa in un attimo all'insulto razziale: «Terroristi!Oppressori! Sporchi ebrei! » Solo un paziente lavoro di terapia di gruppo scioglie qualche nodo. Esercizi che prevedono l'uso di una fune che divide, per stare distanziati e urlarsi addosso tutta la rabbia. Obbligo di condivisione dei leggii fra arabi e israeliani. L'incitamento di Sporck: «Cercate di presumere, per questi cinque giorni, che il vostro nemico non abbia cattive intenzioni».
   Per una volta, l'utopia si è realizzata nel mondo reale e non nella fiction. È fragile e sotto scacco, eppure continua ad abitare il mondo, secondo la formula di Said e di Barenboim: «Questa nostra idea trae spunto dal principio del contrappunto musicale. Dove una voce di accompagnamento che agisce in maniera sovversiva può arricchire una melodia anziché impoverirla».

(Head Topics, 29 agosto 2020)


Arte, teatro, web. La cultura ebraica incontra l'Europa

di Jessica Chia

MILANO - Il tema, Percorsi ebraici, è un invito a conoscere gli itinerari storici, artistici, archeologici e culturali della comunità. A questo è dedicata la XXI Giornata europea della cultura ebraica che si terrà domenica 6 settembre in contemporanea in 32 Paesi europei e in oltre 90 località diffuse in 16 regioni del nostro Paese, da nord a sud. In Italia, quest'anno, sarà capofila per la prima volta Roma, dove si trova la comunità ebraica più grande della penisola e la più antica della Diaspora. «L'Ucei, Unione Comunità ebraiche italiane, insieme a tutte le realtà locali — ha detto Noemi Di Segni, presidente Ucei —, ha raccolto la sfida di raccontare al meglio gli itinerari dell'ebraismo italiano, che sono interessantissimi, talvolta sorprendenti, diffusi su tutto il territorio nazionale».
   Nella capitale si aprirà ufficialmente la Giornata, che quest'anno prevede centinaia di iniziative, molte delle quali online per le normative anti-Covid (il programma è sulla pagina Facebook @centrodiculturaebraica). Tra gli eventi in città: Passeggiando in bicicletta: la Roma ebraica dalle origini ad oggi (ore 9); l'esposizione della scultura di Antonietta Raphaèl (1895-1975) Le tre sorelle (1933-36; ore 13.15 al Museo ebraico). Tra le visite guidate anche quelle al Museo ebraico (dalle 10 alle 17.15); all'Ospedale israelitico e al Tempio dei giovani (ore 10-16.30), all'Archivio storico della Comunità ebraica «Giancarlo Spizzichino» e alla mostra Shoah. L'infanzia rubata (Fondazione Museo della Shoah; ore 10-20).
   In occasione della Giornata, Milano festeggia invece il 5 e il 6 settembre con il V Festival Jewish in the City che si terrà tutto online (su mosaico-cem.it e sulla pagina Facebook Giornata europea della cultura ebraica - Milano). Il 5 alle 21, apre il prologo semiserio L'ebreo errante? di (e con) l'attore Gioele Dix, introduce Gadi Schoenheit, assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano. La mattina di domenica 6 ci saranno tre dirette streaming (tutte alle 10) localizzate in tre luoghi significativi della città: la Sinagoga Centrale di via Guastalla, il Memoriale della Shoah (qui lo scrittore Marco Belpoliti interverrà su Immaginare la memoria) e il Giardino dei Giusti sul Monte Stella (con Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, che parlerà de I Giusti al tempo del coronavirus). Nella Sala Jarach della Sinagoga Centrale si esibirà in un concerto il Sestetto Scaligero Wanderer (in onore di Vittore Veneziani, direttore del coro del Teatro alla Scala, espulso nel 1938 a causa delle leggi razziali).
   Nel pomeriggio, dalle 15.30, seguiranno cinque gruppi di conferenze in streaming sui temi: Medicina e scienza; Storia della Comunità ebraica di Milano, Teatro e letteratura, Storia e religione, Arte culinaria ebraica. Le celebrazioni si chiudono alle 20.30 con Klez parade in diretta streaming dai Bagni Misteriosi (Teatro Franco Parenti), festa e concerto con il Trio Nefesh.

(Corriere della Sera, 29 agosto 2020)


Il primo volo commerciale tra Israele ed Emirati sarà fatto con El Al

Lunedì prossimo, ci saranno a bordo anche Kushner e O'Brien

Sarà la El Al il vettore del primo volo commerciale tra Israele e Abu Dhabi che lunedì prossimo porterà negli Emirati una delegazione governativa dopo l'Accordo sull'avvio di normali relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Lo ha deciso il governo.
A bordo - sul volo LY971 - ci sarà non solo la delegazione ufficiale israeliana ma anche il consigliere, e genero di Trump, Jared Kushner e il responsabile della Sicurezza nazionale Usa Robert O'Brien. Per Israele la delegazione sarà guidata dal Consigliere nazionale per la sicurezza Meir Ben-Shaabbat.
I colloqui ad Abu Dhabi riguarderanno la cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità energia e sicurezza.

(ANSAmed, 28 agosto 2020)


Nel villaggio diviso la frontiera nasconde i tunnel di Hezbollah

La Linea blu dell'Onu attraversa Ghajar. Il paese è conteso fra Israele, Siria e Libano. Qui nel 2005 ci fu un tentativo di infiltrazione fermato dall'esercito israeliano.

di Sharon Nizza

GHAJAR (confine Israele-Libano) - C'è una battuta in voga tra gli abitanti di Ghajar: «Siamo gli unici che viaggiano in Medio Oriente senza mettere piede fuori casa». Perché in questo villaggio di 2800 anime puoi dire di essere in Israele, Libano o Siria. Il Libano lo rivendica, imputando a Israele una permanente infrazione della Linea Blu, tracciata nel 2000 per definire il confine dopo il ritiro israeliano dal Sud del Libano.
   Il divario tra realtà sul campo e diplomazia cartografica, nota piaga mediorientale, a Ghajar è riassunto magistralmente: la Linea Blu divide in due il villaggio. A Nord Libano, a Sud Israele. Ma solo "sulla carta": di fatto gli abitanti sono israeliani e non vi è delimitazione fisica. «Nel 2000 quando l'Onu ha tracciato il confine proprio in mezzo al nostro villaggio, abbiamo sollevato una protesta internazionale» racconta Jamal Khatib, il nostro ospite. In un suo libro ha raccolto le lettere inviate allora a tutti i leader del mondo: «Aiutateci a non essere divisi» invocavano.
   La controversia risale al '67, quando Israele, dopo la Guerra dei Sei giorni, conquista dalla Siria le Alture del Golan. Gli abitanti del villaggio, allora solo 600, sventolarono bandiera bianca e passarono sotto l'amministrazione israeliana. Nel 1981 divennero cittadini, l'unico comune alawita d'Israele. Fino allo scoppio della guerra civile in Siria, racconta Jamal, molti dei loro ragazzi - con un permesso speciale - andavano a studiare all'università a Damasco, passando attraverso il valico di Quneitra.
   Nel 2005, Hezbollah si infiltrò a Ghajar da nord cercando di attaccare, senza successo, i soldati della vedetta israeliana. Il 12 luglio 2006 l'operazione andò in porto in un altro punto del confine: Hezbollah uccise otto soldati e ne rapì due, innescando la Seconda guerra del Libano, conclusasi 34 giorni dopo con l'adozione della risoluzione Onu 1701 che stabiliva il potenziamento della missione di interposizione Unifil. Dopo la guerra, Israele costruì una barriera per proteggere Ghajar da infiltrazioni a nord, e da qui l'infrazione. Ma sono gli stessi cittadini di Ghajar a contestare la rivendicazione libanese: «Noi siamo siriani, le Alture del Golan appartenevano alla Siria prima. Con il Libano non c'entriamo nulla», spiega Jamal.
   «Mettere sullo stesso piano la controversia su Ghajar, o i nostri droni che sorvolano lo spazio aereo libanese, e le violazioni di Hezbollah, non regge» dice a Repubblica Assaf Orion, ricercatore per l'INSS di Tel Aviv, fino al 2015 capo della delegazione israeliana agli incontri tripartiti tra gli eserciti dei due Paesi e Unifil.
   Ma sono anni che Israele denuncia la mancata implementazione de facto della risoluzione 1701, secondo cui le uniche forze armate nel Sud del Libano devono essere l'esercito libanese e Unifil. Le vedette di Hezbollah sono invece visibili a occhio nudo dalle cittadine di confine israeliane.
   Nel 2018, l'esercito israeliano ha scoperto (e cementato) sei tunnel che, partendo dai villaggi. nel sud del Libano, fuoriuscivano in territorio israeliano. Israele sostiene da anni di aver identificato migliaia di bunker che ospitano parte dell'arsenale missilistico di Hezbollah nei villaggi sciiti, anche in abitazioni private. Unifil non entra nelle proprietà private e per Hezbollah questo è un modo per impedire o sviare i controlli dei Caschi blu.
   «Chiediamo che il mandato venga modificato di modo che Unifil entri anche in quelle che sono considerate proprietà private, ma che in realtà sono basi operative di Hezbollah, e che conduca perquisizioni anche senza preavviso o coordinamento con l'esercito libanese - dice Orion. «E' in corso un'escalation. Se la situazione rimane così, se non si rende Unifil più efficace, una nuova guerra è solo questione di tempo».

(la Repubblica, 28 agosto 2020)


La pace tra Emirati e Israele l'ha apparecchiata Elli

Lo storico accordo tra lo stato ebraico e quello arabo è stato preceduto da grandi e piccoli segnali. Tra questi, il successo del servizio a domicilio di kosher kitchen lanciato da una sudafricana.

di Simona Verrazzo

 
Elli Kriel
C'è il lato politico dello storico accordo di pace siglato due settimane fa da Emirati Arabi Uniti e Israele (finora lo Stato ebraico era riconosciuto nel mondo arabo solo da Egitto e Giordania). E c'è quello umano e culturale: l'avvicinamento è infatti stato favorito dalla presenza della comunità ebraica che vive negli Emirati. Si tratta di una minoranza che, nel corso degli ultimi tempi, si è sempre più integrata nel tessuto sociale, e che negli ultimi mesi ha visto emergere una donna intraprendente. Durante il lockdown, infatti, si è avuto un boom della consegna a domicilio di cibo, tra cui il kosher, cioè cucinato secondo le regole della religione ebraica. L'idea era stata lanciata poco tempo prima da Elli Kriel e si è rivelata vincente durante l'emergenza coronavirus.
   Nata in Sudafrica, dal 2013 negli Emirati, Elli si è occupata di sociologia sia alle università di Johannesburg e di Dubai sia come consulente per aziende private, ma è la cucina la sua vera passione e così, dopo aver ricevuto l'approvazione delle autorità ebraiche locali, ha lanciato Elli's Kosher Kitchen, primo servizio di consegna a domicilio di cibo kosher nella regione del Golfo. Nascere in un Paese che ha conosciuto la segregazione razziale l'ha spinta a compiere studi sulle relazioni sociali. «Il mio dottorato di ricerca» racconta al Venerdì «si occupava di come la comunità ebraica abbia affrontato l'inclusione, ma anche dell'esclusione sociale nel post-apartheid», E la cucina svolge sempre un ruolo cruciale dal punto di vista culturale, in Sudafrica come negli Emirati, «il cibo è identità, occasione di incontro tra popoli diversi. E tra la cucina ebraica e quella emiratiana e araba i punti in comune sono molti».
   Se il 2019 si era concluso con la nomina del nuovo rabbino capo, Yehuda Sarna, e l'annuncio della costruzione della Casa della famiglia abramitica, dove una sinagoga, una chiesa e una moschea sorgeranno sullo stesso sito, il 2020 è l'anno del consolidamento di questo rapporto. La comunità ebraica residente conterebbe circa tremila persone, cui si aggiungono quelle in transito per lavoro o turismo. Un'integrazione che guarda all'attesissimo Expo di Dubai, posticipato al 2021, dove già da mesi è stata confermata la presenza del padiglione di Israele. «Oltre al cibo sto pensando a veri e propri kosher tour, con luoghi da visitare e dove soggiornare» rivela Elli «per tutti coloro che vogliano scoprire la varietà, anche religiosa, degli Emirati».

(la Repubblica - il Venerdì, 28 agosto 2020)


Sei razzi nella notte da Gaza contro il territorio israeliano

Sono sei i razzi che sono stati lanciati questa notte da terroristi musulmani a Gaza verso il sud di Israele. Le sirene hanno risuonato a Nachal Oz, Alumim, Sha'ar HaNegev e Sdot Negev. L'esercito israeliano (IDF) ha confermato che sei razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele e che tutti i razzi sono esplosi in aree aperte, senza causare danni o ferite. I palestinesi hanno dichiarato che nella notte ci sono stati dei colpi d'artiglieria dell'IDF e le esplosioni si sono sentite nel centro di Gaza immediatamente dopo l'attacco con i razzi. In precedenza, i caccia israeliani hanno bombardato obiettivi terroristici di Hamas a Gaza in risposta a centinaia di ordigni esplosivi e bombe incendiarie attaccati a palloncini lanciati dalle milizie delle brigate ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, verso il sud di Israele.

(LiberoReporter, 28 agosto 2020)


Nelle scuole ultra ortodosse con i divisori

Le scuole religiose ebraiche ai tempi del Covid. Anche gli ebrei ultra ortodossi si sono dovuti adeguare alla nuova realtà sanitaria, specie nelle yeshiva (scuole talmudìche), dove si usa studiare in coppia e quindi a distanza molto ravvicinata. A Bnei Brak, a est di Tel Aviv,le scuole si sono attrezzate con divisori di plastica e mascherine obbligatorie. La comunità ultraortodossa ebraica è stata fra le più colpite del Paese, con i maggiori focolai registrati proprio nei quartieri più densamente popolati dai religiosi. In Israele l'ultimo bollettino giornaliero ha registrato 1.937 nuovi casi.

(Corriere della Sera, 28 agosto 2020)


Intesa fra Erdogan ed Hamas

L'organizzazione che è ritenuta terroristica sia dagli Stati Uniti che dalla Ue

di Dorian Gray

Sabato 22 agosto, il presidente turco Erdogan ha incontrato a Istanbul una delegazione di Hamas, guidata dal capo politico Ismail Haniyeh. Tra i componenti della delegazione c'era anche Saleh al-Arouri, vice capo di Hamas, inserito dagli Stati Uniti nella lista dei terroristi e sul quale pende una taglia di 5 milioni di dollari.
   E infatti non si è fatta attendere la condanna del Dipartimento di Stato Usa. Arouri non è solo il trait d'union dell'organizzazione con Ankara, ma lo è anche con l'altro Paese islamista per eccellenza: l'Iran.
   Arouri infatti era tra i componenti della delegazione di Hamas che visitò Teheran nel luglio del 2019, quando il gruppo terrorista palestinese decise di riappacificarsi con l'Iran, dopo la frattura per il conflitto in Siria.
   Di fatto, Arouri ha defenestrato l'ex capo politico di Hamas Khaled Meshal, considerato sgradito dai mullah iraniani. Durante la visita del luglio 2019, la delegazione incontrò anche Khamenei e proprio Arouri arrivò ad affermare che Hamas sarebbe stata la prima linea di difesa dell'Iran dagli attacchi occidentali. Evidentemente fece colpo agli occhi della Guida Suprema, perché dopo quell'incontro il regime iraniano decise di quintuplicare i finanziamenti a Hamas (30 milioni di dollari al mese).
   La notizia della visita della delegazione di Hamas ad Ankara arriva dopo lo scoop del Telegraph, che ha denunciato come proprio Erdogan stia concedendo la cittadinanza ai membri di Hamas.
   Il Telegraph dice di aver visionato ben 12 carte d'identità e passaporti turchi di «senior members» di Hamas, mentre altri cinque rappresentanti dell'organizzazione terrorista palestinese sarebbero pronti a riceverne uno.
   Grazie a questi documenti, i rappresentanti di Hamas (che è organizzazione terroristica sia per gli Usa che per l'Ue) potranno girare liberamente in tutto il mondo. Grazie, incredibilmente, alla connivenza del governo di un paese Nato...
   Infine, va ricordato che Erdogan ha preso da poco una decisione che sta facendo molto discutere in Turchia: il presidente turco ha infatti deciso di creare una nuova forza di sicurezza, composta da 500 agenti, che risponderanno unicamente alla «Direzione per la Sicurezza» di Ankara. Nei fatti, molti accusano Erdogan di essersi fatto una sua milizia personale, sul modello dei Pasdaran iraniani.
   Di non molto tempo fa la previsione dell'autorevole storico Bernard Lewis, secondo cui la Turchia sarà l'Iran di domani, mentre l'Iran la Turchia di ieri.Difficile capire come gli Usa di Trump e l'Alleanza Atlantica possano arrivare ad una sintesi con Erdogan senza rimettere al suo posto il presidente turco, che rivela una postura sempre più aggressiva e militarista.

(Atlanticoquotidiano.it, agosto 2020)


Ucciso perché ebreo: l'attentato a Rav Shai Ohayon per mano di un terrorista palestinese

di David Zebuloni

 
Rav Shai Ohayon
 
Famiglia e amici partecipano al funerale
L'assassinio è avvenuto mercoledì, a Petach Tikwa, una cittadina non molto lontana da Tel Aviv. Era un giorno come tutti gli altri, Rav Shai Ohayon stava tornando a casa come di routine, dopo aver terminato i suoi studi presso il Kolel a Kfar Saba. Erano da poco passate le 13:00 e Rav Ohayon era sceso alla fermata dell'autobus all'incrocio con Segulah, posizionata a poche centinaia di metri da casa sua. Ad aspettarlo Halil Duahat, cittadino palestinese di quarantasei anni con un regolare permesso di lavoro in Israele, con in mano un lungo coltello da cucina.
   Halil stava cercando una vittima che avesse sembianze inequivocabilmente "ebraiche". Trovato Rav Ohayon, vestito con gli abiti neri e bianchi tipici dell'ortodossia ebraica, si è precipitato su di lui pugnalandolo numerose volte nella parte superiore del corpo. Qualche istante dopo, il terrorista era già fuggito. "Quando ho capito che si trattava di un attentato, ho cominciato a gridare "terrorista, terrorista!", ha raccontato al giornale Israel Hayom un passante che si trovava per caso nel luogo del delitto. Una volante della polizia si è immediatamente mobilitata e nell'arco di pochi minuti il terrorista palestinese è stato trovato, con in mano ancora il coltello sanguinante.
   Rav Ohayon lascia una moglie e quattro figli. "Non sto realizzando ciò che è accaduto. Non so come lo racconterò ai miei bambini", è stata l'unica dichiarazione rilasciata dalla moglie Sivan. "Ho sentito al telegiornale di un attentato terroristico ad un giovane uomo religioso nei dintorni di Petach Tikwa e ho avuto la forte sensazione che fosse Shai. L'ho chiamato e lui non mi ha risposto", ha raccontato invece il suocero, Ofer Kerez. "Era un marito e padre eccezionale. Ha dedicato tutta la sua vita allo studio della Torah. Gli volevo bene come un figlio", ha poi aggiunto tra le lacrime.
   Anche il Premier israeliano si è espresso sull'attentato. "A nome di tutti i cittadini israeliani vorrei porgere le più sentite condoglianze alla famiglia Ohayon", ha dichiarato Netanyahu, garantendo ai famigliari della vittima la massima punizione per l'attentatore: "Provvederò affinché la casa dell'attentatore venga distrutta". Oltre all'arresto infatti, l'unica punizione prevista dalla legge israeliana in caso di attacco terroristico, è la distruzione dell'abitazione del terrorista in questione. Legge, per altro, non sempre applicata.

(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2020)


Spari sui soldati al confine: raid israeliani sul Libano

di Fiammitta Martegani

«Ancora una volta Hezbollah sta mettendo in pericolo lo Stato libanese: suggerisco loro di non mettere alla prova la forza di Israele». Così, ieri, il premier Benjamin Netanyahu dopo che, l'altra notte, sono stati esplosi colpi dal Libano contro le Forze di difesa israeliane presenti nell'area del kibbutz Menara, vicino al confine. Israele ha reagito con raid indirizzati verso le postazioni di Hezbollah nel sud del Paese dei Cedri. Una «aggressione che merita un'investigazione», ha lamentato il Consiglio supremo di difesa di Beirut, annunciando una protesta al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Le tensioni al confine sono andate aumentando dopo l'esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto, che, in base alle prime valutazioni, sarebbe stata causata dallo stoccaggio di materiale illegale e altamente infiammabile. Stoccaggio di cui, secondo le accuse formulate dentro e fuori il libano, sarebbe responsabile il movimento sciita Hezbollah perde credito in patria a causa dell'impasse economica e politica che sta mettendo in ginocchio il Paese, con una crisi finanziaria mai vissuta prima. Come non bastasse, il gruppo (sponsorizzato principalmente dall'Iran) si trova ancora più isolato da quando, lo scorso 13 agosto, Gerusalemme ha siglato, tramite la mediazione della Casa Bianca, un accordo diplomatico con Abu Dhabi che rafforza l'asse sunnita nella regione, incoraggiando il riavvicinamento di altri Paesi del Golfo, a cominciare dall'Arabia Saudita. Proprio nel Golfo si trova in questi giorni il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che ieri ha definito l'intesa tra Israele ed Emirati «il più significativo passo verso la pace in Medio Oriente in oltre 25 anni». «Ora più che mai- ha sottolineato Pompeo - abbiamo bisogno di unità, qui, per contrastare la pericolosa influenza di Teheran». Una prospettiva estremamente pericolosa per Hezbollah. Che reagisce da par suo, puntando sull'instabilità e mettendo nel mirino Israele. lo Stato ebraico, intanto, è sotto attacco anche sul confine di Gaza - da dove continuano ad arrivare ordigni incendiari lanciati da Hamas e sul suo territorio: ieri un rabbino di 39 anni, Shay Ohayon, padre di quattro figli è stato ucciso a Petah Tìkva (nel Distretto centrale) da Khalil Abd al Khaliq Dweikat, un manovale di Nablus (Cisgiordania), che è stato arrestato. Secondo i media israeliani, Dweikat soffre di problemi mentali.

(Avvenire, 27 agosto 2020)


Israele-Sudan, nessuna svolta diplomatica almeno per ora

di Luca D'Ammando

Le vie della diplomazia sono fluide, spesso contorte e lente. È convinzione di una buona parte di analisti che il recente "Accordo di Abramo" siglato da Israele ed Emirati Arabi Uniti possa creare un effetto domino nell'area, nella direzione di una progressiva normalizzazione dei rapporti dei paesi arabi con lo Stato ebraico, sotto la mediazione degli Stati Uniti. Mediazione che però, nel caso del Sudan non ha portato a passi concreti. La visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo, con lo storico volo diretto da Tel Aviv a Khartoum, sembrava l'occasione perfetta per un passo in avanti verso il riconoscimento da parte del Sudan dello stato israeliano e la ripresa delle relazioni diplomatiche. Ma il primo ministro sudanese, Abdalla Hamdok, ha chiarito che il governo di transizione che presiede non è stato incaricato di normalizzare i legami con Israele.
   Che una svolta immediata in Sudan non fosse immediata era in realtà chiaro da tempo. Lo scorso febbraio il capo del Consiglio di Transizione al potere in Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, aveva incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Uganda. Un incontro che aveva portata a manifestazioni di protesta in Sudan e costretto il generale a mettere in dubbio una rapida normalizzazione delle relazioni. La settimana scorsa, poi, Haider Badawi Sadiq, il portavoce del ministero degli Esteri sudanese, era stato licenziato dopo aver affermato in un'intervista a un'emittente emiratina che il suo Paese avrebbe presto seguito la strada di Abu Dhabi.
   Il "tour della normalizzazione" di Pompeo, che oltre il Sudan comprende il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti, è un passaggio cruciale nel grande gioco della geopolitica araba e mediorientale, un gioco in cui l'instabilità è una variabile costante. Egitto e Giordania, che già hanno relazione diplomatiche con Israele, finora sono stati considerati un'eccezione, perché condividono il confine con lo stato ebraico e quindi avevano motivazioni particolari. Sarà interessante ora vedere se si allargherà lo spettro di paesi arabi che riconoscono Israele. E sarà ancora più interessante capire la strategia dei palestinesi, per i quali questo processo di "normalizzazione" potrebbe essere politicamente una catastrofe. D'altra parte il piano dell'amministrazione Trump è chiaro: la Casa Bianca spera di arruolare altri a seguire l'esempio degli Emirati Arabi - con Sudan appunto, Bahrain e Oman in cima alla lista - creando così un allineamento arabo-israeliano contro l'Iran, anche a spese dei palestinesi.

(Shalom, 27 agosto 2020)


L'accordo tra Israele ed Emirati potrebbe non essere così buono per Gerusalemme

Sugli F-35 agli Emirati Arabi Uniti, Netanyahu ha mentito oppure è stato raggirato?
Middle East.


di Franco Londei

Per giorni si è glorificato l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti come una svolta epocale nei rapporti tra lo Stato Ebraico e il mondo arabo. Tutto sembrava rose e fiori, fino a quando…
Qualche giorno fa, proprio a ridosso dell'annuncio dell'accordo, un trafiletto di Ynet ci informava che tra le condizioni volute dagli Emirati per firmare quello "storico" accordo non c'era solo la rinuncia da parte israeliana all'annessione di parte della Valle del Giordano e degli insediamenti in Giudea e Samaria, ma
By Ibrahim Shukralla

ABU DHABI, 26th August, 2020 (WAM) - A top American official said today that there were "incredibly positive conversations going on" between the US, Israel and UAE with regard to selling F-35 warplanes to the latter.
"We know that there are more agreements to formalise between the UAE and Israel, but you have taken the first step and I have no doubt that the other steps will come into place, and that's one of the reasons why Secretary Pompeo is here," Morgan Ortagus, Spokesperson for the US Department of State, told Emirates News Agency, WAM, in an exclusive interview in Abu Dhabi today.
"With respect to the F-35 or any military hardware or infrastructure, I keep reminding people that it is important to know that the UAE and US' military and security relationship is robust and has been there for decades. Since the Gulf War, the United States had sold military aircraft and hardware, F-16s, and others to the UAE," she added.
"This is not a new relationship; this is a sophisticated relationship that we have had for decades," she continued.
Ortagus is in Abu Dhabi accompanying the Secretary of State, Mike Pompeo, who landed in the UAE this afternoon on the fourth leg of his regional tour, after having visited Israel, Sudan and Bahrain in the past few days. His next destination is Oman.
The American official emphasised that Pompeo in his meetings, this week, with Israeli Defence Minister, Benny Gantz, and Minister of Foreign Affairs, Gabi Ashkenazi, had been "pretty firm in his commitment to both the UAE and Israel."
She added, "We certainly are letting all our allies in the region know that our commitment militarily to strengthen the UAE is incredibly important."
Ortagus said that the UAE-Israel peace accord, which was announced on 13th August, showed UAE's "strength and power on the international stage."
"Little Israeli children will grow up seeing Emirati children in their age on vacation and being able to visit Al Aqsa Mosque, and the same for the UAE [seeing Israeli children in the UAE]. It seems historic for us because of the fact that our children will grow up in a society that is different to the one we grew up in, where there were prejudices what is normal is not for people to hate each other, but to be at peace between Muslims, Christians and Jews," she added.

c'era anche la vendita da parte americana a Dubai di un numero imprecisato di F-35, i nuovi caccia stealth di produzione americana che garantiscono la supremazia in cielo.
Da subito ho pensato (abbiamo pensato) che questa volta Ynet avesse preso una cantonata. Uno degli impegni americani più importanti con Israele è quello di garantire a Gerusalemme di avere sempre la supremazia militare e di certo la vendita di F-35 agli arabi non andava in questa direzione. Per me era quindi impossibile.
Poi il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, dopo essere stato in Israele vola negli Emirati Arabi Uniti dove tra gli altri incontra il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed Al Nahyan e il consigliere per la sicurezza nazionale, Tahnoun bin Zayed Al Nahyan, con i quali parla di vendere gli F-35 agli Emirati in ottemperanza a quanto stabilito negli accordi con Israele.
Ma questa volta non è una diceria, non è una cantonata di Ynet, questa volta a confermarlo c'è la portavoce del Dipartimento di Stato americano Morgan Ortagus.
Così dice la Ortagus in una intervista all'agenzia di stampa emiratina WAM, aggiungendo che in fondo non c'è nulla di strano visto che da decenni gli USA vendono armi avanzate agli Emirati.
Quando Ynet fece uscire quella indiscrezione, poi risultata vera, il Premier israeliano Benjamin Netanyahu si affrettò a definire tale notizia una "fake news" e ad assicurare che non c'era nessun accordo in tal senso.
Netanyahu ha quindi mentito o è stato raggirato? Con questo accordo si rinuncia all'annessione dei territori e alla supremazia militare? Se così fosse non sarebbe davvero quel "buono accordo" così tanto declamato.

(Rights Reporter, 27 agosto 2020)


Mohammed bin Salman s gela Trump: i sauditi frenano sulla pace con Israele

Il principe avrebbe cancellato il viaggio a Washington e l'incontro con Netanyahu. Riyadh, infastidita dall'accordo con gli Emirati, sceglie la prudenza: se vincesse Biden?

di Michele Giorgio

Inebriato dall'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati, Donald Trump qualche giorno fa ha detto di aspettarsi che anche l'Arabia Saudita stabilisca al più presto rapporti con lo Stato ebraico. Un auspicio fondato su elementi concreti. La Casa Bianca ha lavorato per mesi a un exploit diplomatico in Medio Oriente per poterlo sfruttare nella campagna per le presidenziali. E inoltre Riyadh è stata, da quando Trump è presidente, la capitale che più di ogni altra nel Golfo ha stretto dietro le quinte i rapporti con Israele.
   Lo spregiudicato, a dir poco, principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) non ha esitato ad addossare ai palestinesi sotto occupazione militare israeliana la responsabilità del mancato accordo con Tel Aviv. Eppure, giunti al dunque, l'Arabia saudita ha applaudito senza entusiasmo alla normalizzazione tra Israele ed Emirati e ha invocato la creazione di uno Stato palestinese.
   Gli analisti ragionano sui motivi di questa frenata e della inedita fiammata panarabista che avvolge i palazzi della dinastia Saud. Qualcosa si è incrinato. Lo indica anche lo scoop che avrebbe messo a segno l'autorevole portale d'informazione Middle East Eye. Mohammed bin Salman, scriveva ieri Mee, ha annullato una visita a Washington la prossima settimana che prevedeva il suo incontro con il premier israeliano Netanyahu. Un faccia a faccia fissato per il 31 agosto finalizzato non a un annuncio di normalizzazione tra Arabia saudita e Israele bensì a una stretta di mano tra Mbs e Netanyahu davanti alle telecamere di tutto il mondo, simile a quella del 1978 tra il presidente egiziano Sadat e il primo ministro israeliano Begin a Camp David. Ne avrebbe tratto giovamento l'accordo Emirati-Israele. E l'erede al trono saudita sarebbe apparso come un «pacifìcatore» e non lo spietato mandante dell'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi e il brutale repressore degli oppositori e delle ambizioni di cugini e zii che non ha esitato a rinchiudere per settimane nella prigione di lusso del Ritz-Carlton Hotel.
   Quando sembrava fatto, scrive Mee, Mbs si è tirato indietro temendo che la notizia fosse trapelata e che la sua presenza nella capitale Usa si sarebbe trasformata in un «incubo». Per l'Amministrazione è stata una doccia gelata, che fa il paio con la cautela che altre monarchie del Golfo manifestano verso la normalizzazione con Israele. Si erano fatti i nomi di Bahrain, Oman e Sudan pronti ad aprire le braccia a Netanyahu, ma gli annunci ancora non arrivano.
   La brusca frenata l'ultima curva pare sia frutto della diversità di opinioni nell'establishment reale saudita nei confronti del piano Trump, del progetto di annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania palestinese e sull'opportunità di avviare in questa fase relazioni piene con Israele, solo per favorire la campagna elettorale di Trump. Anche a Riyadh leggono i sondaggi e al momento il democratico Biden ha le carte in regola per buttare il presidente in carica fuori dalla Casa Bianca. Al rampollo reale saudita è stata suggerita prudenza e di non mostrarsi troppo compiacente con Trump, forse destinato a uscire di scena tra qualche mese. Riyadh inoltre ha capito che lo stop al piano di annessione di Israele, sbandierato dagli Emirati per giustificare l'intesa, in realtà è solo sospeso e il premier israeliano coglierà l'occasione propizia per rilanciarlo.
   Conta anche l'orgoglio ferito dei sauditi che non hanno gradito di essere stati lasciati all'oscuro (o quasi) delle intenzioni degli Emirati e della mediazione Usa. Venerdì su Asharq Al-Awsat, il principe saudita Turki al-Faisal ha spiegato che Riyadh non è stata informata in anticipo dell'accordo.
   Gli emirati cl hanno sorpreso accettando un accordo con Stati uniti e Israele», ha scritto escludendo poi una normalizzazione delle relazioni con Israele prima della creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale. E i media sauditi, da anni compiacenti con Israele, ora parlano di «normalizzazione in cambio di nulla» e che l'unico vincitore è Benjamin Netanyahu.

(il manifesto, 27 agosto 2020)


Perché la Riviera dei Cedri è frequentata dai rabbini ad Agosto?

 Cedri ed ebraismo, un antico legame che non si è mai spezzato
 
Cedro di Calabria
  Lo sapevi che molti rabbini ogni estate si recano in Calabria ? Giungono da tutte le parti del mondo per andare alla ricerca del cedro perfetto. "Perì 'etz hadar" che tradotto letteralmente dall'ebraico significa "il frutto dell'albero più bello", così Dio indicò il cedro a Mosè come una delle piante da utilizzare per la tradizionale festa della capanne o Sukkoth. Secondo l'ortodossia ebraica fu proprio il cedro e non la mela a tentare Adamo ed Eva ea provocare la loro cacciata dell'Eden. La sua storia ha attraversato i secoli, fondendo elementi di sacralità a tradizioni culturali connessi con il divino. La coltura dei cedri ha una storia tanto antica, essendo presente nel nostro paese da oltre 2000 anni. I migliori cedri, attualmente, vengono coltivati in Calabria, nella Riviera dei Cedri , precisamente a Santa Maria del Cedro , paese in provincia di Cosenza che producono una delle varietà più pregiate al mondo: la liscia diamante. Qui si coltiva circa il 98% della produzione nazionale di questo straordinario frutto rappresentando una parte fondamentale dell'economia locale.
  Ecco perché gruppi consistenti di rabbini con barba e kippah si danno appuntamento sulla riviera dei cedri, nell'alto tirreno cosentino e attendono pacatamente la maturazione del "frutto sacro" per celebrare una tradizionale festa per ricordare le capanne che gli ebrei costruirono durante il viaggio verso la Terra Promessa. Verso fine agosto, dopo una meticolosa selezione, i cedri diamante provengono per girare tutto il continente, chiusi rigorosamente in casse e protetti da un soffice gommapiuma. È cosi, più o meno, dal 1200.
  Un legame, quello tra i cedri, ebraismo e Calabria che non si è mai spezzato, questo stretto rapporti vive di un dialogo intimo con i coltivatori e con il territorio, un legame fondamentale per l'economia, per il turismo, ma soprattutto per l 'identità del luogo.

 L'economia del cedro calabrese, un fiorente mercato in continua espansione
  La scelta della Calabria non è solamente legata alla perfezione e alle pregiate qualità che con l'aiuto di un clima mite regalano ai rabbini il cedro perfetto , ma questo radicato legame permane anche grazie alle tradizioni culturali che fanno dei calabresi il popolo dell'accoglienza . Come specifica Rav Moshe Lazar , a capo della comunità ebraica di Milano e da qualche anno insignito della cittadinanza onoraria di Santa Maria del Cedro, ama ricordare come la prima espressione che imparò visitando la Calabria è "favourite", il classico invito dei calabresi a unirsi alla propria tavola, "Questa è la chiave di tutto - afferma Lazar - l'accoglienza. I calabresi hanno i loro difetti, ma se c'è l'accoglienza ogni divergenza linguistica si può superare ". Proprio per preservare quest'economia e per dare un futuro alla cedricoltura nel 1999 è stato fondato il Consorzio per i cedri della Calabria, riconosciuto con Legge Regionale nel 2004 al fine di frenare la speculazione e per intervenire sulla diversificazione della produzione dando il via alla produzione di canditi, marmellate, liquori, olii e cosmetici. Così facendo si sono creare piccole aziende, i contadini hanno ripreso ad occuparsi dei cedreti e molti giovani si sono avvicinati a questa interessante attività.
  Difficile determinare quale sia la quantità di cedri destinata al mercato ebraico dal momento che si tratta di singoli frutti che i rabbini scelgono direttamente dagli alberi. Il prezzo per ogni cedro "perfetto" si aggira comunque tra i 15 ei 20 euro.

 La Riviera dei cedri, il territorio, itinerari balneari e montani
La Riviera dei Cedri si sviluppa lungo il litorale tirrenico tra Paola e Tortora. Fra i comuni della riviera spiccano per la produzione del cedro, Santa Maria del Cedro, Scalea, Orsomarso, Santa Domenica, Talao, Buonvicino e Belvedere Marittimo. Qui grazie ad un particolare microclima, che vede l'incontro tra le correnti, una calda proveniente dal mare e una fredda che arriva dalla montagna, l'ambiente ideale la coltivazione di questo meraviglioso frutto. La composizione del terreno è perfetta trattandosi di una composizione di argilla calcarea, sabbia e humus ricco di azoto e potassio. La perfezione è raggiunta, però, solo grazie alle mani esperte e attente dei cedricoltori che da generazioni si tramandano l'amore e la passione di questo prezioso agrume. Il cedro è infatti una pianta molto delicata che non sopporta i repentini sbalzi di temperatura, perciò è essenziale che ogni operazione sia eseguita con meticolosità e attenzione. La rivalutazione della cultura legata al cedro è evidente anche dalla costituzione del Museo del Cedro, fondato dallo stesso Consorzio, per tramandare la storia del frutto e del legame storico, archeologico e artistico di questo frutto. A breve, poi, dovrebbe partire la "via del cedro", un percorso agro-mistico-sensoriale che grazie alla collaborazione di chef e barman darà molti la possibilità di assaporare uno dei frutti più pregiati della Calabria.
  Il territorio della riviera dei Cedri comprende ben 22 comuni di cui 15 si estendono sulla costa e si possono visitare alcuni paesaggi davvero suggestivi come ad esempio lo splendido scenario dell'Arco Magno presso San Nicola Arcella . Ma la riviera dei Cedri non è solo mare. A pochi chilometri dalla costa ci sono i pendici dei Monti dell'Orsomarso . Diversi sono dunque i luoghi da visitare in questa riviera che oltre al cedro ha molto altro da offrire. Scopri le tante vantaggiose promozioni e le offerte di vacanze last minute e last second per poter visitare questo luogo incontaminato e naturalistico per una vacanza davvero low coast.

(GB Viaggi, 27 agosto 2020)


Milano ricordi Laras, voce di dialogo e di memoria

Lettera a "il Giornale"

di Davide Romano*

Sul vostro giornale avete giustamente sollevato il tema delle vie da dedicare a personaggi del passato. L'estate è una stagione ottima per i ricordi, talvolta anche sotto forma di rimpianti. In questo senso mi preme menzionare il rabbino Giuseppe Laras, mancato il 15 novembre del 2017 e che Milano non dovrebbe commettere l'errore di dimenticare.
   Laras fu un importante testimone del periodo storico della Shoah, da cui si salvò miracolosamente quando era un bambino di otto anni, e sotto ai suoi occhi fu deportata la madre che non vide mai più. Nel corso della sua vita non fu mai banale, neppure nel ricordare la tragedia dello sterminio, tanto è vero che negli ultimi anni della sua vita cercò di uscire da certi formalismi delle ricorrenze, per privilegiare «una Memoria che non sia esclusivamente ripiegata su sé stessa, bensì dinamica e progettuale». Gli veniva naturale prendere posizioni scomode, come dovrebbe fare ogni persona intelligente e responsabile. Fu tra i primi in Italia a ricucire il rapporto tra la Chiesa cattolica e l'ebraismo, dopo secoli. Lo fece trovando nel cardinale Martini un protagonista altrettanto, se non più coraggioso. Lui come rabbino capo di Milano, Martini come capo della diocesi meneghina, si misero in gioco nonostante le resistenze che provenivano da parte delle loro rispettive comunità, e lo fecero in nome della comune fede nel Dio di Israele. Oggi parlare di dialogo ebraico-cristiano è normale, ma quando iniziarono a farlo loro negli anni Ottanta significava infrangere un tabù millenario. Come ricordava il cardinale Martini a proposito del dialogo: «La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore vitalità di un dialogo bensì l'acquisizione della coscienza nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi». Parole, oggi più che mai, attualissime. Da religioso, era capace di parlare anche ai laici. Per anni infatti, insegnò Storia del pensiero ebraico all'Università Statale di Milano. Come la migliore tradizione rabbinica prevede, oltre che intendersi di questioni religiose si era preso anche una laurea in Giurisprudenza e una in Filosofia. E non era un caso che amasse ripetere «per ben credere occorre saper ben ragionare». Per tutto questo, e molto altro, credo che la nostra città abbia necessità di un ricordo perenne di questa persona e del suo pensiero.

* Portavoce della sinagoga Beth Shlomo

(il Giornale, 27 agosto 2020)


Se anche il Sudan riconosce Israele

Effetto domino, la normalizzazione indebolisce la posizione palestinese

Dopo l'accordo recente tra Emirati Arabi Uniti e Israele adesso anche un altro paese arabo, il Sudan, è pronto a fare il passo del riconoscimento sempre con la mediazione degli Stati Uniti (ma ancora non c'è un annuncio ufficiale). Il segretario di stato americano, Mike Pompeo, vola diretto da Israele a Khartoum, capitale del Sudan, e già questa rotta è simbolica della sua missione e di quello che sta succedendo. Se l'accordo con i sudanesi funzionerà, allora si potrà cominciare a parlare di effetto domino e di progressiva normalizzazione di tutti i paesi arabi con Israele, e non soltanto di alcune poche eccezioni. Egitto e Giordania hanno già relazioni con Israele ma condividono un confine con lo stato ebraico e quindi avevano molte ragioni pratiche per arrivare a un accordo di pace, molti anni fa. Gli Emirati prima e adesso il Sudan invece non hanno confini in comune con Israele, parlano di normalizzazione perché riconoscono che è più utile nel grande gioco delle relazioni internazionali parlare con Israele invece che fare finta che non esista. A questo punto ci sono da capire due cose. La prima è cosa faranno i palestinesi. Questa normalizzazione progressiva per loro è una cosa terribile, perché vuol dire che stanno perdendo poco a poco la solidarietà storica delle nazioni arabe. Se non possono più dire di avere alle spalle tutti i paesi arabi e se i governi arabi non considerano più la causa palestinese una questione di principio che viene prima di tutto il resto, allora si apre una fase di debolezza e incertezza. La seconda cosa da capire è se quest'effetto domino si fermerà qui - in fondo il Sudan è un territorio dove gli Emirati sono molto influenti - oppure se la catena continuerà e chi sarà il prossimo. Questi accordi sono positivi, ma c'è da tenere a mente una cosa: nascono per tentare di tenere a bada una regione che è sempre più instabile e pericolosa.

(Il Foglio, 26 agosto 2020)



Ragazzi scoprono in Israele un tesoro che risale a 1.100 anni fa

Ben 425 monete d'oro risalenti al IX secolo sono state portate alla luce in Israele grazie a un gruppo di ragazzi nell'ambito di un vasto progetto volto ad avvicinare i giovani alla storia, legato agli scavi presso Yavneh, a sud di Tel Aviv. Un articolo sul New York Times spiega che il tesoro era in un contenitore d'argilla e nascosto nella sabbia. 'Stavo scavando nel terreno - afferma Oz Cohen, uno dei giovani responsabili del ritrovamento - quando ho notato delle forme che sembravano foglie molto sottili, ma erano in realtà delle monete d'oro». Le monete, che pesano meno di un chilogrammo e sono costituite da oro puro, risalgono al IX secolo, quando il califfato abbaside governava un vasto impero che si estendeva dalla Persia al Nord Africa.

(Avvenire, 26 agosto 2020)


Suha Arafat: "Questo accordo Israele-Emirati non è contro di noi"

La vedova di Yasser Arafat, leader dell'Olp morto nel 2004, vive a Malta dal 2011: "Mi sono scusata con Dubai per l'incendio della loro bandiera. Tanti mi attaccano ma dimenticano che quel Paese ospita 300mila palestinesi".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Al telefono da Malta, dove abita dal 2011, Suha Arafat è un fiume in piena. Erano anni che la vedova di Yasser Arafat non interveniva pubblicamente. «Non sono una politica, anche se ora, dopo questa intervista, mi aspetto l'esercito elettronico contro di me».
  Già a suo tempo molti palestinesi non le perdonarono la scelta, allo scoppio della Seconda Intifada, di trasferirsi a Parigi con la figlia Zahwa avuta dal Rais nel 1995. Ora al centro della polemica un suo post pubblicato su Instagram nel weekend, in cui Mrs. Arafat, in una posizione inaspettata e decisamente controcorrente, si scusa con gli Emirati «a nome dell'onorevole popolo palestinese, per la profanazione e l'incendio della loro bandiera» durante le contestazioni avvenute nelle città palestinesi per l'accordo di pace tra Gerusalemme e Abu Dhabi, annunciato il 13 agosto.

- Per la leadership palestinese si è trattato di un tradimento. Cosa l'ha spinta a intervenire?
  «Trecentomila palestinesi vivono negli Emirati e letteralmente sfamano milioni di palestinesi nel mondo. Molti sono stati accolti dallo Sceicco Zayed bin Sultan su richiesta di mio marito, dopo essere stati cacciati dal Kuwait a causa del grande errore che fecero i leader palestinesi schierandosi con Saddam. Non sa quanti palestinesi degli Emirati mi hanno chiamato per ringraziarmi. Mi hanno detto che ho evitato una guerra civile».

- Che fine ha fatto l'account Instagram?
  «Va chiesto a Ramallah! Me l'hanno hackerato, con tutte le mie belle foto con Hillary, Mandela, a Natale, in Italia... Ho ricevuto commenti orribili, minacce di morte, mi hanno scritto che se non possono bruciare la bandiera degli Emirati, allora bruceranno me. Sono stata attaccata come donna, come cristiana mi hanno detto che mi crocifiggeranno. E poi hanno messo in mezzo quest'accusa che sono vicina a Dahlan (il rivale di Abu Mazen in esilio negli Emirati, ndr). Ma se l'ho visto l'ultima volta forse 20 anni fa! E comunque Dahlan non è gli Emirati e gli Emirati non sono Dahlan».

- Cioè?
  «Cioè gli Emirati, come tutti gli Stati, sono liberi di fare le loro politiche. La geopolitica sta cambiando, ci sono nuovi attori nell'area, l'Iran, la Turchia con i Fratelli Musulmani, Hamas che tiene in ostaggio 2 milioni di palestinesi. Non posso giudicare un Paese che sente la necessità di difendersi da minacce esterne. E poi cosa facciamo se domani l'Arabia Saudita si accoda? E se tutti i Paesi Arabi si aggregassero?».

- Pensa che Oman, Bahrein, Arabia Saudita saranno i prossimi?
  «Tutti questi Paesi hanno relazioni con Israele. Se sono per la normalizzazione, non significa che siano contro di noi, ma solo che fanno il proprio interesse».

- Cosa pensa che avrebbe fatto Arafat in questa situazione?
  «Yasser avrebbe detto: volete la normalizzazione? Va bene. Però aiutatemi, imponetegli i confini del '67».

- Cosa pensa del Piano Trump?
  «Qualsiasi soluzione che non preveda i confini del '67 non è accettabile. Ma penso che i palestinesi dovrebbero parlare con Trump, spiegargli perché si oppongono, invece di boicottarlo: è uno che ascolta, sa cambiare idea».

- Non è più tornata in Palestina?
  «No. Vede quello che succede se dico una parola da qui, si immagina se fossi lì? Io mi chiedo quanti dei finanziamenti internazionali alle nostre forze di sicurezza vengano usati per reprimere la libertà di espressione di persone che cercano di calmare le acque, a scopi pacifici...».

- Come pensa che Abu Mazen abbia raccolto l'eredità di Arafat?
  «Abu Mazen mi piace molto. È un uomo forte, ha fermato l'Intifada. Rappresenta la stabilità del Paese. Penso sia circondato da cattivi consiglieri».

- E dopo di lui chi vede?
  «Vivrà fino a 100 anni, non mi faccia questa domanda».

(la Repubblica, 26 agosto 2020)


La stella di Davide sulla bara di Arrigo Levi. Alle esequie la corona di fiori di Mattarella

II nipote Ricardo Franco: «Uno degli ultimi di una grande generazione»

 
La figlia dl Arrigo Levi, Donatella, è la prima da sinistra
Si è svolto ieri pomeriggio a Santa Maria di Mugnano, nella campagna di Modena, il funerale di Arrigo Levi, il grande giornalista morto domenica notte all'età di 94 anni. II Capo dello Stato Sergio Mattarella ha delegato i Carabinieri in alta uniforme a consegnare alla figlia Donatella e ai nipoti Riccardo, Franco e Alberto una corona di fiori. La cerimonia ha previsto la recita del Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche, e la lettura di un passo del libro del Deuteronomio. Sulla bara, la stella di Davide. È stato il nipote Ricardo Franco Levi, già portavoce di Romano Prodi, a pronunciare l'orazione funebre, ricordando i viaggi all'estero dello zio e le sue corrispondenze dalla Russia, da Londra e da Israele. Arrigo Levi, che è stato anche direttore di 'La Stampa' e consigliere di due presidenti della Repubblica, riposa ora accanto alla moglie, Lina Lenci. Alla cerimonia al cimitero erano presenti anche il sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, il prefetto di Modena Pierluigi Faloni e il vicario del questore, Sabato Riccio. «Era uno degli ultimi grandi di una grande generazione che sta scomparendo. È stato un grande professionista, nel segno di una costante ricerca della libertà di pensiero. Con grande attaccamento alla sua città e alla sua famiglia, con un senso vivissimo della responsabilità personale», ha detto tra l'altro Ricardo Franco Levi.

(il Resto del Carlino, 26 agosto 2020)


Il mondo arabo si è stancato dell'ostruzionismo dei palestinesi

Quasi tutti i paesi arabi hanno espresso sostegno all'accordo Israele-Emirati, lasciando Yemen Qatar e Autorità Palestinese accodati all'asse dell'estremismo islamista capeggiato da Iran e Turchia.

Ci troviamo di fronte a due campi: il campo della pace e il campo della distruzione, il campo del fanatismo e il campo della moderazione. La più grande sorpresa, dopo l'accordo di pace fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, è che la spaccatura non passa attraverso il mondo arabo. In effetti, quasi tutti i paesi arabi hanno espresso il loro sostegno all'accordo e sono saltati sul carro della pace. Rimangono solo Yemen e Qatar che si oppongono all'accordo, accodandosi all'asse del male capeggiato da Iran e Turchia: l'asse dell'estremismo islamista, sia sunnita che sciita.
Dunque, cosa è successo realmente? E' successo che il mondo arabo si è stancato. Guarda da una parte e dall'altra e si rende conto, anche se in ritardo, che ovunque sia implicato l'estremismo islamista - sciita o sunnita - il risultato è sempre distruzione e rovina. Iran, Turchia e i loro affiliati jihadisti sono implicati in Siria, Yemen, Libano, Somalia, Iraq, Afghanistan, Gaza, Sinai settentrionale e Nigeria settentrionale. Ovunque arrivino, è il caos. Non è che gli Emirati Arabi Uniti o l'Arabia Saudita siano improvvisamente diventati delle democrazie. Ma in Medio Oriente la scelta non è tra democrazia liberale e dittatura. La scelta è tra stabilità e devastazione....

(israele.net, 26 agosto 2020)


Hezbollah spara ai soldati israeliani. IDF risponde colpendo postazioni in Libano

Altissima tensione al confine tra Libano e Israele

di Sarah G. Frankl

È la prima volta dal 2006 che Israele colpisce con bombardamenti aerei obiettivi di Hezbollah in territorio libanese e già questo è indicativo di quanto alta sia la tensione al confine tra Libano e Israele.
Ieri sera alle 22:40 i terroristi libanesi hanno sparato contro le truppe israeliane che pattugliano il confine nell'area della comunità di Manara.
L'IDF, considerando l'episodio "molto grave", ha ordinato ai residenti dell'area di non uscire di casa per nessun motivo, poi ha dato il via alla risposta contro questa grave provocazione.
Elicotteri d'attacco si sono levati in volo e hanno colpito diversi posti d'osservazione di Hezbollah distruggendoli.
Non è chiaro se ci siano state vittime tra i terroristi.
Poco prima dell'attacco aereo i militari israeliani avevano sparato dozzine di razzi bengala illuminando tutta l'area in modo da vedere se era in atto un tentativo di infiltrazione da parte dei terroristi di Hezbollah.
Secondo alcuni media libanesi una grande quantità di aerei ed elicotteri israeliani sta sorvolando il confine tra Libano e Israele mentre ai residenti delle comunità di Manara, Yiftach, Margaliot, Misgav Am e Malkia è stato ordinato di rimanere all'interno e di essere pronti ad entrare in un rifugio antiaereo o in un'altra area protetta.
Nonostante la tensione sia ormai altissima, nulla si sente da UNIFIL che dovrebbe vigilare sulle azioni di Hezbollah ma che chiaramente non controlla assolutamente il territorio.

(Rights Reporter, 26 agosto 2020)


Hockey, l'ebreo Sherbatov gioca ad Auschwitz

di Emanuele Giulianelli

Eliezer Sherbatov
Eliezer Sherbatov, 29enne capitano della nazionale israeliana di hockey su ghiaccio, ha firmato di recente un contratto per andare a giocare con la formazione del Towarzystwo Hokejowe Unia Oswiecim, militante nel massimo campionato polacco. La notizia ha fatto molto scalpore in Israele e le reazioni di media e appassionati non hanno brillato per equilibrio, con Sherbatov che è stato addirittura additato come traditore. Oswiecim, infatti, è il nome polacco della città sul cui territorio i nazisti costruirono il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
   Nato a Rehovot, 20 chilometri a sud di Tel Aviv, nel 1991, Eliezer si è trasferito all'età di due anni con i genitori in Canada, dov'è cresciuto e ha iniziato a giocare a hockey su ghiaccio: «L'ho fatto perché mio padre amava questo sport - dice ad Avvenire-. Ho il passaporto israeliano e quello canadese. Tutti nella mia famiglia sono ebrei ed è per me un onore giocare con lo stemma ebraico sul petto; rappresento la nazionale israeliana da quando, all'età di tredici anni, mi chiesero di unirmi all'Under 18». Oltre che in Canada e in Israele, Sherbatov ha giocato anche in Francia, Kazakistan e Slovacchia prima di accettare, nel giugno scorso, l'offerta dei polacchi dell'Unia Oswiecim: «Quando ho iniziato a trattare con loro - racconta -, conoscevo la storia del campo di concentramento. Per me, la storia è stata una motivazione in più: io voglio costruire una storia migliore per gli ebrei e perciò ho voluto firmare per questa squadra».
   Entrando poi nel merito delle polemiche e del dibattito che si è scatenato, soprattutto in Israele, da parte della comunità ebraica, in seguito alla sua scelta, Sherbatov spiega così le sue motivazioni: «Sono molto orgoglioso delle mie origini ebraiche e di far parte dell'Unia Oswiecim, una squadra che mi dà l'opportunità di esprimermi sul ghiaccio come giocatore ebreo e membro della nazionale d'Israele e ora di giocare ad Auschwitz, per tutti gli ebrei del mondo. Molti media israeliani erano presenti al momento della firma del contratto e della mia presentazione: so che questa mia decisione tocca tutti. Io sto solo cercando di dare speranza agli ebrei, di fare qualcosa di concreto, di ricordare l'Olocausto, ma anche di poter raccontare di un ebreo che è andato in Polonia e ha vinto».
   I genitori di Eliezer, entrambi con un passato da atleti, si sono mostrati inizialmente scettici: «Ma se decidi di andare, mi hanno detto, devi essere il migliore, devi aiutare la squadra a vincere. Altrimenti non c'è motivo per cui tu vada lì». Le reazioni a Oswiecim, città di 40 mila abitanti, alla notizia dell'arrivo del capitano della nazionale israeliana sono state molto positive: «Tutti sono stati contenti della mia firma, la squadra e i tifosi: non c'è stato alcun commento negativo, solo una grande eccitazione. Penso che sarà una grande stagione per noi». La formazione dell'Unia Oswiecim ha una storia prestigiosa nell'hockey su ghiaccio polacco, è stata una delle migliori negli anni '90. Quest'anno, con l'arrivo di Eliezer Sherbatov, l'obiettivo è dominare in patria e in Europa: «Non possiamo far altro che vincere. Io sto giocando per questa squadra, per i tifosi e per tenere viva la memoria degli ebrei morti. Ritengo che questa sia un agrande opportunità».

(Avvenire, 26 agosto 2020)


Accordo tra Israele ed Emirati; una svolta geostrategica

di Fabio Marco Fabbri

Israele e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) hanno programmato un vertice Washington nei primi giorni di settembre; in tale incontro verranno formalizzati i pre-accordi presi a metà Agosto tra i due Stati. Detti patti saranno finalizzati alla regolarizzazione (che nel linguaggio della diplomazia significa avvio ufficiale delle relazioni diplomatiche tra i due paesi) dei rapporti diplomatici frutto di una lunga, raffinata e strategica operazione negoziale che metterà in "luce" la nuova alleanza tra lo Stato ebraico e le monarchie petrolifere del Golfo Persico. Abu Dhabi diventerebbe così il terzo paese arabo a relazionarsi ufficialmente con lo Stato ebraico dal 1948, data della sua creazione. Il capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, ha parlato di una "nuova era" tra Israele e paesi arabi e ha invitato gli Stati vicini politicamente agli Emirati a seguire lo stesso tracciato.
  Va ricordato che il primo progetto di bilanciamento geopolitico dell'area del vicino oriente fu elaborato da Gran Bretagna e Francia nel 1916 con il Patto segreto, Sykes-Picot, poi reso pubblico nel 1919 e formalizzato, con vari aggiustamenti, nel 1923 nell'ambito della disgregazione e spartizione (come aree di influenza) dell'Impero Ottomano; tale operazione vedeva la creazione del sistema statale saudita come "contrappeso politico" al residuo dell'Impero Ottomano, cioè la Repubblica di Turchia. Da tempo sulla bilancia degli equilibri è venuto ad aggiungersi l'Iran sciita, il quale ha come obiettivo principe l'annichilimento dello Stato di Israele.
  Detto ciò, lo storico accordo con gli Emirati avviene dopo che l'Egitto nel 1979 e la Giordania nel 1994, hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Israele; questa intesa per la normalizzazione dei rapporti arriva nonostante che non si veda luce su alcuna soluzione al conflitto israelo-palestinese. E' verosimile che tale normalizzazione potrebbe tracciare la strada ad accordi di pace con altri paesi arabi come il Bahrein ed anche l'Arabia Saudita, cambiando drasticamente e profondamente gli equilibri geopolitici nel
 
Miri Regev, ministro israeliano della cultura e dello sport, stringe la mano a Mohammed Bin Tha'loob al Derai, presidente della Federazione EAU Wrestling Judo & Kickboxing (27 ottobre 2018)
Medio oriente, ma soprattutto rompendo definitivamente l'isolamento di Israele nell'area vicino-orientale e fortificando la sua posizione politica nei confronti dell'Iran. Gli accordi di Oslo, firmati il 3 settembre 1993 nel cortile della Casa Bianca tra Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano e Yasser Arafat leader dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), "uniti" da Bill Clinton, oltre che sdoganare, in teoria, i rapporti israelo-palestinesi, hanno anche aperto canali relazionali con parte del mondo arabo, infatti uomini d'affari, politici, militari israeliani e degli Emirati, hanno iniziato ad incontrarsi ed a collaborare regolarmente, sia a Tel-Aviv che a Dubai. Le tecnologie militari israeliane, sia come armamenti, che software spionistici e strategici, sono tra i maggiori prodotti esportati da Israele verso gli Emirati; recentemente agli atleti israeliani è stato consentito di gareggiare negli Emirati, inoltre, accordi commerciali bilaterali, hanno permesso ad Israele di allestire, per questo autunno, uno stand all'Expo mondiale di Dubai, ma causa Covid l'evento è stato rinviato. I dettagli sugli accordi ancora non sono sati resi noti, ma i diplomatici di entrambi i paesi stanno lavorando per definirne i termini; tuttavia è certo che ci saranno i collegamenti aerei con visti turistici condivisi, infatti già sui social network molti israeliani esprimono la speranza che presto potranno programmare le loro ferie a Dubai, ad Abu Dhabi e dintorni.
  Tuttavia osservando i precedenti con Egitto e Giordania, risulta poco probabile che tali normalizzazioni possano portare ad un ufficiale avvicinamento culturale, magari suggellato da scambi formativi e linguistici, infatti ufficialmente i rapporti di Israele con Giordania ed Egitto appaiono ancora piuttosto freddi, ma si sa che una cosa sono i rapporti ufficiali ed un'altra cosa sono gli accordi non ufficiali, spesso molto più prammatici e produttivi.
  Dietro a questo, magari per molti, inaspettato accordo, il ruolo degli Stati Uniti di Donald Trump non è stato marginale, infatti il Presidente statunitense ha eccellenti rapporti sia con Israele che con gli Emirati Arabi Uniti ed è evidente che c'è un "disegno" più articolato sullo sfondo di questo storico accordo. Infatti la politica di Trump in questa parte del Mondo è stata sempre incentrata a facilitare un dialogo tra lo Stato ebraico ed i paesi arabi sunniti, anche al fine di contrastare la minaccia iraniana (sciiti). Denis Charbit, docente all'Università di Tel Aviv, ha affermato che "Chiaramente è un regalo che gli Emirati hanno appena fatto agli Stati Uniti, che in seguito trarranno utilità anche nei confronti dell'Iran, che sta guadagnando influenza nella regione, ed anche con Israele che è una potenza economica e commerciale regionale e una porta aperta per gli Stati Uniti". Un'artefice di primo piano di questa operazione è stato Jared Kushner, sposato con Ivanka Trump e consigliere del Presidente Usa; Trump ha elogiato l'accordo registrando un innegabile successo diplomatico che sicuramente utilizzerà contro l'avversario democratico alle presidenziali Usa Joe Biden; la stessa cosa per Netanyahu, certo riconfermato alla carica di Primo Ministro, ma incagliato in pericolosi procedimenti giudiziari ed impegnato a fronteggiare violente manifestazioni dell'opposizione.
  In questo quadro ritorna la litania palestinese sul tradimento subito dai vicini stati arabi; in realtà i Paesi arabi credono che l'alleanza con Israele prevale sulla questione palestinese; inoltre negli ultimi mesi sui media del Golfo, diversi intellettuali arabi hanno denunciato l'indolenza politica dei palestinesi ed il loro noto parassitismo nei confronti delle monarchie petrolifere. Nel "gioco delle parti" il principe ereditario e Ministro della Difesa di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al-Nahyane ha affermato che "È stato raggiunto un accordo per porre fine a qualsiasi ulteriore annessione (israeliana)", ma subito Netanyahu ha affermato il contrario, dicendo che Israele ha "rimandato, non annullato", il processo di annessione della Cisgiordania.
  Come è di prassi i palestinesi hanno espresso furiosamente il loro dissenso riguardo ai programmi di normalizzazione, richiamando il loro ambasciatore da Abu Dhabi; Denis Charbit ha stimato che: "Chiaramente, per il momento l'equilibrio del potere è dalla parte di Israele. Ma se le normalizzazioni continueranno paese per paese e ogni volta Israele dovrà fare delle concessioni, i palestinesi potranno sperare di guadagnare qualcosa".
  A livello internazionale questo accordo ha confermato una divisione già esistente tra nazioni pro e contro: Londra, Parigi e Berlino hanno espresso grande entusiasmo, soprattutto la Gran Bretagna che ha ottimi rapporti sia con Israele che con gli Emirati; così come l'Egitto, l'Oman ed il Bahrain plaudono alla importante intesa; moderata con attendismo è l'Arabia Saudita; i meno entusiasti e minacciosi sono il Presidente, aspirante sultano, della Turchia Recep Tayyip Erdogan che minaccia di chiudere le relazioni diplomatiche con gli Emirati, l'Iran confuso sia a livello di politica estera che interna, che definisce l'accordo come una "stupidità strategica", e ovviamente la ormai patetica diplomazia palestinese non compresa più nemmeno dal mondo arabo. Circa la diplomazia italiana a livello media internazionali risulta, come da tempo, purtroppo inesistente.

(L'Opinione, 25 agosto 2020)


La corsa di Nikki l'anti-Kamala che sogna già il 2024

Governatrice Nikki Haley, 48 anni, origini indiane, è stata governatrice della South Carolina e ambasciatrice all'Onu durante i primi anni di Trump.

«Questa elezione sarà un referendum sul socialismo. Se vince Joe Biden, addio all'ordine pubblico e al rispetto della legge, saremo sempre più simili a quei Paesi socialisti che abbiamo combattuto». Ecco l'anti-Kamala Harris, la donna che può rappresentare il futuro del partito repubblicano nel dopo-Trump. È Nikki Haley, 48 anni, un raro esempio di diversità etnica ai vertici del Grand Old Party,
   A lei è toccato il posto d'onore nella prima serata della convention repubblicana, subito prima del presidente. Un trofeo che le spettava, da ex governatrice della South Carolina. Ma anche un premio per il suo capolavoro di equilibrismo. Haley è riuscita a lasciare l'Amministrazione Trump senza litigi, senza rancori, senza libri-scandalo. Appoggia il presidente nella corsa alla rielezione, ma quando fu la sua ambasciatrice all'Onu tenne una linea più ortodossa di lui in politica estera. Amica di Israele, certo, però dura con la Corea del Nord, senza indulgenze verso Kim Jong-Un. Il suo profilo tradizionale da "Guerra fredda 2.0" è l'ideale per accreditarsi presso un establishment di destra - nel Pentagono. tra i falchi del Senato, al dipartimento di Stato - che non ha digerito le sbandate russofile del presidente e altri flirt con leader autoritari come Kim Jong-Un o il turco Recep Tayyp Erdogan.
   Haley è una polemista agguerrita su uno dei terreni di scontro cruciali in questa campagna elettorale: Law and Order. In una fase in cui la criminalità violenta torna a spaventare diverse città americane, accusa il movimento Black Lives Matter: «Perché non danno lo stesso valore alle vite dei poliziotti neri uccisi mentre facevano il loro dovere? Perché non sono solidali con i commercianti neri a cui hanno bruciato e razziato i negozi? Cosa dicono alle famiglie che vivono in quartieri pericolosi, e hanno bisogno della polizia per la loro sicurezza? Anche quelle sono vite nere che contano».
   Di Haley si era parlato come di una possibile sorpresa nel ticket repubblicano, per sostituire il vicepresidente Mike Pence. A lei conviene aspettare un turno. Soprattutto se vince Biden, sarà pronta ad essere tra le voci più aggressive e autorevoli dell'opposizione, per ricostruire il partito repubblicano e candidarsi alla Casa Bianca nel 2024.
   Anti-Kamala Harris, è capace di sfidare la senatrice californiana con armi simili. In comune, le due donne hanno le radici indiane: Nikki è figlia di due immigrati dal Puniab. Si è convertita al cristianesimo quando ha sposato un protestante metodista, ma continua a frequentare le cerimonie religiose della comunità Sikh. Non è sospetta di razzismo, non ha avuto indulgenze verso i suprematisti bianchi: da governatrice della South Carolina fece togliere la bandiera dei Confederati, simbolo delle nostalgie sudiste per l'era dello schiavismo. Osò perfino dichiararsi contraria al Muslim Ban, il decreto presidenziale che vietava l'ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di alcuni Paesi musulmani.
   Da quando si è messa "in panchina" ha lavorato per irrobustire le sue credenziali conservatrici. Ha creato un'organizzazione non-profit, stand For America, e solidi legami con think tank della destra neoliberista come la Heritage Foundation.
   Oltre a una 'linea di politica estera "occidentalista", oltre alla linea dura sull'ordine pubblico, tra i suoi bersagli prediletti c'è il Green New Deal, tutto ciò che sa di socialismo. Adora attaccare Alexandria Ocasio-Cortez dipingendola come la suggeritrice occulta della linea politica di Biden,
   Un suo asso nella manica è l'amicizia personale con lvanka Trump, la figlia prediletta del presidente. Questo è servito a farle "perdonare" gli sgarbi compiuti nella campagna elettorale per le presidenziali del 2016: appoggiò prima Marco Rubio e poi Ted Cruz per la nomination; inoltre dichiarò che Trump doveva rendere note le sue dichiarazioni dei redditi (non lo ha mai fatto).
   Quando Trump la prese di mira, rispose con fair-play e astuzia, invocando una benedizione su di lui. Nikki e Ivanka hanno capito che occorre un "femminismo-di destra", per recuperare consensi tra le donne, uno dei punti deboli per la rielezione di questo presidente. Comunque vada il 3 novembre, la destra ha già una candidata per la sua ricostruzione. Ma non è una moderata.

(la Repubblica, 25 agosto 2020)


F-35 agli Emirati, garanzie a Israele: parte il Pompeo-tour

Dopo l'accordo di pace, il segretario di Stato premia Abu Dhabi e tranquillizza Israele. Tra le altre tappe il Bahrain, dove si attende il via libera all'intesa con lo Stato ebraico.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - I media di Abu Dhabi e Dubai ieri hanno celebrato con orgoglio le foto di Giove e Saturno inviate dalla sonda emiratina Hope che ha percorso i primi 100 km del suo viaggio verso Marte. Presto in ossequio a Mohammed bin Zayed, principe ereditario e reggente, esalteranno l'acquisto da parte emiratina di caccia di produzione Usa F-35, i più avanzati al mondo.
   A confermarlo indirettamente è stato ieri il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, proprio mentre a Gerusalemme si affannava a spiegare che la vendita ad Abu Dhabi degli F-35 - in possesso solo di Israele in Medio Oriente - non è stata ancora definita e non rientra nel quadro degli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati. Ma si farà. È una delle condizioni non scritte più importanti poste da Mohammed Bin Zayed per il via libera ai rapporti alla luce del sole con lo Stato ebraico e per dimenticare i diritti dei palestinesi. Abu Dhabi, forte dell'alleanza con Israele, punta a essere la potenza regionale araba a scapito dei cugini-rivali dell'Arabia saudita. E ha bisogno degli F-35.
   Il governo israeliano si era agitato. Netanyahu si è ritrovato sotto accusa per aver dato tacita approvazione alla vendita degli aerei ai nuovi alleati nel Golfo - ma continua a negarlo - senza aver prima consultato almeno il ministro della difesa Benny Gantz. Pompeo si è precipitato a Gerusalemme. Ha detto che gli Stati uniti troveranno un modo per bilanciare l'aiuto agli Emirati senza che ci siano ripercussioni per Israele. Tel Aviv continuerà a godere, grazie alle armi di Washington - pagate in buona parte con i soldi del contribuente statunitense - di una netta superiorità militare nella regione.
   «Gli Stati Uniti hanno un impegno giuridico» nei confronti di Israele «e continueranno a rispettarlo», ha ricordato Pompeo facendo riferimento alla legge voluta dal Congresso che condiziona all'approvazione di Israele le vendite di armi ai paesi arabi (e non solo), anche quelli che sono alleati e collaborano attivamente con Tel Aviv. Allo stesso tempo il segretario di Stato ha fatto capire che ci sono anche gli Emirati con cui gli Usa «hanno rapporti in materia di sicurezza da oltre 20 anni...a cui abbiamo fornito assistenza tecnica e militare ... e continueremo ad accertarci di fornire loro ciò di cui hanno bisogno per mettere al sicuro la propria gente dalla minaccia [iraniana]». In sostanza ci sono in ballo anche i miliardi di dollari che gli Emirati sono pronti a spendere per avere gli F-35 e Tel Aviv deve mostrare un po' di flessibilità.
   Gli USA ora parlano di nuovi importanti sviluppi diplomatici. «Spero di vedere altri paesi arabi unirsi a tutto questo», ha detto Pompeo riferendosi all'accordo Israele-Emirati: «Per gli arabi è l'occasione di lavorare fianco a fianco, di riconoscere lo Stato di Israele e rafforzare la stabilità in Medio Oriente e migliorare la vita delle persone». Washington preme sull'Arabia saudita, vuole una decisione in tempi stretti. Ma da Riyadh arrivano pochi segnali. Negli ultimi due-tre anni i Saud erano apparsi i più pronti all'accordo con Israele. Invece, dopo il passo fatto da Abu Ohabi, Mohammed bin Salman, erede al trono saudita, ha preso male la love story tra Emirati e Israele e ha tirato il freno. Come d'incanto si è ricordato dei diritti dei palestinesi che proprio lui aveva totalmente messo da parte. Ha fatto sapere che, senza lo Stato palestinese, Riyadh non firmerà alcun accordo. Più semplice il caso del Bahrain, una delle tappe del tour di Pompeo, assieme a Sudan ed Emirati. Re Hamad, si dice, a Manama comunicherà a Pompeo la sua decisione definitiva sui tempi della normalizzazione con Israele. E altrettanto forse farà il Sudan dove si è recato il capo del Mossad, Yossi Cohen, il vero artefice dell'accordo Emirati-Israele.
   
(il manifesto, 25 agosto 2020)


La guerra sul budget che può portare Israele a un'altra crisi

Economia e politica. Braccio di ferro sull'approvazione della Finanziaria, in ritardo per l'ostruzionismo di Netanyahu.

di Roberto Bongiorni

Nell'anomala "guerra del Budget", che da tre mesi sta lasciando Israele col fiato sospeso, un'altra elezione politica (la quarta in meno di due anni) sarebbe stata scongiurata solo all'ultima ora. Le schermaglie tra Benjamin Netanyahu, premier e capo del partito conservatore Likud, e il ministro della Difesa, Benny Gantz, leader del partito centrista Blu e Bianco che dovrebbe subentrargli tra più di un anno come premier in un Governo a rotazione, stanno spaccando Israele.
  Per non lasciare troppo a lungo orfano di un Budget nazionale il Paese, la legge israeliana prevede infatti che; qualora la legge di bilancio non sia approvata entro 100 giorni dalla formazione del Governo (in questo caso entro la mezzanotte di ieri), il Parlamento, la Knesset, si dovrebbe automaticamente sciogliere, aprendo la strada alle elezioni. Per scongiurare questo pericoloso scenario, Netanyahu, domenica sera, ha sciolto le riserve dando il suo benestare per votare una legge ad hoc che consentisse di rinviare la data per approvare il budget al prossimo al dicembre. Ma ieri, poche ore prima del voto ,il Likud ha accusato Blu e Bianco di non accettare un accordo di compromesso e quindi di voler trascinare il Paese verso il voto. All'ultimo i due leader hanno assicurato che i loro partiti avrebbero appoggiato il rinvio del budget al fine di evitare un nuovo voto. Ma più che puntare alla stabilità, l'intesa ha più le sembianze di una pace armata. Lo scontro è solo rinviato a dicembre.
  Il tutto, proprio mentre il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo' iniziava proprio da Gerusalemme il suo tour verso altri Paesi arabi nel tentativo di convincerli a normalizzare le relazioni con Israele, sulla scia dello storico accordo di pace avvenuto con gli Emirati Arabi Uniti lo scorso 13 agosto. E mentre gli uomini di Netanyahu litigavano con quelli di Blu e Bianco, rischiando di far crollare il Governo, Bibi incontrava Pompeo e mostrava il suo apprezzamento quando il segretario di Stato Usa dichiarava: «Mentre mi accingo a proseguire questo viaggio ho fiducia che vedremo unirsi altri Paesi agli Emirati. Un fatto che contribuirà alla stabilità della regione e al miglioramento di vita degli abitanti». E aggiungeva: «Mi auguro che un giorno anche l'Iran normalizzerà i rapporti».
  Comunque vada, le divergenze tra i due schieramenti restano ampie, quasi incolmabili, anche e soprattutto sul Budget. Bibi ne vorrebbe uno valido per un anno, Gantz invece punta ad un bilancio unico anche per tutto il 2021. Il motivo è semplice: un budget più lungo impedirebbe a Netanyahu di far cadere il Governo prima che Gantz, che oggi è vice premier e ministro della Difesa, inizi il suo periodo di rotazione (18 mesi) da primo ministro. Se prevalesse il budget di un anno, Netanyahu, in base all'accordo stretto con Gantz, potrebbe votare contro l'approvazione del successivo budget e avere mano libera nell'indire nuove elezioni senza dover automaticamente passare all'alleato-sfidante la premiership ad interim.
  Una lite imbarazzante. Davanti alla quale il presidente della Repubblica, il moderato Reuven Rivlin, ha perso la pazienza. A inizio agosto era sbottato contro Bibi e Gantz: «lsraele non è la vostra bambola di pezza», aveva tuonato. «Smettete di parlare di elezioni anticipate!»
  Se nel vicino Libano la situazione è drammatica, anche in Israele la crescente instabilità politica, unita alla Pandemia di Corona virus, stanno mettendo a dura prova il sistema Paese. Non appena (circa due mesi fa) il Governo di Gerusalemme ha ammorbidito le severe restrizioni alla vita sociale ed economica per dare una boccata di ossigeno all'economia, l'epidemia di Covid-i9 ha subito rialzato la testa, accelerando a un ritmo mai visto prima. A metà agosto, in sole 24 ore, i nuovi contagi erano saliti di 1.640 unità. Non è poco per un Paese di soli nove milioni di abitanti. La situazione è da ritenere seria. I contagi accertati superano le diecimila unità, i decessi quota 840.
  La decisione, a fine maggio, di aprire le scuole prematuramente confìdando che la Pandemia fosse ormai sotto controllo, e quindi sperando di dare un impulso all'economia, si è rivelata un boomerang che gli israeliani rischiano di pagare ancora a lungo. I giovani studenti hanno dato vita a decine di focolai che ancora si fatica a controllare. Pochi giorni dopo quella decisione, in una scuola di Gerusalemme si è registrato forse il più esplosivo focolaio all'interno di un istituto scolastico da quando si è diffusa la Pandemia di Covid in tutto il mondo.
  È vero, la mortalità resta decisamente più bassa rispetto ad altri Paesi, ma gli israeliani non sembrano dare peso a questo dato. Buona parte della popolazione ha invece criticato aspramente la gestione della Pandemia da parte di quel Governo di Emergenza nazionale, in cui da maggio ha preso il timone come primo ministro proprio Bibi Netanyahu, il premier più longevo della storia di Israele, al suo quinto mandato, ma ampiamente contestato da un crescente numero di israeliani, per diverse ragioni, ma anche e soprattutto per il processo che lo vede incriminato per tre accuse di frode e corruzione.
  La rabbia contro Bibi leader del partito conservatore Likud, monta di settimana in settimana. I suoi oppositori hanno manifestato quasi dappertutto. Numerose volte a poche decine di metri dalla residenza del primo ministro, a Gerusalemme (domenica sera sono stati in 10mila, 30 le persone arrestate). Anche vicino alla sua casa sulla spiaggia, appena fuori Tel Aviv, fino a bloccare oltre 10 importanti intersezioni stradali. La gente è esasperata, e preoccupata. Due sono le grandi paure, che sembrano andare di pari passo: la crescita dei contagi e quella della disoccupazione. Gli sforzi profusi dal Governo per arginare entrambe le pericolose spirali sono stati finora poco efficaci. La bassa disoccupazione, il fiore all'occhiello di un Paese con tassi invidiabili solo un anno fa (nel 2019 era sotto il 4%) , è balzata al 27% in aprile. L'economia nel 2020 potrebbe registrare, secondo la Banca centrale di Israele, una contrazione dal 6 al 9%, a seconda degli scenari e dei risultati nella lotta contro il virus. Ma le autorità finanziarie locali sono state chiare: ci vorranno comunque cinque anni per ritornare alla normalizzazione economica, ai livelli precedenti il Covid-19,
  Certo, in Israele quasi ognuno ha i suoi guai. Ma Bibi sembra averne di più. E sullo sfondo ci sono i blitz militari contro la Striscia di Gaza, da cui, anche in questo periodo, vengono lanciati palloncini incendiari, ma anche razzi, verso il territorio di Israele. Che sarebbe anche pronta a lanciare un'ampia offensiva contro la Striscia.
  Ma un altro fronte aperto sarebbe l'ultima cosa di cui avrebbe bisogno la sola democrazia del Medio Oriente. Con i suoi riottosi politici.

(Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2020)


Il soldato di Israele che voleva vincere la pace

di Simonetta Della Seta

Arrigo Levi
«Sono un ebreo non praticante, come erano non praticanti i miei genitori. Quanto alle nostre origini... i miei Levi, prima di insediarsi a Modena, quando Modena succede a Ferrara come capitale del Ducato estense, erano ebrei romani, presenti a Roma già prima di Gesù. Non ci sono, ovviamente, prove, ma si tratta solo di antiche storie di famiglia. La sola cosa certa è che io discendo da uno dei 22mila leviti maschi, dall'età di un mese in su, censiti da Mosè e Aronne dopo l'uscita d'Egitto. Quanto alla famiglia materna, aveva per cognome Nathan, tradotto nell'italiano Donati, a partire da un Nathan Nathan trasferitosi nel ducato di Modena nel 1601. Erano benestanti, banchieri e commercianti». È cosi che Arrigo Levi esordi a Gerusalemme di fronte al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel convegno "Italia-Israele: gli ultimi centocinquanta anni". Continuò: «La mia famiglia si è salvata dalla Shoah emigrando nel 1942 in Argentina, tornando in Italia nel 1946. Nel 1948 sono partito per Israele, per partecipare alla guerra di indipendenza come volontario dall'estero ... Il primo gennaio 1949 fummo gli ultimi a rientrare in Israele dall'Egitto, alle due del mattino ci svegliarono per dirci che la guerra era finita, ma tornammo indietro per far saltare il grande ponte al 36" km della strada che porta a Suez. Rientrammo in Israele molto contenti anche perché credevamo, avendo vinto la guerra, di aver conquistato la pace».
   Arrigo fece ritorno in Italia per finire l'università a Bologna, laureandosi in filosofia con una tesi sulle radici dell'Umanesimo nella Bibbia. Incerto fra Israele, l'Italia, l'Inghilterra, un PhD in teologia o il giornalismo, scelse il giornalismo e tornò in Israele molti anni più tardi, come inviato e come membro della Trilateral Commission sul conflitto israelo-palestinese, «Ho sempre considerato più che un diritto un dovere dire quello che sinceramente penso in materia, anche quando critico questa o quella linea politica di un governo israeliano in carica. E se vanto questo diritto è perché penso sinceramente, e lo pensava anche Rabin, che per il futuro d'Israele non basti vincere le guerre, ma si debba pensare a come vincere la pace». Su Israele ha pubblicato, tra gli altri, due libri (ltzhak Rabin, 1210 giorni per la pace, 1996 e Israele in bianco e nero, 2006), oltre a due volumi di memorie (La vecchiaia può attendere, 1999 e Un Paese non basta, 2009). I suoi occhi, sempre curiosi, vivaci e instancabili dietro le lenti, si riempivano di una scintilla speciale quando parlava del padre partito volontario nella Grande Guerra, del colore dei campi di grano attorno a Modena, ma anche dei mesi trascorsi nella unità del Negev, della lettera di scuse del Papa lasciata tra le pietre del Muro del Pianto e, prima tra tutte, della sua amata Lina.

(la Repubblica, 25 agosto 2020)


Il Segretario di Stato Pompeo a Gerusalemme per il via all'accordo Israele-Emirati Arabi

GERUSALEMME - Il segretario di Stato americano, Pompeo, è giunto in Israele dove incontrerà il premier, Netanyahu. Al centro dell'incontro, a Gerusalemme, il recente accordo con gli Emirati Arabi e la possibilità di una sua estensione ad altri Stati arabi. Dopo l'incontro, Pompeo partirà alla volta del Sudan, uno dei Paesi che potrebbe aderire all'accordo. Successivamente si recherà negli Emirati. Quest'incontri hanno un significato rilevante nella normalizzazione dei rapporti perché significa l'inizio delle relazioni diplomatiche tra i due paesi: un evento di grande portata perché non era mai successo che un paese arabo del Golfo Persico riconoscesse ufficialmente Israele nonostante il risentimento della Palestina.

(PrimaPress, 24 agosto 2020)


Si può suonare lo shofar sul Monte del Tempio?

Yehuda Glick
La scorsa settimana è iniziato il mese ebraico di Elul, che precede il Capodanno ebraico Rosh Hashanah, il Giorno dell'Espiazione, lo Yom Kippur e la Festa dei Tabernacoli, Sukkot. Elul è un mese significativo ed è tradizione suonare il corno shofar in questo periodo per scuotere l'anima della persona in modo che possa risvegliarsi e utilizzare le festività per migliorare.
Ora, l'ex parlamentare della Knesset, Yehuda Glick, ha scritto una lettera al capo della polizia di Gerusalemme chiedendo che lo shofar sia suonato sul Monte del Tempio durante Elul e a Rosh Hashanah.
    "Siamo all'inizio del mese di Elul e davanti a noi ci sono i giorni terribili, Rosh Hashanah, Yom Kippur e Sukkot. Come sapete, è un ordine della Torah suonare lo shofar a Rosh Hashanah, ed è stata usanza in Israele fin dai giorni dei saggi suonarlo ogni giorno del mese di Elul ",
ha scritto Glick.
Oggi è il quarto giorno di Elul e lo shofar non si è ancora sentito sul Monte del Tempio.

(israel heute, 24 agosto 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Netanyahu accetta il rinvio del bilancio per evitare le elezioni

In Israele il temuto ritorno alle urne, le quarte elezioni in meno di un anno e mezzo, sembra essere stato evitato, almeno per il momento. Il premier Benjamin Netanyahu ha accettato all'ultimo momento di sostenere una proposta di legge per spostare di 120 giorni la scadenza per approvare il bilancio, all'origine dello scontro con l'alleato di governo Blu e Bianco. "Ho deciso di accettare il compromesso proposto dal deputato Zvi Hauser, è la giusta soluzione per Israele in questo momento", ha affermato il premier in un discorso trasmesso in tv. "E' il tempo dell'unità, non delle elezioni; lavoriamo uniti e insieme. Se agiremo in armonia, il governo finirà il suo mandato", ha aggiunto il leader del Likud che, tuttavia, non ha avvertito gli alleati centristi della sua intenzione di accettare il compromesso, lasciando che lo scoprissero alla conferenza stampa, cosa che non ha fatto loro piacere.
   "Solo le azioni determineranno il risultato", ha risposto Blu e Bianco, esortando "Netanyahu a mantenere la sua promessa di evitare elezioni e confermare l'accordo (di governo), in nome della sicurezza e del benessere del popolo israeliano". "E' tempo di essere trasparenti e di dire all'opinione pubblica cosa è stato detto al tavolo negoziale, c'è una sola verità e non può essere compromessa", ha aggiunto il partito di Benny Gantz in una nota. Alla fine di aprile, Netanyahu e Gantz hanno stretto un accordo per dare vita a un governo di coalizione in modo da far uscire il Paese dall'impasse politico che perdurava da quasi due anni, ma la convivenza al potere non è stata facile in questi mesi. Nuovo grave motivo di scontro è stata la legge di bilancio la cui approvazione entro il 25 agosto è necessaria per evitare l'automatica caduta dell'esecutivo e il ritorno alle urne. Il leader del Likud spinge per approvare un budget che riguardi solo i pochi mesi restanti del 2020, sostenendo che l'iniziativa è necessaria a causa dell'incertezza provocata dall'epidemia di coronavirus, mentre il partito centrista del ministro della Difesa e premier alternato Gantz punta a redigerlo biennale, così come previsto nell'intesa di governo. Secondo Blu e Bianco, l'approvazione di un budget limitato al 2020 permetterebbe a Netanyahu, in base al complicato accodo stretto con Gantz, di avere mano libera il prossimo anno nell'indire nuove elezioni senza dover automaticamente passare all'alleato-sfidante la premiership ad interim. Da settimane circolano voci su un possibile ritorno alle urne, prospettiva accarezzata dal leader del Likud che potrebbe voler tentare di rovesciare il banco e tornare al potere, stavolta da solo e con pieni poteri decisionali. Dopo l'approvazione stanotte, in Commissione Finanze, della bozza di legge per il rinvio a fine dicembre della scadenza per approvare il budget, ora spetta alla plenaria della Knesset votare per impedire nuove elezioni anticipate.

(AGI, 24 agosto 2020)


Sadat, se il sogno si avvera

L'accordo di pace fra Emirati ed Israele

di Reda Hammad*

Quando il presidente egiziano Anwar Sadat sorprese il mondo nel 1977 con la storica visita a Gerusalemme, abbracciando il premier israeliano Menachem Begin, molti dubitavano che si sarebbe avverato il sogno della pace tra Stato ebraico e Paesi arabi. Sadat ha pagato con la vita il prezzo della pace perché è stato assassinato dalla Jihad islamica il 6 ottobre 1981. Ma il suo sogno, già rafforzato dalla pace fra Giordania e Israele del 1994, ha fatto un cruciale passo avanti quando Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele hanno siglato l'accordo per normalizzare le relazioni. Il sogno di Sadat non era solo di vedere un giorno i discendenti della nazione araba coesistere con i discendenti dello Stato israeliano, credeva in qualcosa di molto più ambizioso: che sarebbe arrivato il giorno in cui i Paesi arabi avrebbero abbracciato Israele per costruire un comune futuro di prosperità. E questo è il vero significato dell'Accordo di Abramo.
   Gli Emirati Arabi possono ora essere fondamentali per arrivare ad un accordo di pace che servirà alla causa palestinese come per dare impulso al progresso economico e commerciale nell'intera regione. Si tratta di un passo storico e non è stata una sorpresa per chi nel mondo arabo non ha mai cessato di credere nel sogno di Anwar Sadat. Lo è stato invece per chi si oppone alla pace, predica il terrorismo, plaudì all'assassinio di Sadat e pur richiamandosi alle origini dell'Islam continua ad ignorare che Muhammad, il Messaggero di Dio per i musulmani, siglò accordi con gli ebrei di Medina dando una chiara indicazione a favore dell'idea di convivenza e del desiderio di pace del Profeta con i non musulmani. Il trattato di Medina includeva gli scambi commerciali tra musulmani ed ebrei, ed i mercati ebraici dell'epoca erano pieni di musulmani all'interno della città così come le donne musulmane erano solite andare a comprare dagli ebrei senza imbarazzo. Uthman Ibn Affan, uno dei califfi più importanti dell'Islam, comprò il pozzo di Rumah da un ebreo e quando dopo la battaglia di Khaybar gli ebrei temevano l'espulsione, Muhammad chiese loro di restare per coltivare la terra in pace con i musulmani.
   Le radici della convivenza fra arabi ed ebrei sono profonde nella storia e nella fede dell'Islam. Ma a causa del trattato di pace con Israele, Erdogan minaccia di chiudere l'ambasciata turca negli Emirati Arabi, dimostrando di ignorare proprio la storia dell'Islam e dei musulmani, pur affermando di esserne il protettore. Al contrario di Erdogan, l'Egitto sostiene gli sforzi internazionali per promuovere la pace in Medio Oriente e il presidente Abdel Fattah al-Sisi non ha esitato a definire storico l'accordo tra gli Emirati ed Israele, augurandosi che altri Paesi del Golfo seguano tale esempio perché questo è il modo migliore per sostenere la causa palestinese.

* L'autore è un giornalista egiziano


E’ buono che un giornalista egiziano approvi e incoraggi la pacifica convivenza tra arabi e ebrei, ma sulla sintetica presentazione di mosse e intenzioni di Muhammad forse qualcuno avrebbe da ridire. M.C.


La pia illusione di una pace con i palestinesi

Ormai chi parla di pace con i palestinesi lo fa solo per ipocrisia. La pace non è economicamente vantaggiosa per i ladroni di Ramallah.

di Franco Londei

L'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti per l'apertura di piene e regolari relazioni diplomatiche ha provocato diverse reazioni e ottenuto risultati, tra i quali c'è anche quello di aver messo a nudo l'ipocrisia di chi parla ancora di pace con i palestinesi.
   Le reazioni scomposte e di disappunto dei leader di Ramallah alla notizia dell'accordo, nonostante lo stesso accordo sventasse l'annessione israeliana di parte della Cisgiordania (Giudea e Samaria), sono la dimostrazione lampante della assoluta mancanza da parte palestinese di qualsiasi volontà di raggiungere con Gerusalemme un qualsiasi accordo che metta fine alla annosa questione del conflitto israelo-palestinese.
   Non è una novità. I palestinesi hanno avuto molte occasioni per creare un proprio Stato e mettere fine al conflitto con Israele. Ma, molto semplicemente, non gli conviene.
   Oggi la cosiddetta "Palestina" è una dei maggiori beneficiari di aiuti internazionali. Ogni anno a Ramallah arrivano centinaia di milioni di dollari che dovrebbero servire a costruire le infrastrutture e l'economia necessari alla creazione di uno Stato.
   Tutto questo avviene da decenni. Eppure la cosiddetta "Palestina" versa nella miseria più nera mentre nessuno chiede conto ai leader palestinesi che fine facciano gli aiuti internazionali.
   Sta tutta qui la mancanza di volontà da parte palestinese, o meglio, della leadership palestinese, di raggiungere un qualsiasi accordo con Israele. È una squallida questione di denaro. L'antisemitismo, l'alimentare continuamente odio verso gli ebrei anche ai bambini sono mezzi funzionali a mantenere questo stato di cose. E funziona visto che il palestinese medio odia gli israeliani mentre sorvola sulle ruberie dei suoi leader.
   Hanno creato generazioni di terroristi, movimenti armati, alimentato odio verso gli ebrei solo per il vil denaro.
   Quelli che nel mondo, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, credono che si possa raggiungere la pace con i palestinesi sono quindi solo degli illusi. La pace non è conveniente per i boss di Ramallah, non è conveniente economicamente. E poi pace vorrebbe dire Stato Palestinese, un impegno che nessuno dei ladroni di Ramallah vuole assumersi. Troppo complesso e, di nuovo, poco conveniente.

(Rights Reporter, agosto 2020)


I ministri rabbini contro Gamzu, lo zar anti-Covid

di Fabio Scuto

Ronni Gamzu
Israele non riesce a contenere il dilagare della pandemia del Coronavirus. Nonostante i suoi ospedali di eccellenza, il coinvolgimento di strutture altamente efficienti - anche se come lo Shin Bet o l'Home Front Command, sono nate per altre esigente legate alla sicurezza e alla minaccia militare esterna - le sue tecnologie e le sue App per il controllo della popolazione, i contagi aumentano così come le vittime. Numeri spaventosi per un piccolo Paese come Israele. Il governo e il suo "eterno" premier Benjamin Netanyahu non sembrano in grado di affrontare i pericoli della seconda ondata della pandemia, già approdata in Terra Santa. Sono i ministri espressione dei tre partiti religiosi - senza i quali Netanyahu non avrebbe la maggioranza - a guidare la fronda contro lo zar per la lotta al virus, il professor Ronni Gamzu. Le sue proposte per contenere la pandemia sono state ancora una volta bocciate dal Gabinetto. L'obiettivo del suo piano è ridurre il tasso di infezione a 400 nuovi casi al giorno in quattro settimane. Se il tasso di infezione non verrà rallentato entro il 10 settembre, nuove restrizioni potrebbero entrare in vigore durante il mese delle festività ebraiche a partire da Rosh Hashanah, il18 settembre, fino all'11 ottobre, dopo la festa di Sukkot.
   La normativa proposta prevede, nelle aree "rosse" con alti tassi di infezione, un limite massimo di 500 metri dalla propria abitazione; limitare le riunioni ai familiari stretti; chiudere il sistema educativo e anche la maggior parte del trasporto pubblico.
   In altre zone la chiusura di centri commerciali, mercati, ristoranti, eventi e spettacoli. Misure che sono viste dai rabbini come un attacco alla religione, una bestemmia insopportabile. Ecco perché i ministri ultra-ortodossi Aryeh Deri e Yaakov Litzman si oppongono nettamente al piano del professor Gamzu. Porre un limite ai festeggiamenti del "Natale ebraico" - senza le preghiere collettive nelle sinagoghe, i riti dello Yom Kippur, le cene collettive, le visite ai parenti - sarebbero un attentato allo Stato. E il premier al momento tace.

(il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2020)


La pace tra Emirati e Israele e la tela del capo degli 007

Dietro il recente accordo un lungo lavoro del Mossad

di Guido Olimpio

È il 19 gennaio 2010. Mahmoud al Mabhou, alto dirigente del movimento palestinese Hamas, è ucciso nella sua camera d'albergo a Dubai. Chi lo ha eliminato ha cercato di far passare la sua fine per una morte naturale, ma la polizia locale non ha avuto troppi dubbi. E, grazie al grande sistema di telecamere di sicurezza, più ad un grande lavoro di analisi, ha individuato i responsabili dell'attacco. Un team di uomini e donne del Mossad israeliano. I video di sorveglianza, diffusi in seguito, li mostreranno mentre seguono il target vestiti da giocatori di tennis, quando cambiano d'aspetto con una sosta in un bagno, con sorrisi di sfida nei corridoi dell'hotel. Volevano togliere di mezzo al Mabhou in quanto sospettato di alimentare la filiera delle armi in arrivo da Teheran.
   L'agguato ha ripercussioni. Gli Emirati, che per anni hanno mantenuto un canale di comunicazione riservato con Gerusalemme, congelano tutto. Il filo verrà riannodato - spiegano - se lo Stato ebraico promette di non condurre più azioni coperte nel piccolo regno e si impegnerà a fornire tecnologia usata per la sorveglianza. Così sarà.
   Da allora sono cambiate molte cose. Israele e gli sceicchi sunniti si sono riavvicinati in nome della lotta all'Iran sciita e alla sua influenza nella regione. Un processo agevolato dagli Stati Uniti di Donald Trump, ma anche dall'azione svolta non dalla diplomazia ma dal direttore del Mossad, Yossi Cohen. È lui uno dei protagonisti della trattativa. In carica dal gennaio 2016, ex parà, il maestro delle spie ha portato avanti su incarico della dirigenza politica una doppia strategia: cercare di instaurare relazioni con qualsiasi Paese arabo pronto a farlo, contrastare con ogni mezzo gli ayatollah e il loro programma militare.
   E Cohen si è messo in viaggio. A bordo di piccoli jet ha raggiunto posti sicuri per dialogare, offrire e ascoltare condizioni. Spettacolare l'operazione che nell'Ottobre 2018 ha permesso la visita del premier Netanyahu a Muscat. Collocato nella parte settentrionale dell'Oceano Indiano, vicino a Hormuz, la porta del Golfo, l'Oman ha da sempre la funzione di mediatore. Favorisce il dialogo, cerca di sfuggire alla logica settaria e della contrapposizione. Oggi dicono che potrebbe essere il prossimo governo a stabilire relazioni piene con Israele, seguendo l'esempio degli Emirati. Altri ipotizzano che possa essere il Bahrein, avversario di Teheran, o il Marocco, attore importante che ha avuto contatti con esponenti israeliani in momenti difficili. Nel fine settimana sono rimbalzate voci su un incontro tra Cohen e funzionari sudanesi.
   Ci si chiede se l'idea di affidarsi ad uno 007 invece che a fior di diplomatici non sia stata una scelta inusuale. Ma probabilmente il premier Netanyahu ha deciso così perché voleva sottolineare la svolta come un successo personale ma anche garantire gli interlocutori attraverso un messaggero speciale. Il numero uno del Mossad.
   In quest'epoca di crisi e instabilità il pragmatismo batte tutto e tutti. Gerusalemme, attraverso società private dove non sono pochi gli ex della sicurezza, ha già messo a disposizione dei nuovi amici mezzi sofisticati. In parallelo sono nati affari. E altro seguirà. Facile comprendere perché l'Iran consideri quanto avvenuto uno sviluppo inquietante: ci saranno conseguenze se i nostri interessi saranno minacciati, è stato l'avviso dei vertici militari.

(il caffè, 23 agosto 2020)


Il presidente della Comunità ebraica di Graz aggredito davanti alla sinagoga

 
Immagini del ricercato
Il presidente della comunità ebraica di Graz, Elie Rosen, è stato aggredito sabato sera davanti all'edificio della comunità ebraica da uno sconosciuto con un bastone di legno.
  Secondo la portavoce della comunità ebraica, Brigitte Wimmer, Rosen voleva entrare nel parco della comunità ebraica con la sua auto quando è stato aggredito. Durante il tentativo di entrare nella zona della sinagoga, il presidente e una scorta si sono accorti di un uomo con un berretto da baseball e una bicicletta che stava trasportando una pietra.
  Quando Rosen ha lasciato la sua macchina, è stato aggredito dallo sconosciuto con un bastone di legno, a quanto pare una mazza da baseball. Il presidente è riuscito a risalire in macchina all'ultimo momento; poi l'attaccante ha colpito il veicolo con la mazza da baseball prima di fuggire, ha detto Wimmer.

 La sinagoga attaccata due volte
  Secondo la polizia, lo sconosciuto era molto simile per statura e aspetto alla persona che è stata vista dalle telecamere di sorveglianza mercoledì e venerdì di questa settimana nel corso degli atti vandalici alla sinagoga di Graz.
  Venerdì scorso, intorno alle 23:25, lo sconosciuto aveva gettato dei pezzi di cemento verso la sinagoga: quattro vetri delle finestre sono stati leggermente danneggiati, uno rotto. Secondo le dichiarazioni dei testimoni, è probabile che l'autore del reato sia un uomo che indossava un berretto bianco e dopo il crimine è fuggito verso Griesplatz su una bicicletta rossa.

 Schützenhöfer: "Attacchi profondamente riprovevoli"
  "Gli attacchi alla casa di preghiera ebraica a Graz sono disumani e profondamente riprovevoli", ha detto il governatore Hermann Schützenhöfer (ÖVP) in risposta all'atto vandalico. Era "molto preoccupato per queste crescenti invettive odiose", e ha sottolineato: "Non ci può essere assolutamente nessuna comprensione per questi atti distruttivi di vandalismo!"

 Nagl: "Non c'è posto per l'odio verso gli ebrei"
  "Questo attacco codardo e subdolo ci consente di avvicinarci ancora di più ai nostri concittadini ebrei", ha detto sabato il sindaco di Graz, Siegfried Nagl (ÖVP).
  La sinagoga ebraica di Graz fu ridotta in macerie durante la notte dei pogrom dal 9 al 10 novembre 1938. Nel novembre 2000, la casa di preghiera ebraica è stata riaperta sui muri rimasti.
  Chi attacca deliberatamente una comunità religiosa e quindi anche la libertà religiosa attacca anche la città: "L'odio per gli ebrei e l'antisemitismo non devono avere posto nella nostra società. Più che mai, questi atti devono ricordarci di continuare ad agire contro di loro apertamente e con decisione in futuro. Speriamo in un rapido chiarimento e che l'autore o gli autori del reato siano assicurati alla giustizia ".
  Soltanto mercoledì sera il muro esterno della sinagoga è stato imbrattato di slogan filo-palestinesi e altri slogan.

(Steiermark Orf.at, 23 agosto 2020- trad. www.ilvangelo-israele.it)


Accordo Israele Emirati Arabi Uniti: potrebbe essere non l'unico

L'accordo firmato e presentato a sorpresa, sembra portare alla luce collaborazione tra i due paesi già esistenti da qualche anno. In un'intervista al quotidiano israeliano Haaretz, Hend Al-Otaiba, il direttore della comunicazione strategica del Ministero degli Affari Esteri degli Emirati, ha detto che i due paesi sono desiderosi di fare progressi nella normalizzazione dei rapporti e relazioni e che negli ultimi tempi, queste sono cresciute ed era ormai solo questione di tempo che ciò accadesse.
Il quotidiano, ha poi sottolineato che vi sono già uffici segreti che rappresentano gli interessi israeliani in vari paesi del Golfo.
Che fosse in progetto questo accordo, si può vedere dalla velocità con cui sono iniziate le collaborazioni tra i due paesi in vari settori, come le telecomunicazioni, la sanità e l'agricoltura, oltre alla sicurezza.
Altri stati arabi hanno accolto con favore quest'accordo, Egitto e Bahrein in particolare, e potrebbero esserci altri stati che sono pronti a regolarizzare i propri rapporti con Israele, nonostante che le popolazioni di questi paesi, si sono espresse con manifestazioni in senso contrario.
Il presidente degli Stati Uniti, artefice a suo dire di tutto ciò, ha detto che nelle prossime settimane ci saranno i leader di due altri paesi arabi che seguiranno l'esempio degli Emirati.
Secondo gli accordi, Israele dovrebbe fermare l'annessione dei territori occupati in West Bank, ma già il suo primo ministro ha riferito che Israele non sta abbandonando i suoi piani per l'annessione della valle del Giordano e gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata.
L'Autorità Palestinese e Hamas definiscono l'accordo Israele-Emirati Arabi Uniti: "Una pugnalata alle spalle".

(DaillyMuslim.it, 23 agosto 2020)


Israele e la strategia dei cerchi concentrici

di Ugo Volli

Quando Israele nel 1948 proclamò la sua indipendenza, fu assalito dagli eserciti degli stati arabi circostanti. Miracolosamente li sconfisse, ma i vicini arabi non desistettero dal proposito di distruggere lo stato degli ebrei, con altre guerre, campagne terroristiche, boicottaggi economici e infine con l'invenzione dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la delega ad essa del lavoro sporco della violenza contro gli ebrei e di quello meno sanguinoso ma altrettanto pericoloso della propaganda.
   Per contrastare quest'odio dei vicini, Israele seguì quella che Ben Gurion definì la strategia dei centri concentrici. Tutt'intorno ai confini dello stato ebraico c'era un cerchio di sanguinosi nemici; ma al di là di essi c'era un secondo cerchio di possibili alleati, come l'Iran allora governato dallo Scià, la Turchia, l'Etiopia e più lontano gli Stati Uniti, in parte l'Europa. Con il ricatto del petrolio e del terrorismo e con la seduzione dell'ideologia terzomondista gli arabi riuscirono ad assicurarsi molti alleati esterni e anche il "secondo cerchio" fu spezzato dalle affermazioni islamiste prima in Iran e poi in Turchia e anche dagli atteggiamenti di presidenti americani come Carter e Obama e dalla viltà degli stati europei. Poi però le cose sono cambiate ancora, per reazione ai revanscismi iraniano e turco anche il primo cerchio dei nemici si è lentamente sgretolato, a partire dalla pace con l'Egitto, fino al recente patto con gli Emirati.
   Certo, restano gli "ultimi giapponesi", come il Qatar e il Kuwait, a ripetere i vecchi slogan, restano i mercenari dell'Iran e resta il terrorismo palestinista che qualche apprendista stregone ha inventato sessant'anni fa e che oggi è difficile bloccare. Oggi si sta consolidando quel che qualcuno ha chiamato una Nato del Medio Oriente, che comprende Israele e buona parte degli stati sunniti. Ma dato che l'Europa ha rinunciato a resistere agli imperialismi, quelli islamici come quello cinese o russo e che l' America, se perde Trump, rischia di tornare alla politica masochista di Obama, più che di una Nato si tratta di un patto regionale di autodifesa. Che ha però tutti gli ingredienti (la creatività e la scienza israeliana, i soldi e il petrolio del Golfo, l'imprenditoria degli Emirati, la collocazione strategica) per diventare anche una zona di straordinario sviluppo.

(Shalom, 23 agosto 2020)


Suha Arafat si scusa con gli Emirati Arabi Uniti dopo le proteste palestinesi

Suha Arafat e consorte
Suha Arafat, moglie del defunto presidente palestinese Yasser Arafat, con un post su Instagram si è scusata con gli Emirati Arabi Uniti per le proteste di alcuni manifestanti palestinesi scoppiate in seguito alla firma dell'accordo che normalizza le relazioni con Israele.
   Il 13 agosto, gli Emirati Arabi Uniti e Israele hanno annunciato uno storico accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.
   "Voglio scusarmi in nome dell'onorevole popolo della Palestina nei confronti del popolo degli Emirati e della sua leadership per la profanazione e l'incendio della bandiera degli Emirati Arabi Uniti a Gerusalemme e in Palestina e per gli insulti ai simboli dell'amato Paese degli Emirati Arabi Uniti. La differenza di opinioni non rovina la giustezza della causa", scrive Arafat allegando una foto in cui appaiono insieme il presidente palestinese Yasser Arafat e il sovrano degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, entrambi defunti.
   L'accordo di normalizzazione della relazioni diplomatiche è un evento enorme perché non era mai successo che un paese arabo del Golfo Persico riconoscesse ufficialmente Israele. L'annuncio di Trump fatto al solito tramite Twitter, è stato accolto con favore da molti politici e osservatori, anche perché tra le varie cose prevede la temporanea sospensione delle rivendicazioni di sovranità di Israele su alcune zone della Cisgiordania, un tema particolarmente caro ai paesi arabi, oltre che ai palestinesi: l'occupazione dei territori palestinesi è infatti il motivo per cui ad oggi solo tre paesi arabi - Egitto, Giordania e ora Emirati - riconoscono Israele in oltre 70 anni. Altri stati, tra cui Qatar e Oman, hanno legami ma nessuna relazione formalizzata.
   Suha Arafat chiede anche alle persone di "studiare e rileggere la storia" per saperne di più su come gli Emirati Arabi Uniti abbiano precedentemente e continuano a sostenere il popolo palestinese e la loro causa. "Dico alle nostre generazioni di leggere bene la storia per sapere come gli Emirati Arabi Uniti, nel passato e nel presente, hanno sostenuto il popolo palestinese e la causa", continua.
   "Mi scuso con il popolo e la leadership degli Emirati per qualsiasi danno arrecato da qualsiasi palestinese a queste persone generose e gentili che ci hanno sempre accolto. Chiedo scusa alla madre degli Emirati, Sua Altezza Sheikha Fatima bint Mubarak, per questo comportamento irresponsabile".

(la Repubblica, 23 agosto 2020)


Israele conferma la perdita di un drone in territorio libanese

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno confermato la perdita di un drone in Libano. "Durante l'attività operativa delle Idf lungo la Blue line, un drone è caduto in territorio libanese", spiegano le forze israeliane in una nota, assicurando che non ci sono preoccupazioni per quanto riguarda la possibile diffusione di informazioni sensibili dal velivolo perduto. Il gruppo sciita libanese Hezbollah aveva rivendicato in precedenza l'abbattimento di un drone israeliano che ha violato lo spazio aereo del sud del Libano. "Un drone israeliano penetrato nello spazio aereo libanese vicino alla città di Ayta el Chaeb è stato abbattuto dai combattenti della Resistenza islamica e ora è sotto il loro controllo", si legge in una breve nota pubblicata sul sito web di Hezbollah. Ayta el Chaeb è un centro abitato e comune del Libano situato nel distretto di Bent Jbail, nel governatorato di Nabatiye, situato ad appena un chilometro di distanza dalla "Blue line", la linea di demarcazione tra il sud del Libano e il nord di Israele.

(Agenzia Nova, 23 agosto 2020)



«... e così saremo sempre col Signore»

Fratelli, non vogliamo che siate nell'ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.
Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati.
Poiché questo vi diciamo mediante la parola del Signore: che noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati;
perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d'arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo;
poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell'aria; e così saremo sempre col Signore.
Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole.

Dalla prima lettera dell’apostolo Paolo ai Tessalonicesi, cap. 4

 

 


Un eroe di Israele

di Michele Silenzi

 
Yonathan Netanyahu
Qualche anno fa, lessi un articolo che ricordava il blitz di Entebbe del 1976 in cui un'unità scelta dell'esercito israeliano atterrò in piena notte nell'aeroporto della città ugandese per liberare più di cento ostaggi ebrei e israeliani tenuti lì da terroristi tedeschi e palestinesi dopo il dirottamento di un volo partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. A comandare quell'impresa epocale era un giovane tenente-colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell'esercito israeliano. Il suo nome era Yonathan Netanyahu.
  Durante il mio soggiorno in Israele per fare ricerca su questo libro, ho avuto modo di conoscere e parlare con entrambi i suoi fratelli: Iddo, medico e autore teatrale, e Benjamin, il primo ministro, che ha avuto la cortesia di ricevermi nella sua residenza di Gerusalemme.
  Yonathan (Yoni) fu l'unico caduto israeliano di tutta l'operazione. In quell'articolo erano riportati anche dei brani dalle lettere che dai diciassette ai trent'anni, ovvero fino a pochi giorni prima di morire, Yoni aveva inviato ai suoi cari. Ne restai colpito per l'intensità, la durezza, la dolcezza e la profondità dell'analisi storico-politica. Ordinai il libro su Amazon (in quel momento ero a Londra e sembrava che nessuna libreria ne possedesse una copia né che fosse in grado di ordinarla).
  Dalle lettere emergeva una sorta di romanzo epistolare di formazione di un giovane che, dopo essere stato plasmato dalla storia del proprio Paese l'avrebbe a sua volta plasmato con l'eccezionalità della sua impresa e del suo carattere. Il cammino di un individuo, del tutto consapevole di sé e delle proprie capacità, come si può notare fin dalle prime lettere, ma che vive con profondità e drammaticità prima l'essere lontano da Israele e poi il suo ruolo all'interno dell'esercito. C'è tutta la trasformazione di un giovane intellettuale in un grande combattente, che altro non voleva fare se non difendere l'esistenza del suo Stato e della sua gente. Un percorso perfetto e brutale, mai dimenticato. Visitando il cimitero militare di Gerusalemme, appoggiato su un fianco del Monte Herzl, la tomba di Yoni, una tra le tantissime tutte identiche le une alle altre, si staccava soltanto per la quantità di sassolini depositati sopra di essa, a testimonianza della quantità di persone passate di lì a dare il loro rispettoso saluto a questo giovane eroe.
  L'eroe, appunto. Terminato di leggere il libro fu quella la prima cosa a colpirmi. L'inequivocabilità di ciò che la sua figura rappresentava. Un eroe autentico, classico, epico. Un eroe di quelli che l'Occidente, per anni, ha tentato di dimenticare, di deridere, di rimuovere attraverso l'oscenità brechtiana "beato il Paese che non ha bisogno di eroi" e sostituendo a questa epica dell'individuo eccezionale quella dell'"eroe normale", che poi non si capisce bene cosa significhi. Infatti c'è solo un eroe possibile, quello dietro cui un intero popolo si raccoglie, quello da cui un intero popolo trae spirito di emulazione e senso di coappartenenza, l'eroe al cui funerale ogni singola mano di un'intera nazione idealmente accompagna il corpo, quello attorno a cui si crea un rito collettivo e individuale di emulazione. Per Israele, Paese ancora umiliato dall'attacco arabo dello Yom Kippur e dalla quasi sconfitta che avrebbe significato annientamento, quell'impresa fu il momento decisivo da cui iniziare a rialzarsi.
  La sconfitta, per Israele, non ha mai avuto lo stesso significato che poteva avere per qualsiasi altro Paese per cui una disfatta militare significa ridimensionamento dei confini o perdita di influenza. Per Israele, la sconfitta ha sempre coinciso con l'annientamento, per questo è sempre stato costretto a vincere, anche quando tutto sembrava perduto Israele ha sempre trovato il coraggio disperato ma lucido per sopravvivere e andare avanti.
Benzion Netanyahu
L'eroe dunque, e la sua formazione. Nelle lettere c'è il dipanarsi di questo racconto epico. Iniziano dal 1963 quando Yoni era con la famiglia negli Stati Uniti dove il padre Benzion, grande storico, direttore dell'Encyclopedia Judaica e, in precedenza, assistente per anni di Jabotinski, uno dei padri della rinnovata idea dello Stato d'Israele, si trovava per fare ricerca. La prima lettera la scrive dai sobborghi di Filadelfia a un suo ex compagno di classe di Gerusalemme. Da qui, come in tutte le altre lettere del suo anno americano, si sente un costante desiderio di fare ritorno in patria. Non importa se la famiglia, a cui pure era legatissimo, si trovava lì con lui. Era alla sua terra che Yoni voleva costantemente ritornare. Ritornare per difenderne l'esistenza. E questo accadrà l'anno successivo. Nell'estate del 1964 ritorna in Israele, da solo perché la famiglia era rimasta negli Stati Uniti, per iniziare il servizio militare. Sarà il momento che cambierà tutto.
  Dalle sue lettere non traspare mai uno spirito militarista, anzi, a volte si avverte il disagio per una vita che non sente interamente sua. Fino a pochi giorni prima della sua morte, fino alle sue ultime lettere, si troverà sempre il desiderio di questo giovanissimo colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell'elite dell'esercito israeliano, di fare ritorno alla vita civile. Perché questo è il punto. Yoni non era uno studente qualsiasi. Era stato ammesso ad Harvard e aveva ricevuto lettere d'invito da Yale e Princeton. Finito il servizio militare obbligatorio per ogni israeliano maggiorenne avrebbe potuto fare ritorno ad Harvard, dove aveva iniziato gli studi di matematica e filosofia per poi abbandonarli perché l'impulso a tornare nel suo Paese per difendere l'esistenza stessa di Israele superava ogni altra aspirazione. C'è un passaggio, in una lettera indirizzata alla sua compagna Bruria durante il periodo di Pasqua del 1975, in cui si capisce chiaramente quanto profondo sia l'attaccamento di Yoni a Israele e il suo legame con tutta l'eredità ebraica: "Ho sempre pensato che fosse la più bella tra le nostre feste. È un'antica celebrazione di libertà, migliaia di anni di libertà. Quando navigo indietro nei mari della nostra storia, percorro lunghi anni di sofferenza, di oppressione, di massacri, di ghetti, di espulsioni, di umiliazione; molti anni che, in una prospettiva storica, sembrano vuoti di ogni raggio di luce, eppure non è così. Perché il fatto che l'idea della libertà sia rimasta, che la speranza persisteva, che la fiamma della libertà continuava a bruciare attraverso l'osservanza di questa antica festa, è per me testimonianza dell'eternità della tensione verso la libertà e dell'idea di libertà in Israele. […] Il mio anelito verso il passato si mescola con il mio desiderio per te e, a causa tua, scendo nel mio passato e trovo il tempo e la voglia di ricordare per condividere la mia vita con te. E con "passato" non intendo soltanto il mio proprio passato, ma il modo in cui vedo me stesso: come una parte inseparabile, un anello della catena della nostra esistenza e dell'indipendenza di Israele." E lui, che si sente appunto un anello della catena dell'esistenza di Israele e del popolo ebraico, ritiene che il suo dovere morale, la sua chiamata sia quella per la difesa dello Stato ebraico. Scrive Yoni: "[il nostro esercito] è l'unica cosa che si interpone tra noi e il massacro della nostra gente, come successo in passato. Il nostro Stato esiste e continuerà ad esistere finché riusciremo a difenderci. Sento che devo dare una mano".
  Un giovane che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, che poteva avere davanti a sé una carriera splendida negli Stati Uniti, sceglie di tornare in uno dei luoghi più violenti e pericolosi al mondo, sceglie di vivere la difficile e poco remunerativa vita dell'esercito, per la necessità di abbracciare ciò in cui crede. Sceglie, con tutta la forza e la radicalità che questa parola implica, la propria strada.
  Quando, con Liberilibri, decidemmo di tradurre le lettere di Yoni in italiano, non ci stupì affatto che nessuno ci avesse pensato prima. L'atteggiamento dei Paesi occidentali verso Israele è quello che si ha, quando va bene, verso un compagno di classe troppo agitato, uno che sembra non faccia altro che creare problemi. Altrimenti è un atteggiamento di disprezzo tout court, si guarda a Israele come a una forza di occupazione che piega sotto il suo giogo i palestinesi, o addirittura come il cancro originario che ha generato il radicalismo musulmano e la destabilizzazione del Medio Oriente di cui siamo testimoni ogni giorno.
  Del resto, mi sembra chiaro che il disprezzo in cui la maggior parte degli europei tiene Israele sia in parte dovuto a una buona dose di odio verso noi stessi e verso i nostri valori fondativi che sembriamo aver rimosso e che invece rappresentano la spina dorsale su cui si regge lo stato ebraico. Parlo dell'orgoglio di esistere e dell'orgoglio per la nostra storia e la nostra identità, la volontà di vivere e di progredire, la capacità di resistere, con tutti i mezzi necessari, agli attacchi di chi vuole privarci della nostra libertà e della nostra cultura. Israele, oltre ad avere tutti i canoni di un grande Paese occidentale in termini di libertà e diritti, poggia solidamente su questi valori che l'Europa ha rimosso o tende a rimuovere perché troppo impegnativi, soffocandoli dentro la rete del politicamente corretto e del solito senso di colpa verso tutto ciò che non è Occidente.
  La figura di Yoni e le sue scelte esemplificano perfettamente questi valori. Una terra come l'Europa, in cui non solo i governi ma gli individui sembrano aver perso completamente di vista questi valori, appare sempre di più come un luogo privo di identità e di rispetto di sé. Appare come una terra perfetta per essere conquistata perché svuotata di qualsiasi tipo di identità propria.
  La rinuncia alle scelte difficili, di cui è la politica a farsi carico, non può però certo essere imputata alla politica stessa. Viviamo in un sistema rappresentativo, tutto ciò che viene fatto è lo specchio inevitabile delle scelte, o, per meglio dire, delle nonscelte dei singoli. Libertà e tolleranza, i valori essenziali e strutturali da cui derivano tutti gli altri, non vivono di vita propria. Sono strutture fragili e, come tali, vanno difese. Non può esistere la libertà a meno che non venga difesa e quindi, la domanda da porsi diventa molto semplice e radicalmente individuale: cosa sono disposto a fare per difendermi? Quando la risposta è generica o evasiva equivale a dire non sono disposto a fare niente. E vedere altri, in questo caso Israele, che invece scelgono con drammatica determinazione ci mette con le spalle al muro, misura tutta la distanza che c'è tra ciò che dovremmo fare e ciò che non vorremmo dover fare.
  L'Europa contemporanea, i giovani più di tutti gli altri, dovrebbero guardare a Yoni come a una figura esemplare perché l'Europa appare sempre più simile a Israele.
 
Iddo Netanyahu
  A Gerusalemme, Iddo, il terzo dei fratelli Netanyahu, ha avuto la gentilezza di farmi da guida. In uno di questi pomeriggi, mentre stavamo finendo il pranzo, gli è arrivata una telefonata dall'ufficio del primo ministro: avevano trovato una mezz'ora per inserire un incontro con lui. Terminati i lunghi controlli all'ingresso della residenza ufficiale, siamo entrati nel patio della villa e abbiamo atteso il suo arrivo su uno dei divani sotto i portici. Dopo poco, da una delle porte-finestre che affacciano sul patio, è comparso Benjamin Netanyahu. La cosa che più di ogni altra mi ha colpito è stata la drammaticità della sua figura, il peso che sembra portare addosso. È un uomo che, in ogni momento, è chiamato a difendere dall'annientamento un'intera nazione e un intero popolo. Un uomo che con le sue scelte può scatenare una guerra di ricaduta mondiale. Un uomo interamente cosciente di questo suo ruolo e che ne porta sulle spalle il peso. Lo si vede nella sua figura, nei suoi passi pesanti, nella voce profondissima, baritonale, nelle parole che escono con calma, precisione ma con la pesantezza di pietre. Qui si coglie la politica nel suo senso più grande e tragico. Chi gestisce il potere e decide di farsi carico fino in fondo delle conseguenze delle proprie scelte, ne porta i segni anche sul corpo. Chi fa politica nel suo significato più profondo è un demiurgo della storia e, nel momento in cui questa è in atto, non è possibile giudicarla. La condanna di ogni grande politico è che sarà giudicato solo dal futuro, probabilmente quando non ci sarà più e dopo che in vita sarà stato per lo più vilipeso spesso quanto più ha compiuto. Questa è la politica e Netanyahu ne sembra un'incarnazione perfetta.
  Parliamo di Yoni, con lui e con Iddo. Mi raccontano della loro vita da ragazzi, delle esperienze fatte insieme e di come il fratello maggiore sia stata una figura fondamentale nella loro formazione. Yoni rappresentava un esempio per i suoi fratelli a cui lui era legato da un profondissimo affetto. Nel 1967, nel periodo in cui Yoni era brevemente ritornato a studiare ad Harvard, scrive a Benjamin che, in quel momento, diciottenne, si trovava in Israele per il servizio militare: "Molto spesso, soprattutto qui in America, mi manchi terribilmente. Anche quando ero in Israele non sentivo la mancanza di nessuno di casa quanto sentivo la tua. Penso che la ragione sia che tu sei il solo vero amico che io abbia mai avuto e che con te ho raggiunto un perfetto livello di reciproca comprensione in tutto."
  Sulla via del ritorno in Italia, il tassista che mi ha portato da Tel Aviv all'aeroporto era di origine georgiana, aveva circa settant'anni ed era arrivato in Israele nel 1970. Aveva combattuto nella guerra del Kippur e aveva continuato a servire nell'esercito come riservista fino a cinquantacinque anni. Gli ho chiesto come vedesse la politica israeliana e dalle sue risposte sembrava uno di quei tassisti grillini che chiamano La Zanzara: i politici sono tutti ladri, a me non piace nessun partito, a me piacevano solo i leader del passato come Begin o Rabin. A quel punto gli ho chiesto cosa ne pensasse in generale dello Stato d'Israele. Ha assunto un'aria di grande calma e mi ha risposto semplicemente che Israele era la cosa più importante della sua vita perché, ha detto, "non mi fa sentire più soltanto ebreo, mi fa sentire israeliano". Ho pensato a lungo a questa risposta, cercando di capirne bene il significato che però, in realtà, era tutto lì davanti. Israele significa la costruzione di uno Stato, basato su una identità condivisa e su una storia, in cui tutti gli ebrei del mondo, più o meno credenti, possono trovare un'identità data dalla nuova identità statuale e territoriale che prima si disperdeva all'interno delle varie comunità locali in cui gli ebrei si mescolavano. Attraverso i confini, attraverso la costruzione di una nazione si è generata o, per meglio dire, si è definita un'identità da coltivare e da difendere.
  L'Europa, chiaramente, non può più essere questo. Gli Stati nazionali in Occidente stanno perdendo il loro senso. Non perché sia stato deciso da qualcuno ma perché le istituzioni sono come organismi, tendono a evolvere, a modificarsi, ad adattarsi all'ambiente circostante. La mutazione nelle tecnologie e nella percezione del mondo da parte degli individui ha naturalmente portato all'abbattimento delle frontiere tra gli Stati più avanzati e mutualmente pacifici generando, in modo spontaneo, la tensione verso un nuovo ordine. Un ordine che, però, non è ancora qui. Ed è proprio nel momento della mutazione, in quel momento di indefinitezza di identità, che si è più vulnerabili agli attacchi.
  L'unione europea è un oggetto indefinito e senza forma. Viene percepita, inevitabilmente, data la sua natura, come un corpaccione burocratico che aggiunge leggi, cavilli e imposizioni a quelle già fin troppo stringenti dei singoli Stati. Tornare indietro, nella comfort zone della difesa delle frontiere nazionali, è semplicemente impossibile. Non si possono resuscitare cadaveri, per quanto pensarlo ci possa far stare bene. Ciò che bisogna fare è creare una nuova identità che prima era data dai confini locali ormai irrimediabilmente disintegrati e non disintegrati soltanto a livello politico ma a livello di percezione individuale. Su cosa allora ricominciare a costruire un'identità comune? Cosa ci sarebbe da difendere, cioè attorno a cosa ci si può stringere per trovare una nuova identità e quindi una vera unione? La risposta mi sembra che possano essere i valori condivisi e la loro difesa con tutti i mezzi, la certezza di essere ancora quella parte del mondo che, come scrive Cormac McCarthy in The Road, porta il fuoco anche nella notte più buia. Per questo bisogna guardare a Israele e a figure come quelle di Yoni, che sono il massimo che la parola Occidente possa esprimere in questo momento, come a un faro da seguire. Sta scritto nella Torah "E sceglierai la vita!" ma per farlo, per compiere la scelta e per sostenere la vita è necessario accettare la possibilità del suo perenne contraltare, la morte. In una lettera del 1963 Yoni scrive: "La morte, quella è l'unica cosa che mi disturba. Non mi spaventa, accende la mia curiosità. È un puzzle che io, come molti altri, ho cercato di risolvere senza successo. Non la temo perché attribuisco poco valore a una vita senza scopo. E se dovessi sacrificare la mia vita per raggiungere il suo scopo, lo farei volentieri."
  "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo" scriveva Benedetto XVI in Caritas in Veritate.
  Non avendo più un'identità definita, non avendo più un'identità fondante, non avendo più una verità su noi stessi su cui poggiare, si resta senza punti di riferimento. Allora si cerca una nuova base sociale nei buoni sentimenti.
  Ci si guarda e ci si contempla dicendo: quanto siamo buoni. E quello diventa il nuovo punto di riferimento. Il nuovo sostrato su cui basare ogni nostro giudizio a cui fare sempre riferimento. La razionalità e il realismo diventano oggetti estranei e mostruosi, categorie che dovrebbero essere quelle del politico scompaiono innanzitutto dalla politica, cioè dal centro delle decisioni, che viene sommersa e dominata dalle ondate popolari di emotività e umanitarismo un tanto al chilo venduto da tutti i più importanti mezzi d'informazione. Meriterebbe un intero articolo, se non un saggio, la foto di Aylan, morto annegato mentre cercava di raggiungere la salvezza dalla guerra, che viene paragonato al bimbo del ghetto di Varsavia con le mani alzate. Perché io non riesco a capire una cosa: chi sarebbero, in questo caso, i nazisti che puntano il fucile? La risposta, implicita in ogni articolo che cita questo esempio, è però chiarissima. Siamo noi! L'osceno Occidente ricco e benestante che uccide con la propria indifferenza. Quanta tronfia solennità in queste affermazioni. Quanta cialtroneria parolaia.
  Pochi giorni prima di leggere queste frasi del tutto prive di senso storico, ero stato allo Yad Vashem. Se volete fare un'esperienza, per quanto rarefatta, dell'orrore che gli atti di uomini contro uomini possano generare, consiglio a tutti una visita. Mettendo piede nel museo, o nel memoriale per il milione e mezzo di bambini assassinati durante l'Olocausto, sarà possibile misurare la distanza tra la realtà e la manipolatoria falsità storica propagandata da chi ha paragonato la tremenda fine di Aylan a quella del bambino con le mani alzate del ghetto di Varsavia. Ogni immagine non rappresenta solo se stessa ma tutta una storia. E la storia che sta dietro al nazismo e l'Olocausto e quella che sta dietro all'ondata di profughi che lascia i Paesi mediorientali dove l'Occidente è stato incapace di usare la violenza necessaria a fermare i tagliagole dell'Isis, sono radicalmente diverse.
  E questo è il punto finale. La necessità della violenza e l'incapacità di riconoscere il male. Per questo una figura come quella di Yoni Netanyahu rappresenta tutto quello che si dovrebbe essere. Un giovane pienamente cosciente del suo ruolo, della sua drammaticità ma anche della sua assoluta necessità. L'idea che il male non si batte provando a rieducarlo, non si batte con il buon esempio, non si batte sentendo e propagandando un insensato senso di colpa, non si batte mostrandosi buoni. Il male si batte soltanto con un cosciente, per quanto drammatico, atto di violenza. Questo significa guardare in faccia la propria epoca con realismo e razionalità. Significa assumersi la responsabilità di agire su di essa e di plasmarla secondo quei valori che noi riteniamo giusti e da difendere. Per questo nulla è possibile, nulla si può fare, per questo niente cambierà finché non decideremo di smetterla di giocare con i buoni sentimenti e di tornare, con sguardo lucido e mente fredda, a pensare chi vogliamo essere. Altrimenti, come è giusto che sia, come capita a tutto ciò che smette di combattere per vivere, saremo sommersi e sostituiti.





Discorso di Shimon Peres in onore del tenente colonnello Yonathan Netanyahu

6 luglio 1976

 
L'operazione Entebbe è unica nella storia militare. Ha dimostrato che Israele è in grado di mantenere non solo frontiere difendibili ma anche una retta statura morale. Contro un picco di terrore, a cui hanno dato supporto il presidente e l'esercito dell'Uganda, a una distanza di oltre quattromila kilometri da casa, la condizione di tutto il popolo ebraico, di fatto la condizione degli uomini liberi e responsabili di tutto il mondo, venne raddrizzata.
  Per questa operazione era necessario assumersi un enorme rischio ma che sembrava più giustificabile dell'altro possibile rischio, quello di arrendersi a terroristi e ricattatori, il rischio che ogni sottomissione e capitolazione comportano.
  Il momento più difficile di questa notte di eroismo fu quando arrivò l'amara notizia che una pallottola aveva strappato il giovane cuore di uno dei migliori figli di Israele, uno dei combattenti più coraggiosi di Israele, uno dei più promettenti comandanti delle nostre forze armate, il magnifico Yonathan Netanyahu.
  L'ho visto alcune notti prima, quando si trovava a capo dei suoi uomini da qualche parte nel Paese, tutto il suo essere teso alla preparazione di un'altra possibile battaglia. Stava in piedi lì, con la sua caratteristica calma, un naturale comandante sul campo.
  Quando questo grande uomo assunse il comando della sua unità, lo consideravamo già un comandante particolarmente dotato, crescendo e innalzandosi ai più alti ranghi di un'unità che lavorava instancabilmente e incessantemente per portare salvezza al suo popolo.
  Quali pesi non mettemmo sulle spalle di Yonathan e dei suoi commilitoni? I compiti più difficili delle forze armate israeliane, le operazioni più audaci. Missioni lontano da casa e vicino al nemico, l'oscurità della notte e la solitudine del guerriero, l'essere alle prese con ciò che è sconosciuto, gli azzardi che ricorrono in pace come in guerra.
  Ci sono momenti in cui il destino di un intero popolo riposa su una manciata di combattenti e di volontari. Essi devono salvaguardare la rettitudine del nostro mondo in un breve spazio di tempo. In questi momenti, non hanno nessuno a cui chiedere, nessuno a cui rivolgersi. I comandanti sul luogo determinano la sorte della battaglia.
  Lo scopo essenziale dell'Operazione Entebbe era di portare in salvo grazie alla forza di Israele, grazie a un'unità militare israeliana, i passeggeri che gli arabi e i tedeschi avevano ridotto a ostaggi ideali per il semplice fatto di essere israeliani.
  Yoni fu il comandante della forza a cui venne affidato il compito di salvarli.
  Non fu scelto a caso per questa missione. Era già stato ben conosciuto come audace e implacabile liberatore. Nel documento che accompagnava la sua Medal of Herosim che gli fu conferita (dopo la guerra dello Yom Kippur), si affermava: "Quando un ufficiale anziano fu ferito a Tel Shams, il maggiore Yonathan Netanyahu, dopo che un primo tentativo era fallito, si offrì volontario per comandare la squadra di salvataggio, e lui riuscì in questa impresa. Per la sua audacia, la rapidità delle sue azioni e la tenacia nel portare a compimento la missione, è stato un modello di ispirazione per i suoi uomini."
  Yonathan era un comandante esemplare. Con l'audacia del suo spirito riuscì ad avere la meglio sui nemici, con la sua saggezza conquistò i cuori dei suoi commilitoni. Il pericolo non lo scoraggiava e i trionfi non gonfiavano il suo cuore. Da se stesso pretendeva molto mentre all'esercito diede l'acume del suo intelletto, la sua competenza in azione e la sua abilità nel combattimento.
  All'università studiò filosofia. Nell'esercito insegnò abnegazione. Ai suoi soldati diede il suo calore umano e in battaglia instillò loro fredda capacità di giudizio.
  Questo giovane uomo fu tra quelli che comandarono un'operazione impeccabile. Ma con nostro grande dolore, questa operazione comportò un sacrificio di incomparabile pena, il primo della squadra d'assalto, il primo a cadere. E per la virtù dei pochi, molti vennero salvati, e per il valore di colui che cadde, una statura piegata sotto il peso di un grande fardello, si innalzò ancora in tutta la sua altezza.
  E di lui, di loro, potremmo dire con le parole di David:
    "Erano più veloci delle aquile, più forti dei leoni…
    O Yonathan, tu fosti ucciso sulle tue colline.
    Sono sconvolto per te, fratello Yonathan…
    Molto generoso sei stato con me, il tuo amore per me fu splendido…"
La distanza nello spazio tra Entebbe e Gerusalemme, all'improvviso, ha accorciato la distanza nel tempo tra Yonathan figlio di Saul e Yonathan figlio di Benzion. Lo stesso eroismo nell'uomo. Lo stesso lamento nel cuore del popolo.

(La Confederazione italiana, 22 agosto 2020)


"I giovani ebrei europei devono sentirsi cittadini di un contesto più ampio"

Intervista ad Amedeo Spagnoletto, direttore del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, ex rabbino capo di Firenze.

- Quanto conta secondo lei che il Meis sia diretto da un rabbino?
  È importante che chi dirige il Meis faccia un ottimo lavoro con tutte le energie che possiede. Non è quindi indispensabile che sia un ebreo o un rabbino. Certamente la conoscenza, il rapporto sentimentale e la passione contano molto in qualsiasi mestiere, a maggior ragione per la direzione di un museo. Come rabbino ho interpretato il mio ruolo andando al di là dei compiti tradizionali. È positivo il superamento del ruolo del rabbino relegato tra le mura della Sinagoga come puro officiante a favore di un'idea di rabbino che diventa essenziale nel ruolo della formazione e della trasmissione. Il mio obiettivo al Meis è far conoscere a tutti gli italiani e soprattutto ai ragazzi delle scuole la bimillenaria storia e cultura ebraica in Italia. Ovviamente con un focus speciale sulla Shoah.

- A proposito della Shoah…
  Noi dedichiamo una mostra ad hoc che era in precedenza al Quirinale: L'umanità negata. È una mostra che fa grande uso di elementi multimediali. È stata pensata con un attenzione particolare alla didattica scolastica. Venne allestita in prossimità della pandemia, adesso stiamo per riproporla con tutte le precauzioni necessarie al fine di metterla a disposizione delle scuole a partire da settembre.

- In prospettiva come valuta il futuro della Comunità ebraica italiana?
  In sintesi: Roma e Milano danno segni di grande vitalità, poi ci sono le piccole e medie comunità che invece ci dicono quanto sia complicato pensare ad un futuro ebraico già nel prossimo ventennio. Per me il futuro dell'ebraismo diasporico in Italia e in Europa sta nella possibilità che le nuove generazioni si sentano cittadine di un contesto più ampio rispetto al luogo in cui vivono. Il punto alla fine è uno solo: quante famiglie ebraiche riesce a costruire una generazione rispetto alla generazione precedente. Su questo si gioca tutto.

- Lo scorso giugno sono stati restituiti alla comunità ebraica romana alcuni volumi trafugati dai nazisti a Roma. Quanti ne mancano ancora all'appello?
  Bisogna chiarire: nel 1943 vennero saccheggiate due biblioteche: la Biblioteca della comunità ebraica romana e la Biblioteca del collegio Rabbinico. Le sorti di queste due collezioni nel dopoguerra furono diverse: mentre la Biblioteca del collegio rabbinico è stata recuperata più o meno intatta in Germania e riportata in Italia, dell'altra, che conteneva volumi importantissimi, non si sa nulla. I volumi che sono stati restituiti alla comunità di Roma lo scorso giugno non fanno parte di questa biblioteca. Li ho visti con i miei occhi e sono libri di argomento ebraico, ma non in ebraico. Ovviamente, la restituzione è un gesto simbolico importantissimo, perché contribuisce a tenere alta l'attenzione. La Biblioteca della comunità ebraica trafugata nel 1943 non può essere svanita nel nulla, da qualche parte quei volumi devono essere, bisogna solo continuare a cercarli.

- Una sua valutazione sull'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti.
  Ogni accordo che favorisca la pace e la convivenza in quel fazzoletto di terra deve essere salutato con grande soddisfazione da parte di tutto il popolo ebraico. Da coloro che vivono in Israele, ma anche da tutti gli ebrei che vivono in altre aree del mondo. Avere relazioni diplomatiche con Israele è un vantaggio per tutti gli stati di quell'area. Lo è stato per l'Egitto, per la Giordania e lo sarà anche per gli Emirati Arabi.

- Qual è la sua posizione rispetto alle donne rabbino?
  Esistono delle limitazioni determinate molto più dall'interpretazione e dal modus con cui alcune leggi sono state vissute nel corso dei secoli. Anche con un'influenza importante derivata dal contesto in cui le comunità ebraiche hanno vissuto queste leggi scritte. Non è casuale che alcune forme rituali ebraiche abbiano una diversa modalità di espressione nelle comunità askhenazite, sefardite, in Italia, in Africa o in Medio Oriente. In Italia, ad esempio, abbiamo testimonianze chiare di come l'istruzione per le ragazze fosse qualcosa di contemplato e ammesso da tempo immemorabile, dal Cinquecento in poi… Sul campo è facile vedere come oggi in Israele anche le donne insegnano materie ebraiche e letteratura rabbiniche. In accademia come in scuole di alta formazione. Più dei proclami conta la prassi e nella prassi la presenza femminile nella formazione religiosa è importantissima da tempo.
Esempio classico di uno che "svicola" davanti a una domanda scomoda



(JoiMag, 22 agosto 2020)


Abu Dhabi: 'presto l'ambasciata degli Emirati a Tel Aviv'

ABU DHABI - Il ministro di Stato agli Affari esteri di Abu Dhabi ha annunciato che in seguito alla normalizzazione dei rapporti con il regime sionista presto si aprirà l'ambasciata degli Emirati a Tel Aviv.
Giovedì sera Anwar Gargash, citato dall'agenzia iraniana Fars News parlando in un colloquio virtuale con il think tank statunitense Atlantic Council ha detto:" dopo la firma definitiva dell'accordo di pace, Abu Dhabi aprirà la propria ambasciata a Tel Aviv. "
Gargash ha poi ribadito che qualunque ambasciata degli Emirati "avrà sede a Tel Aviv" e non a Gerusalemme, dove gli Stati Uniti hanno spostato nel 2018 il loro ambasciatore riconoscendo la città palestinese come capitale di Israele.

(Pars Today, 21 agosto 2020)


Emirati a sostegno della Grecia (dopo la Francia). E mandano gli F16

Quattro F-16 degli Emirati Arabi Uniti sono in arrivo alla base cretese di Souda Bay per partecipare ad una serie di esercitazioni con le forze armate greche.
Gli Emirati seguono così le mosse della Francia, che ha convintamente sostenuto sin dall'inizio la Grecia, a differenza di altri paesi dell'Unione Europea che si sono limitate a generiche dichiarazioni di intento per il dialogo con la Turchia.
La notizia arriva a 48 ore dagli accordi militari firmati da Turchia e Qatar con l'amministrazione di Tripoli. Inoltre Emirati Arabi Uniti e Israele hanno raggiunto uno storico accordo di pace finalizzato alla piena normalizzazione delle loro relazioni diplomatiche. La mossa emiratina in Grecia, dunque, appare come un messaggio preciso inviato ad Ankara.
Inoltre questa mattina il ministro greco degli Affari esteri, Nikos Dendias, ha avuto una conversazione telefonica con il suo omologo degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed. Al centro della discussione la cooperazione bilaterale e le questioni regionali con un'enfasi sugli sviluppi nel Mediterraneo orientale, così come twittato dallo stesso ministero degli Esteri.

(Mondo Greco, 21 agosto 2020)


Rivlin: 'Non resteremo a guardare, i razzi non diventeranno normalita''

"Non resteremo a guardare Hamas fuori controllo". Parola di Reuven Rivlin dopo gli ultimi lanci di razzi e palloni incendiari dalla Striscia di Gaza contro Israele che ha risposto attaccando ancora una volta obiettivi di Hamas nell'enclave palestinese. "Le Idf (le forze israeliane) risponderanno con forza e determinazione - ha detto il presidente israeliano in dichiarazioni riportate dal Jerusalem Post - e continueranno anche se saranno necessari tempo e pazienza" fino al "ritorno della calma". "Incendi, razzi e palloncini esplosivi - ha incalzato - non diventeranno la normalità".

(Adnkronos, 21 agosto 2020)


Orrore per la minorenne stuprata dal branco, Israele scende in piazza

Sarebbero 30 i ragazzi responsabili dell'aggressione avvenuta il 14 agosto in un hotel sul Mar Rosso, ma finora solo uno è stato arrestato. Netanyahu: "Crimine contro l'umanità".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Israele è sotto shock per un'agghiacciante aggressione avvenuta nei giorni scorsi a Eilat, la località di villeggiatura israeliana sulle rive del Mar Rosso. Il 14 agosto, una sedicenne ha denunciato una violenza sessuale di gruppo, avvenuta due giorni prima nella stanza di un hotel della città all'estremo sud d'Israele. Secondo indiscrezioni dalle indagini in corso, si tratterebbe di 30 uomini. La notizia è stata diffusa solo mercoledì sera con l'arresto di un primo sospettato. Ma il nome della ragazza è uscito sui social media e i servizi sociali hanno chiesto di trasferire la giovane in un posto sicuro "per evitare che possa essere minacciata dagli aggressori o loro famigliari".
   Ieri sera, un migliaio di manifestanti si è radunato in sedici presidi sparsi per tutto il Paese. A Gerusalemme qualche centinaio di partecipanti hanno presenziato al raduno spontaneo, donne e uomini che hanno gridato il loro dolore e la loro solidarietà con le vittime della violenza sessuale.
   "Siamo con te, non sei sola"; "Nuda o vestita, il corpo è mio e non tuo"; "Governo svegliati! Vogliamo fatti non parole" sono alcuni degli slogan intonati dai manifestanti. "Siamo qui anche per condannare quella cultura di connivenza verso gli aggressori che consente ancora di pronunciare frasi raccapriccianti come 'era ubriaca', 'aveva la gonna cortissima', 'se l'è cercata': è un fenomeno sociale che dobbiamo sradicare", ci dice Diklà, che ha letto del raduno su Facebook e ha voluto esprimere la propria vicinanza. "L'85% delle denunce presentate alla polizia viene chiuso dalla procura e solo il 3% si risolve in una condanna", dice Revital, attivista di lunga data per i diritti delle vittime di abusi sessuali. "Poi ci si chiede perché le donne non denuncino. Non c'è fiducia nel sistema! È fondamentale aumentare i fondi per questa
 
battaglia, garantire che in ogni ospedale ci sia almeno un'unità competente per gestire le vittime di violenze sessuali, investire nella loro riabilitazione, sociale e psicologica".
   Stando alla ricostruzione dei fatti finora, la giovane si trovava al Red Sea Hotel, ospite di alcuni amici. Si è recata in una delle camere per usufruire del bagno e lì sarebbe avvenuto il brutale stupro da parte del branco. Un primo sospettato di 27 anni - con cui la giovane si era scambiata degli sms, nei quali l'uomo accennava all'esistenza di video dell'atto criminale - è stato arrestato mercoledì. E' lui che avrebbe fornito la versione dei 30 uomini e, secondo fonti vicine all'inchiesta, esiste il sospetto che il numero sia gonfiato per fare apparentemente ricadere la colpa su altri soggetti, sviando le indagini. E' comunque comprovato che si trattasse di un gruppo nutrito, come risulta dalle videocamere di sicurezza dell'hotel sequestrate dalla polizia, che testimoniano un accalcamento di più persone all'entrata di una delle camere. Tuttavia, la proprietaria dell'hotel nega che l'aggressione sia avvenuta lì e attende "i risultati delle indagini". L'albergo è noto per ospitare molti minorenni che fanno uso di alcolici in modo illecito e incontrollato.
   Condanne e dichiarazioni di solidarietà sono arrivate da tutto l'arco politico. Il premier Benjamin Netanyahu ha parlato di "crimine contro l'umanità". Il presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, ha formulato una "lettera aperta" ai giovani del Paese sulla sua pagina Facebook: "In questi giorni pazzi, senza una routine", recita il messaggio, "è fondamentale che capiate l'importanza dei limiti che la nostra società ci impone. La violenza, lo sfruttamento sessuale, lo stupro, sono macchie indelebili, sono crimini in cui la mancanza di limiti distrugge la nostra società".
   La terribile violenza ha rievocato un caso che ha occupato le cronache quotidiane giusto un anno fa: l'estate scorsa, un gruppo di 12 ragazzi israeliani tra i 16 e i 18 anni fu accusato di essere coinvolto nello stupro di una diciannovenne inglese in una camera d'albergo ad Agia Napa, ribattezzata in seguito la "Sodoma e Gomorra cipriota". Dopo una settimana la vittima si era trasformata in colpevole, firmando una dichiarazione in cui sosteneva di aver inventato l'accusa di stupro per vendicarsi del fatto che il gruppo aveva filmato e diffuso l'atto sessuale "avvenuto consensualmente". Dopo qualche giorno, quando gli israeliani, rilasciati, erano già rientrati in Israele, la ragazza ha ritrattato, sostenendo che la confessione le era stata estorta in un momento in cui "pensava sarebbe morta".
   Nonostante ciò, la giovane fu costretta a rimanere altri sei mesi a Cipro, di cui uno trascorso in carcere, condannata a gennaio per falsa testimonianza a quattro mesi con la condizionale (ha presentato subito ricorso alla Corte Suprema). Indipendentemente dall'accertamento della verità processuale, a scandalizzare il Paese all'epoca fu la mancata condanna del comportamento dei giovani, alcuni minorenni, colpevoli di aver ripreso l'atto sessuale senza consenso, accolti invece dalle loro famiglie con canti e bottiglie di champagne al loro rientro in aeroporto.
   "Non ci sono parole per descrivere l'orrore di fronte a queste vicende", ci dice Hagar, che per una volta ha saltato il consueto appuntamento alle manifestazioni sotto casa di Netanyahu. "Ma siamo qui proprio per gridare che tutto ciò non deve passare in silenzio, per dare coraggio a chi deve affrontare, purtroppo, una strada ancora in salita".

(la Repubblica, 21 agosto 2020)


Tour de France 2020, anche Tom van Asbroeck e Hugo Hofstetter al via per la Israel

di Davide Filippi

Ogni giorno, la Israel Start-Up Nation svela un pezzetto della rosa che parteciperà al Tour de France 2020. Dopo gli annunci di Guy Niv, primo israeliano al via alla Grande Boucle, e del belga Ben Hermans, questa volta è il momento di due corridori veloci, adatti alle volate di gruppo ristretto. Si tratta del belga Tom van Asbroeck, 30enne alla prima partecipazione alla corsa francese, e Hugo Hofstetter, corridore transalpino di 26 anni che in questa stagione si è messo in luce vincendo Le Samyn. Anche per lui si tratterà dell'esordio al Tour de France, anzi addirittura per Hofstetter si tratterà dell'esordio assoluto in un Grande Giro.

(SpazioCiclismo, 21 agosto 2020)


Giornata europea della cultura ebraica: Stele funeraria rivede la luce a Crotone dopo 70 anni

di Rolando Belvedere

 
Dopo quasi 70 anni vede la luce. Tolta dall'oblio del deposito di reperti del museo archeologico di Crotone, la stele funeraria ebraica risalente al xv secolo e trovata nel 1954 a Strongoli, paese limitrofo alla città pitagorica. Il manufatto in buono stato di conservazione, misura circa 50x40 cm.
   Successivamente al ritrovamento venne catalogata e lasciata per decenni nel deposito, con altri reperti senza essere mai esposta al pubblico: " Decisiva per la sua riesumazione è stata Antonella Cucciniello direttrice regionale dei musei calabresi , del segretario regionale del MBCT Salvatore Patania e la collaborazione di Gregorio Aversa direttore del museo archeologico di Crotone" , precisa Roque Pugliese - chirurgo d'urgenza, ma anche impegnato a coltivare la memoria con la raccolta di documenti e l'individuazione di siti ebraici - delegato della Calabria per la GECE 2020 e referente per la Calabria della comunità ebraica di Napoli. L'appuntamento con chi scrive è in un torrido pomeriggio estivo al museo archeologico.
   Pugliese arriva con la sua troupe, per filmare l'evento che circolerà sul web in occasione della GECE che si aprirà il prossimo 6 settembre. Non nascondiamo l'emozione di fronte allo straordinario reperto che si spera venga esposto presto al pubblico e dietro al quale si cela la memoria di una comunità secolare vissuta operosamente a Crotone. Nel reperto si legge: "questa stele è del maestro medico Giuda figlio compassionevole e sia l'eden il suo riposo, morto nell'anno 5201" del calendario ebraico (1440 - 41).
   A Strongoli, così come negli altri paesi del Marchesato crotonese, Cutro, Belcastro, Ciro', Santa Severina, Mesoraca, Cariati, Petilia Policastro, Isola Capo Rizzuto, vi erano gruppi di famiglie ebraiche spesso imparentate con quelle della numerosa e ricca comunità di Crotone. La più importante della Calabria e la più tassata rispetto alle altre comunità di Cosenza, Gerace e Rossano, Reggio Calabria e Castrovillari.
   L'archivio storico di Crotone documenta come l'insediamento ebraico a Crotone è di lunga data: nel periodo angioino, aragonese e spagnolo. E abbraccia almeno 4 secoli prima della cacciata nel xv secolo da parte di Isabella la Cattolica. La Giudecca con la sinagoga ora scomparsa era il quartiere o la strada dove gli ebrei abitavano: si trovava fuori le mura vicino alla cattedrale in un'area oggi compresa tra via Suriano e via della pescheria, in prossimità della chiesa di Santa Maria dei Prothospartariis.Gli ebrei crotonesi esercitavano solo le attività commerciali loro autorizzate, oltre alle attività artigianali praticate durante la costruzione del castello Carlo V e nell'esercizio dell'arte medica per cui erano famosi. Dopo l'espulsione dal regno di Napoli nel xv secolo, quelli che non potevano trasferirsi altrove erano costretti a convertirsi e non mancavano quelli che lo fecero solo in apparenza. Certo, alcune famiglie nonostante tutto rimasero a vivere in città e i documenti dell'Archivio storico comunale attestano la presenza ebraica almeno sino al 1730.

(Wesud, 21 agosto 2020)


Caso Dreyfus, c'è un secondo ''J'Accuse!''

All'asta a Parigi un manoscritto inedito di Émile Zola: "Pour la lurnière". Non fu pubblicato perché giudicato troppo violento. Cinque pagine scritte a Londra dove il romanziere andò in esilio per evitare il carcere.

di Giovanni Serafini

PARIGI - La mattina dei 19 luglio 1898 Émile Zola, partito precipitosamente la sera prima da Parigi, arriva alla stazione Victoria di Londra. È un uomo solo, prostrato ma ancora combattivo. A 58 anni ha dovuto affrontare l'esilio per evitare il carcere. Il 13 gennaio di quello stesso anno la pubblicazione del suo J'Accuse! sulle colonne del quotidiano L'Aurore aveva scatenato una tempesta politica senza precedenti. Tre processi in sei mesi. L'ultimo, davanti alla Corte d'Assise di Versailles, si era concluso il 18 luglio con la condanna definitiva a un anno di prigione: lo scrittore che aveva difeso Alfred Dreyfus e accusato di antisemitismo il presidente della Repubblica Félix Faure e l'intero governo, era stato ritenuto colpevole di diffamazione.
   A Londra è andato controvoglia, spinto dai suo avvocato Fernand La Bori e da Georges Clémenceau, caporedattore dell'Aurore, lasciandosi alle spalle la moglie Alexandrine e i due figli che gli ha dato Jeanne Rozerot. la sua amante. Non parla una parola d'inglese. Uscito dalla stazione Victoria si fa portare da un vetturino all'hotel Grosvenor, indicatogli da Clemenceau. Sul registro dell'albergo si iscrive con il falso nome di "Monsieur Pascal". Gli danno una cameretta all'ultimo piano, con una finestra sbarrata da un cornicione. Ha l'impressione - annota nei diario - di essere in galera. Rimane chiuso lì per tutta la giornata e scrive: cinque pagine a penna con inchiostro nero, con molte correzioni e aggiunte, nelle quali ribatte le accuse e afferma la sua verità sull'affare Dreyfus. Si tratta di un articolo intitolato Pour la lumière. che nelle sue intenzioni dovrebbe essere pubblicato sull'Aurore, ma che Clémenceau chiuderà prudentemente in un cassetto. Il manoscritto inedito, per anni parte della collezione del direttore d'orchestra svizzero Alfred Cortot, viene reso pubblico dalla libreria antiquaria parigina "Le Manuscrit Français", che lo metterà all'asta il 18 settembre al Salon du Livre Rare et de l'Autographe. Prezzo base 40 mila euro. Il testo è vibrante, tagliente: «Resteremo i soldati impassibili della verità, incapaci di indietreggiare, capaci di tutti i sacrifici e di tutte le aspettative», scrive l'autore del J'Accuse! E aggiunge: «La verità lampante è che i nostri avversari, fin dal primo giorno e con i metodi più mostruosi, hanno cercato e cercano tuttora di chiudermi la bocca. Della mia lettera al presidente della Repubblica hanno estrapolato qualche riga per impedire che sia fatta luce sull'affare Dreyfus. Il loro piano è imbavagliarmi, spegnere la luce, seppellire per sempre questa storia: è il loro unico desiderio. Ma noi faremo in modo che la verità e la giustizia trionfino».
   Fu Bernard Lazare, spedito a Londra da Clémenceau, a recuperare le 5 pagine di Pour la lumière: Clémenceau le trovò troppo violente, controproducenti per una futura revisione del processo, e al loro posto pubblicò un articolo più temperato, scritto da lui stesso e intitolato Per la prova, firmato Émile Zola (che aveva dato il suo consenso). Rientrato in Francia nel dicembre 1899 grazie a un'amnistia, l'autore di Nanà e Germinal raccontò in un testo per L'Aurore quanto il silenzio gli fosse pesato: «Mi sono imposto l'esilio più totale, ho vissuto come un morto in attesa della verità e della giustizia». Gli rimanevano pochi mesi da vivere, il 29 settembre 1902 venne trovato morto, a terra nella camera da letto, intossicato dalle esalazioni del caminetto. Aveva 62 anni. L'inchiesta rivelò che il caminetto era ostruito: il sospetto che i suoi nemici lo abbiano manomesso non è mai stato archiviato.

(Nazione-Carlino-Giorno, 21 agosto 2020)


Intelligenza Artificiale a caccia di droni, i piloti non autorizzati sono avvisati

Un gruppo di ricercatori israeliani sta sviluppando una tecnologia che consentirà di individuare i piloti non autorizzati.

di Eduardo Bleve

 
Una delle tecnologie che maggiormente ha subito un'ondata di crescita negli ultimi anni è stata sicuramente quella legata ai droni, dei velivoli elettronici di piccole/medie dimensioni in grado di solcare i cieli e controllabili comodamente dal proprio smartphone.
  Questi oggetti hanno trovato un'ampia platea di impieghi, da quello legato al semplice svago, alla fotografia ma anche usi più seri come la ricerca di persone ferite in luoghi angusti difficili da raggiungere a piedi.
  Ultimamente però stiamo assistendo anche alla crescita del mercato di sistemi anti-droni, mosso principalmente dalla preoccupazione di svariati governi riguardo ad un possibile uso negativo degli stessi, il quale minerebbe la sicurezza di strutture come aeroporti, centri commerciali, carceri e basi militari.

 Cosa o chi ?
  Benché il mercato si stia concentrando molto nella ricerca e progettazione di sistemi in grado di allontanare, respingere o anche abbattere i droni, c'è da tenere conto che questi oggetti sono ovviamente privi di volontà propria, essi infatti sono pilotati da soggetti che spesso, nel migliore dei casi, sono non curanti o all'oscuro delle leggi, ma che alle volte possono rivelarsi veri e propri criminali.
  Ovviamente tutto ciò pone al centro delle attenzioni non tanto il drone, ma il suo pilota ergo la sua posizione, ecco perché dunque dei ricercatori stanno lavorando ad una tecnologia che mira, attraverso l'intelligenza artificiale, a individuare immediatamente la posizione del pilota del drone, al momento l'algoritmo sviluppato è in grado di fare una misurazione con una precisione superiore all'80%, con obbiettivo posto ovviamente al 100% con anche la possibilità di calcolare l'esperienza del pilota.
  In particolare la rete neurale sviluppata altro non fa che confrontare le informazioni note, come ad esempio la posizione del drone fornita da un radar, con tutto ciò che essa ha in archivio: dati sul vento, geografici, ora della giornata, la planimetria territoriale, tutti raccolti da altre migliaia di simulazioni, in modo da estrapolare la possibile posizione e fornirne una probabile.

(tecnoandroid, 21 agosto 2020)


Cibo e preghiere quei ponti segreti lanciati dagli ebrei negli Emirati

La svolta diplomatica fra Israele e Eau preceduta dal lavoro delle comunità locali

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — L'antico detto ebraico "due ebrei, tre opinioni" trova una sua emblematica affermazione persino in un luogo dove nell'immaginario collettivo non c'è nemmeno un ebreo, ovvero gli Emirati Arabi Uniti: anche nel Paese del Golfo che ha appena annunciato la normalizzazione dei rapporti con Israele, esistono non una, ma due comunità ebraiche. Ed entrambe hanno un curioso legame con l'Italia.
   Giacomo Arazi rappresenta la quintessenza di quell'ebraismo itinerante e cosmopolita che ha saputo reinventarsi tra una tappa e l'altra della vita. Nato a Beirut, cresciuto a Napoli, emigrato a Londra, nel 2008 si stabilisce per lavoro a Dubai. «All'inizio la mia famiglia era scioccata. La loro generazione vive ancora il grande trauma della fuga dai Paesi arabi a seguito della nascita d'Israele», ci racconta al telefono da Londra, dove è tomato a vivere dopo otto anni negli Emirati. A Duix , incontra qualche collega ebreo e altri li scova cercando su Linkedin i cognomi che paiono famigliari. Inizia a ospitare nella sua villa la preghiera dello Shabbat per un gruppetto di famiglie di espatriati, europei e americani, che con gli anni arriva a includere un centinaio di persone. «Con l'eccezione del Bahrain, siamo la prima comunità ebraica formatasi in un Paese arabo o musulmano dopo svariati secoli», ci spiega Alex Peterfreund, belga, a Dubai dal 2014, portavoce del Consiglio ebraico degli Emirati (JCE) - così si chiama la comunità formalizzata nel 2013, che continua a riunirsi nella ex villa di Giacomo.
   Un paio di anni fa è nata un'altra comunità, il Jewish Community Center, tra i cui pilastri c'è Ilan Uzan, italo-israeliano di origine libica, a Dubai dal 2004. Anche loro hanno la loro sinagoga e qualche anno fa Ilan ha coordinato un'operazione semi-clandestina per portare a Dubai un rotolo della Torà da Roma.
   L'apertura graduale verso la comunità ebraica locale è stata una sorta di banco di prova per ciò che il Paese si appresta ad affrontare con l'avvio delle relazioni con Israele. «Abbiamo rapporti con le istituzioni, in particolare con il ministero della Cultura e della Tolleranza, ma non ci occupiamo di politica. Le voci di un accordo con Israele circolavano da tempo, ma l'annuncio improvviso ci ha colti di sorpresa, pensavano che sarebbe successo tra qualche mese. E' l'inizio di una nuova coesistenza», ci dice Ilan.
   Non è sempre stato tutto rose e fiori. «Quando mia figlia è nata qui nel 2009, l'ho registrata come cristiana. Per anni non abbiamo rivelato quasi a nessuno la nostra religione. Quando c'è stato il caso Mabhouh (l'uccisione a Dubai di un capo di Hamas da parte del Mossad nel 2010, nrd) il clima era pessimo, abbiamo davvero temuto», ricorda Giacomo. Oggi negli Emirati si contano un migliaio di ebrei, quasi tutti a Dubai, dove c'è anche una piccola scuola di studi ebraici per i bambini della comunità e persino un catering kasher, "Kosherati", che spopola anche tra i musulmani. Ad Abu Dhabi è in costruzione una sinagoga, parte di un progetto iniziato nell'Anno della Tolleranza, dichiarato nel 2019 in vista della visita di Papa Francesco.
   La comunità degli expat di Dubai rievoca una storia che ha caratterizzato quest'area nel passato: di peregrinazioni di mercanti ebrei nel Golfo Persico, crocevia di commerci sulla via della seta, si ha testimonianza ancora dall'Alto Medioevo. Beniamino di Tudela, esploratore ebreo spagnolo dell'XI secolo, descrive nelle sue cronache le comunità locali. La piccola comunità del Bahrain di oggi, una trentina di persone, discende da famiglie di commercianti iracheni e iraniani stabilitesi a Manama verso la fine dell'800. I reggenti emiratini conoscono i vantaggi di un'apertura verso il mondo ebraico e probabilmente è anche in questa chiave che vanno letti i rapporti instaurati sottobanco con Israele già dagli anni '90, con l'inizio del processo di Oslo. Non a caso il nome scelto per la nuova alleanza è "Accordo di Abramo", padre di Isacco e Ismaele, come a simboleggiare il rinnovo dell'antica fratellanza.

(la Repubblica, 20 agosto 2020)


La Rai e la rettifica sulla capitale d'Israele

Il caso al quiz show "L eredità"

Può un tribunale italiano decidere le sorti di una controversia internazionale, delegando a un quiz tv la pronuncia della "sentenza definitiva" su una questione chiave del conflitto arabo-israeliano? Secondo la Rai no. Ed è per questo che oggi impugnerà l'ordinanza con cui il 6 agosto la giudice Cecilia Pratesi ha disposto di integrare la rettifica già trasmessa dall'Eredità a proposito della disputa su quale sia la capitale d'Israele: Gerusalemme o Tel Aviv?
   Per la magistrata, la precisazione offerta due mesi fa dal conduttore - che parlò di «tema delicato sul quale esistono posizioni diverse » - non è sufficiente. Occorre che la Tv pubblica, manco fosse la Farnesina, dichiari: «Il diritto Internazionale non riconosce Gerusalemme quale capitale dello Stato di Israele». E dovrà farlo alla prima puntata utile: il 28 settembre. Così. Testuale. Senza ulteriori spiegazioni.
   Impossibile, secondo l'ufficio legale Rai. Che, senza entrare nella contesa geo-politica, fa un ragionamento squisitamente giuridico: poiché nel suo complesso l'informazione resa è veritiera, essa non rientra nel perimetro del diritto di rettifica. Diritto che scatta quando viene detta o scritta una notizia falsa. Cosa che in questo caso non è. Come peraltro riconosciuto dalla stessa giudice allorché afferma che «la questione è obiettivamente controversa». In linea con quanto ammesso dall'Eredità il 6 giugno.
   Non solo. Se passasse il principio dell'integrazione, per la Rai sarebbe un precedente grave: rischierebbe una valanga di ricorsi non per aver dato una notizia infondata, bensì per averla data corretta, ancorché poco dettagliata. Un paradosso che va ben oltre la disputa su quale sia la capitale d'Israele.
   
(la Repubblica, 20 agosto 2020)


Sempre di più, sempre di più. Sempre di più si ricorre al magistrato per invocare la punizione su qualcuno per quello che ha osato dire. Sono le parole ad essere prese di mira. Attento a come parli! Segno dei tempi? M.C.


Alla fine ha vinto la «realpolitik»

di Giorgio Ferrari

Non ci sono prove del coinvolgimento di Hezbollah né della Siria nel brutale assassinio di Rafiq Hariri e della sua scorta. Non c'è un mandante e non ci sono colpevoli punibili, visto che tre dei quattro imputati cui il Tribunale speciale per il Libano attribuiva la responsabilità materiale dell'attentato del giorno di San Valentino del 2005 sono stati assolti per insufficienza di prove e il quarto, Salim Ayyash, l'unico ritenuto responsabile di tutte le accuse, è rimasto come gli altri al sicuro nell'impenetrabile hezbollahland che si estende dalla periferia meridionale di Beirut fino al confine con la Galilea. La sentenza, resa nota ieri pomeriggio e per la quale si sono spesi 15 anni di indagini e quasi ottocento milioni di dollari, ha quanto di più filisteo e farisaico si potesse immaginare. Ma proprio per quel suo vacuo possibilismo («La Siria e Hezbollah potrebbero aver avuto motivi per uccidere il premier») ha il pregio politico di criogenizzare la vicenda amputandola di quel capro espiatorio - il Partito di Dio guidato dallo sceicco Nasrallah - che avrebbe finito per incendiare il Paese, già in ginocchio per la terribile esplosione di quindici giorni fa (casualmente, alla vigilia della sentenza...) e per il default politico ed economico.
   Preso alla lettera, il dispositivo del Tribunale (2.500 pagine) vorrebbe convincerci che un unico cittadino di credo sciita e di militanza hezbollah avrebbe organizzato da solo e senza alcuna copertura da parte dei meglio attrezzati servizi di intelligence siriani e iraniani un sofisticatissimo attentato alla vita del premier libanese, laddove due dei tre coimputati si sarebbero limitati a sviare le indagini. Nessuno ci crede e tutti fanno finta di crederci, anche se rimpianti, rancori e polemiche non mancheranno. Eppure dietro il sudario della sentenza di ieri s'intravede la progressiva smobilitazione dell'influenza iraniana nella regione. Gli hezbollah, lo sappiamo bene, sono emanazione diretta di Teheran e hanno agito da sempre sia come braccio armato degli ayatollah sia come domestico cane da guardia in Libano, allestendo una sorta di antiStato all'interno del Paese dei Cedri. Anche la Siria faceva parte di quella mezzaluna sciita che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deirez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all'Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente, un cuneo che (grazie anche al fattivo apporto russo e alla protezione assicurata da Putin al regime di Bashar al Assad) penetrava nel mondo sunnita annodando i propri rapporti anche con Hamos a Gaza fino a spingersi nello Yemen. Questo mosaico ora è in crisi, e lo era anche prima dell'arrivo del Covid, del default libanese e della fatale esplosione del porto di Beirut.
   La crisi sciita ha due forme, quella interna e quella regionale. È in crisi il mondo hezbollah in Libano e la popolarità di Nasrallah è in vistoso calo, suffragata anche dal sospetto che il materiale esplosivo stivato per anni nei magazzini portuali fosse parte integrante dell'arsenale del Partito di Dio. Ma in particolar modo è in crisi la Mezzaluna iraniana, colpita al cuore del recentissimo accordo fra Israele e gli Emirati del Golfo, che con il sodalizio già in atto con l'Arabia Saudita serra il cerchio intorno alle mire di Teheran, ridimensionandone l'influenza regionale e costringendo i vertici politici e religiosi iraniani a un totale ripensamento della propria strategia. La mancata accusa diretta a Nasrallah e agli ayatollah non cambia assolutamente nulla. Il Libano, così come la questione palestinese (fatalmente passata in secondo piano dopo le intese fra Netanyahu, gli emiri e Riad) appaiono due entità bisognose di urgente rifondazione. Il ridisegno stesso del risiko regionale lo impone. La sentenza dell'Aja, pur nella sua elusiva ambiguità, non fa che confermarlo. Inutile indignarsi dunque per questo verdetto. Era già pronto da mesi (e in questo Nasrallah e gli hezbollah avevano ragione) e chi contava su un lancinante atto d'accusa nei confronti della Siria e dei suoi manovratori iraniani peccava di troppo ottimismo, per non dire che era un'illusa. Alla fine la Realpolitik ha avuto la meglio sulla giustizia. Ma questo in fondo accade quasi sempre.

(Avvenire, 19 agosto 2020)


Libano - Die Welt rivela: "Hezbolah comprò nitrato di ammonio"

Un'inchiesta del giornale tedesco rivela l'acquisto, ma non è certo che il materiale sia quello esploso il 4 agosto nel porto di Beirut.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - "Hezbollah ha acquistato ingenti quantità di nitrato d'ammonio nel 2013, ovvero nel periodo in cui il materiale chimico è stato immagazzinato nell'hangar 12 del porto di Beirut". E' quanto riporta oggi il quotidiano tedesco Die Welt, citando "esclusive informazioni fornite da fonti di intelligence occidentali".
   Il Partito di Dio avrebbe acquistato circa 670 tonnellate di nitrato d'ammonio per centinaia di migliaia di euro, in quattro spedizioni avvenute dal luglio 2013 all'aprile 2014, documentate in diverse ricevute di cui il Die Wielt cita date e importi. Non è provato che le spedizioni in questione siano legate al materiale che si trovava nell'hangar 12 del porto, le ormai note 2750 tonnellate del componente chimico che, secondo le indagini libanesi ancora in corso, sono tra le cause dell'enorme esplosione che ha devastato il centro di Beirut il 4 agosto, facendo 180 vittime e migliaia di feriti.
   I rifornimenti di nitrato di ammonio destinati a Hezbollah arrivano dall'Iran, in operazioni coordinate dalla Forza Quds, l'unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, guidata dal generale Qasem Soleimani che è stato ucciso a gennaio a Baghdad in un raid americano. La Forza Quds avrebbe recapitato il materiale via mare, via aerea e via terra. Una delle compagnie aeree coinvolte nelle spedizioni è l'iraniana Mahar Air, cui è impedito atterrare sul suolo tedesco dall'anno scorso. Nel reportage di Die Wielt viene citato anche Mohammed Qasir come responsabile dell'approvvigionamento del nitrato di ammonio.
   Qasir, noto anche come Hajj Fadi, guida da Damasco l'Unità 108 di Hezbollah, incaricata del contrabbando di armi dall'Iran al Libano, attraverso la Siria. Nonostante sia noto, come denunciato anche da reporter locali, che Hezbollah sia l'entità che di fatto gestisce il porto di Beirut, Hassan Nasrallah, il leader del Partito di Dio, ha negato categoricamente qualsiasi coinvolgimento o responsabilità rispetto all'esplosione del 4 agosto.
   L'anno scorso sono state rivelate diverse operazioni che hanno collegato Hezbollah all'utilizzo del nitrato di ammonio. Nel giugno 2019 i servizi segreti inglesi hanno reso noto che, nel 2015, avevano sequestrato tonnellate del materiale chimico in quattro proprietà a Londra gestite da cellule locali della milizia sciita. Nello stesso anno, la polizia di Cipro ha arrestato Hussein Bassam Abdallah, doppia cittadinanza libanese e canadese, trovato in possesso di oltre 8 tonnellate di nitrato d'ammonio. Abdallah ha ammesso l'affiliazione a Hezbollah e patteggiato una pena di 6 anni.
   Lo scorso aprile, la polizia tedesca ha sventato una cellula terroristica di Hezbollah e nelle indagini è emerso lo stesso modus operandi di Londra: ingenti quantità di nitrato di ammonio conservate in finti pacchi di ghiaccio istantaneo. In concomitanza con l'operazione che ha portato all'arresto di diversi operativi per complotto a fini terroristici, la Germania ha inserito Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche.

(la Repubblica, 20 agosto 2020)


Non si fermano le violenze tra Gaza e Israele

Ancora tensione tra la striscia di Gaza e Israele. Un razzo sparato da Gaza è esploso stasera [ieri] in un’area aperta nel territorio israeliano, senza provocare vittime né danni. Lo ha riferito un portavoce militare.
In precedenza nella zona di Ashkelon erano risuonate sirene di allarme e migliaia di abitanti erano corsi verso aree protette. Due persone sono rimaste ferite mentre correvano verso un rifugio.
Questo attacco giunge al termine di una giornata in cui palloni incendiari lanciati da Gaza hanno provocato una trentina di incendi in aree agricole israeliane. «Per noi ogni incendio equivale al lancio di un razzo» ha affermato il premier Benjamin Netanyahu. «Da dieci giorni colpiamo infrastrutture militari di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche. In questo modo sconvolgiamo le loro attività. Noi siamo pronti anche ad una nuova tornata, o a più tornate, anche se spero che ciò non si renda necessario». Da parte sua, Hamas ha diffuso ieri sera sul web un filmato di avvertimento che mostra il lancio di numerosi razzi verso Israele.

(L'Osservatore Romano, 20 agosto 2020)


Addio a Ben Cross. Fu l'atleta ebreo nel film Oscar «Momenti di gloria»

Aveva 72 anni

Non molti, forse, ricordano il suo nome. Ma quasi tutti hanno in mente la sua espressione mentre taglia il traguardo nel film premio Oscar «Momenti di gloria». Ieri, a 72 anni. è morto l'attore inglese Ben Cross. «Ben è deceduto improvvisamente, dopo una breve malattia". Era a Vienna», ha fatto sapere il suo agente da Los Angeles, salutando un interprete entrato di diritto nella storia del cinema grazie a un ruolo fissato nella memoria di milioni di persone: quello dell'atleta olimpico britannico Harold Abrahams - ebreo tormentato dall'antisemitismo nella sua ricerca dell'oro olimpico, nel 1924 - in «Momenti di gloria», appunto, film del 1981 premiato con l'Oscar. Per prepararsi a vestire i panni dello sportivo, aveva poi raccontato, si era allenato ogni giorno per due mesi e mezzo. Un ruolo arrivato tardi, quando aveva già compiuto 34 anni, lui che era nato a Londra, il 16 dicembre del 1947. Ma un ruolo che gli diede di colpo fama
internazionale, quattro anni dopo il suo debutto nello spettacolo, nel film di guerra «Quell'ultimo ponte» al fianco di Sean Connery e Michael Caine.
   Ma a farlo approdare fino al vincitore di quattro Oscar (tra cui quello per II Miglior film), era stato un musical «Chicago». Attore versatile, non aveva mai smesso di recitare, diventando un caratterista, soprattutto in titoli più commerciali come «I dinamitardi» o «Il primo cavaliere», film diretto da Jerry Zucker e ispirato alla saga di Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda in cui aveva interpretato il ruolo del malvagio Malagant. Nel 2009 era tornato a recitare in un blockbuster «Star Trek», reboot del celebre telefilm di fantascienza filmato da J. J. Abrams, che gli aveva affidato il ruolo di Sarek, vulcaniano e padre di Spock, mentre la sua ultima. interpretazione sul grande schermo risale a due anni fa: «Hurricane - Allerta uragano» di Rob Cohen.
   
(Corriere della Sera, 20 agosto 2020)


"L'accordo tra Israele e gli Emirati sarà un'opportunità anche per i palestinesi"

Parla Abdulaziz Alkhamis, giornalista saudita di Sky News, che vive tra Londra e Abu Dhabi. "E' una situazione davvero unica nel mondo arabo. La gente qui ha fiducia nelle scelte del governo e quindi crede che sia una decisione che porterà vantaggi per la nazione, la sicurezza, la cooperazione economica e la stabilità regionale".

di Sharon Nizza

Abdulaziz Alkhamis
GERUSALEMME - L'annuncio di giovedì scorso sulla normalizzazione delle relazioni tra Emirati Arabi Uniti e Israele ha innescato una reazione a catena che sta ribaltando l'assetto mediorientale come lo conoscevamo finora. In quattro giorni: i rispettivi ministri degli Esteri hanno inaugurato, con una prima telefonata ufficiale, la linea di telecomunicazione diretta; Abu Dhabi ha incassato il sostegno pubblico di Bahrein, Oman, Egitto, Giordania, Mauritania; Muscat si è spinta oltre e ieri si è tenuta una telefonata tra i capi della diplomazia auspicando il "rafforzamento delle relazioni tra Israele e Oman"; il capo del Mossad è atterrato ieri ad Abu Dhabi per avviare le trattative sulla formalizzazione delle relazioni diplomatiche, mentre il premier Benjamin Netanyahu, in un'intervista a una Tv locale, dichiarava che "la priorità di Israele è la pace con i Paesi arabi e non l'annessione"; sono stati annunciati imminenti voli diretti - una tratta di 3 ore che sorvolerà lo spazio aereo saudita - e una quantità di partnership, economiche e scientifiche, tra cui la sigla degli accordi tra l'APEX emiratina e TeraGroup israeliana per lo sviluppo della ricerca scientifica sul Covid, tra la Pluristem Therapeutics di Haifa e la Abu Dhabi Stem Cells per la ricerca sulle cellule staminali e l'ingresso nel mercato emiratino dell'israeliana Bo&Bo Ltd con la sua tecnologia di tele-riabilitazione. Infine, il cantante più popolare d'Israele, Omer Adam, è stato invitato ad esibirsi nel Paese da un esponente della casa reale e l'account Facebook in arabo del ministero degli Esteri israeliano ha aggiunto migliaia di like agli oltre 2 milioni già esistenti.
  E' chiaro che non si tratta di opportunità nate nel corso di una notte, ma dell'emersione dalla penombra di una lunga serie di relazioni che andavano avanti in un modo o nell'altro dall'avvio del processo di Oslo negli anni '90. Come fa notare l'editorialista di Haaretz Anshel Pfeffer: "Tutto ciò è molto diverso da quanto accaduto dopo la firma degli accordi di pace con l'Egitto e la Giordania, che non sono stati seguiti da questo festival dell'amore alla luce del sole".
  Abdulaziz Alkhamis, giornalista saudita di Sky News in arabo, che vive tra Londra e gli Emirati, in una videochat da Abu Dhabi ci racconta il sentimento della popolazione locale: "E' una situazione davvero unica nel mondo arabo. La gente qui ha fiducia nelle scelte del governo e quindi crede che sia una decisione che porterà vantaggi per la nazione, la sicurezza, la cooperazione economica e la stabilità regionale. La motivazione di questo accordo non è solo politica, ma in buona parte dettata da interessi economici e scientifici. La nuova leadership con lo sceicco Mohammed bin Zayed (Mbz), che punta moltissimo sull'innovazione e guarda all'era post-greggio, ha capito che era necessario un cambiamento. Ha puntato sull'educazione: la Sorbona, la NYU hanno una sede qui. Qui guardano al futuro, puntano a essere una delle economie più avanzate del mondo.
  E Israele è vista come un modello in questo senso".

- Com'è vissuta la reazione palestinese che ha parlato di "tradimento"?
  "Se vai sul mio account Twitter (270 mila follower, ndr), la maggior parte dei commenti sono positivi. Sempre più persone realizzano che sono state per decenni avverse a Israele senza una vera ragione. O meglio, la ragione erano i palestinesi, ma la gente ha cominciato a chiedersi perché loro avessero potuto avviare una cooperazione con Israele dopo il processo di Oslo e invece gli altri Stati arabi dovessero rimanere ostaggio del rifiuto. I Paesi del Golfo hanno sempre aiutato i palestinesi e sempre sosterranno il popolo palestinese. Quando eravamo bambini una volta a settimana in classe facevamo la colletta per il popolo palestinese, 1 riyal a settimana a bambino. Ma ormai c'è una enorme delusione verso la leadership corrotta. Chiedi a chiunque nel mondo arabo un giudizio su Abu Mazen e su Hamas, la pensano tutti così. Per non parlare del fatto che per via del legame con il Qatar, i media palestinesi e Al Jazeera, dove un 40% dei giornalisti sono palestinesi, da anni usano le loro piattaforme per attaccare i Paesi del Golfo, l'Arabia Saudita. Anche il loro atteggiamento ha spinto gli EAU verso questo accordo".

- Come ha reagito la comunità palestinese negli Emirati?
  "I palestinesi qui sono circa 200 mila, hanno un buon stile di vita, ottime posizioni lavorative, benessere. La maggior parte delle persone che conosco non vogliono di certo perdere i propri vantaggi, sacrificarsi per una leadership corrotta. Un collega palestinese mi ha detto: "è interessante vedere a cosa porterà tutto ciò". Io penso che questa sia un'opportunità anche per i palestinesi stessi, nell'immediato anche solo per le opportunità di business e per il turismo".

- Il Mufti di Gerusalemme ha già detto che agli emiratini sarà vietato pregare nella Moschea di Al Aqsa, anche se le decisioni su quanto avviene sulla Spianata spettano al Waqf giordano...
  "Qui la gente a breve viaggerà per Gerusalemme, Nablus, Hebron. Sai quanto lavoro porteranno? Negozi, ristoranti, trasporti, guide turistiche... Poi in un momento di crisi economica come questo. Staremo a vedere."

- Com'è l'approccio verso gli ebrei e Israele nei Paesi del Golfo?
  "Se sei religioso o panarabista, probabilmente di base sarai anti-israeliano. C'è anche chi, come me, riesce a farsi una sua posizione senza indottrinamento. Io sono andato a studiare a Londra e all'università c'erano molti ebrei. E, certo, la differenza la fa l'interazione. Il problema finora è stato anche che la maggior parte degli arabi non ha avuto sufficiente contatto con ebrei o israeliani. I social media sono stati una svolta in questo senso, hanno aperto un mondo che un tempo era del tutto precluso. Oggi la maggior parte della gente sta cambiando le proprie posizioni. E di certo anche l'alleanza contro la minaccia iraniana ha giocato il suo ruolo in questo avvicinamento".

- La Turchia ha condannato duramente l'accordo e minacciato di ritirare l'ambasciatore da Abu Dhabi. Gli Emirati temono ripercussioni diplomatiche?
  "Che grandi ipocriti! Loro che intrattengono relazioni diplomatiche e rapporti commerciali e turistici con Israele da decenni! La verità è che hanno paura che faremo concorrenza a Istanbul, che oggi rappresenta l'hub più importante per gli israeliani in transito verso l'Asia. Anche gli iraniani hanno minacciato, ma non avranno il coraggio di fare nulla".

- Jared Kushner ha detto che è "inevitabile" che anche l'Arabia Saudita normalizzi le relazioni con Gerusalemme. Ma Riad non si è ancora espressa e c'è chi dice potrebbe essere disturbata dal fatto che gli Emirati stanno sfidando il suo ruolo di potenza regionale.
  "Chi conosce quest'area sa che l'Arabia Saudita e EAU hanno un rapporto molto stretto e quotidiano. Tutti sanno che Abu Dhabi si è mossa nella consapevolezza di Riad. Nel passato, se i sauditi volevano qualcosa da Israele, passavano per la mediazione americana. Ma il futuro della presenza americana nel Medioriente è incerto: qui c'è anche una volontà congiunta di creare un nuovo canale di comunicazione diretto, locale. Va tenuto in considerazione poi che l'Arabia Saudita è il centro del mondo musulmano sunnita per la presenza di Mecca e Medina, quindi c'è maggiore sensibilità. Mi aspetto che i sauditi si esprimano prossimamente, per ora stanno osservando e studiando la nuova situazione."

(la Repubblica, 18 agosto 2020)


Medio Oriente: l'accordo Israele-Emirati e il ruolo dell'Europa

di Giampiero Massolo

 
Un successo diplomatico come l'accordo tra Israele e Emirati non nasce all'improvviso. Necessita di un obiettivo strategico e di un lungo lavoro di preparazione. Va dato atto all'Amministrazione Trump di aver perseguito entrambi fin dal primo viaggio all'estero del Presidente, nel maggio 2017, guarda caso in Arabia Saudita.
  Quella missione segnò plasticamente il ritorno di Washington alle tradizionali alleanze con Israele e gli Stati sunniti, decretò la fine del tentativo di Barack Obama di recuperare Teheran attraverso l'accordo sul nucleare che tanta contrarietà in quei tradizionali alleati aveva suscitato, spostò la priorità strategica nella regione mediorientale dalla soluzione del conflitto israelo-palestinese al respingimento delle ambizioni espansionistiche iraniane. Queste le premesse dell'intenso lavorìo diplomatico che seguì e che portò nel maggio 2018 all'uscita americana dall'intesa nucleare e alla formulazione nel gennaio scorso di un piano di pace che sostanzialmente va incontro alle richieste israeliane in cambio di sostanziosi aiuti economici ai palestinesi. E oggi all'annuncio della normalizzazione dei rapporti israelo-emiratini.
  Il cambio di paradigma innestato dagli Stati Uniti è stato di certo determinante. Ha peraltro fatto da cornice a dinamiche in atto già da qualche tempo. Intanto, una oggettiva 'fatigue' nel mondo arabo e più in generale nella comunità internazionale per una causa palestinese apparentemente senza soluzione e, più concretamente, per un governo palestinese percepito come inefficiente e corrotto (e ora l'impegno israeliano di sospendere le annessioni in Cisgiordania va poco oltre il minimo sindacale). Poi, il relativo indebolimento iraniano - dopo una fase molto assertiva - per effetto dei bassi prezzi del petrolio e dei regimi sanzionatori, che ha rallentato i finanziamenti ai proxies di Teheran e reso meno probabili reazioni significative (come si è visto anche dopo l'uccisione senza ritorsioni del generale Soleimani nel gennaio scorso). Infine, la cointeressenza strategica a contrastare, oltre l'Iran, anche le ambizioni espansive, energetiche e geopolitiche, della Turchia, che si innestano a loro volta sui conflitti tra paesi sunniti (con l'Egitto, gli Emirati, l'Arabia Saudita e, sul versante opposto, il Qatar), fino a intersecare i conflitti regionali (Libia, Siria, Libano, Balcani orientali) e a coinvolgere il grande gioco tra Washington e Mosca (quest'ultima pronta a sfruttare a proprio vantaggio ogni disattenzione americana). Un segnale statunitense prima o poi non poteva mancare.
  La possibilità di importanti e lucrose partnerships economiche, finanziarie e soprattutto tecnologiche (non solo nel campo delle cybersicurezza) ha fatto il resto nel caso di Israele e Emirati. I loro contatti, a livello riservato, erano del resto in corso da tempo.
  Siamo dunque di fronte ad un cambio di prospettiva. Lecito chiedersi, tuttavia, se si tratti di un mutamento strutturale e se altri paesi arabi seguiranno le orme emiratine. Quest'ultimo aspetto, in particolare, pare abbastanza plausibile. Il Presidente Trump ne ha fatto già cenno. La logica che ha portato agli sviluppi odierni pare avvalorarlo. Forse non da subito, ma dinamiche analoghe potrebbero riguardare intanto l'Oman e il Bahrain. Con maggiore difficoltà, l'Arabia Saudita, per i difficili equilibri interni tra il principe ereditario Mohammed bin Salman e i circoli più conservatori e ortodossi del Regno, il cui sovrano è pur sempre ancora il custode delle sacre moschee, cuore dell'Islam.
  La possibilità di un riassetto strutturale esiste e sarebbe difficile negare a Donald Trump di averne creato i presupposti. Lo ha ben compreso anche Joe Biden, sollecito nell'approvare pubblicamente quanto accaduto e probabilmente in difficoltà a reinvertire radicalmente il corso con l'Iran o a sposare senza riserve la politica neo-ottomana di Erdogan. La cautela comunque si impone: sia per l'imprevedibilità delle iniziative iraniane e turche a più lungo termine, sia perché in prospettiva un accomodamento del conflitto israelo-palestinese andrà pur trovato e quanto sta succedendo non avvicina certamente la prospettiva dei due Stati, sia infine perché anche in Medio Oriente alla fine la 'piazza' conta ed è sempre meno il tempo di decisioni verticistiche senza qualche forma di consenso popolare.
  E l'Europa? Assente, al di là di sporadiche e spettacolari missioni diplomatiche. Non può fare molto, prigioniera com'è di una perdurante crisi di identità in politica estera e di sicurezza. Se però non vogliamo abbandonare il Mediterraneo, faremmo bene come Unione ad assumerci qualche responsabilità. Possiamo farlo dialogando con le parti in causa nei conflitti per evitare che le situazioni di tensione degenerino; ricorrendo alla moral suasion, alle politiche di cooperazione come alla forza delle nostre aziende, facendo leva sui nostri contingenti militari di interposizione (come Unifil in Libano). Riacquisendo un ruolo potremmo poi cercare di provocare un impegno più coordinato anche di Washington.
  E anche gli assetti regionali, forse, sarebbero meno sbilanciati.

(ISPI, 18 agosto 2020)


Dopo gli Emirati Arabi, il Marocco normalizzerà i rapporti con Israele?

Il Marocco sarà probabilmente uno dei prossimi stati arabi a normalizzare i rapporti diplomatici con Israele a seguito dell'accordo mediato dagli Stati Uniti tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele per stabilire relazioni, secondo un rapporto israeliano di venerdì. Lo riporta The Times of Israel.
  Citando funzionari statunitensi anonimi, l'emittente pubblica Kan ha affermato che il Marocco è stato visto come un probabile candidato poiché ha già legami turistici e commerciali con Israele. Il rapporto cita anche la protezione del paese nordafricano della sua piccola comunità ebraica.
  Stabilire legami diplomatici formali con Israele potrebbe anche migliorare le relazioni del Marocco con gli Stati Uniti. Il rapporto afferma che in cambio di ciò, Rabat sta cercando il riconoscimento americano della sua sovranità sul territorio conteso del Sahara occidentale. Il Marocco ha occupato ampie fasce del Sahara occidentale nel 1975 quando la Spagna si è ritirata dall'area e in seguito ha annesso i territori con una mossa non riconosciuta a livello internazionale.
  Secondo un rapporto di febbraio di Channel 13, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha cercato di organizzare un tale accordo a tre vie e ha fatto aperture a Washington per promuovere l'accordo, ma l'amministrazione Trump non l'ha ancora autorizzato.
  Il Marocco è considerato un alleato degli Stati Uniti e ha a lungo mantenuto legami informali ma stretti di intelligence con Israele.
  Sebbene i paesi non abbiano relazioni formali, il Marocco ha ospitato leader israeliani e gli israeliani vi possono recare in visita. Circa 3.000 ebrei vivono in Marocco, una frazione del numero di prima della creazione di Israele nel 1948, ma è ancora la più grande comunità del mondo arabo.

 Non solo il Marocco
  Oltre al Marocco, anche il Bahrain e l'Oman sono state nominate come nazioni che potrebbero seguire gli Emirati Arabi Uniti nello stabilire relazioni con Israele. Entrambi i paesi hanno elogiato l'annuncio che Gerusalemme e Abu Dhabi avrebbero normalizzato i legami.
  Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato il loro accordo giovedì pomeriggio. Hanno "accettato la piena normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti", hanno detto in una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti rilasciata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
  L'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele segna il terzo accordo di questo tipo che lo stato ebraico ha concluso con un paese arabo dopo l'Egitto (1979) e la Giordania (1994).
  Le delegazioni israeliana e degli Emirati Arabi Uniti si incontreranno nelle prossime settimane per firmare accordi bilaterali in materia di investimenti, turismo, voli diretti, sicurezza e istituzione di ambasciate reciproche, afferma la loro dichiarazione.
  Netanyahu ha detto giovedì sera che Israele è entrata in una "nuova era delle relazioni israeliane con il mondo arabo" e che sarebbero seguiti altri accordi con i paesi arabi. Jared Kushner, genero e consigliere senior di Trump, ha detto che più paesi arabi potrebbero presto annunciare legami normalizzati con Israele e venerdì ha detto che le relazioni tra lo Stato ebraico e l'Arabia Saudita erano inevitabili.

(Shalom, 18 agosto 2020)


Accordo Israele-Emirati: i palestinesi boicottano Dubai 2020

In protesta contro la decisione di normalizzazione

I Palestinesi hanno deciso di boicottare l'Expo 2020 di Dubai, che per l'epidemia Covid si terrà ad ottobre 2021, a causa dell'Accordo tra Israele e gli Emirati Arabi. Lo ha annunciato il premier dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mohammad Shtayyeh. "Per protesta contro la decisione di normalizzare le relazioni con Israele, potenza occupante, il governo - ha scritto su twitter Shtayyeh - ha deciso di cancellare la partecipazione palestinese a Dubai 2020 programmata ad ottobre 2021".

(ANSAmed, 18 agosto 2020)


Intesa tra Israele e Italia per combattere il Covid-19

di Bruno Russo

 
Marco Carrai, Console Onorario di Israele
Prende il via la collaborazione per lo sviluppo di una cura al Covid-19 tra Italia e Israele. Il direttore generale dell'Israel Institute for Biological Research (Iibr), professore Shmuel Shapira, il direttore generale dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze, dottor Rocco Damone, e il presidente della Fondazione Toscana Life Science (Tls), ingegnere Fabrizio Landi, hanno sottoscritto oggi un importante protocollo finalizzato alla ricerca di una cura per il virus. Sulla base dell'intesa, il policlinico di Careggi e la Fondazione Tls implementeranno insieme all'Istituto Israeliano di Ricerca Biologica (Iibr), uno dei centri di eccellenza mondiali nel campo della ricerca biologica e fautore di un rivoluzionario sviluppo scientifico per la cura al Covid-19, studi sierologici su campioni di plasma di persone colpite e guarite dal virus, al fine di mettere a punto una terapia efficace basata sulla individuazione e clonazione di anticorpi monoclonali, come trasmesso dal Magazine 'Shalom'.
   L'accordo tra gli istituti di così elevato rilievo nel panorama mondiale, si propone di fornire un contributo potenzialmente decisivo alle possibilità di guarigione dei malati da Covid-19. "L'Ambasciata di Israele in Italia - dichiara l'ambasciatore Dror Eydar - ha avviato questa cooperazione scientifica nello spirito di collaborazione ed amicizia con la nostra amata Italia, al fine di superare la crisi del coronavirus che tanta sofferenza ha arrecato. Con nostra grande gioia, la cooperazione sta ora acquisendo concretezza, e potrà contribuire a salvare vite umane e ad essere di giovamento ai due paesi e a tutta l'umanità, nel far fronte a questa epidemia e ad eventuali futuri focolai. Ringrazio il presidente del Consiglio Conte, che ha risposto alla richiesta del primo ministro Netanyahu, e ha contribuito a realizzare questo momento".
   L'Ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, ha sottolineato che "l'accordo odierno tra istituti di primissimo livello dei due Paesi è frutto di una collaborazione avviata durante un colloquio telefonico tra il presidente del Consiglio Conte e il primo ministro Netanyahu e costituisce la punta di diamante di una vasta rete di contatti tra le due comunità scientifiche che sin dai primi giorni della pandemia abbiamo attivato. Questo dinamismo tra le nostre eccellenze scientifiche rappresenta il risultato di una politica di cooperazione ultra-decennale che ha consentito, grazie a un rilevante accordo bilaterale, di creare e rafforzare tra Italia e Israele un tessuto di rapporti scientifici, accademici e tecnologici di grandissimo livello.
   La collaborazione nel settore scientifico si conferma quindi al centro delle relazioni bilaterali fra Italia e Israele anche in tempo di coronavirus". Il Console Onorario di Israele Marco Carrai, tra i primi ad aver promosso l'accordo e ad aver lavorato affinché questo traguardo potesse essere raggiunto, esprime in merito la propria soddisfazione: "Sono estremamente onorato di aver contribuito al raggiungimento di un accordo tra due prestigiose realtà mondiali del calibro dell'Iibr e dell'Aou Careggi. Sono altresì convinto che, grazie alla competenza e alla professionalità maturata nel settore, il lavoro coordinato dei due Istituti possa rappresentare un passaggio fondamentale e decisivo nella lotta alla diffusione del Covid.

(il denaro, 17 agosto 2020)


Pompeo conferma l'urgenza della de-escalation nel Mediterraneo orientale

Gli Stati Uniti continuano il forcing diplomatico su Grecia e Turchia per evitare che la crisi nell'East Med diventi un punto di debolezza che agevola le penetrazioni degli attori rivali, come Russia e Cina.

di Ferruccio Michelin

Qualora ce ne fosse reale bisogno, gli Stati Uniti confermano l'alto livello di coinvolgimento nella ricerca di stabilità nel Mediterraneo orientale - quadrante caldissimo in cui si dipanano dinamiche geopolitiche tra vari paesi, su tutti Grecia (e Cipro) e Turchia, ma ne sono coinvolti l'Egitto come la Francia, così tanto quanto Israele e gli attori del Golfo. Una condizione delicata che si è innescata tra alleati Nato, Grecia e Turchia arrivati a un centimetro dalla collisione militare, che potenze rivali come Cina e Russia vedono come debolezza. Il rischio che possa essere sfruttata da Mosca e Pechino rende la stabilizzazione e il dialogo un'urgenza per gli Stati Uniti.
  Nei giorni scorsi, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha incontrato il ministro degli Esteri turco, Mevlüt ÇavuÅŸoÄŸlu, per parlare di come disinnescare la bomba mediterranea, con la "riduzione delle tensioni" che dal readout dell'incontro offerto dal dipartimento di Stato viene definita "urgent". L'incontro è avvenuto a Santo Domingo, dove i due si sono riservati uno spazio per la discussione straordinaria durante la cerimonia di inaugurazione del presidente eletto Luis Abinader. Washington muove la propria diplomazia su entrambe le sponde. Nei giorni scorsi sempre Pompeo aveva visto il ministro degli Esteri greco, Nikos Dendias, incontrato a Vienna nell'ambito di un viaggio in Europa centrale dove le penetrazioni russo-cinesi sono state in cima all'agenda del capo della diplomazia americana.
  Meeting piuttosto simbolici che spiegano come gli Usa non scelgano un lato della contesa e quanto abbiano interesse nell'evitare che il bacino mediterraneo diventi una debolezza interno all'alleanza. Anche perché la grand strategy statunitense, che si muove a cavallo della macro-regione Middle East and North Africa, non può permettersi falle in un momento in cui le azioni di attori competitivi di susseguono. Secondo fonti informate, Turchia e Grecia starebbero per avviare (già in questi giorni) contatti diplomatici attraverso funzionari secondari, secondo una necessità di de-escalation che è arrivata da Washington tanto quanto da Bruxelles - sia lato Nato che Unione europea (con distinguo: la Francia ha cercato un'azione unilaterale, mentre gli altri europei con la Germania e l'Italia in testa hanno cercato di lavorare compatti, allineati con gli Usa e col quadro dell'Alleanza Atlantica).

(Formiche.net, 17 agosto 2020)


Israele mette in dubbio l'efficacia della missione Unifil

Israele ha denunciato di fronte all'Onu un'infiltrazione di miliziani di Hezbollah nel proprio territorio e ha affermato che la prosecuzione della missione Unifil delle Nazioni Unite andrebbe discussa, se non è in grado di prevenire episodi simili. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu sta discutendo proprio in questi giorni la proroga della missione, che scade il prossimo 31 agosto.
"Il ruolo dell'Unifil è impedire questo tipo di operazioni e impedire che Hezbollah trasformi il Sud del Libano nel suo quartier generale terrorista", si legge in una nota di Gilad Erdan, ambasciatore israeliano all'Onu, "se l'Unifil non è in grado di compiere questa missione, allora la sua esistenza dovrebbe essere messa in dubbio".
La delegazione israeliana ha inviato al Consiglio di sicurezza fotografie che mostrerebbero i miliziani sciiti attraversare la cosiddetta "linea azzurra" tra i due Paesi monitorata dai caschi blu. Israele afferma che i miliziani sono poi stati respinti dalle loro forze.
La missione Unifil, istituita nel 1978 in seguito all'occupazione Israeliana di parte del Libano è stata rinnovata più volte, l'ultima delle quali nel 2006, in seguito alla guerra tra lo Stato ebraico ed Hezbollah. La forza di interposizione conta su circa 12 mila caschi blu.

(AGI, 17 agosto 2020)


La coalizione di Gantz all'oscuro dell'accordo tra Israele ed Emirati

GERUSALEMME - Il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha tenuto all'oscuro i vertici della coalizione Blu e Bianco dai negoziati sull'accordo con gli Emirati Arabi Uniti per il timore di possibili fughe di notizie. "Ci lavoro da anni e (loro) sono qui solo da un paio di mesi", ha detto Netanyahu in un'intervista al quotidiano "Israel Hayom". "Le regole erano che avremmo mantenuto il riserbo per impedire all'Iran e altri di compromettere (l'intesa)", ha aggiunto il capo del governo. Sia il ministro della Difesa Benny Gantz che il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi - entrambi provenienti dalla fila di Blue Bianco - sono ex capi di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), abituati a trattare informazioni secretate. Il capo del governo ha tuttavia dichiarato di non potersi fidare dei nessuno dei due. "Avrebbero potuto parlarne con noncuranza alle persone vicine a loro e le informazioni avrebbero potuto uscire", ha detto il premier. Rispondendo a una domanda sulla collaborazione con Gantz, con cui è in vigore un accordo di governo per tre anni, Netanyahu ha detto che la coalizione reggerà se i partner si comporteranno correttamente. "Se non agiscono come un governo all'interno di un governo o come un'opposizione interna, la risposta è sì (il governo durerà)", ha detto Netanyahu. "Altrimenti, la coalizione si spezzerà da sola. Spero che non si spezzi ora. Abbiamo formato un governo per la lotta contro il coronavirus".

(Agenzia Nova, 17 agosto 2020)


Emirati Arabi: "inaccettabile" la reazione dell’Iran all'accordo con Israele

Il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha consegnato all'incaricato d'affari iraniano "una forte nota di protesta contro le minacce" contenute nel discorso del presidente iraniano Hassan Rohani sull'accordo tra Israele e gli Emirati Arabi. Rohani aveva definito l'intesa una "mossa pericolosa" e "un grave errore". Parole ritenute da Abu Dhabi "inaccettabili e provocatorie" con "gravi implicazioni per la stabilità nella regione del Golfo".

(TGCOM24, 17 agosto 2020)


Ecco come l'Onu può fermare Hezbollah e Iran

Russia e Cina potrebbero opporsi a un mandato Unifil più ampio come si sono già opposte al rinnovo dell'embargo sulle armi all'Iran. L'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, già ministro degli Esteri, spiega quali altre strade si possono (e devono) percorrere.

di Giulio Terzi di Sant'Agata

Il quadro generale delle offensive iraniane, sia dirette sia tramite proxy (in particolare Hezbollah) è diventato così ampio, evidente e preoccupante che nessuno stato membro delle Nazioni Unite — tranne lo stesso Iran e suoi sostenitori come Russia, Cina, Siria, Venezuela e Cuba — potrebbe opporsi a un mandato della missione Unifil più rigoroso e all'estensione dell'embargo sulle armi. A New York e tra l'amministrazione statunitense e i governi europei e mediorientali si è assistito a una intesa attività diplomatica. Ma Mosca e Pechino hanno continuato a opporsi ponendo il loro veto sull'embargo. Ma ci sarebbero altre strade che si possono seguire: passare per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite e/o iniziative regionali di natura politica, economica, di intelligence.
  Nonostante le ripercussioni politiche e militari delle due esplosioni di Beirut — che hanno messo in luce le responsabilità anche dell'Iran e di Hezbollah, che gestisce il porto della capitale libanese — i tentativi di Hezbollah di riaccendere le tensioni al confine con Israele sono tutt'altro che finiti. Pere esempio, l'esercito israeliano ha recentemente arrestato tre infiltrati dal Libano — apparentemente lavoratori sudanesi migranti — che attraversavano il confine tra Metulla e Misgav Am. Si tratta dell'ottavo caso di questo tipo dall'inizio di quest'anno. Il timore di Gerusalemme è che Hezbollah possa mettere alla prova la prontezza di Israele consentendo ai migranti sudanesi di attraversare il confine e raccogliere informazioni sui movimenti delle truppe israeliane grazie ad agenti travestiti da pastori.
  Il diritto di Israele e dei suoi cittadini di vivere in condizioni pacifiche e sicure deve essere considerato insieme alla strategia di terrore, destabilizzazione e aggressione che da tempo l'Iran sta portando avanti nel Medio Oriente, in particolare in Siria, Iraq, Libano, Yemen, in tutto il Golfo e oltre.
  Anche per questo non ci può essere alcun dubbio sul fatto che Hezbollah debba essere dichiarata nella sua interezza un'entità terroristica dalla comunità internazionale seguendo quanto fatto già da più di due dozzine di Stati e organizzazioni internazionali. Hezbollah, infatti, non è una forza militare indipendente: è uno strumento fondamentale per le ambizioni strategiche dell'Iran nel suo piano d'azione contro Israele a suon di missili e tunnel per aumentare la forza di deterrenza.
  Come il think tank internazionale United Against a Nuclear Iran ha osservato, "l'11 agosto ha segnato il quattordicesimo anniversario dell'adozione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite" che ha imposto la "cessazione immediata da parte di Hezbollah di tutti gli attacchi e la cessazione immediata da parte di Israele di tutte le operazioni militari offensive". Ma a oggi Hezbollah rimane armato e attivo nel Sud del Libano, dimostrando l'incapacità dello Stato libanese di frenare il "Partito di Dio".
  Infatti, in un nuovo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il segretario generale Antonio Guterres sottolinea il fallimento di Beirut. Scrive: "Il mantenimento di armi non autorizzate al di fuori del controllo statale da parte di Hezbollah e di altri gruppi armati non statali rappresenta una persistente violazione della risoluzione 1701 (2006) ed è motivo di grave preoccupazione". Lamenta inoltre Unifil "deve ancora ottenere l'accesso a tutte le località a Nord della Linea Blu in relazione alla scoperta di tunnel che attraversano la Linea Blu in violazione della risoluzione 1701".
  La mancanza di conformità è un altro promemoria di come Hezbollah abbia paralizzato e dominato il Libano e la sua politica. Con le esplosioni al porto di Beirut la scorsa settimana e le dimissioni del governo in mezzo a una serie di crisi economiche e politiche in conflitto, il Partito di Dio continua a rimanere intoccabile.

(Formiche.net, 17 agosto 2020)


Accordo Israele-Emirati: al via contatti telefonici diretti

Israele ha annunciato di avere stabilito chiamate dirette con gli Emirati Arabi Uniti in vista dei preparativi per la firma dell'intesa. Il presidente Rivlin invita a Gerusalemme il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed.

I giornalisti dell'Associated Press a Gerusalemme e Dubai sono stati in grado di chiamarsi da telefoni fissi e cellulari registrati con il prefisso israeliano +972 a partire dalle 13,15 circa. Israele ha annunciato che contatti telefonici diretti sono stati stabiliti oggi con gli Emirati Arabi Uniti, nel contesto dei preparativi per la firma di accordi di normalizzazione delle relazioni. In un comunicato stampa il ministro degli Esteri, Gaby Ashkenazi, ha reso noto di aver conversato al telefono con il suo omologo emiratino, lo sceicco Abdullah bin Zayed, e di aver concordato che presto si incontreranno.
   Un altro segnale della normalizzazione dei rapporti è l'invito rivolto dal presidente israeliano Reuven Rivlin al principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed (noto come Mbz) a recarsi in visita nel Paese. Come riporta il Times of Israel, Rivlin auspica che l'accordo "contribuisca a costruire e rafforzare la fiducia tra noi e i Paesi della regione" portando "prosperità" e "stabilità" in Medio Oriente.
   Congratulandosi con gli Emirati Arabi Uniti per la "rimozione dei blocchi", domenica il ministro delle comunicazioni israeliano Yoaz Handel ha dichiarato: "Molte opportunità economiche si apriranno ora, e questi passaggi di costruzione della fiducia sono un passo importante verso il progresso degli interessi degli Stati". Alcuni in Israele usavano telefoni cellulari palestinesi con numeri +970, per chiamare negli Emirati. Il collegamento del servizio telefonico rappresenta il primo segno concreto dell'accordo tra gli Emirati e gli israeliani.
   Lo storico accordo renderà gli Emirati Arabi Uniti il terzo Paese arabo, dopo l'Egitto e la Giordania, ad avere rapporti diplomatici pieni e attivi con Israele. Gli Emirati e Israele lo hanno annunciato in una dichiarazione congiunta, affermando che nelle prossime settimane sono previsti accordi tra i due Paesi in aree come il turismo, i voli diretti e le ambasciate. E insieme studieranno anche un vaccino per il Covid 19.
   Anche domenica, è stato possibile accedere ai siti web di notizie israeliani che erano stati precedentemente bloccati dalle autorità degli Emirati Arabi Uniti, come il Times of Israel, il Jerusalem Post e YNet. La mossa ha scatenato la rabbia tra alcuni che la vedono come un tradimento degli sforzi di lunga data per stabilire uno stato indipendente dei palestinesi. In Pakistan, domenica, centinaia di islamisti si sono radunati per denunciare l'accordo Emirati-Israele. Il partito Jamaat-e-Islami ha cantato slogan contro gli Stati Uniti e ha bruciato le effigi di Trump. Hanno anche dato fuoco alle bandiere americane e israeliane.
   L'accordo non è piaciuto a Iran e Turchia, rivali regionali degli Emirati Arabi Uniti. E neanche ai palestinesi che sono scesi in piazza bruciando bandiere americane e israeliane. Domenica, il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane ha definito la decisione degli Emirati Arabi Uniti un "disastro". Mohammad Hossein Bagheri ha esortato Abu Dhabi a "rivedere" la sua posizione. "Se un incidente accade nel Golfo Persico e viola la sicurezza nazionale della Repubblica islamica dell'Iran, anche un po', non lo tollereremo", ha detto Bagheri.

(la Repubblica, 17 agosto 2020)


Libano pronto a far la pace con Israele

Una svolta clamorosa. Dopo l'accordo Trump il presidente Aoun apre. Ma a certe condizioni.

di Chiara Clausi

Una dichiarazione bomba da parte del presidente libanese Michel Aoun rilasciata alla tv francese Bfm: il Libano è pronto alla pace con Israele. Però a precise condizioni: «Abbiamo ancora problemi e dobbiamo prima risolverli». Questa affermazione arriva dopo che Abu Dhabi e Tel Aviv hanno concordato di normalizzare le relazioni. La dichiarazione è ancora più scioccante perché il presidente per la sua ascesa ha beneficiato di un'alleanza di oltre dieci anni con Hezbollah, la forza militare più potente del Paese. Israele ha combattuto due guerre in Libano negli ultimi decenni e Hezbollah, il gruppo sciita finanziato dall'Iran, è profondamente radicato nel governo libanese. Lo stesso premier dimissionario Hassan Diab gli era molto vicino.
   Aoun invece alla domanda su cosa pensasse del trattato degli Emirati Arabi Uniti con Israele di giovedì scorso, ha risposto che gli Emirati «sono un Paese indipendente». Una posizione in contrasto con l'indignazione dei palestinesi per l'accordo e una presa di distanza dall'iniziativa di pace della Lega araba del 2002, che lega la normalizzazione con Israele a un ritiro completo dalla Cisgiordania e da Gaza.
   Questo accade in momento difficile per il Paese dei cedri. Molti hanno accusato Israele dell'attacco al porto di Beirut e Hezbollah per aver presumibilmente immagazzinato le sue armi lì. Anche il sottosegretario di Stato americano David Hale dal porto di Beirut ha dichiarato: «Qualunque cosa sia accaduta, non potremo mai tornare indietro a un'epoca in cui tutto va bene nei porti e ai confini del Libano». Ma sia Hezbollah che Israele hanno negato le voci di coinvolgimento israeliano. Hezbollah voce di Teheran nel Paese è la principale voce anti-israeliana nella regione oltre alla Turchia. Insieme, questi due paesi vogliono espandere la loro influenza nel Libano.
   Hezbollah sulla tragedia del 4 agosto ha avvertito che Israele «pagherebbe un prezzo uguale» se le indagini sull'esplosione del porto di Beirut rivelassero che Tel Aviv ha orchestrato un atto di sabotaggio. Ma ieri il patriarca maronita, Bechara Raì, in questo clima infiammato solcato da manifestazioni contro la classe politica, ha affermato che il popolo vuole un governo «per salvare il Libano» non «il potere». «Siamo noi la vera rivoluzione», ha invece insistito Gibran Bassil genero di Aoun, odiatissimo dal popolo e leader della Corrente patriottica libera, partito fondato dal presidente.

(il Giornale, 17 agosto 2020)


L'immobilismo nuoce ai palestinesi

Lettera al direttore di Repubblica

di Piero Fassino*

Caro direttore, all'annuncio dell'Accordo di Abramo - l'intesa tra Israele e Emirati Arabi Uniti - la leadership palestinese, dopo alcune ore di imbarazzato silenzio, ha scelto il rifiuto, denunciando il «tradimento» e invocando la reazione del mondo islamico. Una posizione nell'immediato scontata, ma che rischia di essere sterile: l'accordo c'è - e forse sarà seguito da altri analoghi - e l'appello al mondo islamico è già vanificato dal sostegno che all'accordo hanno dato l'Egitto e buona parte del mondo sunnita.
   Soprattutto anche i palestinesi non possono ignorare il radicale mutamento di scenario che ribalta di 180 gradi gli approcci fin qui perseguiti, a partire dal paradigma intorno a cui, dagli accordi Oslo ad oggi, si è cercata una soluzione al contenzioso israelo-palestinese. La risoluzione della questione palestinese non è più la condizione prioritaria per il riconoscimento di Israele da parte del mondo islamico, ma il suo contrario: il riconoscimento dello Stato ebraico da parte delle Nazioni islamiche - che lo hanno sempre negato - diventa condizione perché Gerusalemme accetti di negoziare una soluzione che soddisfi l'aspirazione palestinese ad avere un proprio Stato indipendente e sovrano. Uno degli ostacoli alla soluzione Due popoli/Due Stati, infatti, è sempre stato il timore israeliano che un accordo fondato solo sul rapporto bilaterale tra israeliani e palestinesi non desse certezza che il mondo islamico riconoscesse come irreversibile l'esistenza dello Stato di Israele. L'accordo di oggi - come i precedenti con Egitto e Giordania - va nella direzione di dare quella garanzia. Ne è la riprova che al riconoscimento di Israele da parte degli Emirati corrisponda la sospensione dell'annessione israeliana di parti della Cisgiordania.
   L'intesa rappresenta un successo per i suoi autori: Trump raccoglie il primo vero successo in politica estera; Netanyahu può vantare di aver rotto l'isolamento di Israele nella regione; l'emiro Mohammed bin Zayed conquista una posizione di leadership nel mondo sunnita. Viceversa l'intesa Israele-Emirati suscita in altri attori della regione allarmata reazione: Teheran vede crescere una strategia di suo accerchiamento; Ankara capisce che il suo disegno di egemonia neo-ottomana nel Mediterraneo incontrerà crescenti difficoltà; il mondo sciita percepisce il rafforzamento dello schieramento sunnita avverso; il radicalismo islamico annuncia reazioni bellicose. E per ora Mosca tace. Non tutto dunque è scritto di quel che potrà succedere, a partire dall'incidenza dei nuovi avvenimenti sulle tante crisi che, dallo Stretto di Hormuz a Gibilterra, scuotono la grande regione mediterranea-mediorientale. Ma è indubbio che gli scenari sono in movimento e ogni attore è chiamato a ridefinire le sue scelte. E questo vale in primo luogo per i palestinesi chiamati a scegliere: arroccarsi nel rifiuto dell'intesa, invocando una "protezione" del mondo Islamico, che troppe volte si è dimostrata formale o strumentale; oppure mettersi in gioco, strada non priva di rischi, ma l'unica per non essere marginalizzati e riproporre invece la ineludibilità di una soluzione della questione palestinese.
   Certo una scelta coraggiosa richiede una leadership in grado di uscire dagli schemi fin qui perseguiti, spezzando l'assenza di iniziativa che ha caratterizzato la dirigenza palestinese. Sarà in grado di farlo Abu Mazen, a cui non mancano saggezza e moderazione, ma che appare prigioniero dell'immobilismo in cui è impigliata l'Autorità Nazionale Palestinese? Può il nuovo scenario determinare qualche mutamento nella strategia di Hamas? O forse è solo una leadership nuova, non prigioniera del passato, che potrà riconquistare uno spazio alla causa palestinese? Gli eventi dei prossimi mesi si incaricheranno di rispondere a questi interrogativi. In ogni caso adesso tocca ai palestinesi muovere. Incoraggiarli e accompagnarli in scelte difficili, ma ineludibili, è il ruolo che oggi possono e devono giocare l'Unione Europea e i suoi Paesi, a partire dall'Italia.

* Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati

(la Repubblica, 17 agosto 2020)


"... Abu Mazen, a cui non mancano saggezza e moderazione...". Moderato Abu Mazen? Saggio Abu Mazen? Ma è saggio chi ritiene che Abu Mazen sia moderato e saggio?


II campione israeliano firma con l'Auschwitz

Rabbini e stampa si scagliano contro la scelta di Eliezer Sherbatov: «Traditore». Ma lui si smarca: «Per un ebreo essere qui è una vittoria»

di Alberto Pieri

Eliezer Sherbatov, 28 anni, israeliano cresciuto a Montreal
ROMA - E' scivoloso come il ghiaccio sul quale corre veloce il disco dell'hockey il passaggio, da una squadra all'altra, di Eliezer Sherbatov. II capitano della nazionale d'Israele di hockey su ghiaccio (n. 34 del ranking internazionale), Eliezer Sherbatov, 28 anni, israeliano nato a Rehovot, ha infatti firmato un contratto con la squadra della città polacca di Oswiecim. Apparentemente nulla di strano, anzi saremmo di fronte a una notizia destinata, forse tranne che in Israele e in Polonia, a finire nelle brevi delle pagine sportive. Eppure, Sherbatov ora viene additato come «traditore». II capitano della nazionale israeliana, infatti, dal prossimo campionato giocherà per l'Auschwitz, accostamento a dir poco infelice con Israele. In tedesco, ai tempi della seconda guerra mondiale e dell'occupazione nazista, Oswiecim si chiamava Auschwitz, luogo tristemente famoso dove i tedeschi avevano allestito il campo di concentramento in cui morirono un milione e centomila ebrei. Cosi ora Sherbatov in patria viene duramente criticato e definito «un traditore».
   «Lo so - replica lui -, ci sono tanti ebrei che mi considerano così perché ho firmato per l'Auschwitz, ma io rispondo che ciò che accadde quasi 80 anni fa non verrà mai dimenticato. Ed ecco perché io, adesso, voglio far vedere ai giovani del mio Paese che devono essere fieri delle loro origini e che ora tutto è possibile, anche che un ebreo giochi per la squadra di qui».
   Nel 2020 ricorre il 75° anniversario della liberazione dei prigionieri di Auschwitz da parte degli alleati, e per Sherbatov il modo migliore di sottolinearlo sarebbe «essere un giocatore chiave del team di Oswiecim e vincere il campionato, perché riuscirci giocando per questa squadra vorrebbe dire giocare non solo per me stesso ma anche per onorare la memoria di tutte le vittime di Auschwitz. È come dire «un ebreo è tornato qui, e ha vinto per voi». Nato vicino Tel Aviv, da una famiglia di ebrei russi, Sherbatov è cresciuto in Canada, a Montreal, dove gli è venuta la passione per l'hockey. Ora l'avventura in Polonia, decisione aspramente criticata dalla stampa d'Israele da alcuni rabbini. In sua difesa è invece intervenuto un posto sull'account Twitter dell'Auschwitz-Birkenau Memorial and Museum in cui si dice che «la storia di Auschwitz mostra il pericolo degli stereotipi percepiti dagli altri...per fortuna Sherbatovl capisce meglio tutto ciò».

(Nazione-Carlino-Giorno, 17 agosto 2020)


Israele leva quarantena per chi arriva dall'Italia

Gli israeliani e gli stranieri con un permesso di ingresso provenienti dall'Italia e da alcuni altri Paesi, per lo più europei, da oggi non dovranno più fare la quarantena di 2 settimane al loro arrivo in Israele. Lo ha deciso il Comitato di governo per il Covid, su input del ministero della sanità, che ha elencato una serie di 'Paesi verdi' dai quali è possibile rientrare senza sottoporsi all'isolamento obbligatorio e nei quali - ha confermato l'Ambasciata italiana in Israele - è inserita l'Italia. Il provvedimento include anche Gran Bretagna, Slovenia, Nuova Zelanda, Georgia, Danimarca, Austria, Canada, Estonia, Ruanda, Finlandia, Lettonia, Hong Kong, Germania, Ungheria, Cipro, Grecia, Croazia e Bulgaria.

(ANSA, 17 agosto 2020)


Per la prima volta i caccia israeliani si addestreranno con la Luftwaffe in Germania

 
Gulfstream G550 IAF
L'aeronautica militare israeliana (Israeli Air Force) e quella tedesca (Luftwaffe) condurranno un'esercitazione bilaterale di addestramento in Germania a partire da oggi. Questa è la prima esercitazione congiunta tra l'IAF e l'aviazione tedesca ad aver luogo in Germania. Questa esercitazione è anche l'unico evento addestrativo internazionale all'estero che l'IAF sta conducendo quest'anno a causa della diffusione del COVID-19. L'esercitazione "Blue Wings 2020" segna un'altra pietra miliare nella cooperazione militare sempre più stretta tra i due paesi.
   L'aeronautica militare tedesca ha già partecipato due volte all'esercitazione multinazionale israeliana "Blue Wings", l'ultima volta nel novembre 2019, ma sempre in Israele. Inoltre, le due forze aeree lavorano a stretto contatto da anni come parte dell'addestramento del drone Heron.
   Secondo una dichiarazione dell'IAF, l'esercitazione si terrà per continuare a migliorare le capacità dell'IAF, per mantenere la sua disponibilità ad affrontare diversi scenari operativi e per continuare a rafforzare i suoi legami e la cooperazione con le forze aeree alleate.
   "La IAF parteciperà all'esercitazione per la prima volta come ospiti della Germania", ha detto il tenente colonnello A, comandante del 105th Squadron ("Scorpion"), che opera con aerei F-16 "Barak" (F-16C/D) e capo del team di spiegamento dell'IAF. "Questa è un'opportunità per mostrare le nostre capacità e conoscere la tecnica di volo e di addestramento della NATO".
   Come parte dell'esercitazione, sei caccia F-16C/D Fighting Falcon "Barak", due Boeing 707 "Re'em" aerei da rifornimento e da trasporto e due Gulfstream G550 "Nachshon-Eitam" arriveranno, a partire da oggi lunedì 17 agosto, in Germania presso la base aerea di Nörvenich (Fliegerhorst Nörvenich) sede del Taktische Luftwaffengeschwader 31 "Boelcke" (Tactical Air Force Wing 31). Gli equipaggi si addestreranno per due settimane ed eserciteranno vari scenari aerei insieme ai paesi della NATO come parte del "MAG (Multinational Air Group) Days" - un evento internazionale che si svolge quattro volte all'anno.
   Durante l'esercitazione, le forze aeree israeliane saranno impegnate in combattimenti aerei, combattimenti terra-aria, gestendo minacce missilistiche terra-aria (SAM) e altri scenari di combattimento in territorio nemico. L'esercitazione è un'opportunità per addestrarsi ad affrontare un'ampia varietà di minacce utilizzando tecnologie avanzate e per eseguire un addestramento aereo di qualità in un'arena di combattimento sconosciuta.
   "Questo addestramento è molto efficace ed unico, poiché ci alleniamo in un ambiente e un territorio sconosciuti", ha descritto il tenente colonnello A. "Voleremo in un ambiente diverso da quello a cui siamo abituati in Israele, con piattaforme di volo e regole di volo diverse, i voli saranno effettuati utilizzando la dottrina di combattimento della NATO in contrasto con la nostra, che crea una sfida per il pilota e l'operatore dei sistemi d'arma nella cabina di pilotaggio", continua il tenente colonnello A.
   Martedì 18 agosto si svolgerà un sorvolo "Memory for the Future", un flyby congiunto, guidato da un Gulfstream G550 IAF con caccia F-16 e due jet Eurofighter tedeschi, che volerà vicino al campo di concentramento di Dachau, in memoria delle vittime dell'Olocausto e sopra l'aeroporto di Fürstenfeldbruck vicino a Monaco, in memoria degli 11 membri della delegazione olimpica israeliana uccisi nell'attacco terroristico delle Olimpiadi del 1972. Il comandante dell'Israeli Air Force, il maggiore generale Amikam Norkin guiderà il flyby nel Gulfstream G550 insieme al comandante dell'aeronautica militare tedesca, il tenente generale Ingo Gerhartz, e il primo comandante di squadriglia donna dell'IAF, comandante del 122nd Squadron ("Nachson "), tenente colonnello G.
   Dopo il sorvolo, si terrà una cerimonia commemorativa ufficiale nel campo di concentramento di Dachau. Alla cerimonia parteciperanno il ministro della Difesa federale tedesco Annegret Kramp Karrenbauer, l'ambasciatore israeliano in Germania Jeremy Issacharoff, i comandanti di entrambe le forze aeree e altri dignitari. Il vice comandante del 109th Squadron, il maggiore Y, nipote di un sopravvissuto all'Olocausto del campo di concentramento di Dachau, parlerà alla cerimonia. Inoltre, una lettura "Yizkor" sarà ascoltata dal rabbino Mendel Moraity. La cerimonia sarà trasmessa in diretta sulle piattaforme digitali IAF e IDF.
   Lo spiegamento è strategicamente significativo e influenza notevolmente le forze aeree israeliane, la difesa israeliana e l'intero stato di Israele. La cooperazione israelo-tedesca e l'arrivo di aerei israeliani sul suolo tedesco è un evento storico. L'IAF conduce e continuerà a condurre esercitazioni congiunte con altre forze aeree per mantenere la propria capacità e prontezza operativa, nonché per far progredire le relazioni e incoraggiare e rafforzare la cooperazione tra le forze. "A livello tattico, abbiamo l'incredibile opportunità di imparare da altre forze aeree e di addestrarci in un territorio sconosciuto e in condizioni difficili", ha concluso il tenente colonnello A. "Da un punto di vista strategico, stiamo rafforzando la nostra capacità di cooperare con altre nazioni e le forze aeree".

(Aviation Report, 17 agosto 2020)


Accordo Israele-Emirati: Beirut non esclude la possibilità di pace. Due razzi lanciati da Gaza

L'accordo di normalizzazione sta rimescolando tutte le carte nello scenario mediorientale. È già al vaglio la nomina del primo ambasciatore israeliano in uno Stato del Golfo: una delegazione si recherà nei prossimi giorni ad Abu Dhabi per avviare i colloqui sulla formalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Stati. Colpita Hamas. Ripresi scontri al confine

di Sharon Nizza

 
GERUSALEMME - L'annuncio giovedì dell'avvio di uno storico processo di normalizzazione dei rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Israele sta avendo un effetto domino: il canale 12 israeliano ha riportato ieri indiscrezioni secondo cui è questione di giorni perché anche il Bahrain si accodi agli Emirati nell'apertura verso lo Stato ebraico, come emerge da una serie di colloqui telefonici tra il capo del Mossad Yossi Cohen e il primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa.
  Venerdì Jared Kushner, genero e consigliere di Trump e uno degli artefici dell'avvicinamento dei Paesi del Golfo con Israele, in un'intervista alla Cnbc ha detto che crede sia "inevitabile" che anche l'Arabia Saudita normalizzi le relazioni con Gerusalemme. Ma il titolo più sorprendente l'ha fornito il Presidente libanese Michel Aoun, alleato di Hezbollah dal 2006. A una domanda della Tv BFM francese sull'eventualità che il Libano consideri la pace con Israele, ha risposto "dipende. Abbiamo problemi con Israele e dobbiamo risolverli prima". E sull'accordo di normalizzazione che sta rimescolando tutte le carte nello scenario mediorientale, si è limitato a dire che "gli Emirati Arabi Uniti sono uno Stato indipendente".
  Venerdì il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah si era unito a Turchia, Iran e Autorità palestinese nel condannare l'accordo che "tradisce l'Islam e il mondo arabo".

 Verso l'avvio dei colloqui
  Le dichiarazioni di giovedì si stanno trasformando in azioni in tempi record: mentre è già al vaglio la nomina del primo ambasciatore israeliano in uno Stato del Golfo, una delegazione guidata dal numero uno del Mossad Yossi Cohen e dal capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale Meir Ben Shabbat, si recherà nei prossimi giorni ad Abu Dhabi per avviare i colloqui sulla formalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Stati.
  Nei due giorni che sono trascorsi dall'annuncio epocale, è stato un susseguirsi di interviste con cittadini emiratini sulla stampa israeliana. Il corrispondente per il mondo arabo della Tv pubblica Kan11, Roi Kais, in meno di 48 ore era già a Dubai, il primo giornalista israeliano a trasmettere in ebraico di fronte all'iconico Burj Khalifa. Il canale 12 chiude un cerchio con l'intervista in prime time di Ohad Hemo a Dhahi Khalfan Tamim, il capo della polizia di Dubai che nel 2010 aveva ricostruito e svelato al mondo che c'era il Mossad dietro l'omicidio del leader di Hamas Mahmoud Al-Mabhouh, avvenuto in una stanza dell'Hotel Al Bustan della sua città. Persino lui non esita a dire che "è giunto il momento della pace".
  E poi le voci di blogger, direttori di hotel, mercanti dello souk pakistani e afghani - tra quei lavoratori stranieri che costituiscono l'80% della popolazione locale - che si dicono pronti ad accogliere i turisti israeliani.

 La frustrazione palestinese
  Il nuovo connubio israelo-emiratino va di pari passo con la crescente rabbia mista a frustrazione della leadership palestinese. Da 13 anni lacerata dalla divisione tra Cisgiordania governata da Fatah e Striscia di Gaza sotto Hamas, ha trovato una convergenza nella ferma condanna dell'accordo: il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) hanno avuto un raro colloquio telefonico per proclamare l'unità di intenti nel contrastare l'"Accordo di Abramo", definito "un tradimento di Gerusalemme, della Moschea di Al Aqsa e della causa palestinese".
  Nell'account Twitter ufficiale di Fatah, sotto l'hashtag "la normalizzazione è tradimento", è un susseguirsi di caricature che rappresentano "la pugnalata alle spalle degli Emirati", e di immagini dei presidi nelle città palestinesi con i ritratti dati alle fiamme del reggente emiratino, del presidente Usa e del premier israeliano. Abu Mazen ha chiesto la convocazione della Lega Araba per condannare gli Emirati, ma l'aperto sostegno all'accordo da parte di Paesi chiave come Egitto, Giordania, Bahrain, Oman, lascia presumere che, se anche si dovesse riunire, non verranno pronunciate dichiarazioni risolutive.

 La stampa saudita
  Sull'altro versante mediorientale, i quotidiani emiratini rilanciano la posizione ufficiale dei reggenti di Abu Dhabi. "È un patto per garantire la stabilità regionale" titola Al-Ittihad: abbiamo fermato la minaccia di annessione da parte israeliana e continuiamo a impegnarci per il raggiungimento della soluzione a due Stati. Anche la stampa saudita invia messaggi, rassicuranti quanto incalzanti, ai palestinesi. In un articolo sul quotidiano online Al-Khaleeg, l'analista Abd al-Aziz bin Razen scrive che sono "i grandi vincitori" di questo accordo che ha l'obiettivo di "proteggere i diritti del popolo palestinese, che Hamas ha spinto tra le braccia dell'Iran".
  Sullo stesso quotidiano saudita il ricercatore emiratino Salem al-Ketbi aggiunge: "gli Emirati stanno agendo negli interessi dei palestinesi e di tutta la regione, usando il proprio ruolo per neutralizzare l'escalation di violenza che sarebbe potuta scaturire da un'annessione israeliana di terre palestinesi". L'accordo con Israele invece "rimette in campo la possibilità di una soluzione politica e crea nuove opportunità per il processo di pace".
  I palestinesi non ci stanno. Hanno richiamato l'ambasciatore e invocano una ribellione popolare nel mondo arabo per scongiurare altre iniziative che violino il principio per cui "non può esserci normalizzazione con Israele senza il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini del '67". Va aggiunto che i rapporti tra Anp ed Emirati erano in crisi già da tempo, anche per la presenza ad Abu Dhabi di Mahmoud Dahlan, ex capo di Fatah a Gaza e acerrimo rivale di Abu Mazen. Jibril Rajoub, Segretario Generale di Fatah e tra i papabili per la futura guida dell'Anp, sabato ha espulso Dahlan dal partito accusandolo di essere tra gli estensori della nuova alleanza con Israele.

 Razzi da Gaza
  Sul fronte di Gaza, continua l'escalation innescatasi già prima della notizia dell'accordo con gli Emirati. Per la quarta notte consecutiva, l'esercito israeliano ha bombardato postazioni militari di Hamas nella Striscia in risposta al continuo lancio di palloni incendiari ed esplosivi verso le cittadine di confine. La sirena si è fatta sentire nuovamente: un razzo da Gaza ha centrato una casa a Sderot facendo un ferito. In risposta il ministro della Difesa ha ordinato la chiusura dell'intera zona di pesca palestinese. Ieri sera, per la prima volta da mesi, centinaia di palestinesi si sono ammassati al confine con Israele lanciando cariche esplosive verso i soldati, che hanno aperto il fuoco e ferito tre persone.
  Una delegazione egiziana dovrebbe arrivare nella Striscia nei prossimi giorni per mediare una nuova tregua con Israele e il rinnovo dell'aiuto del Qatar - 30 milioni di dollari in contanti al mese per assistere la popolazione palestinese - che sta per scadere a settembre.

(la Repubblica, 16 agosto 2020)


Primi effetti dell'accordo di pace: un artista israeliano si esibirà a Dubai

Cantico delle salite, Salmo 121
Ulteriori segnali di normalizzazione nei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti in vista dell'accordo che i due Paesi si apprestano a mettere nero su bianco nelle prossime settimane.
  Per la prima volta in assoluto, un artista israeliano si esibirà a Dubai. Si tratta, come riportano i media, del 26enne cantante Omer Adam. L'invito è arrivato direttamente da Hamad Bin Khalifa Al Nahyan, un membro della famiglia reale. Il concerto potrebbe tenersi a ridosso della firma ufficiale del trattato. Adam è un artista molto noto, che nella sua musica fa incontrare melodie orientali e pop occidentale. Lo scorso giugno si era già rivolto alla leadership degli Emirati, in un video in cui esprimeva il proprio apprezzamento per la tutela dei diritti religiosi concessa alla piccola comunità ebraica residente nel Paese.
  Altro annuncio di oggi: fino a poche ore fa non erano possibili chiamate dirette tra i due Paesi. Da quest'oggi la situazione sembra essersi sbloccata. Anche alcuni siti israeliani da tempo censurati, riporta la Reuters, risulterebbero regolarmente accessibili. I due ministri degli Esteri, Gabi Ashkenazi e Abdullah bin Zayed Al Nahyan, hanno affermato di aver aperto "un canale diretto di comunicazione" e si sono trovati d'accordo sull'idea "di incontrarsi al più presto".
  Sorprendente l'apertura del presidente libanese, Michel Aoun, che in una intervista con la televisione francese non ha escluso l'ipotesi di un futuro negoziato con Israele: "È da vedere. Con Israele abbiamo dei problemi. Prima dobbiamo risolverli".
  Continua invece ad alzare la voce il regime di Teheran. E in particolare il presidente Hassan Rohani, che ha accusato gli Emirati di aver "tradito il proprio Paese, i musulmani e il mondo arabo solo perché un signore possa essere eletto a Washington". Rohani ha definito gli Emirati "un Paese musulmano che ha un popolo molto religioso e buono". A differenza dei suoi governanti, che a detta del leader iraniano sarebbero andati "nella direzione sbagliata". Minacciosi anche i Guardiani della Rivoluzione, i pasdaran al servizio dell'ayatollah, che in un comunicato hanno annunciato possibili conseguenze per il Paese del Golfo.
  Israele, in queste ore, fronteggia intanto una nuova insidia da Gaza. Razzi e palloni incendiari sono stati infatti lanciati dalla Striscia verso alcune località israeliane a ridosso del confine, costringendo migliaia di persone a rifugiarsi nei rifugi. L'aviazione, in risposta, ha colpito alcuni obiettivi strategici. La tensione resta alta.
  Tema predominante, sugli organi di informazione, è però l'accordo con Abu Dhabi. L'opinione pubblica si domanda in particolare quali possano essere i prossimi Paesi arabi a fare un passo simile. Dall'Arabia Saudita, che come Israele ha nell'Iran il proprio nemico numero uno, al Marocco, dove una comunità ebraica è da tempo sotto tutela governativa.
  Tra i possibili indiziati anche Bahrein, Oman e Qatar.

(moked, 16 agosto 2020)


Emirati e aziende israeliane firmano un "accordo commerciale" per la ricerca sul coronavirus

La compagnia degli Emirati, APEX National Investment, ha annunciato sabato la firma di un accordo commerciale strategico con TeraGroup con sede in Israele, dedicato allo sviluppo della ricerca sulla pandemia di coronavirus (COVID-19), secondo l'Agenzia di stampa ufficiale degli Emirati (WAM).
L'accordo è stato firmato durante una conferenza stampa tenuta da Khalifa Yousef Khouri, presidente di APEX National Investment, e Oren Sadiv, presidente e CEO di TeraGroup, presso la sede di Al Qudra Holding ad Abu Dhabi.
Alla firma hanno partecipato anche Ido Berniker, un rappresentante di First Capital Group, oltre a numerose figure di alto livello e funzionari delle due società, e rappresentanti dei media israeliani ed emiratini.
"Siamo lieti di questa collaborazione con TeraGroup, che è considerata la prima azienda a inaugurare il commercio, l'economia e partnership efficaci tra i settori imprenditoriali degli Emirati e d'Israele, a beneficio di servire l'umanità rafforzando la ricerca e gli studi sul Nuovo Coronavirus (COVID- 19)", ha detto Khouri.
Oren Sadiv di TeraGroup ha affermato che la sua società era "entusiasta" dell'accordo, sperando che raggiungerà gli obiettivi delineati "che a loro volta andranno a vantaggio di tutti economicamente, in particolare in queste circostanze eccezionali con la diffusione del Coronavirus (COVID-19) in giro il mondo".
Ido Berniker, un rappresentante della società finanziaria First Capital Group, ha ringraziato i due leader del settore e si è detto soddisfatto della firma dell'accordo.
"Presso la First Capital Group, siamo molto desiderosi di riunire società specializzate in ricerca e invenzioni per stabilire partnership commerciali e d'investimento con società degli Emirati, come APEX National Investment", ha affermato.
L'accordo mira a condurre e migliorare la ricerca sul nuovo coronavirus, nonché a sviluppare un dispositivo per il test del coronavirus che aiuterà ad accelerare il processo e fornirà test accurati ed efficaci in linea con gli standard internazionali.
L'accordo segue un annuncio fatto la scorsa settimana per concludere un accordo tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele per stabilire legami diplomatici tra i due paesi.

(Sputnik Italia, 16 agosto 2020)


Emirati-Israele contro il nemico comune: l'Iran

L'accordo tra i due Paesi mette a posto la bilancia regionale contro Teheran. Col beneplacito americano, il ridimensionamento di Russia e Turchia, la "merce di scambio" palestinese. Analisi di una nuova partita a scacchi nel Vicino Oriente.

di Raffaele Crocco

E' una enorme partita a scacchi, questa. Con tanti giocatori attorno alla scacchiera, giocatori che però sono anche pedine. L'accordo di pace fra Israele ed Emirati Arabi Uniti arriva davvero esattamente quando doveva arrivare. La cosa più sorprendente, in fondo, è proprio questa. Quell'accordo serviva a molti e che sia reale o di facciata poco importa: oggi è lo strumento indispensabile per tentare di mettere all'angolo l'Iran nel Vicino Oriente, per abbassare le pretese neo-imperiali della Turchia e per ridare un minimo di fiato alla stanca superpotenza Usa. E che arrivi pochi giorni dopo il disastro in Libano, con il porto di Beirut distrutto, non è casuale. Vediamo:
  1. Israele e Emirati Arabi hanno almeno un interesse comune: neutralizzare l'Iran. Per Israele, Teheran è l'unico avversario militarmente e culturalmente pericoloso dell'area. In più, esercita un'influenza forte e autorevole sulle politiche libanesi, finanziando Hezbollah, partito-esercito al governo a Beirut. L'alleanza con l'islam sunnita degli Emirati è quindi funzionale: per gli emiri, gli sciiti iraniani devono essere ricacciati ed eliminati ovunque si trovino. Quindi, il nemico è comune. Non dimentichiamo che Tel Aviv aveva provato ad avvicinarsi all'Arabia Saudita con le stesse motivazioni nei recenti anni di lotta al Califfato.
  2. L'alleanza è, per le stesse ragioni, funzionale agli Stati Uniti. L'Iran è da sempre il nemico, anche perché alleato della Russia, che con l'islam sciita lavora da sempre. La presenza di Mosca - presenza militare - nel Vicino Oriente per le vicende siriane allarma Washington, che invece nell'area non ha più grande appeal. Un'alleanza israeliano-sunnita in chiave anti Iran a Trump piace molto. Ed è divertente che venga usata la formula "accordo di pace" per ristabilire in realtà un'egemonia di tipo militare.
  3. Un accordo di questo genere, mette gli Stati Uniti abbastanza al sicuro nelle relazioni con il mondo islamico sunnita. Questo, taglia fuori la Turchia, per decenni garante pressoché unica - in qualità di alleato Nato - dei rapporti con l'islam soprattutto sunnita. La scelta dei tempi non è casuale: Ankara, con il presidente Erdogan, sta rispolverando i fasti imperiali, portando i militari in Siria e Libia, contendendo gli idrocarburi alla Grecia al largo di Cipro e investendo denari in finanziamenti ai Paesi islamici del Balcani e dell'Asia Centrale. Per farlo, flirta con la Russia di Putin, sapendo che non potrà durare per conflitto d'interessi. Una media potenza di questo genere nel Mediterraneo non piace e non serve a Washington, non piace e non serve all'Unione Europea. Rinsaldare i rapporti con il mondo arabo tramite Israele è funzionale.
  4. E' stupefacente quello che accade ai palestinesi, che non a caso sono furiosi. Una volta in più, sono stati usati come "moneta di scambio" per fare accordi altrove. Gli Emirati giurano che hanno inserito nell'intesa con Tel Aviv il fatto della rinuncia di quest'ultima alla sovranità nella West Bank. La realtà è che il governo israeliano non sarebbe mai riuscito a far passare, sulla piazza internazionale, l'annientamento o lo sgombero della Palestina dai palestinesi per farne terra israeliana. Quindi, molto più pratico fare un accordo che non costa nulla, ma suona tanto bene. Di fatto, gli Emirati si fanno garanti della situazione esistente, lontanissima da ogni possibilità di Stato palestinese entro questa generazione. Evidenti le ragioni della rabbia palestinese.
  5. E' affascinante che, misteriosamente, gli Emirati Arabi abbiano giusto all'inizio di agosto attivato la Barakah, letteralmente "benedizione divina", una centrale nucleare formata da 4 reattori da 1.400 MW di potenza l'uno. La centrale dovrebbe contribuire a soddisfare le enormi esigenze energetiche delle città emiratine, come Dubai o Abu Dhabi. Gli scopi, dicono gli sceicchi, sono solo commerciali, ma la riconversione militare dell'impianto, sottolineano gli esperti, sarebbe rapidissima. Bene: nessuno ha protestato. Nessuno ha gridato "al pericolo" per la possibile nascita di una nuova potenza nucleare. Gli impianti iraniani, giusto per citare un caso, sono stati radiografati mille volte, sono stati e sono oggetto di trattative, colloqui, accordi e disaccordi internazionali. La centrale degli Emirati no. Giusto mentre l'accordo con Israele - potenza atomica, ricordiamolo - veniva siglato.
  6. Visto tutto questo, l'esplosione di Beirut, al netto della tragedia per i troppi morti e feriti, è stata quanto mai opportuna. Il Paese è in ginocchio, senza governo e senza futuro. L'economia praticamente non esiste e gli attori - tutti - sono in crisi. Lo è anche Hezbollah, la lunga mano iraniana nella Regione. Ora la gara sarà a chi potrà aiutare il Paese a risollevarsi, guadagnandosi la gratitudine e la riconoscenza dei libanesi. Certo è, che il quadro di potere e forze in campo preesistente è morto. E Israele ha iniziato subito a giocare le proprie carte, offrendo aiuti consistenti.
Questo il quadro, questi gli attori in campo e in azione. Cambierà qualcosa nel Vicino Oriente? Sì, certo, è sicuro. Meno certo è che il cambio sia in meglio. Meno probabile è che davvero venga avviato un meccanismo di pace. Meno sicuro è che i Palestinesi migliorino la loro condizione. Insomma, è tutto da scoprire. Esattamente come in una lunga partita a scacchi.

(Atlante Guerre, 16 agosto 2020)


Federico II e gli ebrei

Breve storia dell'imperatore che discuteva il Talmud

di Giorgio Berruto

 
Jesi - Monumento a Federico II
Di pochi personaggi del passato si può dire che abbiano diviso e contrapposto gli animi, costringendo le persone a schierarsi, come di Federico II, imperatore tedesco e re di Sicilia nella prima metà del secolo XIII, di cui nel 2020 cadono gli 800 anni dall'ascesa al trono imperiale. Tra i protagonisti indiscussi, di volta in volta amato o odiato, del medioevo, definito "stupor mundi", meraviglia del mondo, dai sostenitori, descritto come anticristo dalla propaganda papale, Federico anche molti secoli dopo la morte non ha smesso di dividere gli storici. Primo uomo moderno su un trono secondo Jacob Burckhardt, innanzitutto imperatore tedesco per Ernst Kantorowicz, uomo del suo tempo e del Mediterraneo per David Abulafia. Ma quali sono gli atteggiamenti di Federico nei confronti degli ebrei, all'epoca numerosi nel suo regno? Quale la politica dell'imperatore verso le comunità ebraiche?
  Facciamo un passo indietro. Federico eredita il regno di Sicilia dalla madre Costanza, figlia del più grande dei re Normanni, Ruggero II, e la corona imperiale dal padre Enrico VI, figlio di Federico I, detto Barbarossa, protagonista della lotta con i comuni del Nord Italia nel secolo precedente. La condizione degli ebrei nell'Italia meridionale e in Germania all'alba del regno di Federico II è però molto diversa. In Sicilia una presenza ebraica è attestata dal tempo di Cicerone, nel I secolo a.e.v., ed è probabile che sia cresciuta con la conquista araba nel IX secolo. Secondo alcuni storici in Puglia e Sicilia gli ebrei arrivano al 5% della popolazione complessiva e godono di sostanziale libertà di culto. La situazione sembra non essere mutata con l'arrivo dei normanni, la cui amministrazione si pone nel solco di quella araba evitando grandi fratture. Il famoso viaggiatore spagnolo Beniamino da Tudela, pochi anni prima della nascita di Federico, si ferma a Palermo, segnalando la prosperità di una comunità ebraica composta da 1500 famiglie. A fronte di comunità ebraiche di poche decine di famiglie al massimo nel Nord Italia, Beniamino annota la presenza di 600 famiglie a Salerno, 500 a Napoli e Otranto e centinaia in numerose altre località. In Germania invece i primi pogrom in occasione delle crociate - nel 1096 e nel 1148 - hanno lasciato profonde cicatrici, segnando nella valle del Reno la fine di antiche comunità.
  Nel 1215 il concilio lateranense IV voluto dal papa Innocenzo III impone un segno di riconoscimento agli ebrei. Il papa era stato tutore di Federico, che aveva ereditato la corona di Sicilia a soli 4 anni, ed è verosimile che eserciti influenza sul giovane re. Sappiamo che a Messina nel 1221 gli ebrei sono obbligati a portare la barba e un camiciotto "tinctum colore celesti", come riporta il cronista Riccardo da San Germano. La barba e il segno azzurro sono ritenuti indispensabili perché altrimenti "i doveri e gli usi dei cristiani sarebbero stati confusi". Nel documento di Messina, i cui provvedimenti in ogni caso non siamo certi siano stati effettivamente applicati, agli ebrei sono accostati altri due gruppi: le prostitute, di cui si dice che non potranno abitare in città, e gli attori e giullari, che andranno attentamente controllati perché inclini alla bestemmia. E' notevole l'accostamento di ebrei, prostitute e attori nella distinzione, cioè nella separazione, dagli altri cittadini. Secondo Abulafia nel suo libro Federico II. Un imperatore medievale (Einaudi )- si evidenzia qui la connessione tra gruppi marginalizzati allo scopo di evitare la contaminazione.
  La raccolta di leggi nota con il nome di Costituzioni di Melfi, il più chiaro programma di governo che Federico abbia enunciato, non cita il segno imposto agli ebrei di Messina dieci anni prima. Siamo nel 1231 e si è ormai consumata la rottura dell'imperatore con il papato. Nelle Costituzioni si chiarisce che gli ebrei devono essere protetti dalla violenza popolare perché dipendono direttamente dall'imperatore, sono cioè soggetti al fisco imperiale, dunque utili. Gli ebrei sono infatti "servi camere nostre", servitori della Camera regia in Germania prima e poi anche nel Meridione e in Sicilia. Il possesso degli ebrei da parte dell'imperatore significa che gli ebrei sono sottoposti alla diretta giurisdizione dello stato, e non a quella dei poteri locali che Federico cerca con ogni mezzo di limitare. Tutta la politica di Federico è d'altronde finalizzata a favorire il potere centrale contro i poteri feudali; in una parola, a accentrare. Come ha chiarito Yosef H. Yerushalmi in un testo che non si occupa di Federico II - Servitori di re, non servitori di servitori, Giuntina - la secolare dipendenza diretta dai sovrani è per gli ebrei, che d'altronde avevano scelta limitata, una scommessa pericolosa. Gli ebrei dipendono in questo modo dai volubili desideri del regnante del momento, ma poiché sono possesso del re, vengono anche tutelati dal potere centrale perché chi li danneggia, danneggia il re.
  Nel 1235 a Fulda, in Germania, vengono bruciati 35 ebrei per omicidio rituale, un'accusa che proprio in questi anni prende forma. Federico esige un processo per stabilire se gli ebrei siano collettivamente colpevoli e l'uso del sangue cristiano previsto nelle pratiche ebraiche. Per procedere a un giudizio corretto Federico consulta alcuni ebrei convertiti, che di solito non nutrivano alcuna simpatia per coloro da cui si erano allontanati con il battesimo, che chiariscono fonti alla mano come l'uso del sangue sia bandito dalla normativa ebraica. Le accuse di omicidio rituale sono perciò riconosciute false e condannate. Federico, che era stato nel frattempo scomunicato dal nuovo papa Gregorio IX, dopo le Costituzioni di Melfi e i fatti di Fulda viene descritto come filoebreo dalla propaganda papale. E' un miscredente che preferisce gli ebrei ai cristiani nel ritratto di Richerio di Sénones, addirittura "anticristo" nella cronaca del frate francescano Salimbene di Adam. Inutile aggiungere che queste descrizioni dicono poco di Federico, molto invece della lotta senza quartiere tra papato e impero, con i pontefici che cercano di screditare in ogni modo l'imperatore.
  Nel 1239, dopo la repressione dell'ennesima insorgenza dei musulmani ormai confinati nell'interno della Sicilia, Federico decide di trasferire con la forza i ribelli a Lucera, in Puglia. Questo provvedimento, insieme all'emigrazione in corso da decenni di arabi dalla Sicilia verso il Maghreb, spinge Federico non solo a ripopolare le zone disabitate con contadini lombardi, ma anche a invitare gli ebrei del Nordafrica a stabilirsi a Palermo e nelle altre città. E' del 1247, invece, la notizia di una nuova sinagoga aperta a Trani, che secondo Attilio Milano - Storia degli ebrei in Italia, Einaudi - indicherebbe la fioritura delle comunità ebraiche durante il regno di Federico e la politica tollerante dell'imperatore. Si tratta di un giudizio che oggi la storiografia ritiene esagerato e fuorviante, ma su questo torneremo a breve. Attività agricole, mediche e legate all'usura sono attestate presso gli ebrei dell'Italia meridionale negli anni di Federico. Le attività più importanti, per le quali la popolazione ebraica gode di sostanziale monopolio, sono però la poco salubre industria della tintoria e la produzione e il commercio della seta.
  La Sicilia araba e normanna era stata terra di confine e di incontro tra culture e tradizioni diverse. Ancora ai tempi di Federico, seppure in un contesto mutato e meno favorevole, la corte di Palermo rappresenta il terreno dell'incontro tra oriente e occidente, Europa germanica e mediterranea, un incontro che la stessa origine dell'imperatore, tedesca e siciliana insieme, ribadisce. Non sono pochi gli intellettuali ebrei alla corte di Federico, da Yaakov ben Abba Mari, collaboratore di Michele Scoto, a Mosè ibn Tibbon a Yehudà ben Shelomò haCohen. Si tratta di dotti per lo più di origine spagnola e provenzale che conoscono l'arabo e si dedicano a interessi filosofici e astronomici, oltre a partecipare al grande programma di traduzioni che nell'arco di pochi decenni mette nelle mani dei dotti dell'Europa cristiana molti testi medievali e antichi - basti pensare agli scritti di Aristotele - prima sconosciuti in Occidente.
  A fronte di tutto questo, ha senso parlare di tolleranza per Federico? Come abbiamo visto, il giudizio entusiastico di Milano oggi viene considerato insufficiente perché trasferisce un concetto moderno che si è sviluppato a partire dal Seicento in un contesto medievale. Come chiarisce Kantorowicz in un'opera ancora oggi cardinale - Federico II imperatore, Garzanti - ai tempi di Federico, rispetto ai periodi precedenti arabo e normanno, crescono le restrizioni alle libertà delle minoranze musulmane, ebraiche e greche ortodosse. Il principio che informa tutta la politica di Federico, suggerisce ancora Kantorowicz, è l'utilità per lo stato. Questo spiega la violenta repressione di ogni tendenza centrifuga rispetto all'accentramento del potere, come quella definitiva nei confronti dei musulmani della Sicilia interna, da decenni in uno stato di malcontento e agitazione che di tanto in tanto aveva già trovato sfogo in aperte ribellioni. Di fronte all'insorgenza dei musulmani Federico non esita favorendone l'emigrazione o la conversione e addirittura deportandoli. Per questo stesso motivo l'imperatore reprime con violenza le eresie: gli eretici, infatti, sono non solo nemici della fede, ma anche dell'ordine politico e vanno perciò eliminati. Il controllo centrale da parte dello stato, e non un concetto anacronistico come quello di tolleranza, spiega la concessione del monopolio sulla tintoria e la seta a chi, come gli ebrei, dipende direttamente dal fisco imperiale. Ma l'esigenza di controllo, da parte dell'imperatore, non si ferma qui. Kantorowicz suggerisce che "gli ebrei potevano, anzi dovevano vivere secondo i loro costumi, purché non venissero a detrimento dello stato". In questo modo non solo le attività commerciali e le imposte, ma anche i costumi vengono in qualche modo controllati dal potere politico, che stabilisce i confini entro cui i sudditi possono muoversi. Uno stato forte e un potere accentrato sono cifre del governo di Federico e motivi della sua lotta contro il papato e i privilegi di città e feudi. Questo approccio strumentale è manifesto anche nella politica verso gli ebrei. Abulafia, che ha aperto una nuova stagione di studi su Federico in polemica con Kantorowicz, sottolinea come i provvedimenti dell'imperatore che riguardano gli ebrei si muovano in direzioni divergenti. Ma questo, come chiarisce lo stesso Abulafia, è dovuto all'adattamento di volta in volta all'obiettivo costante di controllo. E' eloquente il paragone tra la politica pragmatica e strumentale di Federico a quella visionaria e fanatica del contemporaneo re di Francia, Luigi IX il Santo: alla corte del primo il Talmud viene discusso (e, come abbiamo visto, utilizzato per smascherare l'accusa di omicidio rituale), a quella del secondo bruciato pubblicamente.
  Come è stato descritto, infine, Federico II dalla tradizione ebraica? L'imperatore viene ritratto come filoebreo dal poeta e storico Samuel Usque, ebreo portoghese rifugiato in Italia nella prima metà del secolo XVI. Ma sono gli stessi ebrei contemporanei di Federico i primi a disegnare questa immagine storicamente inattendibile ma molto indicativa. Uno degli intellettuali di spicco alla corte dell'imperatore, Yaakov ben Abba Mari, dedica a Federico le traduzioni compiute su Aristotele, Tolomeo e l'astronomo arabo Al-Fargani. La dedica si chiude con l'augurio che il messia possa comparire proprio al tempo di Federico, "amico della sapienza". Un augurio che non ha nulla di retorico, poiché il 1240 corrisponde, nella cronologia ebraica, all'anno 5000, preconizzato all'epoca per la venuta del messia.

(JoiMag, 16 agosto 2020)


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