Cercate l'Eterno, mentre lo si può trovare;
invocatelo, mentre è vicino.
Lasci l'empio la sua via, e l'uomo iniquo i suoi pensieri:
e si converta all'Eterno che avrà pietà di lui,
al nostro Dio che è largo nel perdonare.
Isaia 55:6-7  

Attualità



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Lisa Shtrambrand
Lord, my Lord




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Predicazioni
Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 lug 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico: Non siate ansiosi per la vita vostra di quello che mangerete o di quello che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non siete voi assai più di loro? E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito? E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio riveste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque ansiosi dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo? Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

Matteo 6:24-34

Marcello Cicchese


Sovranità nazionale e imperialità globale

Ormai nel dibattito politico si usano le parole come pallottole da sparare contro gli avversari. Una di queste è “sovranista”, usata come educato alleggerimento del termine “fascista”, che resta di riserva come insulto in caso di necessità polemica. Ma sembra proprio che insistere sulla sovranità nazionale oggi non abbia possibilità di sbocchi, perché ormai è in corso un lento ma inarrestabile cambiamento di paradigmi giuridici e politici collegato al passaggio dal concetto di Nazione ad un altro più torbido e oscuro: quello di Impero. Questo tema è stato trattato da Michael Hardt e Antonio Negri (sì, il ben noto Toni Negri) in un libro, che ha ormai quasi vent’anni, dal titolo “Impero, il nuovo ordine della globalizzazione”. Ne riportiamo alcuni estratti dalla prefazione, proponendoci di ritornare su questo tema che, affrontato con presupposti generali diversi da quelli degli autori, si presta bene a far riflettere su quello a cui va incontro il mondo sulla base delle profezie bibliche. M.C.

L'Impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. Nel corso degli ultimi decenni, con la fine dei regimi coloniali e, ancora più rapidamente, in seguito al crollo dell'Unione Sovietica e delle barriere da essa opposte al mercato mondiale capitalistico, abbiamo assistito a un'irresistibile e irreversibile globalizzazione degli scambi economici e culturali. Assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità. Di fatto, l'Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo.
   Molti sostengono che la globalizzazione della produzione e degli scambi capitalistici comporta una maggiore autonomia delle relazioni economiche rispetto ai controlli politici e, quindi, che la sovranità politica sia in declino. Alcuni salutano questa nuova era come una liberazione dell'economia capitalistica dalle restrizioni e dai vincoli imposti dalle forze politiche; altri, invece, la deplorano poiché essa chiude i canali istituzionali attraverso i quali i lavoratori e i cittadini potevano influenzare o contestare la logica fredda del profitto capitalistico. È indubbiamente vero che, con l'avanzare della globalizzazione, la sovranità degli stati-nazione, benché ancora effettiva, ha subito un progressivo declino. I fattori primari della produzione e dello scambio - il denaro, la tecnologia, il lavoro e le merci - attraversano con crescente facilità i confini nazionali; lo stato-nazione ha cioè sempre meno potere per regolare questi flussi e per imporre la sua autorità sull'economia. Anche i più potenti tra gli stati-nazione non possono più essere considerati come le supreme autorità sovrane non solo all'esterno, ma neppure all'interno dei propri confini. Tuttavia, il declino della sovranità dello stato-nazione non significa che la sovranità, in quanto tale, sia in declino. Nel corso di queste trasformazioni, i controlli politici, le funzioni statuali e i meccanismi della regolazione hanno continuato a governare gli ambiti della produzione e degli scambi economici e sociali. La tesi di fondo che sosteniamo in questo libro è che la sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un'unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo Impero.
   Il declino della sovranità dello stato-nazione e la sua crescente incapacità di regolare gli scambi economici e culturali è infatti uno dei primi sintomi che segnalano l'avvento dell'Impero. La sovranità dello stato-nazione era la pietra angolare su cui, per tutto il corso dell'epoca moderna, le potenze europee avevano costruito i loro imperialismi. Ciò che intendiamo con «Impero», tuttavia, non ha nulla a che vedere con l'«imperialismo». I confini definiti dal moderno sistema degli stati-nazione sono stati fondamentali per il colonialismo europeo e per la sua espansione economica: le frontiere territoriali della nazione delimitavano il centro di ogni singola potenza, dal quale veniva esercitato il potere sui territori esterni attraverso un sistema di canali e di barriere che, alternativamente, facilitavano e bloccavano i flussi della produzione e della circolazione. L'imperialismo costituiva una vera e propria proiezione della sovranità degli stati-nazione europei al di là dei loro confini. Alla fine, quasi tutti i territori del globo furono spartiti e lottizzati e la carta del mondo fu codificata con i colori europei: rosso per il territorio britannico; blu per quello francese; verde per il portoghese e così via. In qualunque luogo la sovranità moderna mettesse radici, veniva edificato un Leviathan che dominava la società e imponeva confini territoriali gerarchici per proteggere la purezza della sua identità da tutto ciò che era estraneo.
   L'Impero emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell'imperialismo, l'Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L'Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale.
   La trasformazione della moderna geografia imperialista del mondo e l'affermazione del mercato mondiale segnalano il passaggio all'interno del sistema capitalistico di produzione. Ma, soprattutto, le divisioni spaziali tra i tre «Mondi» (il Primo, il Secondo e il Terzo) si sono confuse, di modo che troviamo di continuo il Primo Mondo nel Terzo, il Terzo nel Primo e il Secondo quasi da nessuna parte. Il capitale sembra trovarsi di fronte a un mondo levigato, o meglio, a un mondo definito da nuovi e complessi regimi di differenziazione e omogeneizzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione. La costruzione degli itinerari e dei limiti di questi nuovi flussi globali è stata accompagnata da una trasformazione degli stessi processi produttivi e, cioè, da una riduzione del ruolo del lavoro industriale di fabbrica e da una crescente priorità attribuita al lavoro basato sulla comunicazione, sulla cooperazione e sull'affettività. Nella postmodernizzazione dell'economia globale, la creazione della ricchezza tende sempre più risolutamente verso ciò che definiamo produzione biopolitica - la produzione della vita sociale stessa - in cui l'elemento economico, quello politico e quello culturale si sovrappongono sistematicamente e si investono reciprocamente.
[...]
   Occorre sottolineare che noi non usiamo il termine «Impero» come una metafora che implica la definizione delle somiglianze tra l'attuale ordine mondiale e gli imperi di Roma, della Cina, quelli precolombiani ecc. - ma piuttosto come un concetto che esige un approccio essenzialmente teorico.
Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell'Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all'intero pianeta, o che dirige l'intero mondo «civilizzato». Nessun confine territoriale limita il suo regno.
   In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine da una conquista ma, piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristallizza l'ordine attuale delle cose per l'eternità. Dal punto di vista dell'Impero questo è, a un tempo, il modo in cui le cose andranno per sempre e il modo in cui sono sempre state concepite. In altri termini, l'Impero non rappresenta il suo potere come un momento storicamente transitorio, bensì come un regime che non possiede limiti temporali e che, in tal senso, si trova al di fuori della storia o alla sua fine.
   In terzo luogo, il potere dell'Impero agisce su tutti i livelli dell'ordine sociale, penetrando nelle sue profondità. L'Impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma vuole creare il mondo reale in cui abita. Non si limita a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare direttamente la natura umana. L'oggetto del suo potere è la totalità della vita sociale; in tal modo, l'Impero costituisce la forma paradigmatica del biopotere. Infine, benché l'agire effettivo dell'Impero sia continuamente immerso nel sangue, il suo concetto è consacrato alla pace - una pace perpetua e universale fuori dalla storia.

(Notizie su Israele, 28 dicembre 2019)


Marcia del Ritorno, critiche e consensi dopo la sospensione

Gaza. Ha generato reazioni diverse la decisione di limitare la mobilitazione popolare contro il blocco israeliano cominciata il 30 marzo 2018. A Gaza da qualche ora Chef Rubio per il Freestyle Festival

di Michele Giorgio

Salah Abdel Ati
«No, non ha deciso solo Hamas, è una decisione presa in modo collegiale, da tutte le componenti promotrici della Marcia del Ritorno». L'avvocato dei diritti umani Salah Abdel Ati, uno degli organizzatori dell'"Alto Comitato per la Grande Marcia del Ritorno e la fine dell'assedio di Gaza", smentisce chi attribuisce al movimento islamico che controlla Gaza dal 2007 la sospensione della mobilitazione popolare palestinese più importante e imponente negli ultimi dieci anni. «Abbiamo valutato la situazione e concluso che in questa fase occorre un rallentamento a vantaggio della nostra popolazione» spiega Abdel Ati al manifesto «dopo una pausa le proteste (lungo le linee con Israele, ndr) riprenderanno ma saranno mensili, più settimanali. Poi, terminato il raduno che organizzeremo il prossimo 30 marzo (secondo anniversario della Grande Marcia del Ritorno, ndr), avvieremo altre iniziative contro l'assedio di Gaza». Per Abdel Ati «la Grande Marcia del Ritorno ha raggiunto diversi dei suoi obiettivi, a cominciare dall'attenzione internazionale rivolta alla condizione della popolazione di Gaza». Ma, aggiunge, «sappiamo che dovremo fare ancora tanto per mettere fine al blocco israeliano».
   Ieri i rappresentanti delle varie forze politiche e sociali che due anni fa hanno promosso la mobilitazione, rilasciavano spiegazioni simili a quella offerta da Salah Abdel Ati. Inclusi quelli del Jihad Islami che pure di recente non hanno mancato di sottolineare differenze rivelanti con la linea di Hamas nei confronti di Israele. Nelle strade di Gaza e soprattutto sui social però tanti palestinesi contestano la decisione di "rallentare" (a dir poco) la Grande Marcia del Ritorno senza che siano stati raggiunti gli obiettivi veri, più importanti, indicati il 30 marzo 2018, giorno della prima massiccia protesta popolare nei pressi delle linee di demarcazione con Israele. Si era parlato, tra le altre cose, di diritto al ritorno per i palestinesi di Gaza ai loro villaggi di origine (in territorio israeliano) e di resistenza popolare fino alla revoca totale del blocco che strangola Gaza. Ben poco è cambiato mentre almeno 220 palestinesi, in gran parte giovani, sono stati uccisi dai tiri dei cecchini dell'esercito israeliano e molte migliaia sono stati feriti, centinaia dei quali hanno subito amputazioni o porteranno disabilità permanenti. Indimenticabile è la strage di oltre 60 dimostranti colpiti a morte il 14 maggio del 2018, mentre a Gerusalemme gli Usa inauguravano l'apertura dell'ambasciata per il 70esimo anniversario della proclamazione dello Stato di Israele.
   Altri palestinesi di Gaza invece concordano la decisione presa e respingono l'idea che sia stata decisa la fine della mobilitazione. Tutti comunque sanno che dietro il passo annunciato dall'Alto Comitato della Grande Marcia del Ritorno, ci sono le trattative indirette in corso tra Hamas e Israele per una tregua di lunga durata. «Un funzionario di Hamas mi ha spiegato che non si poteva fare altrimenti - ci ha riferito ieri un noto giornalista di Gaza che ha chiesto di rimanere anonimo - il Qatar faceva pressioni per terminare la Marcia e Gaza ha bisogno dei soldi del Qatar mentre Israele vuole il ritorno della calma per continuare le trattative. Hamas perciò ha imposto la decisione all'Alto Comitato». Per l'analista Ghassan Khatib, docente all'Università di Bir Zeit «la Marcia ha mancato l'obiettivo della fine del blocco israeliano ed è stata usata da Hamas a scopo tattico, a seconda dell'andamento dei negoziati con Israele».
   Intanto a Gaza è giunto Gabriele Rubini, più noto come Chef Rubio. Abbandonata la televisione, lo chef italiano, aperto sostenitore della causa palestinese, sta collaborando al Festival annuale Gaza Freestyle diretto da Meri Calvelli, manager locale della ong Acs, assieme al Centro Italiano di Scambio Culturale Vittorio Arrigoni-VIK.

(il manifesto, 28 dicembre 2019)


Un sistema laser per abbattere i palloni incendiari lanciati da Gaza

di Francesco Iannuzzi

 
«Dubbed Light Blade», il nuovo sistema laser per intercettare le minacce incendiarie inviate dalla Striscia di Gaza
Israele corre ai ripari contro i continui attacchi di aquiloni e palloni incendiari lanciati dalla Striscia di Gaza che in poco più di un anno hanno distrutto ettari di terreni coltivabili e vegetazione.
La polizia israeliana ha presentato un nuovo sistema laser progettato per intercettare le minacce incendiarie spinte dal vento inviate dalla Striscia. Il sistema è già operativo anche se non è stato ancora dispiegato. «Dubbed Light Blade», Doppia lama di luce, è simile al sistema di difesa Iron Dome nella sua tecnologia. Gli attacchi hanno causato danni all'area meridionale di Israele per milioni di dollari negli ultimi mesi e gli esperti ambientali affermano che ci vorranno almeno 15 anni per riabilitare la vegetazione e la fauna selvatica che sono state distrutte.

 Un anno di progettazione
  «Light Blade» è stato sviluppato da tre ingegneri civili che collaborano con ricercatori dell'Università Ben-Gurion e con i rami tecnologici della polizia israeliana e dell'IDF, le forze di difesa israeliane. Il progetto, guidato dal commissario della polizia di frontiera Maj. Gen. Yaakov Shabtai, ha richiesto un anno di progettazione. In base ai dettagli disponibili, il laser è in grado di colpire obiettivi a una distanza di 2 chilometri di giorno o di notte.
Una volta che il sistema si fissa sul bersaglio, lancia un raggio laser e se il bersaglio è un pallone o un aquilone, lo incenerisce a mezz'aria. Se il bersaglio è un drone, il laser è in grado di bruciare parti del velivolo fino a quando non precipita. Shabtai sostiene che Light Blade «fornisce una risposta quasi definitiva a tutto ciò che riguarda palloncini e aquiloni e offre una soluzione sicura ed efficace anche alla minaccia dei droni».

 Le primarie del Likud
  E sempre ieri il premier Benjamin Netanyahu, impegnato nelle primarie del Likud, è stato costretto ad interrompere un comizio del Likud ad Ashkelon quando in città sono risuonate le sirene di allarme contro i razzi lanciati da Gaza. Il premier è stato allora scortato dalle guardie del corpo verso un'area protetta. Il razzo è stato intercettato dal sistema di difesa Iron Dome. Dopo pochi minuti Netanyahu è tornato sul palco. Che fare? - ha chiesto. - Loro non vogliono che noi vinciamo. Alla faccia loro, noi invece vinceremo». Anche nel settembre scorso Netanyahu era stato obbligato a interrompere un comizio, allora nella vicina città di Ashdod, in seguito un altro attacco di razzi da Gaza.

(La Stampa, 27 dicembre 2019)


Esercitazioni navali Russia-Cina-Iran. Non è un bel segnale

di Sadira Efseryan

Russia, Cina e Iran terranno a partire da oggi esercitazioni navali congiunte nell'Oceano Indiano e nel Mare dell'Oman. Lo hanno annunciato i rispettivi ministeri della difesa.
  La Cina invierà il cacciatorpediniere lanciamissili Xining, secondo quanto riferito dal portavoce del ministero, Wu Qian.
  Non sono invece note le unità russe e iraniane che parteciperanno alle esercitazioni navali congiunte.
  Da quanto si apprende le unità navali iraniane saranno quelle che fanno parte della flotta dei Guardiani della Rivoluzione Islamica e non della marina iraniana.

 Un brutto segnale in un momento di alta tensione
  Le esercitazioni navali congiunte tra Russia, Cina e Iran arrivano in un momento di forte tensione tra gli Stati Uniti e l'Iran dopo che Washington ha annunciato l'intenzione di voler creare una missione navale con i Paesi del Golfo per difendere le rotte del petrolio dopo che gli scorsi mesi l'Iran aveva attaccato alcune petroliere e bombardato le infrastrutture petrolifere saudite.
  Ma quello che più salta all'occhio è il segnale che Russia e Cina mandano al mondo con queste esercitazioni con l'Iran.
  Il portavoce del Ministero della Difesa cinese ha ammesso che Pechino «intende rafforzare la cooperazione militare con Teheran» e che questa esercitazioni sono solo un primo passo.
  Anche la scelta di includere nelle manovre navali il Mare d'Oman non sembra casuale. Il Mare d'Oman infatti è collegato direttamente allo Stretto di Hormuz attraverso il quale passa circa un quinto del petrolio mondiale e che a sua volta si collega al Golfo Arabo.
  Se Cina e Russia, come sembra, appoggiano le scelte iraniane (specie le più intrepide) sarà complicato anche per gli Stati Uniti garantire la sicurezza della navigazione nel Golfo Persico.
  Per la Cina (più che per la Russia) l'Iran è un partner commerciale di fondamentale importanza. Proprio la Cina, secondo la compagnia di intelligence Kpler, acquista circa l'80% del petrolio iraniano e probabilmente lo fa a prezzi stracciati. Se l'Iran non è collassato sotto sanzioni lo deve a Pechino. E si sa, per salvaguardare i propri interessi i cinesi non guardano in faccia niente e nessuno.

(Rights Reporters, 27 dicembre 2019)


Netanyahu vince alle primarie, ancora alla guida di Likud

Il premier israeliano ad interim, Benjamin Netanyahu, ha ottenuto la maggioranza alle primarie svoltesi, il 26 dicembre, all'interno del suo partito di destra, Likud.
   Netanyahu, alla guida del partito da circa 14 anni, ha dovuto affrontare l'ex ministro Gideon Saar, a capo dell'opposizione all'interno di Likud e considerato una valida alternativa per quei membri del partito che sostenevano un cambio di leadership. La vittoria è stata annunciata nella tarda serata del 26 dicembre e consentirà al premier ad interim di partecipare alle prossime elezioni anticipate del 2 marzo, in cui competerà nuovamente per la posizione di primo ministro. Per Netanyahu, si è trattato di un grande risultato che gli consentirà di guidare il suo partito verso un nuovo percorso elettorale.
   Dall'altro lato, Saar si è congratulato con Netanyahu per la vittoria raggiunta e si è detto pronto a sostenerlo alle prossime elezioni. Il rivale ha poi espresso il proprio apprezzamento verso la decisione di mettere in gioco la presidenza di Likud. 116.000 membri di Likud sono stati chiamati a votare alle primarie del proprio partito. Secondo i risultati pubblicati dal partito stesso, Netanyahu ha vinto con il 72% dei voti, pari a circa 42.000 voti, rispetto al 28% raggiunto dall'ex ministro dell'Istruzione e degli Interni, che ha ricevuto circa 16.000 voti. L'affluenza è stata del 49%.
   Le primarie sono state definite da molti un difficile test per il premier ad interim, al centro di diverse questioni. Netanyahu è coinvolto in un'indagine della Corte penale internazionale sui presunti crimini di guerra commessi da parte delle forze di Tel Aviv in Palestina, e, parallelamente, affronta in patria 3 processi separati, per accuse di corruzione, frode e abuso d'ufficio. A ciò si è aggiunta, nelle ultime settimane, l'opposizione interna di alcuni membri del suo partito che intendevano cacciarlo dopo i risultati inconcludenti ottenuti alle due elezioni nazionali di quest'anno.
   In un solo anno, il 2019, la popolazione israeliana è stata chiamata due volte a recarsi alle urne, il 9 aprile ed il 17 settembre. In entrambi i casi, non si è riusciti a dare vita a una maggioranza decisiva o un governo di coalizione per formare un esecutivo per Israele. Pertanto, gli elettori dovranno nuovamente votare il 2 marzo prossimo, per la terza elezione nazionale in 12 mesi. Precedentemente, è stato sottolineato che rimandare la formazione del governo ed indire ancora elezioni costerà caro alle casse dello Stato. In particolare, bisognerà attendere per l'adozione del bilancio per il 2020 e ciò significa attuare tagli alla spesa pubblica che influenzeranno la crescita del Paese.
   Netanyahu rimarrà in carica come primo ministro ad interim fino a quando non verrà formato un nuovo governo. Sebbene sia impegnato in un triplo processo giudiziario, il premier non sarà costretto a dimettersi fino a quando non sarà ufficialmente emessa una sentenza contro di lui. Si tratta del primo caso nella storia di Israele in cui un primo ministro è accusato di reati penali. La decisione potrebbe porre fine alla carriera di Netanyahu, il cui governo è considerato il più longevo del Paese.

(Sicurezza Internazionale, 27 dicembre 2019)


*


Sfida a Netanyahu dopo 23 anni da segretario. Ora l'ex delfino Sa'ar vuole la guida del Likud

Bibi oltre il 70 per cento.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Per la prima volta nella sua storia di primo ministro, di leader indiscusso del Likud, Benyamin Netanyahu è stato sfidato ieri da un contendente alle primarie del suo partito laico conservatore, guidato dal '96. L'ha portato a vittorie fulminanti sempre circondato dall'amore senza se e senza ma dei suoi, la pancia e anche la testa di Israele, gente comune, soldati, intellettuali. Fieri di un capo che si staglia nel panorama mondiale come un leader che ha portato stabilità, ricchezza, sicurezza. Ma ora è scontro. Ieri nel 106 seggi sparsi per un Paese sommerso da una rarissima pioggia battente 116.048 aventi diritti al voto si sono trovati a dover scegliere fra il loro capo storico, premier da 11 anni, e Gideon Sa'ar, Un politico elegante e di bell'aspetto, avvocato di mestiere, figlio di un medico immigrato dall'Argentina e di una maestra, sposato per la seconda volta con Geula Even, una delle più importanti anchorwoman dalla tv israeliana, madre di due dei suoi quattro figli. Sa' ar è un conservatore, nato nella couche di Netanyahu, che già nel '99 l'ha fatto segretario del governo, avviandolo così sulla strada per cui poi ha servito come presidente della coalizione per i due governi Sharon e in seguito è stato, con Bibi, ministro della Cultura e poi degli Interni. Poi il bel politico rampante si è scansato, ha deciso di tornare a casa nel 2014 fino a ieri per riapparire sulla scena nel momento in cui sia possibile, e quindi teoricamente accettabile, mettere in discussione un grande capo su cui si sono accaniti una quantità di antagonismo e di guai, fra cui il maggiore è l'accusa plurima comminatagli dal procuratore della repubblica Manderblit di corruzione e tradimento della fiducia. Sa' ar ripete che così salva il Likud dalla dispersione, e anche il Paese. Alcuni lo accusano di opportunismo e tradimento. Ma molti accusano Netanyahu di non aver mai scelto in realtà accettato, un successore. E dalle primissime proiezioni sembra proprio che non sia ancora il momento di pensare ad un successore visto che Netanyahu avrebbe incassato il 71,52 per cento delle preferenze.
   Da Moshe Ya'alon, a Benny Begin, a Dan Meridor, i vari personaggi possibili sono svaniti all'orizzonte spesso in una nuvola scura di risentimento. Sa'ar, che è un abitante della laicissima Tel Aviv e un uomo di solide convinzioni conservatrici rivestite di modernità, ha sfidato Bibi consapevole di non potere battere un leader che nonostante e spesso proprio a causa della pretestuosa aggressività contro il suo operato e la sua personalità, conserva gran parte del consenso del popolo del Likud. A Tel Aviv Sa'ar potrebbe anche arrivare al 30%, alcuni leader locali gli hanno dichiarato rispetto e ammirazione, ma personaggi come Yuli Edelstein, presidente della Knesset, o il ministro degli Interni Gilad Erdan aspettando fino all'ultimo hanno poi sintomaticamente dichiarato di nuovo fedeltà al Grande Capo. E mentre si scambiano tweet molto aspri, fra i due si svolgono dinamiche che dimostrano che anche Sa'ar vuole ingraziarsi gli dei penati di casa: ha dichiarato che se diventasse primo ministro sosterrebbe la candidatura di Netanyahu a presidente della Repubblica. Ma mentre sul Paese soffia, persino nelle dichiarazioni del capo di Stato maggiore, un forte vento di guerra che mette in prima linea di nuovo la possibilità di uno scontro diretto con l'Iran (l'ultimo comizio di Netanyahu è stato sospeso per un lancio di un razzo da Gaza), chiaramente Bibi resta il leader più qualificato per le emergenze; ed è quindi del tutto logico che il premier gli abbia risposto sorridendo che è d'accordo col suo antagonista e proporrà di avere gli stessi poteri di un presidente americano. No, Sa'ar non intendeva questo.

(il Giornale, 27 dicembre 2019)



Sfregio a Roma, svastica sulla lapide della partigiana

La targa ricorda l'impegno di Tina Costa. La sindaca Raggi: vergogna, un gesto intollerabile

di Carlotta De Leo

La targa dedicata alla partigiana e sindacalista Tina Costa a Roma è stata imbrattata con una svastica nera. Un vero oltraggio alla memoria di una donna combattente, simbolo della Resistenza, giovane staffetta durante la Seconda guerra mondiale, membro dell'Anpi e iscritta a Rifondazione Comunista fino al giorno della sua scomparsa avvenuta il 20 marzo scorso.
Un gesto ancora più grave se si pensa che la targa, inaugurata appena 20 giorni fa in piazza Cinecittà (periferia sud est della Capitale), era già stata oltraggiata con una croce uncinata. Sarà ripulita di nuovo oggi dal VII Municipio che l'ha voluta e che ora chiede alla polizia municipale un maggior controllo della zona.
«Una vergogna, Roma condanna questi gesti intollerabili», dice la sindaca, Virginia Raggi. Concorde il giudizio di Nicola Zingaretti, segretario del Pd e governatore del Lazio, che parla di «un gesto oltraggioso contro una protagonista della nostra Repubblica. Nessuno può dimenticare l'incredibile tenacia di Tina e non saranno quattro idioti a infangarne la memoria».
La targa ricorda l'impegno politico e sociale della partigiana con una sua frase: «Starò in piazza fino a quando avrò l'ultimo respiro, perché so di essere dalla parte del giusto e che le mie idee sono condivise da tanti». Un motto che Costa ripeteva spesso quando raccontava in pubblico la sua storia: nata nel 1925 a Gemmano, in provincia di Rimini, in una famiglia profondamente antifascista, a sette anni si rifiutò di indossare la divisa di figlia della lupa provocando la reazione della sua maestra fascista. E di anni ne aveva appena 18 quando, sulla sua bicicletta, attraversava la Linea Gotica come staffetta per portare messaggi e cibo. Poi, in seguito a una delazione, fu arrestata con i suoi familiari, ma riuscì a fuggire sotto le bombe. «Ho combattuto per la libertà - ripeteva - e questa libertà non me la può togliere nessuno».

(Corriere della Sera, 27 dicembre 2019)


New York, scia di atti antisemiti in città: quattro casi in due giorni, la polizia indaga

Gli episodi di violenza in occasione della festività ebraica di Hannukkah

Quattro episodi che potrebbero anche non essere slegati l'uno dall'altro, e che hanno spinto la polizia di New York ad aprire un'indagine.
Al centro, una scia di atti antisemiti accaduti durante la festività ebraica di Hannukkah.
I quattro incidenti risalgono a lunedì e martedì.
Uno è avvenuto vicino alla stazione di Grand Central, dove un uomo di 65 anni è stato aggredito da un altro ragazzo di 28 anni, che gli ha urlato insulti antisemiti. Il 28enne è stato arrestato.
Un altro incidente è avvenuto a Brooklyn: un ragazzo di 25 anni è stato avvicinato e insultato da un gruppo di persone per essere ebreo.
Ci sono poi altri due episodi su cui gli agenti mantengono ancora riserbo, ma che presto dovranno essere chiariti.

(Unione Sarda, 27 dicembre 2019)


L'ebraismo e le democrazie

Lettera di Noemi Di Segni al direttore del Corriere della Sera

Caro direttore, abbiamo letto e riletto la riflessione di Dacia Maraini
sul Corriere alla vigilia di Natale e l'ulteriore spiegazione che ha fornito sulle ragioni delle sue ragioni. Riflessione sui fermenti del movimento delle Sardine, i loro simboli e forme di comunicazione, speranze e ispirazioni ancestrali, e ricerca di un legame in tutto ciò con il Natale e l'ebraismo messo alle spalle. Non solo non è chiaro il nesso, ma dispiace che in poche righe e poche parole si è riaffermata una tesi antigiudaica, antiteologica e antistorica e che, proprio alla vigilia di Natale, le parole della divisione prevalgono su quelle che generano comunanza di visione.
   Le sue affermazioni denotano superficialità verso la cultura biblica e sul rapporto con il divino, superata da decenni di dialogo pur con tutte le difficoltà che tuttora persistono e sulle quali ci confrontiamo in varie sedi, ragionando sui libri di testo per le scuole e le parole delle liturgie. Nel dialogo non si parte dal presupposto del superamento di un male ma dall'assorbimento del bene.
   Peccato che una persona come Dacia Maraini - che esige nei suoi scritti rispetto e valori e li vorrebbe riconoscere alla pretesa teo/politica delle Sardine - non tenga conto che proprio la cultura della Bibbia ebraica millenaria sia alla base della nostra stessa cultura contemporanea di diritti sociali, sindacali, attenzione all'ecologia e di ogni conquista di libertà democratica.
Peccato che non tenga conto che il mondo ebraico è stato moto di coscienza civile e protagonista nella costruzione delle stesse democrazie evocate da molti ma vissute con coerenza da pochi.
   Peccato che concetti così faticosi come violenza, schiavitù, vendetta, donne siano appiattiti come sardine in una scatola chiusa consumata all'occorrenza da cui risorge il malanno antico e ben conservato dell'antisemitismo che avvelena le nostre esistenze.
Peccato che ogni analisi di saggisti e politici debba in qualche modo rifarsi a questioni ebraiche per spiegare fenomeni di ieri e di oggi.
   Credenti e non credenti sono chiamati a voler agire con un approccio senza giudizi ma con queste parole, al contrario, si radicano i pregiudizi antichi evidentemente mai fino in fondo affrontati. Il mondo prima e dopo Gesù - comunque lo si voglia raffigurare - ha continuato ad avere i suoi demoni umani e la superficialità colta li ha sempre assistiti. Attendo fiduciosa repliche degli esponenti della Chiesa.

Noemi Di Segni
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane


Se i parlamentari non conoscono i Dieci Comandamenti

di Ernesto Galli della Loggia

Uno spettacolo surreale e a suo modo agghiacciante: definirei così il video mandato in onda qualche giorno fa dalla trasmissione televisiva delle Iene in occasione del Natale. Non so quanti lettori l'abbiano vista: sugli schermi è passata una breve galleria di deputati e senatori — del cui nome è opportuno che non si perda la memoria : Dal Mas, Bucolo, Ciaburro, Modena (centro destra), Giacobbe del Pd, Vallone (ex, della Margherita), Giarrusso (5Stelle), Bonafede (5Stelle anche lui e ministro della Giustizia) — i quali, intervistati davanti ai palazzi del Parlamento su alcune nozione elementari di storia del Cristianesimo (tipo dov'è nato Gesù Cristo) si sono prodotti in una serie di silenzi imbarazzati e di sfondoni madornali (come collocare Betlemme «in Africa»). Ancora peggio: per mascherare la propria ignoranza gli interrogati cercavano di fare gli spiritosi, ciurlavano nel manico (per esempio alla domanda di cui sopra rispondere «in una stalla..»), si producevano in patetiche risatine di sufficienza o come marpioni cercavano di schivare l'intervistatrice senza darla troppo a vedere.
   Che cosa si può dire di fronte a uno spettacolo simile? Innanzi tutto questo, forse: che anche se siamo giustamente invitati ogni giorno a non cadere nella trappola dell'antipolitica, ci vergogniamo di essere rappresentati da personaggi di questa fatta gente. Che siamo parecchi italiani a trovare insopportabile che simili figuri siano incaricati di fare le leggi a cui poi noi siamo chiamati ad obbedire. In parecchi a considerare a dir poco ignobile un sistema elettorale che consente a un segretario di partito — a un Renzi, a un Di Maio, a un Salvini, a un Berlusconi qualsiasi — di scegliere a proprio arbitrio chi dovrà rappresentarci, scaraventandoci così tra i piedi simili incroci tra il semianalfabeta e il guitto da Commedia dell'arte unicamente perché questi promettono di obbedire senza fiatare ai loro voleri. Perché diamine gli italiani, mi chiedo, specie quelli che hanno letto un paio di libri, non dovrebbero disprezzare la politica e le sue istituzioni se per primi la disprezzano i partiti facendo arrivare in Parlamento e nelle istituzioni questa gente?
   Ma ciò detto viene anche da farsi un'altra domanda: e cioè, va bene che c'è stata la secolarizzazione, che oltre la metà degli italiani non si sposa più in chiesa, ma dove sta scritto che la secolarizzazione debba per forza significare non sapere dove si trova l'antica Giudea (chiamiamola pure Palestina), dove sta scritto che alla domanda «che cosa dicono i dieci comandamenti?» il secolarizzato debba farfugliare per tutta risposta un imbarazzato «non fornicare» e basta? Perché alla fine è questo ciò che più colpisce di quel video: l'assoluta mancanza di cultura religiosa che esso testimonia. Dirò meglio: l'assoluta mancanza di quelle conoscenze che ogni persona appena istruita sa essere parte irrinunciabile della cultura in generale. Ma non lo sanno evidentemente i parlamentari della Repubblica. Era questo la cosa più intollerabile di quel video: il tono stupidamente divertito e sforzatamente ironico della loro voce, il sorrisetto ebete e lo sguardo un po' sperduto del loro volto, lo stupore nel vedere che qualcuno potesse rivolgergli delle domande sulla nascita di Cristo anziché sul futuro di Matteo Renzi. Che qualcuno potesse addirittura supporre che essi fossero capaci di rispondere.

(Corriere della Sera, 27 dicembre 2019)


Israele è solo nella lotta contro l'Iran. «A volte la guerra è la soluzione»

di Sarah G. Frankl

 
Aviv Kohavi
Israele è solo nella lotta contro l'Iran. Lo ha affermato ieri il capo dell'IDF, Aviv Kohavi, durante una conferenza in memoria dell'ex capo dell'IDF Amnon Lipkin-Shahak presso il Centro interdisciplinare di Herzliya.
  «Sarebbe meglio se non fossimo i soli a rispondere loro militarmente», ha detto Kohavi in quella che è apparsa come una critica agli Stati Uniti e ai Paesi del Golfo che pure dichiarano di essere nemici dell'Iran.
  Poi il capo dell'IDF ha lanciato un cupo avvertimento alla popolazione israeliana sul fatto che quando la guerra con l'Iran arriverà (e arriverà) il primo ad essere colpito duramente sarà il fronte interno, cioè le maggiori città israeliane.
  «Deve essere noto e riconosciuto che nella prossima guerra - sia a nord che contro Hamas - il fuoco pesante sarà diretto contro il nostro fronte interno. Sto guardando le persone negli occhi e sto dicendo loro che ci sarà un forte fuoco. Dobbiamo riconoscere questo e dobbiamo prepararci per questo … Dobbiamo prepararci militarmente per questo; le gerarchie civili devono prepararsi per questo; e dobbiamo prepararci mentalmente» ha poi aggiunto il capo dell'IDF.
  Aviv Kohavi ha detto che l'IDF stava operando in tutta la regione - apertamente, di nascosto e clandestinamente - al fine di contrastare i piani dell'Iran e dei suoi delegati, anche a rischio di una guerra.
  «Nessuno auspica una guerra» ha aggiunto Kohavi. «La guerra è l'ultima risorsa. Ma a volte è anche la soluzione».
  Lo scorso novembre era stato l'ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren, a disegnare uno scenario da incubo in caso di conflitto tra Israele e Iran.

 Missile contro comizio di Netanyahu. Immediata risposta israeliana
  Ieri sera mentre il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, teneva un comizio elettorale ad Ashkelon, nel sud del Paese, un missile è stato lanciato da Gaza contro la città israeliana. Il sistema Iron Dome ha abbattuto il missile prima che potesse colpire la città.
  Era successa la stessa cosa nel mese di settembre sempre in occasione di un comizio di Netanyahu. Dopo 15 minuti il Premier è comunque tornato sul palco lanciando un ammonimento ai terroristi. «La persona che ha sparato il razzo l'ultima volta non è più con noi. La persona che l'ha fatto questa volta dovrebbe iniziare a fare le valigie», ha detto Netanyahu riferendosi alla morte di Baha Abu al-Ata, un leader terrorista della Jihad Islamica palestinese che Israele crede abbia ordinato l'attacco missilistico di settembre.
  Immediata la risposta israeliana. Un portavoce dell'IDF ha detto che aerei da guerra ed elicotteri hanno colpito diversi obiettivi appartenenti al gruppo terroristico di Hamas, «compresi alcuni complessi militari del gruppo terroristico».


 Missile colpisce base iraniana in Siria. Cinque morti
  Intanto ieri sera un missile di cui non si conosce la provenienza (quasi certamente israeliano) ha colpito una base iraniana nei pressi della città di Abu Kamal, al confine tra Siria e Iraq, provocando la morte di almeno cinque miliziani iraniani. È la stessa base che da mesi l'IDF ha messo nel mirino e che ha attaccato in diverse occasioni.

(Rights Reporters, 26 dicembre 2019)


Una tempesta distrugge le tombe del cimitero ebraico a Beirut

Le tombe del cimitero ebraico gravemente danneggiate a causa di una frana, generata da un'ondata di maltempo che ha duramente colpito Beirut, in Libano

di Filomena Fotia

Le foto scattate oggi, 26 dicembre 2019, mostrano le tombe del cimitero ebraico gravemente danneggiate a causa di una frana, generata da un'ondata di maltempo che ha duramente colpito Beirut, in Libano.
L'area è stata colpita da un'alluvione, generata da piogge torrenziali: un muro di contenimento ha ceduto, danneggiando lo storico cimitero, risalente al 1820.

(Meteo Web, 26 dicembre 2019)


Israele, oggi le primarie nel Likud

Nelle immagini che vedete è il momento in cui il leader del Likud, il premier israeliano uscente Benjamin Netanyahu abbandona un incontro pubblico del partito ad Ashkelon, cittadina a una dozzina di chilometri da Gaza, spesso nel mirino dei razzi che partono dalla Striscia. L'ultimo è piovuto dal cielo, la sera di Natale, costringendo il premier a lasciare il palco insieme alla moglie Sara e a raggiungere un luogo sicuro. Il sistema antimissilistico Iron Dom è entrato in azione. Il razzo non ha causato danni alle persone o alle cose ma ha provocato scompiglio nelle primarie del Likud, al momento non c'è stata alcuna rivendicazione ufficiale da parte di nessun gruppo militare, è la seconda volta in pochi mesi, era già successo a settembre, che Netanyahu è costretto a lasciare un comizio a causa di razzi provenienti dall'enclave palestinese.
   L'altra volta ad essere colpita era stata Ashdod, proprio riferendosi a quell'episodio il premier ha detto: "chi ha sparato la volta scorsa non c'è più, riferendosi al leader militare della Jihad islamica Baha Abu al-Hata, ucciso da Israele nel novembre scorso. Chi ha cercato di mettersi in mostra oggi, ha avvertito poi, può cominciare a fare le valigie.
   La reazione di Israele a questo nuovo atto di aggressione non si è fatta attendere. L'aviazione ha colpito in serata, obiettivi militari nella striscia di Gaza. Per lo stato ebraico si tratta di un nuovo periodo di campagna elettorale, perché anche a seguito delle ultime recenti votazioni, le seconde in pochi mesi, non si è riusciti a formare una maggioranza. In particolare oggi oltre 100000 membri del Likud sono chiamati alle urne per decidere in vista delle elezioni politiche di marzo, se restare ancora sotto la guida di Netanyahu, oppure affidare adesso le redini del partito al suo sfidante, l'ex ministro dell'interno Gdeon Sa'ar. Nella sua campagna elettorale Sa'ar ha puntato sul fatto che quest'anno, per due volte, Netanyahu non è riuscito a formare un Governo a causa dello stallo nei rapporti di forza con il partito centrista blu bianco.

(Sky Video, 26 dicembre 2019)


Varsavia, la rinascita degli ebrei

Erano la più grande comunità in Europa: 3,5 milioni. Sterminati dai nazisti, costretti a essere invisibili nella Polonia comunista. Ora non si nascondono più. A Varsavia arrivano ogni anno centinaia di ebrei dall'Europa, dall'America, da Israele.

di Elisabetta Rosaspina

È quasi festa al dipartimento di genealogia dell'Istituto storico ebraico di Varsavia: dopo cinque anni di ricerche, la tomba di Zenek Rozenberg è stata appena ritrovata. Ad Haifa, nord di Israele. Sua figlia e suo nipote potranno forse andare a deporvi un sassolino. Anna Przybyszewska Drozd, alla guida del centro da vent'anni, si era subito appassionata alla vicenda: una storia d'amore iniziata prima della Seconda guerra mondiale a Radom, un centinaio di chilometri a sud di Varsavia. Protagonisti Zenek, un ricco ragazzo ebreo, e Gienia, una giovane cattolica. Entrambe le famiglie avevano posto il veto a quell'unione, ma la coppia non si era arresa e, quando i tedeschi avevano occupato la Polonia e imposto le leggi razziali, i genitori di Gienia la ricattarono: se non avesse sposato l'uomo che avevano scelto per lei, avrebbero denunciato Zenek.
«Il marito di Gienia si rivelò una persona straordinaria — racconta Anna, commossa —. Era innamorato ed era disposto ad aspettare il tempo necessario per essere ricambiato. La sua pazienza fu premiata. Nacque una figlia, ma Gienia non tagliò il filo che la univa a Zenek e corse in suo aiuto quando seppe che lui e la sua famiglia erano in pericolo. Al ritorno, era incinta. Il marito comprese, e accolse la seconda bambina, Londzia, come fosse sua».
  Alla fine della guerra, Zenek emigrò: Australia, Messico, Svezia. Senza mai dimenticare Gienia. Senza mai essere dimenticato da lei. Quasi certamente si rividero a metà degli anni 50, perché Londzia conserva il vago ricordo di un uomo misterioso cui era stata presentata dalla madre quando aveva appena 9 anni, in un negozio di Varsavia. Aveva percepito l'emozione di quell'unico incontro, apparentemente casuale. Crescendo, aveva intuito il loro segreto da rare allusioni della madre: «Se tu non fossi nata durante la guerra, avresti un altro cognome». Dopo la morte del padre legittimo decise dunque di cercare quello naturale.
 
Museo Polin, Varsavia
 
Il cimitero ebraico di Varsavia
 
L’ufficio ricerche genealogiche press. Vengono qui a cercare le origini delle loro famiglie
 
Anna Drozd nell’ufficio ricerche genealogiche del Jewish Historical Institute. «Spesso hanno solo un labile indizio: la nonna che seguiva strane regole in cucina»
 
Una ricostruzione del ghetto al museo. È così che lentamente si ricompone il puzzle disintegrato dall’Olocausto
 
Lauder Morasha School, Varsavia. Karolina Szykier-Koszucka. dirigente: «È la terza generazione, la mia, quella che ha cominciato a fare domande»
 
Una vecchia foto in mostra alla Jan Karski Society
 
Una vecchia foto alla Jan Karski Society
  Le tracce di Zenek però sembravano svanire tra le migliaia Rozenberg sparsi nel mondo. Gli anni sono passati, Gienia è morta e il figlio di Londzia è approdato qui, in questa stanza allestita con quattro computer e due scaffali ingombri di vecchi annuari, nel palazzo anni 20 che fu sede della Biblioteca ebraica di Varsavia, accanto alla Grande Sinagoga polverizzata dalle SS, a chiedere aiuto per ritrovare suo nonno. Adesso sta aspettando da Israele le foto di Zenek in età matura, per mostrarle a Londzia che, di lui, possiede solamente un'immagine infantile color seppia.
  Anna e i tre ricercatori che lavorano con lei non si sono mai arresi, sebbene siano sommersi da richieste: «Ogni anno si presentano qui 2.500 fra americani, europei, israeliani che sanno o sospettano di avere radici ebraiche in Polonia — informa Matan Shefi —. Magari dispongono soltanto di un labile indizio: la nonna osservava strane regole in cucina, poi identificate come kosher. Abbiamo scoperto che in realtà era rimasta orfana giovanissima e aveva imparato a cucinare per i fratellini da una vicina di casa ebrea». Ogni giorno si cerca un tassello dell'immenso puzzle disintegrato dall'Olocausto che si è abbattuto poco meno di 80 anni fa su una comunità di 3 milioni e mezzo di ebrei polacchi, la più numerosa d'Europa, lasciandone in vita cinquecentomila. Ogni giorno si tenta di ricomporre i ritratti delle famiglie disperse dagli esodi forzati del periodo comunista, nel 1956 e nel 1968, quando «sionista» era diventato sinonimo di «complottista».
  Sono di solito i nipoti degli ebrei scampati alla Shoah a rompere l'oblio e il silenzio con i quali la generazione vittima o testimone delle persecuzioni intendeva proteggere la seguente dall'orrore dei ricordi e dai pericoli di un rigurgito di antisemitismo. «È la terza generazione, la mia, nata negli anni 70, quella che ha cominciato a fare domande» conferma Karolina Szykier-Koszucka, responsabile dell'Educazione ebraica alla Lauder-Morasha School di Varsavia. Inaugurata nel '94, è stata la prima scuola ebraica a riaprire in Polonia dal dopoguerra. La frequentano circa duecento ragazzi, dall'asilo alle medie, e 60 insegnanti. «Qui prepariamo la quarta generazione, quella allevata fin dalla nascita nella cultura ebraica» aggiunge Karolina, figlia di un ebreo e di una cattolica, entrambi polacchi e di laiche vedute.
Il nonno paterno lasciò la famiglia e la Polonia dietro la Cortina di ferro, nel 1957, per raggiungere Israele, dove è morto nel '90, senza rivedere il figlio, nato nel '52, e senza conoscere la nipote, che ha scelto di praticare la sua stessa fede e di trasmetterla a sua figlia: «La nostra è una piccola scuola privata aperta a tutti, ebrei e non. Oltre alle materie del programma ministeriale, abbiamo lingua e storia ebraiche. La mensa è kosher, si celebrano tutte le feste ebraiche e il venerdì inizia lo shabbat. Così riannodiamo i fili con le nostre origini».
  Non tutti gli ebrei polacchi, o i polacchi di origine ebraica, ne hanno l'intenzione. Molti sono rimasti «Ebrei invisibili», come li definiscono Gabriele Eschenazi e Gabriele Nissim nel libro dedicato a «I sopravvissuti dell'Europa orientale dal comunismo a oggi» (Mondadori editore); e il conteggio dei residenti è approssimativo, con stime che oscillano tra 40 mila a poche migliaia. Soltanto 8000 sono iscritti alle organizzazioni ufficiali. «La maggioranza della comunità ebraica polacca non è religiosa» ha una spiegazione il rabbino 41enne Stas Wojciechowicz, la cui sinagoga, al quarto piano di un moderno palazzo d'uffici con vista sulla torre del Palazzo della Cultura e della Scienza, simbolo di Varsavia, è considerata liberal-progressista rispetto all'ortodossa Nozyk, l'unica della città scampata alle devastazioni, nel quartiere di Grzybow.
«I ragazzi, una trentina, vengono alla funzione del venerdì sera e poi vanno in discoteca — prosegue Wojciechowicz —; al sabato mattina abbiamo le famiglie, una sessantina di persone in tutto. Non usiamo la musica nelle celebrazioni, che sono tutte in ebraico». Conversioni? «Ne stiamo seguendo 10, forse 15, contando gli indecisi. Non tutti hanno origini ebraiche, ci sono anche le fidanzate polacche di israeliani che vivono a Varsavia per lavoro. I più giovani, nati nella Polonia già libera, parlano senza timori della loro identità ebraica. A volte dico loro di non essere così aperti, perché vivono in un paese dove gli ebrei sono ancora considerati stranieri». La kippah, avverte il rabbino, può attirare sguardi ostili per strada: «Nel 95% dei casi non succede nulla di grave, ma da quando è cambiato il governo, nel 2015, e il PiS (il partito di destra Diritto e Giustizia, n.d.r.) è arrivato al potere, ci sentiamo più insicuri. Attacchi e ingiurie hanno buone probabilità di restare impunite».
  Non ha dubbi che il «male» sia sempre in agguato Bogdan Bialek, presidente della Jan Karsky Society, fondata a Kielce, a due ore e mezza di treno da Varsavia, nella palazzina in cui fu perpetrato l'ultimo pogrom, nell'estate del 1946, quando la guerra era finita da un anno. Nella casa d'angolo di via Planty 7/9 avevano trovato rifugio 200 superstiti dei campi di sterminio. All'inizio di luglio un bimbo del quartiere scomparve per un paio di giorni e raccontò, al suo ritorno, di essere stato tenuto prigioniero nella cantina degli ebrei, per essere sottoposto a riti satanici.
«Era una leggenda corrente almeno da secoli, come dimostra questo dipinto che raffigura un processo settecentesco a un rabbino accusato di omicidi rituali di bambini cattolici» mostra un piccolo trittico Joanna Fikus, direttrice artistica del Museo Polin di Varsavia, dedicato alla storia degli ebrei polacchi, al centro dell'area un tempo occupata dal Ghetto, scomparso dopo essere stato raso al suolo nel 1944.
Ma a Kielce fu organizzata una spedizione punitiva, e via Planty 7/9 si trasformò in un mattatoio: morirono 42 inquilini e altri 80 furono feriti, prima che si scoprisse che, lì, nemmeno esisteva una cantina e che il bambino si era inventato tutto. Bogdan Bialek, cattolico, è il protagonista del film pluripremiato, «Bogdan's journey», che ricostruisce quel folle bagno di sangue e punta il dito contro i vicini delle vittime, contro poliziotti e soldati polacchi che, invece di impedirlo, parteciparono al massacro. Da oltre 18 anni Bialek si batte per tenere viva la memoria, con esposizioni fotografiche, documenti, testimonianze, «perché solo la consapevolezza può portare alla riconciliazione». L'anno scorso è stato aggredito, perché considerato un «traditore» da parte di concittadini convinti che fu la polizia segreta bolscevica a tramare contro gli ebrei di Kielce. Il bimbo di allora è morto nel 2001, a 64 anni, senza mai rivelare perché avesse raccontato quella bugia e se gli fosse stata suggerita da qualcuno.
  «Non si sa da chi sia stato ispirato, ci sono tante ipotesi al riguardo» lascia aperto il caso Mateusz Szpytma, presidente dell'Istituto per la Memoria Nazionale, l'ente statale incaricato, tra l'altro, di vigilare sul rispetto della controversa legge con cui, un anno fa, è diventato reato sostenere qualunque responsabilità storica polacca nello sterminio degli ebrei.
«La Polonia, a differenza di Francia, Ungheria, Cecoslovacchia e Italia, non ebbe mai un governo collaborazionista — ricorda Szpytma —. Sotto l'occupazione nazista ebrei e polacchi hanno ugualmente sofferto. I lager, come Auschwitz-Birkenau e Treblinka, non erano campi polacchi: erano organizzati dai tedeschi sul territorio occupato polacco. E durante il comunismo non sono stati solo gli ebrei a perdere i loro beni, tutti i polacchi sono stati espropriati». Per chiunque adombrasse complicità nelle deportazioni erano previsti originariamente tre anni di carcere, ma dopo le polemiche internazionali e le tensioni provocate dalla nuova legge con il governo israeliano, la pena è stata ridotta a una sanzione amministrativa.
  «Meglio così, certo. Ma la legge mantiene la sua funzione intimidatoria nei confronti di storici, insegnanti, intellettuali» eccepisce lo scrittore Konstanty Gebert, editorialista di Gazeta Wyborcza. È stato uno dei principali organizzatori dell'«Università Volante», l'istituto clandestino di istruzione durante il comunismo e membro del sindacato Solidarnosc. Per sintetizzare il travagliato Novecento degli ebrei polacchi, Gebert sceglie le parole del giornalista Leopold Unger: «I miei genitori sono nati e si sono sposati in Austria, hanno vissuto e procreato in Polonia, hanno sofferto in Unione Sovietica (durante la prima occupazione tra il 39 e il '41, ndr), sono stati uccisi in Germania e sono sepolti in Ucraina. Tutto questo senza mai muoversi dalla stessa casa, nella stessa strada della stessa città, Leopoli».

(Corriere della Sera, 26 dicembre 2019)


Un razzo interrompe il comizio di Netanyahu

Scortato dalle guardia del corpo verso un'area protetta

Benyamin Netanyahu è stato costretto ad interrompere mercoledì sera un comizio del Likud ad Ashkelon (a sud di Tel Aviv) quando in città sono risuonate le sirene di allarme per un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza. Il premier è stato allora scortato dalle guardie del corpo verso un'area protetta, ma dopo pochi minuti è tornato sul palco degli oratori. "Che fare? - ha chiesto. - Loro (i gruppi armati palestinesi, ndr) non vogliono che noi vinciamo. Alla loro faccia, noi invece vinceremo". Le sue parole, ha riferito la radio militare, sono state accolte dagli applausi del pubblico che ha scandito: "Forza Bibi". Anche nel settembre scorso Netanyahu era stato obbligato ad interrompere un comizio, allora nella vicina città di Ashdod, in seguito ad un altro attacco di razzi palestinesi sparati da Gaza.
   In seguito al lancio del razzo di mercoledì sera, l'aviazione israeliana ha colpito obiettivi militari nella Striscia di Gaza. Lo ha riferito la radio militare. Fonti palestinesi aggiungono che è stata centrata una postazione di Hamas nel Nord della Striscia. Un secondo attacco è avvenuto a Khan Yunes, a sud di Gaza.
   Netanyahu, riferendosi al lancio avvenuto in settembre, ha detto: "Colui il quale ha sparato la volta scorsa non c'è più". Si riferiva al leader militare della Jihad islamica Baha Abu al-Ata, ucciso da Israele a Gaza il novembre scorso. "Colui il quale ha cercato di mettersi in mostra oggi - ha avvertito - può cominciare a fare le valigie".

(ANSA, 25 dicembre 2019)



Netanyahu augura Buon Natale, “cristiani sono nostri migliori amici”

In occasione del Natale Benjamin Netanyahu fa gli auguri "a tutti gli amici cristiani in Israele e nel mondo", che il premier israeliano considera i "migliori amici" del suo Paese. In un video messaggio in inglese diffuso dal suo ufficio e rilanciato dai media locali, Netanyahu afferma: "Abbiamo in comune la stessa civiltà, quella giudaico-cristiana, che ha dato al mondo i valori della libertà, della libertà individuale, della santità della vita e della fede in un unico Dio". "Siamo orgogliosi delle nostre tradizioni, siamo orgogliosi dei nostri amici cristiani - aggiunge Netanyahu - Sappiamo di non avere amici migliori al mondo dei nostri amici cristiani, quindi grazie, grazie a tutti per essere al fianco di Israele, per essere al fianco della verità. Buon Natale!". Il video messaggio si conclude con l'augurio di "Buon Natale!" anche da parte della consorte di Netanyahu, Sara, che compare con lui nel video.

(Shalom, 25 dicembre 2019)


I cristiani diminuiscono in tutto il Medio Oriente (eccetto Israele)

Rischiano di scomparire anche dai territori dell'Autorità Palestinese

Benché quella cristiana sia la religione più diffusa al mondo con oltre 2,4 miliardi di aderenti, la popolazione cristiana del Medio Oriente, compresi i territori palestinesi, si trova più che mai in difficoltà.
Dieci anni fa, nel 2009, la popolazione cristiana della striscia di Gaza era stimata in circa 3.000 persone, secondo la Reuters. Alla vigilia del nuovo decennio il numero si è ridotto di due terzi, a circa 1.000 fedeli, la maggior parte dei quali greco-ortodossi. Stando a un rapporto del think tank Begin-Sadat Center for Strategic Studies, quest'anno i cristiani che vivono nei territori di Cisgiordania sotto Autorità Palestinese sono stati colpiti da almeno tre importanti incidenti: una folla violenta ha preso di mira il villaggio cristiano di Jifna, vicino a Ramallah, causando danni significativi alle proprietà e terrorizzando gli abitanti, mentre altri elementi ostili hanno fatto irruzione e vandalizzato una chiesa maronita a Betlemme e una chiesa anglicana vicino a Ramallah....

(israele.net, 25 dicembre 2019)


Maraini elogia le Sardine ma fa arrabbiare la comunità ebraica

La scrittrice toscana, 83 anni, in un articolo sul Corriere della Sera, ha accostato questa mobilitazione dei giovani alla 'rivoluzione' di Gesu'. Un riferimento biblico che non è piaciuto a molti.

Un elogio di Dacia Maraini al movimento delle sardine ha fatto esplodere una polemica con la comunità ebraica. La scrittrice toscana, 83 anni, in un articolo sul Corriere della Sera ha accostato questa mobilitazione dei giovani alla 'rivoluzione' di Gesù che riformò "la severa e vendicativa religione dei padri" dell'Antico testamento "introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra".
Un riferimento biblico che ha fatto infuriare Ruth Dureghello, presidente della Comunita' ebraica di Roma: "Ecco come si alimenta il pregiudizio antiebraico. Se questa è la strada - ha ammonito - qualcuno arriverà a parlare anche di rinchiudere di nuovo gli ebrei nei Ghetti".
Il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha denunciato "le menzogne di questa antica opposizione" tra Antico e Nuovo Testamento che "è rimasta però in mente e in bocca ai laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti".
"Bisogna diffidare di chi predica una bontà stucchevole condita di false informazioni", ha aggiunto. Per la presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), Noemi Di Segni, le parole di Dacia Maraini "disseminano pregiudizi antisemiti che sono stati da lungo tempo rigettati anche dalle ali piu' retrive dello stesso mondo cattolico".
"Non intendevo parlare della religione ebraica, ma solo riferirmi alla Chiesa cattolica che certamente è stata nella storia misogina e vendicativa", ha precisato in serata la scrittrice. "Mi dispiace di avere sollevato questo vespaio. Ma non ho scritto un saggio sulla Bibbia", ha precisato.
"Per quanto riguarda le Sardine e l'accostamento che a qualcuno è sembrata blasfemo, vorrei ricordare che per molti secoli Cristo veniva raffigurato con un pesce. Come scrive il dizionario Italiano: - Il pesce, essendo un animale che vive sott'acqua senza annegare, simboleggiava il Cristo che può entrare nella morte, pur restando vivo -. Con un grande affetto per il popolo di Israele e la sua religione".

(AGI, 25 dicembre 2019)

"... laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti". Concisa definizione del Rabbino che si attaglia bene alla loquace scrittrice toscana.


Benvenuti in Israele, terra prolifica per le startup

di Daniel Mosseri

L'espressione startup nation? Superata. Non perché Israele abbia smesso di essere una fucina di imprese nate attorno a un'idea innovativa poi trasformata in un prodotto da lanciare sul mercato globale.
  Nel solo 2018 il numero di addetti del settore hi-tech è salito di altre 19.000 unità, secondo quanto riportato dalla Israel Innovation Authority (Iia). A dare il benservito al concetto di startup nation è stato uno che se ne intende: Aart de Geus è il ceo di Synopsys, colosso statunitense della produzione di chip. In un paio di interviste concesse ai media israeliani nel 2018, de Geus ha definito lo stato ebraico "una potenza tecnologica" e una "scale up nation", ritenendo il concetto di startup troppo legato all'idea di partenza per descrivere quello che sta succedendo in Israele. Parlando con Globes Israel, de Geus ha osservato che i cicli di eccellenza imprenditoriale attraversano di norma ogni cinque anni, mentre Israele è un paese che ha messo a segno quattro o cinque cicli consecutivi: "Questa è esperienza vera, non è più l'ora dei principianti".
  Gli ultimi dati diffusi dalla Iia gli danno ragione e Aharon Aharon, il ceo dell'autorità che sostiene il processo di modernizzazione dell'industria israeliana, non nasconde la sua soddisfazione: "La percentuale di lavoratori impiegati nel settore hi-tech è cresciuto dell'8% per un decennio". Sempre secondo la Iia, a metà del 2019 i dipendenti del settore - trasversale - dell'innovazione erano saliti a 307 mila.
  Israele ha 8,6 milioni di abitanti e fatte le debite proporzioni è come se in Italia oltre 21 milioni di persone dipendessero direttamente da settore hi-tech. La trasformazione dello stato ebraico da piccola potenza agricola, già esportatore di fiori, pompelmi e avocado, a motore dell'innovazione globale è avvenuta nel corso dell'ultimo quarto di secolo grazie a una combinazione di elementi che vale la pena di ricordare.

 La guerra
  La lunga serie di conflitti con i propri vicini e una minaccia terroristica senza fine hanno spinto gli strateghi israeliani a premere sul pedale della deterrenza, dotando il paese di sistema di difesa e di attacco all'avanguardia. Se dell'arma nucleare israeliana si parla poco in pubblico, molto più noto è l'Iron Dome, il sistema antimissilistico che intercetta gran parte dei missili ciclicamente esplosi da Gaza verso il sud di Israele. Meno noto, ma non per questo meno utile, è Watergen, un sistema per ricavare acqua potabile direttamente dall'aria usando motori di plastica a basso consumo energetico. In una zona di guerra, la possibilità di far giungere un camioncino che distribuisca acqua potabile estratta dall'aria può fare la differenza fra la vita e la morte. Come poi la storia del telegrafo insegna, è normale che molte invenzioni trovino applicazione fuori dall'ambito militare e oggi Watergen piazza con successo i suoi distributori di acqua a batteria solare là dove mancano una presa di corrente e un rubinetto (vedi alla voce grandi eventi o metropoli asiatiche dalla falda inquinata).

 La ricerca
  Israele ha centri universitari di eccellenza. Basti pensare, fra i tanti, al Technion di Haifa. Fondato nel 1912, l'Istituto Politecnico di Haifa già presieduto da Albert Einstein fa concorrenza ai più noti college statunitensi in settori come la fisica, le nanotecnologie, l'informatica e le intelligenze artificiali. Fra il 2004 e il 2013, l'Accademia reale svedese delle scienze ha assegnato quattro Premio Nobel per la chimica ad altrettanti ricercatori del Technion. A tenere alta la media di un paese all'avanguardia nello studio delle materie scientifiche, ha contribuito negli anni Novanta anche l'assorbimento in Israele di 1,6 milioni di ebrei russi e sovietici. Nessuno parlava l'ebraico: in compenso fra di loro c'erano migliaia di ingegneri e matematici formatisi nel solido sistema universitario dell'ex Urss.
  La combinazione di una lunga leva e di studi di alto livello sono dunque le architravi sui cui si basa lo sviluppo dell'innovazione in Israele. Ma ricerca e sperimentazione costano, il che richiede un massiccio afflusso di capitali a favore degli startupper israeliani. Se lo stato provvede a finanziare i college, i centri di ricerca, e le forze armate, le nuove aziende hanno bisogni di altri fondi per candidarsi a entrare nel mercato.

(Startmag Web magazine, 25 dicembre 2019)


L’Iran offre aiuto per far andar via i soldati americani dalla Siria

Il presidente siriano, Bashar al-Assad, ha ripetutamente denunciato la presenza illegale di truppe americane nel suo Paese.

L'Iran è pronto ad offrire il proprio supporto per far andar via i soldati americani illegalmente presenti sul territorio siriano, qualora il governo di Damasco dovesse richiederlo a Teheran.
A farlo sapere, in un'intervista, è il consigliere del leader supremo iraniano Ali Akbar Velajati, il quale ha definito il presidente Donald Trump "un ladro internazionale" accusando gli USA di rubare il petrolio siriano.
"Ci auspichiamo che nel prossimo futuro abbia un termine questo controllo illegale degli americani su diverse regioni siriane e che gli stessi abitanti della Siria rispondano mettendo fine a questo controllo [...] Siamo pronti a fornire tutto il nostro supporto per far andar via le truppe americane dalla Siria in caso di richiesta da parte delle autorità siriane e in base alle nostre possibilità", sono state le parole di Velajati.
 La presenza americana in Siria
  Precedentemente, il presidente Donald Trump, con l'Operazione turca "Fonte di Pace" nel Nord-Est della Siria ancora in corso, aveva dato l'ordine di ritirare la maggior parte degli effettivi dispiegati nella regione, trasferendoli nel vicino Iraq.
  Da allora, in Siria, è rimasto un contingente più ridotto di soldati, ufficialmente allo scopo di supportare le formazioni curde a proteggere i siti petroliferi.
  Il presidente siriano Bashar al-Assad ha denunciato ripetutamente "il furto di petrolio" perpetrato da parte di Washington, accusata dal leader siriano di rivenderlo poi alla Turchia.
  In un'intervista risalente al mese di novembre, lo stesso Trump aveva confermato la sua 'passione' per il greggio, confermando che le forze armate americane sarebbero rimaste in Siria proprio per impadronirsi delle fonti petrolifere.

(Sputnik Italia, 25 dicembre 2019)


Putin: "Hitler proponeva di mandare ebrei in Africa"

"E l’ambasciatore polacco gli voleva fare un monumento". Il Presidente russo ha espresso con parole durissime, che faranno senz'altro discutere, il disappunto provato per la risoluzione approvata lo scorso settembre dall'Europarlamento che ha di fatto equiparato l'URSS comunista alla Germania nazista e per l'atteggiamento della Polonia al riguardo.

"La Russia difenderà sempre la verità storica", queste le prole del Presidente russo rivolte, indirettamente ma chiaramente, al Parlamento Europeo che lo scorso settembre aveva di fatto equiparato il comunismo e l'Unione Sovietica al nazismo e il Terzo Reich. Si è poi voluto rivolgere alle autorità polacche, anche in questo caso indirettamente ma con altrettanta chiarezza, che avevano in seguito espresso la loro insistenza nell'equiparare e colpevolizzare in pari modo entrambe le potenze per la Seconda Guerra Mondiale.
"Una cosa che mi urta, ve lo devo dire sinceramente, è pensare a come abbiano affrontato la cosiddetta 'questione ebraica' Hitler e i rappresentanti ufficiali del Governo polacco a quei tempi. Hitler disse all'Ambasciatore polacco in Germania (Jozef Lipski), e poi anche al Ministro degli Esteri, di avere l'idea di deportare tutti gli ebrei in Africa. Immaginate nel '38 deportare interi popoli in Africa... a morire, allo sterminio. E cosa gli rispose l'Ambasciatore polacco? Cosa che è documentata dagli appunti del Ministro degli Esteri Beck, disse - Se lo fa gli facciamo un monumento grandioso a Varsavia. Bastardo, maiale antisemita, in altro modo non si può definire. Si schierò totalmente dalla parte del sentimento antisemita di Hitler e inoltre, per prendere in giro l'intero popolo ebraico promise di erigergli un monumento a Varsavia. Ed è proprio contro questa gente che ha combattuto l'Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale, per liberare l'Europa da tutto questo".

JOZEF LIPSKI
Ambasciatore polacco nella Germania nazista tra il 1934 e 1939, fu tra gli artefici del patto di non aggressione tedesco-polacco del 1934 che temporaneamente servì a contenere l'espansionismo tedesco in chiave antisovietica. Il patto, conosciuto anche come Patto Pilsudski - Hitler, fu per certi versi simmetrico ma contrario rispetto al patto Ribbentrop-Molotov. In caso di invasione nazista dell'Unione Sovietica alla Polonia sarebbe stata promessa anche una parte dell'Ucraina per la sua eventuale collaborazione. Nell'ottobre 1938 il ministro degli Esteri tedesco Ribbentrop propose il rinnovamento del trattato di non aggressione in cambio però della cessione della Città Libera di Danzica alla Germania e il permesso di costruire una strada extraterritoriale che collegasse l'enclave della Prussia Orientale alla Germania. La Polonia rifiutò e la Germania annullò il patto unilateralmente. Il resto è noto.
Lipski, che non nascose mai le sue simpatie nei confronti del nazismo, almeno fino a quando non ci fu l'invasione. Morì a Washington nel 1958.

(Sputnik Italia, 25 dicembre 2019)


Netanyahu e Steinitz il 2 gennaio ad Atene per la firma dell'accordo per il gasdotto East-Med

GERUSALEMME - Israele, Grecia e Cipro firmeranno l'accordo per il gasdotto East-Med il prossimo 2 gennaio ad Atene. Lo ha detto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che si recherà in Grecia per la firma dell'accordo insieme al ministro dell'Energia, Yuval Steinitz. L'accordo "contribuirà alla sicurezza energetica dell'Europa e alla prosperità in Israele e nel Mediterraneo orientale", ha affermato Netanyahu. Il progetto mira a collegare Cipro, Grecia e Israele nella catena di approvvigionamento energetico dell'Europa e a ostacolare gli sforzi della Turchia di estendere il suo controllo nel Mediterraneo orientale, sottolinea il quotidiano "The Times of Israel". Il gasdotto sarà esteso circa 2.000 chilometri e consentirà il trasferimento di 12 miliardi di metri cubi all'anno dalle riserve di gas offshore di Israele e Cipro verso la Grecia, e poi in Italia e in altri paesi dell'Europa sud-orientale.

(Agenzia Nova, 24 dicembre 2019)


Israele, per la prima volta è diventato un esportatore di gas in Medio Oriente

Con la messa in attività del maxigiacimento di gas naturale Leviathan, Israele entra nel club dei Paesi esportatori e dà il via a una politica green di riconversione. Un primo accordo di export è stato siglato con l'Egitto. Ai primi di gennaio sarà firmata l'intesa con Grecia e Cipro per il gasdotto EastMed verso l'Europa. Entro fine anno operativa la connessione tra la costa e un maxi giacimento. Dal 2020 al via l'export di gas naturale israeliano a Egitto e Giordania.

di Roberto Bongiorni

 
La piattaforma estrattiva nel giacimento di gas naturale Leviathan al largo di Haifa
Ricorrendo alla sua tagliente ironia, Golda Meir, la prima (e sola) premier donna di Israele, amava ripetere questa storiella per evidenziare una delle grandi vulnerabilità del giovane Stato di Israele. «Mosè trascinò gli ebrei per 40 anni da un capo all'altro del deserto, per portarli nell'unico luogo di tutto il Medio Oriente in cui non c'è neppure una goccia di petrolio!».
   Non aveva tutti i torti. Il tallone d'Achille di Israele, Paese circondato da Paesi ostili ricchi di greggio, è sempre stato la dipendenza energetica. Che fosse gas, greggio o benzina, Gerusalemme ha sempre dovuto ingegnarsi per diversificare e mantenere gli approvvigionamenti.
   Oggi la situazione è opposta. Israele ha molto più gas naturale di quanto ne ha bisogno. Il Governo si trova ora davanti a un problema, sicuramente meno grave, ma non di facile soluzione: come e dove esportare tutta questa ricchezza? E come farlo in tempi ragionevoli e in termini redditizi?
   All'inizio del terzo millennio è avvenuto l'insperabile. Il sottosuolo di Israele non custodiva petrolio, ma le sue acque serbavano un'altra grande risorsa: il gas naturale. I primi ritrovamenti risalgono al 1999, da parte della compagnia texana Noble Energy. Ma la svolta è arrivata nel 2009, quando un consorzio guidato da Noble annunciò la scoperta di Tamar, giacimento da 300 miliardi di metri cubi di gas (bcm). Nelle vicinanze, a 125 km dalla città costiera di Haifa, un altro consorzio, in cui accanto a Noble compariva anche la compagnia israeliana Delek, scoprì nel 2010 Leviathan. Con riserve accertate per 620 miliardi di metri cubi Israele poteva vantarsi di possedere il più grande giacimento del Mediterraneo dopo quello egiziano di Zohr, scoperto dall'italiana Eni nel 2015.
   Secondo i dati forniti dal ministero dell'Energia, negli ultimi tre anni Israele ha prodotto 11 miliardi di metri cubi l'anno, volume praticamente pari ai suoi consumi.
   Entro dieci giorni, però, ci sarà un'altra grande svolta. Israele entrerà nel club dei Paesi esportatori di metano grazie a un accordo con l'Egitto. Il 16 dicembre infatti il ministro dell'Energia Yuval Steiniz ha firmato i permessi che consentono l'avvio delle operazioni. Il gas a disposizione è così tanto che questo piccolo Paese del Levante, esteso come la Lombardia e con meno di 9 milioni di abitanti, punta ora a divenire pioniere di una rivoluzione energetica: divenire nell'arco di 15 anni un "Paese verde", dove le auto a benzina e diesel saranno solo un ricordo, al pari del carbone. «Entro fine anno Leviathan sarà connesso alla nostra costa. E dal 2020 esporteremo 10 miliardi di metri cubi l'anno, di cui 7 andranno in Egitto, e tre in Giordania», spiega al Sole 24 Ore Udi Adiri, direttore generale del ministero israeliano dell'Energia.In verità, come precisa l'esperto dirigente, Israele stava già esportando piccole quantità di gas in Giordania da 18 mesi. Ma grazie ai nuovi volumi di metano Israele potrà rafforzare le relazioni diplomatiche con i due soli Paesi arabi che hanno firmato un accordo di pace (nel 1979) riconoscendolo.
   Tanta fortuna, tuttavia, non è arrivata in un momento favorevole. Mai come ora la concorrenza da parte dei big mondiali del gas è stata così agguerrita. In un periodo storico in cui i grandi produttori come Stati Uniti, Qatar, Russia e Australia stanno inondando i mercati con il loro gas, anche liquefatto, i prezzi ne hanno naturalmente risentito, al ribasso.
   Il direttore generale del Ministero dell'Energia ha tuttavia le idee chiare sulla strategia da seguire nei prossimi decenni. «Non vogliamo e non possiamo competere con i grandi player. In merito all'export di gas noi seguiamo questa strategia. Prima vengono i paesi vicini. Con i quali siamo più concorrenziali perché non abbiamo costi di spedizione via mare, liquefazione e rigassificazione. Poi intendiamo approcciare altri mercati. L'Europa resta la prima scelta, anche per la vicinanza. Infine vi è una terza opzione, interessante, da seguire nel lungo termine: esportare gas verso Oriente, per esempio in India, attraverso il Mar Rosso.
   Per raggiungere questi obiettivi saranno necessari grandi progetti infrastrutturali. Che sia il lungo e costoso gasdotto sottomarino (sarebbe il più profondo al mondo) che connette i giacimenti di Israele attraverso Cipro, arrivando poi in Grecia e in Italia (è il progetto più accreditato). Oppure, o in contemporanea (scenario però complesso), avviare la costruzione di impianti di liquefazione, a Cipro, in Egitto o nel Golfo di Aqaba. «Stiamo considerando tutte le opzioni.Nel vicino futuro credo che l'Europa sia interessata ad accrescere le sue fonti di approvvigionamenti di metano», sottolinea Adiri.
   In verità nessuno sa quanto gas c'è nelle acque di Israele. «Le ricerche e le proiezioni delle compagnie internazionali stimano approssimativamente il potenziale della nostra zona economica esclusiva in 3mila miliardi di metri cubi di gas. Giusto per avere un'idea, finora abbiamo scoperto meno di mille miliardi», conferma Adiri, che aggiunge: «Nel 2021 entrerà in produzione anche il giacimento di Karish-Tanin, che fornirà altri 7 miliardi di metri cubi l'anno. Se poi consideriamo che con le nuove tecnologie la produzione di Leviathan potrebbe anche raddoppiare, l'estrazione potrebbe arrivare a 40 bcm».
   Tanto, tantissimo gas. Che permetterà di portare avanti questa grande rivoluzione energetica. Gli obiettivi sono già delineati. Innanzitutto liberarsi del carbone fossile, fino a pochi anni fa largamente utilizzato in Israele per esser trasformato in elettricità. «Abbiamo terminato le procedure: entro il 2025 sarà eliminata la produzione di elettricità mediante carbone. Negli ultimi cinque anni l'abbiamo già ridotta del 50 per cento. Pensate, avremo elettricità pulita, solo da gas ed energie rinnovabili. Un obiettivo raggiungibile con la riconversione, già in corso, delle centrali a carbone. Manterremo solo una limitata capacità di produrre col carbone per le emergenze», spiega Adiri. La conversione della più grande centrale a carbone del Paese, nella città costiera di Hadera, sarà terminata in 3 anni e consentirà di abbattere l'uso del carbone di un altro 30% circa.Nelle città israeliane il cambiamento è tangibile. L'aria che si respira è un'altra, mentre le spiagge sono più pulite. Gerusalemme, che ha firmato l'accordo climatico di Parigi, è già molto vicino al raggiungimento del primo obiettivo: produrre entro il 2020 il 10% dell'elettricità con energie rinnovabili.
   Il passo successivo è ancor più ambizioso. Diventare un Paese dove circolano solo auto elettriche o veicoli pesanti, inclusi mezzi pubblici, a Cng (gas naturale compresso). «È un obiettivo raggiungile. Ci stiamo lavorando. Ma c'è molto lavoro ancora da fare, conclude il direttore del Ministero dell'Energia: «Siamo un piccolo Paese con l'elettricità a costi bassi. Possiamo farcela». I silenziosi camion per la raccolta di rifiuti e i bus a gas naturale compresso che hanno già cominciato a circolare per le strade del Paese suggeriscono che questa rivoluzione è davvero possibile.

(Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2019)


Israele fra gli ipocriti. Una corte politica

Gerusalemme all'Aia. Parla il generale Eiland: "L'occidente riconosce ai nostri soldati una moralità superiore. Sulla decisione di incriminare Israele c'è una bandiera nera".

di Giulio Meotti

ROMA - Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha pubblicato domenica immagini di atrocità in Iran, Siria, Turchia e altrove sotto al titolo: "E chiamano noi criminali di guerra". Il principale giornale dello stato ebraico accusa la Corte penale internazionale dell'Aia di "assurdità" e "ipocrisia". Di "terrorismo diplomatico" ha parlato l'ambasciatore di Israele all'Onu, Danny Danon, dopo che la procuratrice-capo della Corte ha dichiarato di avere "basi sufficienti" per un'indagine su presunti crimini di guerra israeliani nelle guerre a Gaza e negli insediamenti israeliani. E' la prima volta che la Corte si occupa di bombardamenti aerei e uccisioni di civili durante un conflitto. Scrive Amos Harel su Haaretz che "è un precedente preoccupante per gli altri eserciti occidentali". Il premier israeliano Netanyahu definisce la Corte "uno strumento politico nella guerra per delegittimare Israele. Chi accusano? L'Iran? La Turchia? La Siria? No, accusano Israele. Si tratta di una terrificante ipocrisia". Anche Benny Gantz, leader di Blu&Bianco, principale partito d'opposizione e in quanto ex capo di stato maggiore possibile imputato all'Aia, parla di "mossa politica senza base giuridica".
   "La Palestina non è uno stato e non ha giurisdizione", dice al Foglio David Kretzmer, professore emerito di Diritto internazionale all'Università ebraica di Gerusalemme. "Ma anche se la Corte decidesse che non c'è giurisdizione per procedere, è possibile che le informazioni raccolte dal procuratore siano usate nei paesi europei per arrestare ufficiali israeliani. C'è uno stigma, un danno morale, immediato per Israele". La paura più grande per Israele è che i suoi dirigenti siano ricercati in Europa. E' già successo. L'ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, era a Londra quando il governo di David Cameron fu costretto a garantirle immunità diplomatica per evitare che fosse trascinata in tribunale. Livni ha dovuto annullare poi un viaggio a Bruxelles a causa di una simile minaccia. Come ha scritto il New York Times, "esperti legali in Israele hanno consigliato i ministri con un background nella sicurezza e alti ufficiali dell'esercito a non visitare Gran Bretagna, Spagna, Belgio e Norvegia". Un giudice in Spagna ha emesso un mandato anche per Netanyahu per l'incursione sulla Flotilla. Il generale Doron Almog fu avvertito di un mandato d'arresto che lo spinse a tornare a Tel Aviv senza neppure scendere dall'aereo a Londra. Anche l'ex direttore dei servizi Avi Dichter ha dovuto rinunciare a una conferenza, mentre Aviv Kokhavi, attuale capo di stato maggiore, ha cancellato una conferenza in un'accademia militare britannica. "Israele è responsabile di molte meno perdite della Nato in Yugoslavia o in Afghanistan,
   senza contare l'Iraq", dice al Foglio Ben Dror Yemini, columnist del quotidiano israeliano Yedioth. "E per non parlare dei vicini di Israele. Quello che fa Israele va ben al di là degli standard della legalità internazionale in zone di guerra". Per Ben Dror Yemini, Israele è sotto inchiesta all'Aia soltanto per ragioni politiche. "E' una farsa. E' una tragedia. I giudici dell'Aia poi sono nominati da nazioni ostili a Israele. La decisione di darci la colpa ha una bandiera nera appesa su di essa".
   Di "decisione politica" parla al Foglio anche l'ex generale israeliano Giora Eiland, già comandante della brigata Givati, una delle "menti" dell'establishment di sicurezza israeliano, che fu a capo del National Security Council del governo di Ariel Sharon e il cui nome è comparso anche in una richiesta di arresto alla magistratura spagnola: "Quattro anni fa, un gruppo di generali, compresi alcuni dall'Italia e da altri paesi europei, disse che volevano paragonare Israele alle loro operazioni in corso in Afghanistan, Iraq, Mali, Colombia, per capire se eravamo migliori, peggiori o come gli altri", ci spiega Eiland. "Io facevo parte di questo gruppo e la prima cosa che dissi loro è che avevano bisogno di una metodologia. E misi giù 132 criteri per giudicare differenti operazioni. Se il nemico ha kalashnikov, pietre e missili rudimentali; se invece ha missili anticarro e missili a lunga gittata, quali misure militari adottare a seconda delle circostanze. E quei generali stranieri arrivarono alla conclusione che Israele ha più morale e più legalità di tutti gli eserciti dei paesi civili".
   Già durante la rivolta araba del 1936, l'allora milizia ebraica Haganah adottò una politica nota come Havlagah, "controllati", non diventare come gli altri. E' anche questa eredità israeliana a essere in gioco in una corta dell'Aia che avrebbe potuto rappresentare una forza del bene, ma che non solo si è dimostrata inefficace nel combattere il male, ma che si è lasciata usurpare da un programma politico che l'ha spinta a confondere il bene con il male. Trasformandosi in una corte dell'ingiustizia.

(Il Foglio, 24 dicembre 2019)


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Israele non commette crimini di guerra. Punto

Una semplice verità, che non bisogna stancarsi di ripetere

Israele non commette crimini di guerra. Questo è il messaggio, semplice e chiaro, che si deve inviare al mondo, dopo la raccomandazione fatta venerdì scorso della procuratrice-capo della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, di indagare Israele in merito a presunti crimini di guerra legati all'operazione anti-Hamas a Gaza del 2014, ad attività di insediamento in Cisgiordania e alla risposta data dalle Forze di Difesa israeliane ai violenti moti settimanali lungo la barriera di confine fra Gaza e Israele.
Ovviamente vi sono dei soldati israeliani che commettono crimini mentre sono in azione, come accade in tutti i paesi coinvolti in operazioni militari. E quando succede, i tribunali militari e civili israeliani si occupano dei casi e ne chiamano a rispondere le persone implicate....

(israele.net, 24 dicembre 2019)


Old Jaffa, il cuore etno-chic di Tel Aviv che piace tanto ai viaggiatori

 
Ci sono molte possibili ragioni per comprendere il successo del turismo israeliano di questi anni. Centinaia di eventi internazionali attirano americani ed europei, che da soli fanno il 43% dell'incoming, attratti dalla beach life e da una temperatura media che anche in pieno inverno resta sui 20 gradi. Come già annunciato dal ministro del turismo sui media internazionali, la stagione 2018 ha fatto registrare un incremento del 14%, stimato in oltre 4 milioni di presenze, mentre sono oltre 21.500 gli ingressi giornalieri dall'aeroporto internazionale Ben Gurion.
   Gli italiani sono solo il 4% dei visitatori in terra di Israele, ma potrebbero presto, grazie all'apertura del nuovo aeroporto Ramon di Eilat, scoprire le molte potenzialità di questo giovanissimo paese. L'Italia è comunque il 6o mercato internazionale, con un totale di 175.438 visitatori italiani da gennaio a metà dicembre e nel corso dell'anno ha registrato una crescita del +31,5% rispetto al 2018. Gli addetti ai lavori, che in questi giorni aspettano il pienone di Natale e Capodanno in Terra Santa, sono molto ottimisti.
   Definita una non stop city dalle campagne di comunicazione del brand Israel Land of Creation, Tel Aviv ha hotel che non chiudono mai durante l'anno, locali trendy e ristoranti che restano aperti anche tutta la notte perfino nei week end di shabbat, dal venerdì al sabato sera.
   La catena Atlas, che da quarant'anni ha creato oltre 16 boutique hotels nel paese da nord a sud, incarna lo spirito del nuovo turismo di qualità.
   "Il Market House Hotel nel cuore di Jaffa ha ricevuto l'anno scorso il premio TripAdvisor Traveller Choice - spiega il general manager Avi Cohen -. I nostri boutique hotel sono in tutto il paese, soltanto a Tel Aviv sono 16 le strutture storiche che abbiamo recuperato e rinnovato completamente, affidando ad un gruppo di architetti israeliani il design adatto a ricreare le atmosfere che riescono a trasmettere quella che noi chiamiamo la 'Jaffa soul'. Un grande sforzo per raccontare la nostra realtà, i movimenti di artisti e di fotografi che sono passati da queste stanze, lasciando le loro opere".
   Ultimo inaugurato della catena Atlas, il Fabric Hotel, per una clientela giovane, nella zona sud della città. "Nei nostri hotel - aggiunge Avi Cohen - si accoglie il turista facendolo sentire come a casa. Molti dettagli fanno del Market House Hotel a pochi minuti a piedi dalla collina di San Giorgio, la scelta ideale per entrare nello spirito multietnico di questo antichissimo borgo mediterraneo. La costruzione, risalente a circa 180 anni fa, ha una storia molto affascinante, nella lobby arredata con mobili di design in stile vintage, raffinata con richiami di inizio secolo in molti elementi d'arredo, dalle ceramiche, alle gigantografie dei personaggi del quartiere, quadri realizzati da artisti locali con elementi di riciclo. Si cammina sul pavimento di vetro che conserva i resti di una chiesa bizantina, questo fu di sicuro un mercato ai tempi della dominazione greco- ortodossa e poi ottomana, mentre nel 1948 divenne quartier generale del Mossad. Nove anni fa l'inizio dei restauri e poi nel 2014 l'apertura. Da allora il gradimento dei clienti cresce di continuo, offriamo una prima colazione con prodotti locali molto selezionati, tra il dolce ed i salato, con tipicità ebraiche e anche arabe e bulgare per la pasticceria, assortimento di formaggi e di pane locale appena sfornato, oltre ad una pregiata selezione di vini israeliani e di caffè tra i migliori del mondo".

(Travel Nostop, 24 dicembre 2019)



Aumentano i cristiani in Israele

Una minoranza in crescita dell'1,5%

I cristiani in Israele, pur restando una minoranza, sono in crescita (1,5%) seppur lenta e il loro successo nel campo dell'educazione è maggiore del resto della maggioranza ebraica. Lo mettono in risalto i dati dell'Ufficio centrale di statistica (Cbs) diffusi in occasione del Natale. Il numero dei cristiani (di tutte le confessioni) che vivono in Israele è di 177mila, circa il 2% del totale; di questi il 77,5% sono arabi israeliani, ovvero il 7,2% dell'intera popolazione araba del paese. La presenza cristiana è in prevalenza (70,6%) in Galilea e nelle città del nord di Israele. La maggiore concentrazione - e non poteva essere diversamente - è a Nazareth dove vivono circa 21,900 Cristiani, mentre i musulmani sono stimati in 55mila; seguono Haifa con 16,100, Gerusalemme con 12,700 e Shfaram 10,300. Il 70,9% degli studenti dei licei cristiani ottiene voti di ammissione all'università, poco più alti di quelli ebrei (70.6%), ma ancora più grande dei drusi (63.7r11) e dei musulmani ( 45.2% ).

(Il Messaggero, 24 dicembre 2019)


Così il Mossad divenne popstar

Da servizi segreti a serie tv. Impronunciabile fino al 2016, la "mano di dio" è diventata un brand. Obiettivo: vincere la guerra attraverso i media

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Fino agli anni Duemila, la parola Mossad - l'agenzia di spionaggio israeliano esterno -si doveva pronunciare sommessamente, a mezza bocca. Allora si diceva "Istituto", Ha Mossad le Modin Ale Takfidim Meyuchadim, significa, appunto, Istituto per l'intelligence e i servizi speciali - e tutti comunque capivano. Il nome e il volto del capo del Mossad erano segreti, sui giornali si poteva solo scrivere Mister M. Missioni frequenti, complesse e soprattutto audaci, hanno fatto dell'Istituto il più preparato e letale apparato di intelligence al mondo, il suo mantra è: "Attraverso l'inganno faremo la guerra".
   Un alone di mistero e intrigo avvolgeva il tutto, allora come oggi, anche se ogni israeliano sa perfettamente come entrare in contatto discretamente con il Mossad. A partire dal 2016, sotto la direzione del ramsad (direttore) Tamir Pardo (2011-2016), il Mossad si è aperto ai media e la sua vena di modernità è diventata ancor più solida. Da anni è presente online con sito web e Facebook, quando per esempio l'MI6 - il Servizio Segreto esterno di Sua maestà la Regina Elisabetta - ancora cercava personale con gli annunci su The Economist o su The Observer, Resta comunque sorprendente - anche in un Paese smaliziato come Israele - che in tempi recenti, il ramsad Yossi Cohen e i massimi esponenti del Mossad e diversi loro agenti, siano diventati ospiti d'onore nelle trasmissioni tv, negli spettacoli investigativi e nei documentari. Per non parlare delle fiction - serie e docufilm con il Mossad protagonista - che sono già state vendute a Netflix per essere trasmesse in tutto il mondo, da Mossad 101 (101 è il numero delle emergenze in Israele) a Red Sea diving Resort o Eli, la storia di Eli Cohen che si infiltrò nel regime siriano negli anni Sessanta.
   L'Accademia dell'Istituto è a nord di Tel Aviv- per motivi comprensibili non si può scrivere esattamente dove - un complesso di diversi edifici e antenne che da una torre svettano nel cielo, il cuore della comunicazione riservata. Il suo nickname è "il dito di dio", dove dio in Israele è sinonimo di Mossad.
   ''Dio ci ha dato una mano", diceva Meir Dagan (ramsad 2002-2011) quando i tecnici nucleari saltavano in aria sulle loro auto in Iran. Così convinse il premier Benjamin Netanyahu che si poteva rallentare il progresso nucleare degli ayatollah senza scatenare la terza guerra mondiale con un attacco aereo sugli impianti. Nel 2008 agenti del Mossad hanno ucciso a Damasco Imad Mughniyeh, comandante delle operazioni di Hezbollah. Nel 2010 la "cinematografica" eliminazione di Mahmoud al Mahbuh - armiere di Hamasin un grande hotel di Dubai con 26 agenti sul campo, dissolti poi nel nulla. Per portare avanti questa guerra il Mossad - che risponde solo al primo ministro - ha sempre bisogno di reclutare agenti, spesso cittadini di altri Paesi in grado di viaggiare senza attirare l'attenzione sono preziosi per l'Istituto. Mohammed Alzoalari - ingegnere esperto di droni e uomo di Hamas a Tunisi - nel 2016 è stato ucciso da due killer bosniaci che non sapevano di lavorare per il Mossad. Perché se negli ultimi anni è cresciuto il budget e il numero agenti, è stato allargato anche quello degli "agenti inconsapevoli" e l'uso di mercenari. I dettagli delle operazioni non possono essere svelati in tv ma gli uomini del Mossad che vanno negli studi dimostrano una rara capacità di raccontare senza violare segreti di Stato. Questi includono la lunga intervista con l'ex capo del Mossad Tamir Pardo, il programma sull'agenzia di Channel 13 e una serie di episodi dell'emittente pubblica Kan Zman Emet (Real Time), che ha tentato di dissipare la nebbia che circonda diverse cover operations.
   Poi c'è la mini-serie di documentari di Channel 8, Inside the Mossad, venduta a Netflix e incentrata su un agente e i suoi misfatti clandestini, il popolare programma di Channel l2 Kfulim (False Flag), una miscela familiare: false identità, belle donne e un'aura di mistero. L'ultimo arrivato è Le'einav Bilvad (Solo per i suoi occhi: la politica del Mossad), in onda in Israele quest'anno e il prossimo su Netflix. Questa serie di tre episodi accende i riflettori sulla tensione che c'è sempre stata tra i capi del Mossad e i premier.
   Il Mossad è il brand più conosciuto di Israele e allora perché non farne un argomento di prima serata, si sono chiesti i produttori israeliani.
È stato subito successo.

(il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2019)


Per elogiare le sardine, Dacia Maraini sul Corriere propala menzogne sull'ebraismo

di Ester Moscati

"Che c'azzecca?", verrebbe da dire, citando Di Pietro, leggendo lo sconclusionato, falso, vergognoso articolo di Dacia Maraini pubblicato sul Corriere della sera di oggi, 24 dicembre. Per sponsorizzare l'idealismo delle "sardine", cita Gesù, "Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. (…) i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l'intolleranza e la passione per la guerra". Una sequela di falsità, menzogne da catechismo preconciliare da terza elementare. Dacia Maraini non è nuova a queste tiritere antigiudaiche. Lo aveva fatto già nel 2016, quando il "Vecchio testamento" era già stato bersaglio dei suoi strali: "Da noi c'è stato Gesù Cristo che ha sconvolto e rovesciato le prescrizioni della Bibbia: le parole «amore» e «perdono» hanno sostituito il «dente per dente» e l'odio di religione".
   Già allora le si era risposto che «Ama per il prossimo tuo come per te stesso» è una espressione biblica (Levitico 19,18) che è da sempre considerata nell'ebraismo come l'essenza della Torah. Che la donna è stata creata da materia già infusa del soffio divino e non dall'argilla, e che il Talmud dice: "State molto attenti a far piangere una donna, che poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell'uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale… un po' più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere Amata". E la schiavitù? L'unico popolo antico che prevede il riposo dello schiavo, nel giorno del Sabato, il risarcimento per danni procurati allo schiavo, e la liberazione dopo sette anni.
   Niente, refrattaria come uno schiacciasassi, impermeabile al dubbio, Dacia Maraini reitera le sue accuse. Sembra particolarmente affezionata all'Occhio per occhio, dente per dente.
   Inutile spiegare alla scrittrice che la legge "occhio per occhio" non autorizzava né sanciva il diritto a farsi giustizia da soli. Tutt'altro. Permetteva ai giudici designati di infliggere pene giuste, commisurate al danno subito dalla vittima, non troppo dure, né troppo leggere, a chi aveva commesso un crimine. E non pene corporali, ma il risarcimento pecuniario.
   La legge serviva anche come deterrente. La Legge mosaica infatti dice: "Gli altri [quelli che vedevano come veniva applicata la giustizia di Dio] lo verranno a sapere e avranno paura, e non faranno mai più una cosa malvagia come questa in mezzo a te".
Insomma, dopo oltre cinquant'anni dal Concilio Vaticano II sembra davvero incredibile leggere sul Corriere un articolo così infarcito di ideologia cristiana della "sostituzione", di falsità, superficiali menzogne. Una vergogna, davvero. E quel Bambino, che disse, con buona pace della Maraini, "Non cambierò una yud (la più piccola lettera dell'alfabeto ebraico) della Legge di mio Padre" si vergognerebbe della scrittrice.

Il commento della Comunità di Milano
La lettura dell'articolo di Dacia Maraini ha indignato moltissime persone della Comunità ebraica di Milano. "Gli ebrei e i cristiani - ha detto il Presidente Milo Hasbani - festeggiano contemporaneamente Chanukkà e Natale e Dacia Maraini se ne esce oggi sul Corriere della sera con un articolo classicamente antisemita. Offende il popolo del Libro e non fa onore a quei cristiani che in questi anni hanno compiuto un cammino di verità e rispetto!"

(Bet Magazine Mosaico, 24 dicembre 2019)


E’ difficile raccogliere in poche righe una tale quantità di banali luoghi comuni come è riuscita a fare Dacia Maraini nell’articolo indicato. E’ la spocchia con cui certi intellettuali laici si “abbassano” a parlare con supponenza di cose “religiose” senza accorgersi di mettere semplicemente in mostra la loro sostanziale ignoranza. Rendiamo noto il contenuto dell’articolo in questione senza inserirlo fra gli articoli delle nostre pagine. Non ne vale la pena, neppure per contrastarlo. M.C.


Pizzarotti in Israele apre la strada al Made in ltaly

Nel Paese in lizza anche Sicim, Gualini e Rina. Il nodo dei concorrenti cinesi sovvenzionati dallo Stato.

di Fabiana Magrì

 
TEL AVIV - Dieci anni fa Israele non era ancora sulla mappa del business di Pizzarotti. Poi un invito, da parte dell'omologa israeliana Shapir, a partecipare al progetto della linea ferroviaria ad alta velocità tra Tel Aviv e Gerusalemme ha aperto un nuovo canale che oggi vale all'impresa di Parma contratti per centinaia di milioni di euro. Dieci anni dopo la Tav israeliana è stata completata e sabato sera partirà il primo treno che collegherà le due città in 34 minuti. I tunnel sotto le colline di Gerusalemme, nel tratto Sha'ar HaGai-Mevasseret Zion, sono espressione del know-how italiano di Pizzarotti.

 Commesse in serie
  E in Israele l'azienda di Parma continua a portare a casa una commessa dopo l'altra. Sono appena partiti i lavori, per 200 milioni di euro, sulla Road 16, il nuovo ingresso autostradale a Gerusalemme. Dopo i tre anni necessari alla costruzione di tunnel, svincoli, viadotti, sottopassaggi pedonali e impianti vari, Pizzarotti resterà concessionario del progetto per altri 22 anni. Contemporaneamente si sono conclusi i lavori per l'estensione verso Nord dell'autostrada Road 6, un lavoro da 600 milioni di euro per la progettazione e realizzazione di 20 km di autostrada a 3 corsie per doppio senso di marcia con, anche in questo caso, svincoli, gallerie, viadotti, impiantistica e sistemi di controllo del traffico e di pedaggio di tipo "Free Flow'', cioè senza caselli.
  Al fianco di Pizzarotti ci sono ancora gli israeliani di Shapir. «Non solo - commentano dall'Italia - abbiamo trovato un partner locale serio e competente ma entrambe le aziende condividono una storia d'imprenditorialità nata all'interno di un nucleo familiare».

 Partner locali
  Shapir Engineering, una delle più grandi società di costruzioni di Israele, è stata fondata nel 1968 dai quattro fratelli (Israel, Harel, Gile Chen) Shapiro. Ben prima, nel 1910, Gino Pizzarotti avviò un'impresa individuale che è cresciuta in famiglia fino a diventare nel 1961 società per azioni. Oggi Pizzarotti, con un fatturato annuo di 1,5 miliardi di euro, è la seconda azienda italiana dopo Salini nel settore costruzioni. Gli ordini e le concessioni sono per metà in Italia ma se l'impresa è diventata leader internazionale nella realizzazione di grandi infrastrutture è anche grazie alla sua presenza in più di 20 Paesi in tutto il mondo. Ed è proprio all'estero che, in termini di prospettiva, è principalmente proiettato il futuro dell'azienda di Parma, Medio Oriente compreso. «Lavoriamo da diversi anni in Israele- sottolinea il vicepresidente Michele Pizzarotti - e da sempre con grande soddisfazione. Si tratta di un Paese estremamente dinamico la cui macchina amministrativa, a supporto di chi fa impresa in un settore complesso come le infrastrutture, si è sempre dimostrata efficiente e competente. Continueremo a monitorare con interesse gli sviluppi del settore in Israele ma anche nelle aree più disagiate del Medio Oriente per cogliere nuove opportunità d'intervento e contribuire a una crescita sostenibile per le popolazioni locali».
  Si attendono allora nuove gare per progetti ferroviari a Haifa, per la metropolitana di Tel Aviv e per un nuovo lotto di tunnel a Gerusalemme. Dei sessanta dipendenti di Pizzarotti in Israele - ma presto se ne aggiungeranno altri venti, molti sono italiani, in particolare lo staff di governo per la costruzione di gallerie, che è l'expertise di Pizzarotti.

 Spazio per crescere
  Sono ancora poche le aziende italiane che si sono affacciate sul mercato israeliano, almeno nel settore infrastrutture. Sicim di Parma, Gualini di Bergamo (che ha realizzato le facciate per il nuovo aeroporto internazionale di Eilat nel deserto del Negev a pochi chilometri dalla costa del Mar Rosso) e D'Appolonia del gruppo Rina (che offre consulenza tecnica alla costruzione della metropolitana di Tel Aviv).
  «E la Cina il vero concorrente non bilanciato - spiega Pizzarotti - perché gli ingenti supporti finanziari statali e la grande quantità di manodopera li rendono competitivi a livelli non sostenibili, e non solo in Israele». Aziende cinesi hanno costruito in passato il tunnel sotto il Monte Carmelo e sotto la città di Haifa. E si sono da poco aggiudicati due lotti per la metropolitana di Tel Aviv. Oggi stanno acquisendo la tecnologia ferroviaria e sono pronti ad aggredire anche questo settore.

(La Stampa, 23 dicembre 2019)


Crimini di guerra: il castello di menzogne su Israele spiegato bene

Il castello di menzogne contro Israele sui presunti "crimini di guerra" smontato punto per punto

di Maurizia De Groot Vos

Quando venerdì scorso il Tribunale Penale Internazionale (ICC/TPI) ha annunciato l'avvio di una inchiesta per crimini di guerra contro Israele, sin da subito la stampa internazionale e ogni movimento antisemita della terra ha esultato.
   Amnesty International è arrivata a scrivere che «la decisione odierna del procuratore della Corte penale internazionale è un passo storico verso la giustizia dopo decenni di crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale commessi nei territori palestinesi occupati (da Israele n.d.r.)».
   In realtà il Tribunale Penale Internazionale non ha aperto alcuna inchiesta, non ancora, ma ha dichiarato di avere elementi per poterla aprire e ha delegato tre giudici della Corte (Péter Kovàcs, ungherese, Marc Perrin de Brichambaut, francese, e Reine Adélaìde Sophie Alapini-Gansou, del Benin) di valutare se il Tribunale Penale Internazionale ha giurisdizione per poterlo fare.
   Il problema della giurisdizione non è secondario. La Palestina non è uno Stato e anche se ha aderito allo Statuto di Roma tecnicamente non può rivolgersi al Tribunale Penale Internazionale per avanzare accuse contro un altro Stato come Israele che, per di più, non ha aderito al TPI e quindi nemmeno lo riconosce.
   Ma non è nemmeno questo il punto focale sulla giurisdizione del TPI su Israele. Il vero punto lo spiega bene un parere legale pubblicato dal Procuratore Generale di Israele, Avichai Mandelblit, il quale in 34 pagine spiega con dovizia di particolari perché il TPI non ha alcuna giurisdizione né su Israele né sulla cosiddetta "Palestina".
   Tra le altre cose il Procuratore Generale di Israele spiega che «anche nel caso in cui lo Statuto di Roma dovesse essere male interpretato in modo da consentire alle entità non sovrane di conferire giurisdizione alla Corte, gli accordi israelo-palestinesi esistenti chiariscono che i palestinesi non hanno giurisdizione penale né di diritto né di fatto sull'area C, Gerusalemme e sui cittadini israeliani - e quindi non possono validamente delegare tale giurisdizione alla Corte».
   In sostanza è proprio lo Statuto di Roma ha stabilire che l'assenza di uno Stato sovrano palestinese interdice la Corte ad esercitare giurisdizione su quei territori indicati nell'annuncio emesso dal Tribunale Penale Internazionale, che per altro sono soggetti ad accordi riconosciuti internazionalmente i quali indicano espressamente che qualsiasi contenzioso tra le parti deve essere risolto attraverso negoziati diretti.
   Le organizzazioni internazionali, tra le quali il Movimento BDS, Amnesty International e altre, affermano che l'adesione della cosiddetta "Palestina" allo Statuto di Roma nei fatti sarebbe un vero e proprio riconoscimento e che quindi i palestinesi hanno ogni Diritto a chiedere l'intervento del Tribunale Penale Internazionale.
   È un'altra bugia. Proprio lo Statuto di Roma prevede che la Corte abbia giurisdizione sul "territorio di…" ovvero su uno Stato riconosciuto e con confini ben definiti. La cosiddetta "Palestina" non soddisfa nessuno di questi requisiti.
   Il Procuratore Generale di Israele spiega ancora che «se il Tribunale Penale Internazionale conducesse una solida valutazione della documentazione legale e fattuale, la sua inevitabile conclusione dovrebbe essere che uno Stato sovrano palestinese non esiste e che quindi il presupposto per una sua giurisdizione su quei territori verrebbe a mancare ai sensi del Diritto Internazionale».
   C'è poi un altro punto importante da valutare. Sempre secondo lo Statuto di Roma la Corte Penale Internazionale può avviare un procedimento solo se il governo di un paese non riesce a indagare adeguatamente sulle accuse ad esso rivolete. Non è il caso di Israele, una democrazia perfettamente in grado di mettere sotto accusa e giudicare i propri militari e politici nel caso compiano qualsivoglia reato, compreso quello di crimini di guerra. Gli israeliani lo hanno già ampiamente dimostrato in passato.
   Fino a qui la "parte legale" che smonta il castello di menzogne messo in piedi da odiatori seriali e media in cerca di visibilità. Ora parliamo tranquillamente delle accuse rivolte a Israele.
   Secondo il Tribunale Penale Internazionale l'IDF avrebbe commesso crimini di guerra a Gaza e in Giudea e Samaria. Nel primo caso i militari israeliani sono accusati di aver "deliberatamente ucciso civili palestinesi", di "aver colpito ambulanze" e altre accuse, nel secondo caso invece l'accusa è quella di aver "deportato" la popolazione araba per costruire insediamenti il che, secondo il Diritto Internazionale, sarebbe un crimine di guerra in quanto Israele è considerato "potenza occupante".
   Ora, nel caso di Gaza l'accusa è inventata di sana pianta. L'esercito israeliano è riconosciuto dai più alti livelli militari mondiali come il più "eticamente corretto", quello cioè che più di tutti tra gli eserciti regolamentari mette in primo piano la salvezza dei civili. Ma la cosa diventa difficile da fare se i terroristi palestinesi usano i civili come scudi umani o se posizionano le loro basi sotto gli ospedali, se posizionano le batterie di missili in mezzo alle case o se, ancora, trasportano uomini armati e armi all'interno di ambulanze.
   L'uccisione accidentale di civili da parte israeliana è quindi la conseguenza di una deliberata strategia portata avanti in maniera conscia dai terroristi palestinesi e non di una deliberata decisione dei vertici militari o politici israeliani.
   Per quanto riguarda invece la "deportazione" di popolazione araba per costruire insediamenti è davvero una balla colossale. Nessun cittadino arabo è stato forzato a lasciare la propria terra per costruire insediamenti che invece sono costruiti in zone non abitate e spesso aride, non adatte nemmeno alla pastorizia. Se poi gli israeliani sono bravi nel trasformare il deserto in verdi oasi non è certo un crimine.
   Concludendo, si mettano il cuore in pace i giudici strumentalizzati e gli odiatori seriali. Nessuno può accusare Israele di crimini di guerra, sia dal lato del Diritto Internazionale che da quello dei fatti oggettivi. Basta solo informarsi un pochino in maniera oggettiva.

(Rights Reporters, 23 dicembre 2019)


Un istituto delle Nazioni Unite tiene vivo lo scontro con Israele

L'agenzia Onu per i palestinesi perpetua il conflitto arabo-israeliano. Anziché consentire l'integrazione dei palestinesi nei paesi dove risiedono, ne fa eterni profughi.

Scrive Yedioth Ahronoth (15/12)

                        Per rifugiati normali                                         Per rifugiati speciali (palestinesi)
L'Autorità palestinese e Hamas hanno festeggiato, venerdì scorso, e ne avevano ben donde. Quel giorno le Nazioni Unite hanno deciso di prorogare per altri tre anni il mandato dell'Unrwa, l'agenzia per profughi palestinesi". Così scrive Ben Dror Yemini.
   "La decisione non è passata con una maggioranza ristretta. Tutt'altro: ha ricevuto il sostegno praticamente unanime dell'Assemblea generale, con 169 paesi che hanno votato a favore, nove astenuti e solo due (Israele e Stati Uniti) contrari. Ma questo voto, ad un esame attento, appare più che altro una vittoria di Pirro.
   L'Unrwa venne creata settant'anni fa, nel dicembre del 1949, solo cinque giorni dopo la creazione dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr). Al momento della sua fondazione, in base alla sua stessa definizione di "profugo palestinese" l'Unrwa prese in carico 711.000 rifugiati. Oggi, a seguito di quella definizione e di alcune modifiche ad essa apportate per includere tutti i discendenti di quei rifugiati, i profughi palestinesi in carico all'Unrwa sono circa 5,5 milioni. Come mai c'era bisogno di un'agenzia apposita (distinta da quella che si occupa di tutti gli altri profughi del mondo)? Perché a quell'epoca la dirigenza araba voleva solo una cosa: sfruttare la condizione dei profughi come un'arma per combattere l'esistenza di Israele. E chi pagò e continua a pagare il prezzo per quella scelta? I profughi, naturalmente, la cui condizione è diventata una ferita eternamente aperta.
   Gli enormi budget che la comunità internazionale ha riversato per decenni all'Unrwa sarebbero bastati per dare a ogni famiglia di profughi una dimora più che dignitosa e fondare infrastrutture e imprese economiche che permettessero loro di ricostruirsi una vita, e di migliorarla generazione dopo generazione.
   Più di 60 milioni di persone dovettero fuggire o vennero cacciate dalle loro case durante la prima metà del XX secolo a causa dei conflitti, delle loro conseguenze e della fondazione di nuovi stati nazionali. Il trasferimento e lo scambio di popolazioni era purtroppo una consuetudine. Ci fu anche una "nakba ebraica" (nakba è il termine usato dai palestinesi per indicare la "catastrofe" del loro esodo a seguito alla nascita d'Israele nel 1948 e della guerra che dovette combattere per difendersi dall'aggressione degli stati arabi). Circa 850.000 ebrei se ne andarono o furono espulsi dai paesi arabi, mentre tutti i loro beni venivano confiscati. Nessuno di loro, men che meno i loro discendenti, sono oggi considerati profughi a titolo ufficiale. Solo ai profughi arabi palestinesi viene assegnato questo titolo. L'unica istituzione che diffonde e perpetua questa idea di un "diritto al ritorno palestinese" è l'Unrwa, un diritto che non compare in nessuna legge internazionale.
   Non ci sono 5,5 milioni di rifugiati palestinesi, è una bufala. Il Libano, ad esempio, afferma che complessivamente vi sono solo 475.000 profughi palestinesi. Un censimento condotto nel 2017 ha rilevato che, all'interno del Libano, si contano solo 174,00 profughi palestinesi, e tutti loro patiscono ciò che a buon diritto potrebbe essere descritto come un regime di apartheid (negazione della cittadinanza e segregazione civile e politica, ndr). La Giordania ha invece riconosciuto loro la cittadinanza, un fatto che di per sé dovrebbe cancellare lo status di "profugo". Ma continua a sussistere una definizione generale per la gran parte dei profughi al mondo, e una definizione speciale valida solo per i profughi arabi palestinesi.
   La soluzione alla questione dei profughi palestinesi dovrebbe essere la stessa prevista per tutti: riabilitazione e superamento dello status di profugo. Per farlo, non è necessario smantellare immediatamente l'Unrwa. Quello che occorre è un piano di tre-cinque anni che garantisca la cittadinanza ai palestinesi nei paesi dove vivono, e un budget destinato a promuovere la loro integrazione. Quelli di loro che resteranno veri profughi, quale che sia la loro effettiva quantità, saranno presi in carico direttamente dall'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.
   Persino Facebook ha deciso di donare soldi all'Unrwa. Qualcuno dovrebbe spiegare a Mark Zuckerberg che nelle scuole dell'Unrwa si insegna l'antisemitismo, cioè che quei soldi vanno ad alimentare l'odio anziché il benessere.
   La decisione delle Nazioni Unite di prorogare per l'ennesima volta il mandato dell'Unrwa così com'è è una decisione a favore della conflittualità, volta soltanto a riverire la sofferenza e lo scontro. Non è questo il modo per risolvere le sofferenze dei profughi".

(Il Foglio, 23 dicembre 2019)


A Cagliari al via il Chanukkah ebraico. La prima candela illumina la fratellanza

di Gianmarco Cossu

 
 
 
A Cagliari al via la festa del Chanukkah e la comunità ebraica cittadina accende il primo lume del candelabro, in ricordo del miracolo degli otto giorni riportato nel testo sacro
  A Cagliari al via la festa del Chanukkah e nel giorno del solstizio di inverno la comunità ebraica cittadina accende il primo lume del candelabro a nove braccia, in ricordo del miracolo degli otto giorni riportato nel testo sacro. Una festività molto sentita, che i fedeli di Israele celebreranno con grande spirito di gioia e amicizia tra le mura dello storico quartiere di Castello, presso l'Associazione Chenàbura di via Lamarmora. Otto giorni, per l'appunto, a commemorare la fine dell'oppressione e l'inizio di un cammino di luce.

 Il Chanukkah, il miracolo degli otto giorni
  La storia racconta che, dopo la riconquista del Tempio di Gerusalemme dal tallone ellenico, nel II secolo a.C., la menorah, quella lampada a olio così caratteristica della religione, dovesse essere illuminata permanentemente con olio di oliva puro. Ma di questo se ne trovò solamente una quantità sufficiente per una giornata. Ecco allora che per miracolo quel poco olio durò ben otto giorni. Il tempo necessario per produrne altro. Dall'episodio deriva l'usanza dell'accensione del candelabro a nove braccia chanukkiyah. Una candela al dì, da sinistra verso destra, con quella centrale sempre accesa.

 Tra le mura di Castello il Chanukkah
  La comunità ebraica sarda e cagliaritana sceglie, ancora una volta, il quartiere di Castello come teatro di celebrazione di una delle sue feste più sentite. « È il quarto anno che lo facciamo qui - spiega Sergio Caschili dell'Associazione di via Lamarmora - e dopo 500 anni che non si festeggiava. Siamo stati al Bastione di Santa Croce e al Ghetto degli Ebrei, questo è il secondo anno di fila qui, nella vecchia Juderia».

 I bomboloni fritti, il "gusto" della festa
  Dolce tipico della festa è il sufganiyah, un bombolone fritto, alla crema o al cioccolato, che si gusta tutti insieme in lieta compagnia. Una gioia per il palato di tanti, di sicuro, ma non frutto della casualità, come spiega Caschili: «Il fritto dell'olio ricorda quello consacrato che ha tenuto accesa la luce del Tempio».

 Per gli ebrei la Sardegna terra ospitale
  Ma non sono solamente sardi gli ebrei presenti nella sede dell'associazione castellana per salutare il Chanukkah. Diversi, infatti, sono arrivati dallo stato di Israele, trovando in Sardegna un clima ospitale. «Questa è un'Isola felice - è il commento di Sergio Caschili - e a Cagliari non c'è mai stato alcun episodio razzista nei nostri confronti». È d'accordo anche Judy, che dal Medio Oriente è arrivata sino a qui, trovando una terra amichevole; o Sapir, 28 anni, sposata con un sardo e che ora vive in Ogliastra. E ancora, Costanza è rumena cristiana, ma sposata con un ebreo di Israele: «Spesso le persone sono prevenute e non vogliono conoscere altre culture - racconta, stella di Davide appesa al collo con orgoglio - ma spesso si scoprono tanti legami che non ci si immaginava prima».

 Chanukkah, lo spirito della condivisione e della fratellanza
  Ciò che rende ancora più bello e affascinante il Chanukkah è infatti lo spirito di fratellanza e condivisione. Nella piccola sede di via Lamarmora infatti sono invitati graditi tutti, anche i non ebrei «Il miracolo della candela rappresenta la salvezza del monoteismo - spiega - e di conseguenza di cristianesimo e islam. Oggi non ci sono ma più avanti non mancherà occasione di invitare i musulmani. Sono tanti infatti punti di contatto con loro».

(Vistanet.it, 23 dicembre 2019)


Gerusalemme, scoperta la strada di Gesù

Dopo anni di scavi gli archeologi israeliani hanno svelato il tracciato romano e rinvenuto reperti che confermano i Vangeli.

di Marco Perisse

Gli archeologi hanno ormai individuato la strada che Gesù percorreva oltre 2.000 anni fa a Gerusalemme per andare al Tempio e sono certi che fu costruita in quegli anni da Ponzio Pilato. Si tratta di un importante risultato scientifico la cui storia ha preso il via nel 2004, quando gli operai che riparavano una condotta idrica si imbatterono nella Piscina di Siloe. Gli scavi hanno negli anni rivelato la corrispondenza dei ritrovamenti archeologici con i riferimenti evangelici. Secondo il Vangelo di Giovanni 9,1-41, Gesù compì nella Piscina il suo secondo miracolo quando guarì il cieco nato. Da quell'iniziale e fortuito rinvenimento, appena fuori della Città Vecchia su quello che oggi è il Monte del Tempio, si sono susseguite altre scoperte a cominciare dalla scalinata che conduceva al Tempio e quindi la strada che Gesù percorse molte volte, secondo le Scritture, nella sua breve vita e l'ultima volta alla vigilia della Passione.
La Piscina - alimentata grazie al tunnel che trasportava l'acqua della sorgente di Gihon dentro la Gerusalemme di Davide - era il punto dove i pellegrini si purificavano prima di salire le scale anche se oggi, come in tutte le città di antica fondazione, le parti più antiche si trovano sottoterra dal momento che le stratificazioni successive le hanno coperte. Sistemato lo scavo dei gradini, dallo scorso luglio anche i turisti possono percorrere un tratto della scalinata su cui Gesù dovette salire nelle sue visite al Tempio come pure altri personaggi biblici. Con la scala, è venuto alla luce tramite una galleria il tracciato associato alla strada del Pellegrinaggio. Col completamento degli scavi un paio di mesi fa, è ormai svelata l'intera strada, lastricata come usavano i romani e lunga circa mezzo chilometro. Gli archeologi israeliani hanno analizzato il tracciato scavato integralmente dalla Piscina al Tempio, che lambisce le pendici del Monte degli Ulivi e i giardini Getsemani piegando poi verso l'ingresso del Tempio. È dunque molto probabile che sia la medesima percorsa da Gesù anche nella sua ultima Pasqua quando tutti gli evangelisti riferiscono dell'ingresso a Gerusalemme (episodio ripreso dalla liturgia cristiana nella Domenica delle Palme, un motivo ricorrente pure nelle iconografie artistiche) arrivando proprio dai Getsemani. In quella zona erano anche i caseggiati dove si svolse l'Ultima Cena.
   A conferma che la strada risale all'epoca di Gesù, il ritrovamento di monete sotto il basolato che riportano l'effigie di Ponzio Pilato, ovvero del governatore romano della Giudea nel periodo compreso circa tra il 17 e il 31 dopo Cristo, noto nei Vangeli per il ruolo di essersene lavato le mani della sorte di Gesù. Diversi storici erano convinti che fosse stato il re Erode, insediato dai romani, ad eseguire i progetti di risistemazione urbanistica dell'epoca. Ma il ritrovamento delle monete coniate attorno all'anno 31, coincidente con l'epoca della predicazione di Cristo, ha suggerito che fossero stati proprio i romani a costruire la strada poiché le più comuni a Gerusalemme furono coniate dieci anni dopo: non averle trovate significa l'opera fu completata prima del loro conio. Per arrivare al livello stradale dell'epoca di Gesù gli archeologi nel corso di anni di campagne di scavi hanno attraversato strati di macerie del Tempio di Gerusalemme che, come è noto, fu poi distrutto nel 70 d.C. dopo un lungo assedio dai legionari romani guidati da Tito Flavio Vespasiano, il futuro imperatore Tito, nel corso della prima guerra giudaica. Reperti rinvenuti nella stratificazione (parti di armi, macerie, legnami bruciati) testimoniano anche i drammatici eventi della distruzione del Tempio.

(GQ Italia, 23 dicembre 2019)


Il mondo ha bisogno di luce

CASALE MONFERRATO - Sarà stato il tempo primaverile, sarà stata la presentazione di ben 14 nuove opere d'arte, o forse la voglia di condividere un momento di speranza universale, ma mai i festeggiamenti di Chanukkah a Casale Monferrato hanno visto tanta partecipazione come quest'anno. Difficile stimare quante centinaia di persone sono effettivamente state ospiti della Comunità Ebraica di vicolo Salomone Olper, domenica 22 dicembre, per quella che è ormai una festa cittadina.
  Mons. Francesco Mancinelli, rettore di Crea, intervenuto in rappresentanza del Vescovo di Casale Gianni Sacchi, ricorda come circa 30 anni fa si ebbe l'idea insieme ad Adriana Ottolenghi di introdurre a Casale questo momento di preghiera condiviso, come si faceva già dagli anni 70 nel campo grande del Ghetto della sua natia Venezia.
  Addirittura la prima lampada della Chanukkah casalese venne eretta in piazza Mazzini. Da allora è stato un momento imprescindibile nelle festività della città e l'ecumenismo religioso si è allargato ai rappresentanti di tante fedi diverse. Poi la festa è diventata una straordinaria occasione di confronto con l'arte. La chanukkia la lampada ad otto braccia che si accende durante la festa è infatti la protagonista del "Museo dei lumi" una collezione unica al mondo di questi oggetti realizzati dai più grandi artisti internazionali e casalesi: oltre 250 pezzi ospitati a rotazione nei locali sotto il complesso museale di vicolo Salomone Olper o in giro per il mondo. Così ogni festa di Chanukkah a Casale diventa l'occasione per introdurre nuovi elementi della collezione
  Domenica a partire dalle ore 16,30 sono stati in molti a spiegare le peculiarità della Chanukkah Casalese a cominciare da Elio Carmi vicepresidente della Comunità che ha portato i saluti del presidente Giorgio Ottolengh (96 anni, ndr)i, ma anche Pietro Gabei presidente della Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale - ONLUS a cui fa capo il museo dei lumi e poi ancora Roberto Messina che ha spiegato l'origine della festa e impartito le benedizioni del rito..
  Prima delle tante autorità civili e religiose però è stata la festa dell'arte: 14 le nuove opere in esposizione per altrettanti artisti ÆNO, Isabella Angelantoni Geiger, Dario Canova, Gea Casolaro con Luca Casolaro, Fabio Castelli, Stefania Dolce, Elena Caterina Doria, Frascella Studio, Carlo Ivaldi, Daniele Belisario Lesti, Gabriele Levy, Marcello Mastro, Alberto Raiteri, Chelita Riojas Zuckermann. Quasi tutti presenti, dalle 16.30 fino alle 17,30 sono stati chiamati in Sala Carmi ad illustrare i loro Chanukkiot. L'idea di una luce che si perpetua e moltiplica ha ispirato opere diversissime per materiali, tecniche e concetti. Perché tutti potessero ammirarle ci sono voluti almeno 4 turni di ingresso in sala.
  Tra gli ospiti anche l'Assessore alla Cultura della Regione Piemonte Vittoria Poggio che ha visitato Sinagoga e Museo "Ho visto opere straordinarie" commenta prima di accendere la "sua" lampada di Chanukkah. Sì perché uno dei momenti che caratterizza la festa a Casale è che le autorità civili e religiose sono chiamate ad accedere una delle tante lampade collocate nel cortile delle Api. Quest'anno un gesto semplice visto che siamo nel primo giorno della festa e quindi, oltre allo Shammash (la fiamma che accende tutte le altre), andava acceso solo uno degli 8 lumi del candelabro Però quest'anno sono in tanti a compiere il gesto, In rappresentanza del comune di Casale Monferrato il vicesindaco Emanuele Capra parla di "Una comunità vanto della città che ci permette di presentarci con orgoglio per il mondo". C'è anche il sindaco di Moncalvo Christian Orecchia che coglie l'occasione di annunciare che il giorno della memoria, il 27 gennaio, saranno posate di fronte alla Sinagoga (piazza Carlo Alberto, ndr) "le pietre di inciampo" in ricordo dei deportati della sua città. Ad accendere le lampade sono stati anche i rappresentanti delle forze dell'ordine: il Commissario di Pubblica Sicurezza di Casale Guido Francia in rappresentanza del Questore di Alessandria, il comandante dei Carabinieri di Casale Salvatore Puglisi, il maresciallo della Guardia di Finanza di Casale Gianluca Mercurio e il presidente dell'ANPI di Casale Gabriele Farello.

(Il Monferrato, 23 dicembre 2019)


Israele darà a cristiani di Gaza i permessi per Natale

Per andare a Gerusalemme e Betlemme, senza distinzione di età

Israele fornirà permessi ai cristiani di Gaza per recarsi a Natale a Gerusalemme e a Betlemme.
Lo ha annunciato stasera il generale Kamil Abu Rukun comandante del Cogat, il coordinamento di governo israeliano dei territori.
"I permessi in entrata per Gerusalemme e l'area della Cisgiordania - ha detto Rukun - saranno emessi in accordo con le misure di sicurezza e senza distinzione di età".
La decisione di stasera fa seguito agli appelli dei giorni scorsi delle autorità religiose cristiane affinché Israele concedesse i permessi.

(RaiNews, 22 dicembre 2019)


La Flotta Russa entra nelle acque dell'Iran

Proveniendo da mar arabico, la flotta russa è entrata ieri nelle acque dell'Iran, come ha informato il servizio stampa del comando navale russo.

Varie unità navali russe continuano la loro missione nel porto di Chabahar, in Iran.
La flotta russa del mar Baltico aveva abbandonato le sue basi il 1odi Ottobre salpando in direzione dell'Oceano Indiano. La flotta include la fregata lanciamissili Yaroslav Mudri, il rimorchiatore Victor Konetski e la nave petroliera Yelnia.
   Al principio di dicembre, il comandante della marina iraniana, Hossein Janzadi, aveva annunciato che il 27 di questo mese le unità navali iraniane parteciperanno ad esercitazioni congiunte nel nord dell'Oceano Indiano con la unità navali russe e con quelle della Cina. Le esercitazioni dureranno fino all'inizio del 2020.
   Nello stesso periodo le unità navali della NATO, con gli USA in testa, moltiplicano le loro esercitazioni navali, da un lato nelle acque vicine alla Russia e dall'altro Washington intensifica le sue attività di provocazione di fronte alla Cina nel mare cinese meridionale.
   Le esercitazioni congiunte fra Iran, Russia e Cina lanciano un messaggio molto chiaro agli USA ed a Israele, visto che questi paesi stanno minacciando l'Iran con sanzioni, strangolamento economico ed possibili azioni militari preventive.
   Il messaggio risulta evidente: l'Iran, in caso di aggressione, non sarà lasciato solo. D'altra parte già da tempo gli analisti militari avevano notato una forte intensificazione della cooperazione militare fra Russia e Iran a cui si era aggiunta la Repubblica Popolare Cinese che sta progettando grandi investimenti all'interno dell'Iran per la realizzazione della Belton Road Initiative.

(Confroinformazione, 22 dicembre 2019)


Natale di guerra nelle Ardenne

Accadde in Germania, la sera di Natale del 1944. Una straordinaria testimonianza.

di Fritz Vincken (1932-2001)

Fritz Vincken - 1940
La sera di Natale del 1944, nel mezzo della battaglia delle Ardenne, mia madre ed io ricevemmo una visita inattesa.
  Quando, in quella lontana sera, bussarono alla porta, mia madre ed io non potevamo immaginare quello che sarebbe avvenuto.
  A quel tempo avevo dodici anni e vivevo con mia madre in una piccola casa nelle Ardenne vicino al confine belga-tedesco. Prima della guerra mio padre aveva usato quella casetta per andare a caccia nei fine settimana.
  Poi, quando i bombardamenti su AAchen, la nostra città, divennero sempre più pesanti, ci fece trasferire lì. Quanto a lui, era stato richiamato per svolgere un servizio nella contraerea di Monschau, una cittadina di confine a sei chilometri di distanza da noi.

 Un posto sicuro?
  "Nei boschi starete al sicuro", mi aveva detto mio padre.
  "Prenditi cura della mamma. Ormai sei un uomo."
  Ma una settimana prima il generale von Runstedt aveva sferrato l'ultima, disperata controffensiva tedesca della guerra, e mentre andavo ad aprire la porta intorno a noi infuriava la battaglia delle Ardenne.
  Quando bussarono, la mamma spense subito le candele. Poi, precedendomi, andò ad aprire la porta. Davanti a lei si stagliarono, sullo sfondo spettrale degli alberi innevati, le figure di due uomini con gli elmetti.
  Uno di loro cominciò a parlare alla mamma in una lingua che non capivamo, indicando un terzo uomo disteso sulla neve. Lei comprese prima di me che si trattava di americani.
  Nemici!
  La mamma era in piedi, con una mano sulla mia spalla, e taceva, incapace di muoversi.
  Gli uomini erano armati e sarebbero potuti entrare con la forza; ma non si muovevano e si limitavano a chiedere con gli occhi.
  Il ferito sembrava più morto che vivo.
  "Entrate", disse infine mia madre. I soldati portarono il loro compagno in casa e lo misero sul mio letto.
  Nessuno di loro parlava tedesco.
  La mamma tentò con il francese, e in questa lingua riuscì in qualche modo a comunicare con uno di loro.
  Prima di occuparsi del ferito, la mamma mi disse:
  "Le dita di quei due sono tutte irrigidite. Levagli la giacca e gli stivali e porta in casa un secchio di neve."
  Poco dopo stavo massaggiando con la neve le dita dei loro piedi, illividite dal freddo.
  Venimmo a sapere che quello di grado inferiore, con i capelli neri, era Jim. Il suo amico, alto e slanciato, si chiamava Robin. Harry, il ferito, adesso dormiva sul mio letto con un viso bianco come la neve che era fuori.
  Avevano perso la loro unità e da tre giorni vagavano nei boschi, sperando di trovare gli americani e cercando di sfuggire ai tedeschi. Non erano rasati, e tuttavia, senza i loro pesanti cappotti, sembravano poco più che ragazzi. E come tali la mamma li trattava.

 Uniformi molto familiari
  "Va' a prendere Hermann" mi disse la mamma, "e porta anche delle patate".
  Questo significava un cambiamento decisivo nel nostro programma di Natale. Hermann era un grosso pollo, chiamato così con riferimento a Hermann Göring, che mia madre non aveva molto in simpatia. Da settimane lo stavamo ingrassando nella speranza che il papà venisse a casa per Natale. Quando, poche ore prima, era diventato chiaro che non sarebbe venuto, la mamma aveva pensato che Hermann poteva rimanere in vita ancora un paio di giorni, nel caso che il papà fosse arrivato per Capodanno. Ma adesso aveva di nuovo cambiato idea: Hermann doveva svolgere un compito urgente.
  Mentre Jim ed io aiutavamo in cucina, Robin si occupava di Harry, che aveva preso una pallottola alla coscia ed era quasi dissanguato. La mamma strappò un lenzuolo e ne fece delle strisce per fasciare la ferita.
  Ben presto l'invitante profumo di pollo arrosto riempì la stanza. Stavo apparecchiando la tavola, quando bussarono di nuovo alla porta.
  Aspettandomi di vedere qualche altro americano smarrito, aprii senza esitazione. Di fuori c'erano quattro uomini in uniforme.
  Le loro uniformi, dopo cinque anni di guerra, mi erano molto familiari: soldati tedeschi.
  I nostri!
  Ero come paralizzato dallo spavento. Nonostante la mia giovane età conoscevo bene la legge: "Chi ospita soldati nemici commette tradimento della Patria".
  Potevamo essere tutti fucilati!
  Anche la mamma aveva paura. Il suo viso era bianco, ma uscì fuori e disse tranquillamente: "Buon Natale!" I soldati risposero: "Buon Natale!"
  "Abbiamo perso la nostra unità e vorremmo aspettare fino allo spuntar del giorno" spiegò il loro capo, un sottufficiale. "Possiamo rimanere da voi?"
  "Naturalmente" rispose la mamma con la calma della disperazione. "Potete anche avere un buon pasto caldo e mangiare fino a che ce n'è".

 In questa santa notte non si uccide!
  I soldati sorrisero, annusando con piacere il profumo che giungeva loro dalla porta semiaperta.
  "Ma" proseguì la mamma energicamente "abbiamo altri tre ospiti che forse voi non considerate proprio come amici."
  La sua voce era diventata improvvisamente severa come mai l'avevo sentita. "Oggi è la sera di Natale e qui non si spara."
  "Chi c'è là dentro?" chiese bruscamente il sottufficiale, "Americani?"
  La mamma li guardò in faccia uno per uno. Erano facce irrigidite dal freddo.
  "State bene a sentire" disse lentamente "voi potreste essere miei figli come quelli che sono là dentro. Uno di loro è ferito e sta lottando per la vita. I suoi due compagni sono smarriti, affamati e stanchi come voi. In questa notte", e alzò la voce rivolgendosi direttamente al sottufficiale, "in questa santa notte non si pensa ad uccidere!"
  Il sottufficiale la fissò. Per due o tre interminabili secondi regnò il silenzio.
  Poi la mamma pose fine all'incertezza. "Basta parlare!" disse, e batté le mani. "Posate le armi là, sulla cesta, e fate presto, se no quelli là dentro mangiano tutto".

 Un'atmosfera un po' tesa
  I quattro soldati posarono storditi le loro armi sulla cesta della legna in corridoio: due pistole, tre carabine, un MG leggero e due lanciarazzi anticarro. Nel frattempo la mamma si mise a parlare frettolosamente in francese con Jim.
  Questi disse qualcosa in inglese e vidi con meraviglia che anche gli americani consegnavano le loro armi alla mamma.
  Quando i tedeschi e gli americani si ritrovarono imbarazzati spalla a spalla nella piccola stanza, la mamma era completamente a suo agio. Sorridendo assegnò ad ognuno il suo posto.
  Avevamo solo tre sedie, ma il letto della mamma era grande. Lì mise a sedere due degli ultimi arrivati, vicino a Jim e a Robin.
  Poi riprese a cucinare, senza fare caso all'atmosfera tesa.
  Nel frattempo però Hermann non era diventato più grande, e adesso avevamo quattro persone in più a tavola.
  "Presto" mi sussurrò "vai a prendere ancora qualche patata e un po' di fiocchi d'avena . I ragazzi hanno fame, e quando lo stomaco brontola si diventa nervosi."

 Un nemico che ha bisogno di cure
  Mentre saccheggiavo la dispensa, udii Harry gemere.
  Tornando nella stanza vidi che un tedesco si era messo gli occhiali e si era chinato a guardare la ferita dell'americano.
  "Lei è un medico?" chiese la mamma. "No" rispose "ma fino a qualche mese fa studiavo medicina a Heidelberg."
  Poi spiegò all'americano, in un inglese che a me parve molto fluido, che la ferita di Harry a causa del freddo non si era infettata.
  "Ha soltanto perso molto sangue" disse alla mamma. "Adesso ha solo bisogno di riposo e di cibo sostanzioso."
  La tensione cominciava ad allentarsi. Adesso che sedevano vicini l'uno all'altro, i soldati apparivano giovani anche a me. Heinz e Willi, tutti e due di Colonia, avevano sedici anni.
  Il sottufficiale, con i suoi ventitré anni, era il più anziano. Tirò fuori dalla bisaccia una bottiglia di vino rosso e Heinz trovò una pagnotta di pane nero che la mamma tagliò a fette.
  Adesso potevamo metterci a tavola. Quanto al vino, però, la mamma ne mise da parte un po'. "Per i feriti", disse.

 Commozione durante la preghiera
  Poi la mamma disse la preghiera.
  Vidi che aveva le lacrime agli occhi quando pronunciò le tradizionali parole: "Komm, Herr Jesus, sei Du unser Gast..." ("Vieni, Signore Gesù, sii Tu nostro ospite...").
  E quando mi guardai intorno vidi che anche gli occhi di quei soldati stanchi della guerra erano umidi.
  Erano tornati bambini, gli uni dall'America, gli altri dalla Germania, e tutti lontani da casa.
  A mezzanotte la mamma si diresse verso la porta e ci invitò ad uscire per andare a vedere la stella di Betlemme. A parte Harry, che dormiva tranquillamente, eravamo tutti in piedi vicino a lei. E in quel momento di pace, mentre guardavamo Sirio, la stella più luminosa nel cielo, a tutti noi la guerra sembrò molto lontana, quasi dimenticata.

 Solidarietà tra nemici
  La nostra privata tregua d'armi continuò anche il giorno dopo.
  Nelle ultime ore della notte Harry si era svegliato, borbottando assonnato, e la mamma gli aveva somministrato un po' di brodo. Allo spuntar del giorno si poteva già vedere che aveva riacquistato un po' di forze.
  Frullando il nostro unico uovo insieme con il resto del vino e un po' di zucchero, la mamma gli preparò una bevanda rinforzante. Noi altri mangiammo dei fiocchi d'avena.
  Poi, con due bastoni e con la migliore tovaglia della mamma, si costruì una barella per Harry.
  Il sottufficiale tedesco mostrò agli americani, chinati sulla carta di Jim, come potevano tornare al loro battaglione.
  In questo stadio della guerra i tedeschi si mostrarono straordinariamente ben informati.
  Il sottufficiale mise il dito su un torrente.
  "Seguite questo" disse. "A Oberlauf troverete il 1o battaglione che adesso si sta ricostituendo".
  Il medico tradusse tutto in inglese.
  "Ma non possiamo passare da Monschau?" chiese Jim.
  "Per amor del cielo, no!" gridò il sottufficiale. "Monschau l'abbiamo ripresa noi."
  La mamma ridiede a tutti le loro armi. "Siate prudenti, ragazzi", disse. "Spero che un giorno potrete tornare tutti dove è giusto che andiate: a casa. Dio vi protegga tutti!"
  I tedeschi e gli americani si diedero la mano, e noi li seguimmo fino a che sparirono in direzioni opposte.
  Quando rientrai a casa vidi che la mamma aveva tirato fuori la vecchia Bibbia di famiglia.
  Guardai sopra le sue spalle.
  Il libro era aperto sul racconto di Natale dove si parla della nascita nella mangiatoia e dei magi che venivano da lontano per portare dei doni.
  Il suo dito scivolò sulle righe: "… e tornarono al loro paese per un'altra via."

(Da "Die Botschaft", dicembre 1999 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



    L'anima mia è attaccata alla polvere
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.
Dal Salmo 119      

    --> Predicazione
 L'anima mia è attaccata alla polvere
Marcello Cicchese
19 luglio 2018


 


I cristiani ancora in esilio perché aiutarono Israele

Crearono il Libero Stato e combatterono l'Olp. Ma dopo il ritiro israeliano divennero reietti

di Marco Valle

Il Libano è una nazione piccola e deliziosa ma tormentata. Vaso di coccio tra i vasi ferro, il Paese dei cedri da decenni rimane sospeso in una parentesi di «non guerra» e «non pace». L'equilibrio, sempre precario, tra comunità e fedi si regge su una serie di compromessi e tanta corruzione. Un buco nero che ha arricchito a dismisura un ceto politico rapace quanto inetto e ha finito per scatenare lo scorso ottobre la rabbia dei pazienti e molto disincantati beirutini provocando le dimissioni del primo ministro Saad Hariri. Si tratta di una protesta di popolo trasversale e multiconfessionale, del tutto inedita per un Paese uscito da una lunga guerra civile e tutt'oggi imperniato su una rigida spartizione dei poteri in base alle confessioni (il presidente deve essere cristiano, il premier sunnita, il capo del Parlamento sciita). Insomma, i massimi responsabili del collasso hanno ricostruito, loro malgrado, una traccia d'identità nazionale.
A fine novembre, per tentare di calmare le piazze il presidente della Camera Nahih Berri, ha proposto una vasta amnistia comprendente gli estremisti sunniti, i narcotrafficanti sciiti e (guarda caso) i «colletti bianchi» implicati nelle frodi fiscali e nel riciclaggio di denaro sporco. Insomma, una sorta di «liberi tutti» con una sola, significativa, eccezione: i reduci dell'Armée du Liban-Sud (ALS), la milizia cristiana fondata da Saad Haddad nel 1976. La questione è spinosa per tutti. Lo scorso 4 settembre è rientrato a Beirut, dopo un lungo esilio negli Stati Uniti, Amer Fakhoury, uno dei comandanti dell'ALS condannato a 15 anni per collaborazionismo con Israele. Appena atterrato l'uomo è stato arrestato e la sua pena è stata subitamente allungata di cinque anni per «crimini contro l'umanità» e a nulla è valso l'appello alla clemenza lanciato dai deputati cristiani della Courant patriotique libre - un cartello sostenuto dalle Forces Libanaise di Samir Geagea e dal Kataéb dei Gemayel - che nel 2011 avevano fatto approvare una legge (mai applicata per il veto di Hezbollah) che prevedeva processi equi per i miliziani che rientravano e assicurava garanzie alle loro famiglie.
   Resta così aperto il pluridecennale nodo dei circa 7500 cristiani libanesi che per vent'anni hanno combattuto sulla frontiera meridionale a fianco d'Israele, prima contro le formazioni palestinesi e poi contro Hezbollah. Costretti, dopo il ritiro di Tsahal nel 2000, ad abbandonare il Libano, gran parte di loro vive da allora nello Stato ebraico che ha concesso a questa piccola tribù di «soldati perduti» e ai loro familiari cittadinanza e passaporti; faticosamente integratisi nel contesto israeliano, gli antichi militari svolgono per lo più attività nella sicurezza privata o si sono riciclati come agricoltori e, con l'aiuto della chiesa maronita di Haifa, cercano di conservare la loro identità, le loro tradizioni senza rinunciare a una malinconica fierezza. Elias Noura, uno dei rappresentanti della comunità, continua a difendere le scelte del passato. «Nella nostra regione non vi sono "traditori". Noi siamo soltanto gente che ha imbracciato le armi per difendere i nostri villaggi. Poi, alla fine della guerra, i vincitori hanno potuto decidere chi era un traditore e chi no, chi poteva parlare e chi doveva tacere».
   Tutto iniziò nel 1975 con lo scoppio della guerra civile e lo smembramento dell'esercito libanese divisosi tra sunniti pro palestinesi (I' Armée du Liban arabe) e cristiani filo occidentali (I' Armée de libération libanaise ); al sud il maggiore greco-cattolico Saad Haddad e il suo battaglione si unirono ai loro correligionari con l'obiettivo di liberare le province meridionali dai fedayn palestinesi: considerati i rapporti di forza uno scontro impari e dall'esito scontato. Per sopravvivere Haddad, personaggio pragmatico e realista, si rivolse allora a Israele, il «nemico storico», che da subito non lesinò aiuti agli imprevisti quanto provvidenziali alleati. La vera svolta arrivò nella notte tra il 14 e il 15 marzo 1978 quando Gerusalemme lanciò un'invasione in piena regola che si fermò a quaranta chilometri sopra la frontiera, sulle rive del fiume Litani. Formata una «zona di sicurezza», gli israeliani ne affidarono il controllo proprio a Haddad che nell'aprile proclamò la creazione dello «Libero Stato del Libano», ribattezzando il suo piccolo esercito, rimpolpato da volontari drusi e sciiti, Armée du Liban-Sud. Nel giugno 1982 i miliziani parteciparono all'ennesima invasione israeliana contro l'OLP di Arafat e arrivarono sino alle porte di Beirut. Una vittoria brevissima. L'assassinio, il 14 settembre, di Bachir Gemayel, presidente della Repubblica e leader del Kataéb, infranse i sogni dei cristiani e privò i «sudisti» di un alleato di peso. Nel 1984, morto Haddad, il comando dell' ALS passò al generale Antoine Lahad; nel 2000 il nuovo ministro israeliano Ehud Barak decise di disimpegnarsi dal Libano meridionale: la fine della milizia e del «Libero Stato».
   Per evitare rappresaglie e vendette, Lahad e i suoi si rifugiarono in Israele e in Francia. Un esilio amaro e senza fine. Considerati in patria «traditori e collaborazionisti» e puntualmente esclusi da ogni possibile amnistia, i più si sono adattati alla loro nuova vita pur continuando, come Noura, a rivendicare il loro patriottismo: «Noi siamo come i curdi abbandonati dagli americani. Abbiamo difeso la nostra terra e avevamo una sola bandiera, la nostra. Israele alla fine ci ha venduto a Hezbollah per i suoi interessi, con il tacito accordo dell'Occidente. Abbiamo pagato il prezzo ma non siamo dei rinnegati».

(Giornale ControStorie, 22 dicembre 2019)


Nuovo accordo di collaborazione con l'Università di Tel Aviv

ROMA - Si aprono nuove opportunità di cooperazione tra le istituzioni israeliane e "Tor Vergata", sia in abito di formazione che di ricerca scientifica.
Il Rettore dell'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata", prof. Orazio Schillaci, ha incontrato S.E. Dror Eydar, Ambasciatore di Israele in Italia.
Nell'occasione è stato controfirmato un nuovo accordo di collaborazione con Tel Aviv University e si è discusso di tematiche scientifiche di comune interesse e di opportunità di cooperazione tra le istituzioni israeliane e "Tor Vergata", sia in abito di formazione (scambio studenti e sviluppo di programmi congiunti) che di ricerca scientifica, con particolare focus sull'intelligenza artificiale, medicina di base, archeologia ed arte, innovazione ed ecosistema.
Piena disponibilità da parte dell'Ambasciata per supportare il rafforzamento delle collaborazioni tra l'Ateneo di "Tor Vergata" e le Università israeliane.

(Tor Vergata, 21 dicembre 2019)



La Corte penale internazionale vuole processare Israele e chiude entrambi gli occhi su Hamas

di Mattia Roncalli

Ieri il procuratore dell'International Criminal Court Fatou Bensouda ha consegnato un documento di oltre 100 pagine con il quale chiede alla Pre-Trial Chamber l'autorizzazione ad aprire un procedimento internazionale per crimini di guerra contro Israele.
   I fatti contestati si riferiscono ovviamente al conflitto israelo-palestinese ed in particolare a tre circostanze: l'operazione "Protective Edge" condotta dall'IDF nella Striscia di Gaza nel 2014, il trasferimento di civili in Cisgiordania e gli avvenimenti legati alle Marce del Ritorno dal 2018 ad oggi lungo il confine con Gaza.
   Nel documento si riprendono le vicende storiche e non si manca di sottolineare più volte lo status di Israele come potenza occupante.
   Occupante non solo della Giudea e Samaria ma anche della Striscia di Gaza, nonostante il ritiro unilaterale del 2005. Questo perché "Israele manterrebbe un effettivo controllo marittimo, aereo e terreste e avrebbe imposto dal 2007 un embargo su tale territorio". Anche se è assolutamente legittimo che Israele voglia controllare accessi ed uscite da un territorio pieno di gente che vorrebbe compiere attentati contro i suoi cittadini. E peccato che anche l'altro confinante, l'Egitto, attui la medesima politica verso Gaza, in quanto non vuole avere a che fare con le organizzazioni terroristiche che dominano la Striscia.
   Formalmente la richiesta dell'apertura del procedimento contro Israele appare quanto meno bizzarra. Il procuratore utilizza la maggior parte del documento per giustificare la correttezza della richiesta, ovvero cercare di dimostrare l'esistenza dello Stato palestinese. Infatti un giudizio presso la ICC può svolgersi solo se almeno uno dei due interessati è stata parte del Trattato della Corte.
   Secondo i parametri del diritto internazionale la Palestina non sarebbe uno Stato, in quanto mancano i requisiti del territorio definito e di una sovranità effettiva sui determinati territori. Per lo Statuto della Corte invece sì, in quanto la Palestina è stato parte dal 2015. Lo stesso procuratore definisce moltissime volte i suddetti come Territori Palestinesi Occupati. Ma come, se sono occupati come fanno ad essere effettivamente amministrati da un Governo sovrano, verrebbe da chiedersi. Un controsenso evidente.
   Il merito della richiesta è ancora più imbarazzante. Una narrazione a senso unico dei crimini dello stato ebraico, senza mai guardare dall'altra parte della barricata. Una sola volta il procuratore sembra accorgersi e dichiara che "anche alcuni atti di Hamas e delle fazioni palestinesi potrebbero essere rilevanti". Potrebbero. Lanciare migliaia di razzi dal 2014 ad oggi contro cittadini del sud di Israele, beffandosi del criterio di distinzione tra civili e obiettivi militari, è derubricabile ad un "probabile crimine di guerra". Invece Israele, secondo l'Onu, dovrebbe lasciare i propri soldati al confine come bersagli mobili senza che essi possano rispondere al lancio di pietre, molotov e bombe. Non dovrebbe agire in risposta al lancio di razzi e forse, verrebbe da pensare, non dovrebbe nemmeno esistere.
   A questo atto sconsiderato della signora Bensouda hanno già risposto il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro degli esteri Katz definendo la richiesta come una mossa solamente politica volta ad attaccare lo Stato ebraico e mossa dall'unico desiderio di dichiarare come crimine di guerra l'esistenza degli ebrei nella loro terra d'origine. L'AG israeliano ha inoltre dichiarato che la Corte penale internazionale non ha nessuna giurisdizione in materia, per le medesime ragioni che ho descritto prima.
   "Israele non è uno stato parte della CPI. Siamo fermamente contrari a questa indagine ingiustificata che prende di mira ingiustamente Israele. Il percorso per una pace duratura è attraverso negoziati diretti", ha commentato il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. E l'Unione europea? E l'Italia?

(Atlantico, 21 dicembre 2019



Gas: Leviathan inizierà a produrre il 23 dicembre

Il ministro dell'energia israeliano Yuval Steinitz ha firmato all'inizio di questa settimana i permessi necessari per l'esportazione di gas naturale da Israele all'Egitto.

Dovrebbe essere lunedì 23 dicembre il giorno di avvio di produzione del più grande giacimento di gas naturale d'Israele, il Leviathan. Ad annunciarlo è stato il ministero dell'energia israeliano dopo che un tribunale di Gerusalemme ha revocato un'ingiunzione di stop per problemi di emissioni.

 Ingiunzione di stop revocata
  Secondo quanto riportato da Reuters e dalla stessa azienda che si sta occupando dello sfruttamento del giacimento, la Delek Drilling, il tribunale distrettuale di Gerusalemme aveva concesso un divieto temporaneo di avvio dell'impianto sul campo Leviathan per problemi legati alle emissioni di gas. Questo ha sostanzialmente messo il progetto in stand-by, ma negli ultimi giorno lo stesso tribunale ha revocato l'ingiunzione, motivandola con "l'assenza dei necessari presupposti", ha riferito appunto la Delek Drilling, uno dei partner del progetto. La Corte ha comunque fissato un'ulteriore udienza affinché i firmatari della petizione possano portare prove a sostegno della pericolosità delle emissioni.

 Il ministero dell'energia ha dato il via libera
  Il ministero dell'Energia israeliano ha quindi annunciato l'avvio dello sfruttamento del giacimento gas già per lunedì, aggiungendo che ci saranno limitate emissioni di azoto e di azoto miscelato con il gas, e che il cambiamento nella qualità dell'aria non sarà percettibile.
Un funzionario di Noble Energy, l'altro operatore di Leviathan, aveva dichiarato a inizio di dicembre che il giacimento sarebbe entrato in produzione entro tre settimane e poco dopo sarebbero iniziate le esportazioni verso Egitto e Giordania.

 La scoperta del Leviathan
  Il Leviathan - scoperto nel 2010 - insieme ad altri giacimenti al largo di Israele nell'ultimo decennio come Tamar, Karish e Tanin, dovrebbe aiutare Israele a diventare indipendente dal punto di vista energetico. Israele inizierà presto ad esportare gas naturale verso l'Egitto. I due paesi, che quest'anno celebrano i 40 anni dalla firma del trattato di pace del 1979, hanno fatto significativi passi in avanti nelle loro industrie del gas negli ultimi anni e sono in competizione per diventare il prossimo polo energetico del Mediterraneo orientale.

 Steinitz ha firmato il via libera all'export di gas verso l'Egitto
  Il ministro dell'energia israeliano Yuval Steinitz ha firmato all'inizio di questa settimana i permessi necessari per l'esportazione di gas naturale da Israele all'Egitto. "Israele, per la prima volta nella sua storia, è diventato un esportatore di energia - questa è la più significativa cooperazione economica tra i due paesi da quando è stato firmato il trattato di pace", ha detto Steinitz.

(EnergiaOltre, 21 dicembre 2019)



La Turchia sta diventando il prossimo nemico d'Israele

Il regime Turco sta seguendo le orme di Teheran, considerando Israele un irriducibile nemico.

di Franco Leaf

La Turchia è diventata un membro attivo dell'asse anti-Israeliano guidato dall'Iran — pur mantenendo la sua indipendenza nelle operazioni contro lo Stato Ebraico, visto che ha esteso la collaborazione con Hamas [l'Iran è sciita, Hamas è sunnita].
Dopo essersi scagliato contro Israele (la scorsa settimana, in occasione di una conferenza dell'"Organizzazione per la Cooperazione Islamica"), accusata di "uccidere senza pietà ragazze, padri, madri, anziani, bambini e giovani innocenti per le strade della Palestina", il dittatore turco ha incontrato il leader di Hamas, Ishmail Haniyeh, ed altri funzionari apicali dell'organizzazione terroristica.
Haniyeh, assieme ad altri leader di Hamas (fra i quali l'arciterrorista Saleh al-Arouri, che ha sulla testa una taglia da 5 milioni di dollari), sta attualmente facendo un lungo tour che lo ha portato prima in Turchia e poi in Qatar, Malesia e Pakistan.
Lo scorso fine settimana Erdogan ha incontrato Haniyeh a Istanbul, promettendogli di continuare a "sostenere i nostri fratelli in Palestina".
Questo, nonostante nel 2015 avesse stretto un accordo con Israele, che lo impegnava a reprimere le attività terroristiche di Hamas organizzate sul suolo turco (e dirette contro lo Stato Ebraico).
Il quotidiano britannico The Telegraph ha ottenuto la trascrizione degli interrogatori della polizia israeliana, dove c'è scritto che: "alti agenti di Hamas stanno usando la più grande città della Turchia per dirigere operazioni terroristiche a Gerusalemme e nella Cisgiordania occupata, incluso un tentativo di omicidio effettuato all'inizio di quest'anno contro il Sindaco di Gerusalemme".
Il Telegraph si riferiva all'ex Sindaco di Gerusalemme e attuale Deputato del Likud Nir Barkat, che si era costruito una reputazione da "cacciatore di terroristi" durante il suo mandato di Sindaco.
Erdogan ignora le frequenti richieste d'Israele, volte ad impedire che Hamas usi la Turchia come base per attacchi terroristici contro lo Stato Ebraico.
Egli, infatti, consente al gruppo islamico-sunnita di mantenere una presenza permanente nel suo paese.
Secondo i servizi segreti Egiziani ed Israeliani una dozzina di alti funzionari di Hamas hanno trasferito i loro uffici in Turchia solo nello scorso anno.
Un arabo palestinese di Gaza, ha dichiarato al quotidiano britannico che: "molti leader di Hamas vanno ad Istanbul con le loro famiglie e i loro bambini. Perché i leader di Hamas lasciano Gaza, quando la gente che ci vive non ha né lavoro né servizi?".
In effetti, per coloro che ci restano la situazione è decisamente peggiore.
Nel giugno di quest'anno Suheib Yousef — figlio del leader spirituale di Hamas, Hassan Yousef, e fratello di Musab Yousef, che ha disertato e lavorato per il Servizio d'Intelligence Israeliano Shin Beth — ha denunciato le attività terroristiche di Hamas in Turchia, riferendo di una diffusa corruzione fra gli agenti di Hamas che vivono in quel Paese.
Il cosiddetto "ramo politico" di Hamas, in Turchia, è in realtà un'organizzazione sia d'Intelligence che militare sotto copertura della società civile — ha detto Suheib a Ohad Hemo dell'israeliano "TV Channel 12".
I due si sono incontrati nella Moschea di un paese asiatico, dopo che Suheib ha deciso di lasciare anche Hamas e la Turchia per cercare rifugio in Asia.
Erdogan si considera "patrono unico" degli arabi-palestinesi e Leader dei musulmani sunniti in Medio Oriente.
Negli ultimi mesi ha ripetutamente inveito contro Israele, paragonandola alla Germania nazista, mentre elaborava mosse aggressive che hanno finito per destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente, sollevando dubbi anche sull'adesione della Turchia alla NATO.
La scorsa settimana Erdogan ha firmato un "protocollo d'intesa" (MOU) con il Governo Libico sulle zone marittime del Mediterraneo Orientale, praticamente spartendosele in due.
La mossa ha aggravato le già alte tensioni nella regione e ha suscitato l'ira di Egitto, Israele, Grecia e Cipro.
Dopo aver concluso l'accordo con il Governo Libico — peraltro l'unico riconosciuto dalle Nazioni Unite — Erdogan ha chiarito che non avrebbe permesso ad Israele di costruire un gasdotto verso l'Europa, decisivo per le esportazioni di gas israeliano.
Dopo l'entrata in vigore del "protocollo d'intesa", il Governo Turco ha convocato un Funzionario dell'Ambasciata Israeliana al quale è stato detto che la costruzione del gasdotto richiedeva l'approvazione di Erdogan.
All'inizio di questa settimana una nave della marina turca ha attaccato una nave israeliana che conduceva ricerche su possibili giacimenti di gas nelle acque costiere di Cipro, costringendola a lasciare quella zona nonostante fosse operativa in tandem con le autorità cipriote.
La Turchia occupa illegalmente Cipro Settentrionale e non ha diritti economici nelle acque circostanti Cipro. Il Governo di Nicosia, inoltre, ha firmato un accordo di cooperazione con Israele per la ricerca di ulteriori giacimenti di gas vicino all'isola.
"I turchi stanno cercando di affermarsi come coloro che tirano le fila dello spettacolo, e questo è molto preoccupante" — ha detto anonimamente un Funzionario Israeliano al "TV Channel 12" di Israele.

(MITTDOLCINO.COM, 21 dicembre 2019)


L'ultima vergogna dell'Onu: indaga Israele perché si difende

Il tribunale che sta dalla parte dei terroristi. La corte penale dell'Aja apre un fascicolo per crimini di guerra su richiesta dei palestinesi. Netanyahu si infuria: una decisione priva di basi giuridiche.

di Maurizio Stefanini

La Corte Penale Internazionale dell' Aja ha aperto una inchiesta per "crimini di guerra" nei territori palestinesi. «Sono convinta che vi sia una base ragionevole per avviare un'indagine sulla situazione in Palestina ai sensi dell'articolo 53-1 dello Statuto. In sintesi, sono convinta che crimini di guerra sono stati o vengono commessi in Cisgiordania, in particolare a Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza», ha annunciato la procuratrice capo Fatou Bensouda.
  Immediata e dura la risposta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, secondo cui questa «decisione senza basi e oltraggiosa» rappresenta «un giorno nero per la verità e la giustizia», che «ignora la storia e la verità quando sostiene che l'atto stesso che gli ebrei vivano nella loro patria ancestrale, la terra della Bibbia, sia un crimine di guerra». «Non rimarremo in silenzio», ha proseguito Netanyahu, ribadendo che «la Palestina non è mai stata uno Stato». Secondo lui «la Corte non ha giurisdizione in questo caso. La Corte ha giurisdizione solo sulle petizioni proposte da stati sovrani. Ma qui non c'è mai stato uno Stato palestinese». Insomma, il Procuratore avrebbe «cambiato la Corte in uno strumento politico per delegittimare lo Stato di Israele. Il Procuratore ha completamente ignorato gli argomenti legali che le abbiamo presentato».

 Partigiani islamici
  La decisione è stata invece accolta con soddisfazione dal ministro degli Esteri del governo dell'Anp come «un passo da lungo tempo atteso».
  Cognome arabo per via del matrimonio con un imprenditore di origine marocchina, Fatou Bensouda si chiama però per nascita Fatou Nyang. Comunque è musulmana, e figlia di un padre poligamo, che faceva l'autista e il manager di wrestling. Lei in Africa è un personaggio abbastanza noto. Laureata in Nigeria, prima gambiana esperta in diritto marittimo internazionale grazie a un master conseguito a Malta, ha lavorato con il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, è stata indicata tra le 100 persone più influenti del mondo da Time, tra le 100 donne più importanti dalla Bbc, come quarta persona più influente della società civile africana da Jeune Afrique e anche come Africana dell'anno del 2014 dalla rivista togolese Africa Top Success.
  Però è anche un personaggio contestato. È stata infatti tra 1998 e 2000 ministro della Giustizia di Yahya Jammeh: personaggio che dopo essere andato al potere con un colpo di Stato si fece una fama di dittatore feroce e corrotto, dichiarò il Paese Repubblica Islamica e ci vollero 23 anni prima che fosse sloggiato da una spedizione militare di Paesi della regione, intervenuti in seguito a un'ondata di profughi seguita a un suo ennesimo broglio elettorale. E prima di andarsene, comunque, svuotò le casse dello Stato.

 Senza visto
  Gli Stati Uniti inoltre a aprile le hanno revocato il visto, dopo che lei aveva aperto un esame preliminare su eventuali crimini di guerra commessi dalle truppe statunitensi in Afghanistan. In effetti gli Usa non sono membri della Corte, e un figlio di Fatou è stato ucciso a colpi di arma da fuoco negli Usa nel gennaio del 2017, dopo essere stato incriminato per possesso di armi da fuoco con numeri di serie obliterate e per spaccio di cocaina.

(Libero, 21 dicembre 2019)


Così Israele vuole normalizzare i rapporti con il mondo arabo

di Laura Cianciarelli

L'esistenza dello Stato di Israele è una questione controversa e, ancora oggi, la maggioranza dei Paesi arabi in Nord Africa e Medio Oriente non ne riconosce la legittimità. Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa sta cambiando. Lo Stato ebraico ha infatti rivelato di intrattenere legami riservati con alcuni Paesi del mondo arabo.
  Attualmente, Israele sarebbe in contatto con sei Paesi arabi musulmani - verosimilmente Egitto, Giordania, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita -, con i quali starebbe cercando - secondo quanto dichiarato dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu - di "accelerare la normalizzazione dei rapporti".
  Dietro il processo di avvicinamento, la crescente instabilità regionale. Al generale senso di diffidenza, che contribuisce ad acuire le tensioni tra gli Stati mediorientali, si sono uniti il timore nei confronti dell'Iran, considerato un nemico comune, e la mancanza di una politica condivisa in materia di sicurezza. A spingere i Paesi del Golfo verso Israele, anche la politica di disimpegno adottata dagli Stati Uniti nella regione.
  Recentemente, anche da parte di Israele vi è stato un cambio di postura nei confronti degli Stati arabi. Finora, infatti, i leader israeliani hanno sempre visto nella pace con i palestinesi la chiave per instaurare un legame con il mondo arabo musulmano.Per Netanyahu, invece, l'unico modo per uscire dall'impasse è adottare la strategia inversa: costruire relazioni con i Paesi arabi per dare nuova linfa ai negoziati di pace con il popolo palestinese.

 Diplomazia economica
  Questo cambiamento passa anche dagli interessi economici. All'inizio di dicembre, Israele ha confermato la sua partecipazione all'Expo 2020 che si terrà a Dubai (ottobre 2020 - aprile 2021): un evento storico, se si considera che ufficialmente Israele ed Emirati Arabi Uniti non intrattengono relazioni diplomatiche.
  Negli ultimi anni, le due parti hanno intensificato i contatti, con incontri ai più alti livelli, nuove relazioni commerciali e competizioni sportive (ottobre 2018) fino ad arrivare al permesso di libera circolazione dei turisti israeliani a Dubai, in occasione dell'Expo.
  Sicuramente, un passo importante verso quella "normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi" evocata da Netanyahu, ma anche un primo tentativo di rendere pubbliche le relazioni tra le due parti, che ormai andrebbero ben oltre la questione della sicurezza regionale.

 Il gas naturale
  A legare a doppio filo Israele ai Paesi arabi, vi è anche l'esportazione di gas naturale. Grazie alla prossima entrata in attività (dicembre 2019) del giacimento di Leviathan - scoperto nel 2010 all'interno delle acque territoriali israeliane -, lo Stato ebraico avrà sufficienti risorse non solo per raggiungere l'indipendenza energetica, ma anche per trasformarsi in Paese esportatore di gas naturale.
  Egitto e Giordania - Paesi con i quali è in vigore un Trattato di pace - hanno già sottoscritto alcuni contratti per l'acquisizione di gas israeliano; accordi che potrebbero avere un effetto domino sulle strategie geopolitiche del Mediterraneo orientale.
  Pur esportando già il gas estratto dal giacimento di Tamar verso la Giordania, nel settembre 2016 lo Stato ebraico ha siglato con Amman un accordo del valore di 10 miliardi di dollari, che prevede la fornitura di circa 45 miliardi di metri cubi di gas per 15 anni, non appena il giacimento di Leviathan diverrà pienamente operativo.
  Proprio lunedì scorso (16 dicembre), il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, ha dato luce verde all'esportazione del gas proveniente dai giacimenti di Leviathan e Tamar in Egitto, concludendo "la più importante cooperazione economica tra i due Paesi dal Trattato di pace del 1979, secondo quanto dichiarato da Steinitz stesso.
  Nel febbraio 2018, Israele ha firmato un contratto da 15 miliardi di dollari con l'Egitto per la fornitura di 64 miliardi di metri cubi di gas in un decennio. Lo scorso ottobre, le due parti hanno concordato un incremento della fornitura fino a 85 miliardi di metri cubi di gas, che verranno esportati dai giacimenti di Tamar e Leviathan a partire dal 2020.
  Perfino l'Arabia Saudita sembrerebbe considerare l'ipotesi di acquistare gas naturale da Israele. Le due parti sarebbero in trattativa per costruire un nuovo gasdotto che potrebbe collegare il Regno saudita alla città israeliana di Eliat, sulle rive del mar Rosso. Sul tavolo anche la possibilità per Riad di allacciarsi all'oleodotto israeliano Eilat-Ashkelon, grazie al quale l'Arabia Saudita potrebbe esportare il petrolio in Europa e in altri mercati eludendo lo Stretto di Hormuz, al centro delle tensioni tra Stati Uniti e Iran.
  Non sembra trattarsi di una semplice convergenza di interessi, promossa da Israele e accettata di buon grado da alcuni Paesi arabi; quanto piuttosto di una operazione di diplomazia economica più sofisticata, con obiettivi regionali di medio-lungo periodo.

(Inside Over, 21 dicembre 2019)



L'Onu è illegale

 


Israele, la fabbrica delle serie tv

"Qui le storie sono globali appena nascono''. La tradizione letteraria dell'ebraismo è complice del fenomeno assieme alle condizioni geopolitiche: il conflitto è da sempre ingrediente fondamentale della drammaturgia. Nel Paese è più facile produrre e costa meno che altrove.

di Ariela Piatielli

TEL AVIV - Sulla lavagna della sala riunioni c'è scritto «Buongiorno. Guardiamo lontano», e attorno un collage di parole, con nomi di persone, e frecce che si rincorrono. Siamo a Tel Aviv, negli uffici di Keshet, il principale Media Group d'Israele, che nel produrre format si posiziona tra i primi 10 al mondo. Qui sono nate molte serie tv, da Hostages, When Heroes Fly, a Hatufim, poi diventata Homeland negli Stati Uniti e altrove. Mentre sullo schermo scorrono le immagini della versione di Hostages per l'India, per cui anche l'emittente Yes sta preparando il remake di Fauda, cerchiamo di capire il «miracolo» delle serie tv israeliane e il loro slancio internazionale.
  Sono passati 15 anni da quando lo sceneggiatore Hagai Levi ebbe l'idea di mettere in una stanza due sedie e due attori per In Treatment, trasmessa dall'emittente locale HOT e poi adattata in decine di Paesi, dando il via al successo globale della serie tv «made in Israel», «Nei miei progetti cerco di abbattere pregiudizi, e con In Treatment volevo sfatare alcuni miti sulla terapia psicoanalitica», ci spiega Levi, che quest'anno ha fatto per HBO Our Boys, una miniserie sulla storia del rapimento e l'uccisione di tre ragazzi israeliani e uno palestinese: «Quello che succede in Israele è sempre eccezionale. Ma il crimine di odio, come quello in Our Boys, succede ovunque: quindi la storia è universale», conclude Hagai.
  «Qui c'è gente che arriva da tutto il mondo, e l'obiettivo è produrre format che piacciano a tutti - spiega Kelly Wright che per Keshet è vice presidente alla distribuzione internazionale -. Il nostro pubblico è composto da varie identità culturali. Ciò fa sì che le serie siano di per sé già internazionali. Le storie sono globali appena nascono».
  Adesso negli Stati Uniti ci sono due grandi compagnie che vogliono riadattare When Heroes Fly: «Ebbi io l'idea di realizzarla - racconta Karni Ziv, ai vertici delle serie tv per l'emittente - , ho letto un libro, l'ho dato allo sceneggiatore Omri Givon, che è tornato da me dopo due settimane convinto di scriverla. La serie parla anche della guerra in Libano, ed Omri l'ha fatta da soldato, forse ha voluto scriverla anche per questo. Gli sceneggiatori israeliani hanno talento, scrivono storie personali, che hanno a che fare con loro stessi e con la società, ma noi qui facciamo televisione, quindi è importante che scrivano con una grammatica televisiva».

 Location di ogni tipo
  In questi giorni l'emittente HOT sta trasmettendo la nuovissima L 'Attaché, che inizia a Parigi durante l'attentato del Bataclan, basata sulla vera storia dello sceneggiatore e regista Eli Ben David, e negli United Studios di Herzliya si girano i nuovi episodi di Taagad, la storia di giovani soldati, in Israele andata in onda su Yes e di cui la Paramount ha già pronto un remake per gli Usa. «Israele è da molto tempo un'isola felice della serialità», commenta lo sceneggiatore Stefano Sardo, che ha scritto tra gli altri 1994 e l'adattamento di In Treatment per l'Italia. Lui è a Tel Aviv come mentore per un progetto di coproduzione Israele-Francia. «La grande tradizione letteraria dell'ebraismo è complice del fenomeno della serie israeliane-continua-, ma c'è anche il fatto che per le condizioni geopolitiche e socioculturali, è molto presente la dimensione del conflitto, ingrediente fondamentale della drammaturgia».
  Sulla strada per Gerusalemme, ci fermiamo a Beit Jimal, nota come la «Toscana d'Israele», dove si fa l'olio e si gira Palmach, una serie per ragazzi ambientata nel 1946: un gruppo di teenager ebrei lotta per la libertà, e si prepara nella Palestina del mandato britannico a dare filo da torcere agli inglesi; una storia di fantasia interpretata da ragazzini che si mescola a personaggi del calibro di Rabin, Begin e Shamir. «Ci sono ragioni oggettive alla base del successo nell'audiovisivo - dice Hila Pachter, vice presidente alle relazioni internazionali della Ananey Communications, che produce Palmach -. Produrre qui è più facile, e costa meno che altrove. In più da Nord a Sud il Paese offre location di ogni tipo, e il clima permette di girare tutto l'anno».
  Arrivati a Gerusalemme entriamo nella Ma'aleh School of Television, Film and Arts, ci studiano cinema i religiosi, gli ortodossi. Qui si è diplomato Ori Elon, che con Yehonatan Indursky ha creato e scritto Shtisel, la serie sugli ebrei ortodossi di Gerusalemme su piattaforma Netflix. Mentre una signora gli regala una rivista turca con in copertina il protagonista Michael Aloni, Elon ci spiega come sia possibile che un prodotto così radicato nella società israeliana possa aver conquistato un buon numero di spettatori internazionali: «Spesso è più facile vedere serie tv su cose che non conosci - dice - perché sei curioso e vuoi conoscere ciò che è diverso da te. Tutti qui sono stranieri, perché rutti sono diversi da te. Anche per questo Shtisel, in cui Gerusalemme è praticamente un personaggio, ha avuto successo»,
  In Israele ci sono circa venti scuole di cinema e tv, «un numero enorme in proporzione agli abitanti», commenta Laurence Herszberg, la direttrice di Series Mania, un prestigioso festival internazionale che si tiene in Francia e che per il terzo anno ha piazzato gli israeliani sul podio. «Oltre alla formazione, la ragione del successo di queste serie è la capacità del popolo ebraico di raccontare storie, - conclude - e il fatto che tutto quello che accade nel Paese è straordinario, quindi ogni evento diventa fonte di ispirazione».

(La Stampa, 21 dicembre 2019)



Gli ebrei e Napoli un legame iniziato duemila anni fa

Ritrovato un libro dello svizzero Munkàci pubblicato nel '39 che documenta una parte della storia di Napoli. Il primo insediamento all'Anticaglia nel I secolo dopo Cristo.

di Mario Avagliano

«Tu che vieni d'oltralpe a visitar l'Italia meridionale e Napoli, non limitarti al Museo Nazionale, a Pompei, ecc... le tracce del Ghetto di una volta sono ancora visibili. Il fuoco del Rinascimento giudaico, spento in Spagna, venne qui destato a nuova vita, qui venne stampato il primo libro in ebraico, qui visse e operò l'eminente personalità della vita spirituale ebraica, Don Jsak Abrabanel, qui la sua preziosa biblioteca divenne preda dei ladroni». Così scriveva nel 1939 Ernst Munkàcsi, ebreo svizzero, in un libro ormai introvabile, pubblicato a Zurigo da Die Liga col titolo, Der Jude von Neapel (L'Ebreo di Napoli), di cui una copia fa parte della straordinaria collezione sull'ebraismo dello svizzero-napoletano Gianfranco Moscati, scomparso l'anno scorso, che ha fatto tradurre l'originale testo in tedesco dalla professoressa Fanny Dessau Steindler.
   Il testo di Munkàcsi, curiosamente pubblicato nel 1939 (primo anno di applicazione in Italia delle famigerate leggi razziali) costituisce un documento storico e un vademecum ancora oggi eccezionale sulle testimonianze architettoniche ebraiche presenti a Napoli, oltre che un implicito invito, anche ai contemporanei, a valorizzarle. All'epoca del viaggio di Munkàcsi, la comunità ebraica a Napoli contava circa un migliaio di unità, che si ridussero a poco più di 500 dopo il secondo conflitto mondiale, fino alle attuali 160. La comunità ebraica di Napoli è tra le più antiche d'Italia. I primi insediamenti risalirebbero addirittura al I secolo d.C.. Un interessante lavoro di ricerca di Giancarlo Lacerenza, docente di lingua e letteratura ebraica all'Ilstituto Orientale di Napoli, dal titolo I quartieri ebraici di Napoli (Libreria Dante e Descartes, 2006), ha tracciato la storia della presenza in questa città degli ebrei, dislocati in particolare nel Vicus Iudaeorum all'Anticaglia, sull'altura di Monterone o di San Marcellino, e nelle zone di Forcella e di Portanova.
   A darci ulteriori elementi contribuisce la cronaca di viaggio di Munkàcsi: «Da ricerche laboriose nelle biblioteche — scrive lo svizzero — si ricava che nel X sec. nella vicinanza del monastero di San Marcellino vi vssero degli ebrei e si trovasse la loro casa di preghiera, cioè tra il Rettifilo e l'Università, nel Vico Duodecim Putea o Spoliamorte, che fu anche chiamato Vicus Iudeorum. Il vicoletto, esistente ancora oggi vicino a Donna Regina, quale vicolo Limoncello, proviene anch'esso da quell'epoca». In effetti il Vicus ludaeorum, nominato la prima volta in un documento del 1002, era un cardine dell'antica Neapolis. Esso collegava il decumano superiore alle mura settentrionali in prossimità di Porta San Gennaro. Lo studio di Lacerenza ipotizza che qui molto probabilmente sorgeva una sinagoga e potrebbero esservi stati ebrei già in età romana o tardoromana.
   Il racconto di Munkàcsi prosegue così: «Nel sec XII sappiamo già di tre insediamenti di ebrei. Oltre al Vicus Iudeorum essi abitavano accanto alla Chiesa S. Maria Portanova, nelle cui vicinanze un documento menziona nel 1165 una Schola Hebreorum. La piazza davanti si chiamava fino alla fine dell'epoca sveva Piazza Sinora, che potrebbe essere l'abbreviazione di sinagoga. Un altro documento menziona nel 1329 un Vico Sacannagiudei, che secondo alcuni potrebbe estere l'attuale vicolo Pace. Questo vicoletto si trova nelle immediate vicinanze della stazione, alla sinistra del Rettifilo, dietro il Duomo, nel cosiddetto quartiere Forcella». Verso la fine del XV secolo gli ebrei si trasferirono nelle vicinanze di S. Maria Portanova, insediandosi in quattro vicoli denominati «Giudecca Grande, Giudecca Piccola Vico Sinocia e Fondaco Giudeca». Inoltre «si costituì un altro quartiere ebraico vicino alla riva del mare che venne chiamato Giudichella del Porto».
   La scoperta che più appassiona Munkàcsi è però quella della Sinagoga che ospitò Jsak Abrabanel, il famoso pensatore, politico e filosofo, autore di importanti testi di commento alla Bibbia e padre di Leone Ebreo, desunta da una carta topografica del 1775 del principe Noja, conservata nell'Archivio di Stato della città. Alla fine del XV e al principio del XVI secolo il luogo di culto ebraico era locato nell'edificio che poi ospiterà la chiesa S. Caterina Spinacorona, in piazza Calam, non lontano dalla Giudecca di Portanova. Una individuazione che viene confermata anche dallo studio del professor Lacerenza.
   Nel 1939, nonostante i rimaneggiamenti di epoca barocca «per togliere i caratteri di sinagoga», le tracce dell'antica destinazione sono ancora presenti. L'emozione per Munkàcsi è forte. «Mi sedetti su una poltroncina di vimini e mi guardai attorno. Dunque questa era la sinagoga dei napoletani! Qui pregò Isacco Abrabanel! Qui si riunirono quella triste sera di autunno, prima di lasciare la loro patria e prender commiato dalla loro terra, in cui i loro padri avevano abitato dal tempo della distruzione del Santuario. E un quadro sorge dinanzi a me, quando nel VI sec. gli ebrei difesero la città contro le orde di Belisario e fecero scorrere sangue per il mantenimento del dominio dei Germani. Tutto questo non servì a nulla. Invano essi erano i primi abitanti, invano avevano sacrificato alla città i beni e il sangue; nell'anno 1541 dovettero lasciare con i loro beni la loro terra, divenuta loro matrigna».
   Parole scritte nel 1939, mentre in Italia e anche a Napoli il regime guidato da Mussolini iniziava a perseguitare gli ebrei. Parole che suonavano come un ammonimento a non ripetere gli errori della storia Un ammonimento che l'Italia fascista e dei Savoia avrebbe bellamente ignorato.

(Il Mattino, 21 dicembre 2019)


La nuova Rosa bianca

Ispirato dai fratelli Scholl, il "gruppo Belter" si schierò contro la Ddr. Tutti gli studenti pagarono un prezzo altissimo. Una storia sconosciuta.

di Giulio Meotti

Scuole e strade di tutta la Germania portano oggi i nomi dei fratelli Scholl, che il 22 febbraio 1943 furono giustiziati e il loro movimento, la "Rosa bianca", annientato. Nel carcere di Stadelheim a Monaco, Hans School, sua sorella Sophie e Christoph Probst furono condannati a morte e decapitati per "alto tradimento". Gli altri tre responsabili del gruppo, Willl Oraf, Alexander Schmorell e Kurt Huber, professore di Filosofia, vennero arrestati qualche mese dopo e giustiziati. Avevano distribuito volantini che incitavano alla resistenza contro il nazismo. Finita la guerra, in metà della Germania sorse un'altra dittatura e un'altra Rosa bianca si formò per protestare e pagò un prezzo altrettanto alto. Ma questa azione nella Ddr è pressoché sconosciuta.
"E' stata la schiavitù intellettuale dei due regimi totalitari a motivare la resistenza politica", ha scritto il rettore dell'Università di Lipsia, Franz Hauser. "Durante l'era nazionalsocialista, fu il gruppo Scholl a opporsi al sistema. I loro membri avrebbero pagato con la vita. Nella zona di occupazione sovietica e nella Ddr, molti studenti videro i fratelli Scholl come un modello di riferimento e si opposero attivamente al totalitarismo del Partito di Unità Socialista di Germania"…....

(Il Foglio, 21 dicembre 2019)


Omicidio Sarah Halimi: una sentenza intollerabile e per nulla casuale

di Ugo Volli

Sarah Halimi
Ci sono due forme o piuttosto stadi dell'antisemitismo, strettamente legate fra loro. La prima consiste in parole o opinioni: dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù e magari anche Maometto e per questo meritano una condanna eterna, come spesso hanno sostenuto autorevoli teologi cristiani e musulmani, che sono nemici dell'umanità (Tacito), che sono quinte colonne interne allo stato (Il Faraone del libro dell'Esodo), che rispettano solo le loro leggi e non quelle dello stato (il gran visir persiano Haman, nel libro di Ester), che la loro religione è il denaro (Karl Marx), che sono dei relitti insensati di un popolo che dovrebbe essere scomparso da tempo (Voltaire e Kant), che il solo modo di integrarli è tagliare loro la testa, che dominano il mondo (i "Protocolli"), che sono una razza aliena (Hitler), che ammazzano i bambini (i gesuiti e oggi i palestinisti), che avvelenano i pozzi, impoveriscono le nazioni, opprimono gli altri popoli e bestemmiano le loro religioni, che non sono cittadini leali, che rubano le terre altrui, che non hanno diritto a un loro stato, che non sono davvero ebrei ma turchi o unni (Shlomo Sand), che mentono sulla loro storia e non hanno nessun rapporto reale con la loro patria, che esagerano la Shoah e ne hanno fatto un'industria (tutti temi del palestinismo) eccetera eccetera.
  In sostanza, secondo la proposta di Sharansky, le tre "D": demonizzazione, delegittimazione, doppio standard. Sono opinioni, che pretendono in quanto tali di essere libere, anche se - guarda un po' - si rivolgono solo contro un popolo, quello ebraico e contro il suo stato, Israele. Molti, non solo all'estrema destra, ma anche nella sinistra che si pretende moderata e in ambienti cattolici impegnati, rifiutano di comprendere che l'ostilità preconcetta e indiscriminata contro Israele, così diffusa nelle loro file, è insieme causata dall'antisemitismo e ne costituisce la forma attuale. Avercela con Israele, hanno pontificato editorialisti e perfino sentenziato dei giudici (per esempio in Germania) può anzi essere una giustificazione per l'ostilità contro gli ebrei e perfino ad attacchi contro le sinagoghe.
  Poi ci sono le azioni: perseguitare gli ebrei, espropriarli, costringerli a portare un segno di riconoscimento perché tutti possano maltrattarli, imprigionarli nei ghetti, impoverirli e umiliarli in ogni modo, ucciderli uno a uno o in massa come fecero i popoli europei e musulmani per comunità, in alcuni casi per gruppi nazionali (in Spagna nel 1492, in Polonia ne 1648 in Arabia ai tempi di Maometto) o a livello globale e industriale, che è il terribile primato dei nazisti. Oggi queste pratiche continuano, con attacchi terroristici che vengono qualche volta (per esempio in qualche caso negli Stati Uniti) dai neonazisti, ma in grande prevalenza dai musulmani, sia col terrorismo che colpisce Israele (sempre animato da un sottofondo religioso antisemita) e con quello che agisce in Europa, soprattutto in Francia, con casi come la scuola di Tolosa, il mercato kasher di Parigi, il museo ebraico di Bruxelles, ecc. Per fortuna, dopo i terribili episodi dell'attacco al Tempio di Roma (9 ottobre 1982) e degli attentati di Fiumicino (nel 1973 e nel 1985) in Italia non vi sono stati attacchi clamorosi di questo tipo.
  Ma altrove sì, e bisogna notare che vi è una tendenza molto forte a negarne il nesso con il primo tipo di antisemitismo, per evitare di riconoscere la pericolosità delle "opinioni" contro gli ebrei, soprattutto se vengono da immigrati musulmani e loro discendenti.
  L'antisemitismo tradizionale di destra, quello che cita i "Protocolli", quello che è stato associato di recente ai nomi di Lannutti e di Castrucci, viene facilmente condannato, quello invece che cita il Corano e si scherma di antisionismo viene ignorato, minimizzato se non condonato. Peggio, anche i crimini di sangue, gli omicidi, insomma l'antisemitismo pratico e operativo, viene ignorato: viene nascosto o negato il legame che sempre ha con l'antisemitismo delle "opinioni" e talvolta viene perdonato anche il crimine vero e proprio.
  E' la storia terribile di un caso, quello di Sarah Halimi, che ha appena concluso il suo percorso giudiziario, con uno scandaloso non luogo a procedere. La storia è stata raccontata più volte e la riassumo qui velocemente: il 4 aprile 2017 Sarah Halimi, ebrea francese di 65 anni, madre di tre figli, medico in pensione, fu picchiata a lungo con estrema violenza nel suo appartamento, poi gettata dalla finestra e così uccisa da un suo vicino che le era entrato in casa, Kobili Traoré , 27 anni, musulmano fanatizzato originario del Mali, che dopo l'omicidio urlò, secondo molte testimonianze non smentite, il grido "Allah u akbar" di tutti i terroristi musulmani (che in realtà è una rivendicazione di fede diffusissima nell'Islam) e rivendicò di aver ucciso "Satana". Non vi sono mai stati dubbi sulla dinamica dell'omicidio e neppure sulla sua natura antisemita, che del resto era stata provata anche da numerose minacce precedenti che l'assassino aveva fatto alla vittima. E' insomma un caso indubitabile di omicidio antisemita.
  Ma la giustizia francese, evidentemente riluttante a colpire questo crimine, ha trovato il modo di non condannare l'assassino, sostenendo che gli si doveva applicare l'infermità mentale, dato che aveva consumato dosi elevate di cannabis prima dell'assassinio. Che la droga sia un'attenuante, anzi un'esimente totale da un crimine efferato è un principio intollerabile. Come ha notato il Crif, organismo rappresentativo degli ebrei francesi, in molti casi come per esempio negli incidenti stradali, si tratta al contrario di un'aggravante. Non esiste nessuna legge che stabilisce che se qualcuno sceglie di drogarsi prima di una rapina o di un omicidio, questo debba renderlo irresponsabile. L'hanno deciso dei giudici (di primo grado a maggio scorso, d'appello pochi giorni fa) particolarmente sensibili alle "difficoltà" dell'assassino e indifferenti all'ingiustizia subita dalla sua vittima, "uccisa una seconda volta dalla giustizia", come ha commentato il figlio di Sarah Halimi. Da lontano, cercando di essere poco emotivi, si può solo dire che vi è una compromissione istituzionale profonda dello stato francese con l'antisemitismo, in perfetta continuità con il regime collaborazionista di Petain. Di questa sentenza gli ebrei europei devono chiedere conto non solo a giudici evidentemente non interessati a fare giustizia, ma allo stato francese e a tutta l'Europa politica, che ancora una volta non interviene a tutelare la vita dei propri ebrei, sprecando invece espressioni di inutile moralismo in occasioni rituali come la Giornata della Memoria.

(Progetto Dreyfus, 20 dicembre 2019)


A Noemi Di Segni la VII edizione del Premio "G. Filangieri"

La presidente U.C.E.I. ha ricevuto il prestigioso riconoscimento dal Rettore Alberto Capria. «Per i suoi costanti richiami alla necessità di istruzione ed educazione affiancata al doveroso rispetto di norme e leggi, anche non scritte, grazie al quale, ne siamo certi, il diritto vincerà sul delitto, la civiltà, la solidarietà e la democrazia sul triste clima di odio e violenza che, purtroppo, contraddistingue il nostro tempo».

di Francesco Marmorato

«Il segnalibro della storia sia sempre inserito nella pagina della Shoah». Il Rettore del Convitto "G. Filangieri" Alberto Capria, poco prima di consegnare il prestigioso premio, giunto alla settima edizione, alla presidente U.C.E.I. Noemi Di Segni, ha voluto ricordare nell'Aula Magna del Convitto le parole di Primo Levi, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti.
   All'evento sono intervenuti, tra gli altri, il procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, il Prefetto Francesco Zito, il sindaco della città Maria Limardo, l'ex Direttore USR Giuseppe Mirarchi, i ragazzi dl coordinamento regionale delle consulte degli studenti e l'assessore all'istruzione e alle politiche sociali di Vibo Valentia Franca Falduto. Alcuni alunni dell'Istituto hanno inoltre letto in un'Aula Magna gremita i principi fondamentali della Costituzione.
   Queste le motivazioni lette dal Rettore Capria: «Per i suoi costanti richiami alla necessità di istruzione ed educazione affiancata al doveroso rispetto di norme e leggi, anche non scritte, grazie al quale, ne siamo certi, il diritto vincerà sul delitto, la civiltà, la solidarietà e la democrazia sul triste clima di odio e violenza che, purtroppo, contraddistingue il nostro tempo».
   La presidente U.C.E.I. nel suo intervento ha voluto sottolineare che «l'ebraismo non è solo Shoah. È importante - ha spiegato - che voi abbiate modo di conoscere il racconto, la cultura, la storia ebraica anche per la parte luminosa che è l'ebraismo: le feste, il cibo, i matrimoni, l'allegria. E vorrei che non identificaste gli ebrei solo con la parola Shoah, perché il popolo ebraico è vivo oggi, è vissuto per secoli e millenni ed ha vissuto tante cose ed è importante che si conoscano anche questi lati di luce, allegri. È fondamentale conoscere la storia della Shoah, - ha concluso - ma non dobbiamo appiattire tutta l'esistenza ebraica solo sulla Shoah».

(Tropea e dintorni, 20 dicembre 2019)


Israele, rinnovabili avanti tutta

di Gian Marco Giura

Israele fa un altro passo in lavanti verso un maggiore utilizzo di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili approvando l'attivazione commerciale della centrale di Ashalim, nel deserto del Negev, che diventa così il più grande impianto a energia solare della nazione.
   «La centrale è composta da 360 pannelli solari con una produzione di 121 Megawatt» scrive il sito Israele. net. «Il vasto impianto, che si estende su più di 125 ettari, è stato edificato dalla società di costruzioni e ingegneria civile Solel Boneh e dalla Belectric, una società internazionale specializzata in tecnologia fotovoltaica in tutto il mondo, con un investimento finora di circa 600 milioni di shekel (più di 152 milioni di euro)».
   La centrale punta a fornire energia solare pulita alla rete della Israel Electric Corporation garantendo elettricità a circa 60 mila abitazioni israeliane.
   Con quest'iniziativa Israele conferma l'attenzione che dà allo sviluppo delle energie rinnovabili che stanno diventano sempre più importanti rispetto a quelle tradizionali. Lo scorso aprile, infatti, è stato raggiunto il livello massimo di energia verde prodotta da Israel Electric Corporation: 1.326 MW, pari al 19,3% della produzione totale di energia. Il record precedente era stato registrato nel mese di febbraio, quando la capacità produttiva aveva raggiunto il 16,4% della produzione totale di energia (circa 1.295 MW). «Sono orgoglioso di guidare il ministero dell'Energia che insieme all'Authority per l'energia elettrica ha contribuito a promuovere l'uso dell'energia solare per creare la più alta produzione di elettricità registrata nell'ultimo decennio», ha dichiarato Yuval Steinitz a YnetNews.

(MF, 20 dicembre 2019)


Nel 2020 anche i palestinesi torneranno alle urne?

di Futura D'Aprile

 
Hamas - Fatah
Sono passati 13 anni dalle ultime elezioni nei territori palestinesi: le stesse che segnarono la vittoria nella Striscia di Gaza del movimento Hamas e la rottura dei rapporti tra quest'ultimo e Fatah, il principale partito dell'Autorità Nazionale Palestinese. Da quel fatidico 2006 tutti i tentativi di giungere a una riconciliazione tra le parti e a nuove elezioni sono falliti, ma la situazione potrebbe cambiare presto.

 Nuove elezioni
  A ottobre del 2019, Mahmoud Abbas, presidente dell'Anp e leader di Fatah, ha invitato il Comitato elettorale centrale a iniziare i preparativi per le elezioni e a novembre tutte le fazioni palestinesi hanno dato il loro assenso al ritorno alle urne. Anche Hamas ha accettato l'idea di nuove consultazioni elettorali, nonostante i rapporti con l'Autorità continuino ad essere tesi e ben sapendo quali sono i rischi che corre nel rimettersi al giudizio della popolazione di Gaza proprio nel 2020, anno in cui la Striscia sarà dichiarata "invivibile" secondo le previsioni dell'Onu. I segnali che provengono dal mondo politico circa nuove elezioni sembrano positivi, ma dai sondaggi condotti tra la popolazione palestinese emerge una visione ben diversa della realtà: solo il 38% dei palestinesi crede davvero che nel 2020 si tornerà al voto, segno di una più generale sfiducia nei confronti dell'Anp e della classe politica. Il deteriorarsi dei rapporti con i propri elettori e il desiderio di ricostruire la fiducia nel popolo palestinese sono infatti alcuni di motivi per cui sia Fatah che Hamas hanno accettato nuove elezioni, consapevoli che il risultato delle urne potrebbe non essere quello desiderato.

 Il nodo Gerusalemme est
  A metà dicembre il presidente Abbas è ritornato a parlare delle elezioni, asserendo che manca ormai poco all'annuncio della data in cui si terranno le consultazioni. Secondo il leader di Fatah, resta solo un ostacolo da superare: Gerusalemme est. La città è tuttora al centro della contesa tra l'Anp e lo Stato ebraico e la zona orientale, a maggioranza araba, è sotto il controllo di Israele dalla guerra del 1967. Per questo motivo, affinché anche in questa zona si possa procedere al voto,è necessario il consenso dell'autorità israeliana. Una concessione che per il momento non è stata ancora né data né negata, ma che difficilmente potrebbe arrivare. Dare la possibilità agli abitanti palestinesi di Gerusalemme di votare avrebbe infatti delle implicazioni notevoli: significherebbe riconoscere almeno in parte l'autorità palestinese in una zona di Gerusalemme, città considerata da Israele sua capitale in tutta la sua interezza, e voltare le spalle agli Stati Uniti. Il presidente Trump ha indirettamente avvallato le pretese israeliane sulla città sacra spostando l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, deteriorando ancora di più i rapporti con l'Anp e dimostrando ancora una volta il suo supporto nei confronti di Israele. Permettere invece ai palestinesi residenti nella città di votare vorrebbe quindi dire riconoscere che una parte del territorio non appartiene allo Stato ebraico e creare così una situazione che l'autorità palestinese potrebbe sfruttare in proprio favore se mai si dovesse tornare a discutere dello status di Gerusalemme. La possibilità di tenere o meno elezioni nella città sacra è quindi un punto molto delicato e in extremis potrebbe essere usato dagli stessi Fatah e Hamas per scaricare su Israele la responsabilità del mancato ritorno alle urne.
  Al di là di Gerusalemme, ci sono anche altri punti che devono essere risolti. Le due parti devono ancora giungere a un accordo sull'elezione del Consiglio nazionale palestinese, organo legislativo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), decidere chi supervisionerà il processo di voto e accordarsi per una nuova legge elettorale.

 Scontro tra Fatah e Hamas
  Le elezioni dovrebbero servire a ricucire la spaccatura venutasi a creare nel mondo palestinese a seguito del voto del 2006, che ha di fatto creato due diversi centri di potere: Gaza e Ramallah, rispettivamente nelle mani di Hamas e di Fatah. Obiettivo di quest'ultimo è riprendere il controllo su Gaza riducendo il potere di Hamas: dopo più di 10 anni il partito di Abbas non è riuscito a rimettere il riga il movimento che controlla la Striscia, né per via diplomatica né ricorrendo all'uso della forza. Ma non è detto che le urne rafforzeranno il potere di Fatah, anzi: il risultato delle elezioni potrebbe essere sfavorevole per Abbas, che si troverebbe a dover fare i conti con la presenza di Hamas anche all'interno del parlamento e non solo nella Striscia. Secondo un'analisi pubblicata da Haaretz, a Gaza Fatah non gode di grande supporto e Hamas intende approfittare di tale debolezza per riaffermare il suo potere ed espanderlo al di fuori dell'exclave. D'altro canto anche Hamas ha di che temere dal ritorno alle urne. Il movimento controlla la Striscia dal 2006, ma le condizioni di vita nella zona continuano a peggiorare e le poche manifestazioni della popolazione di cui si è avuto notizia e represse con forza dalle autorità sono un segnale importante dello scontento che serpeggia nell'exclave e che rischia di venir fuori anche durante le elezioni.

(Inside Over, 20 dicembre 2019)


Sinistra americana anti-israeliana: insulti a Netanyahu e politica filo-palestinese

di Maurizia De Groot Vos

Bernie Sanders
Bernie Sanders con Ilhan Omar, deputata statunitense musulmana, sostenitrice dell’anti-israeliano BDS
Sembrerebbe che la sinistra americana non abbia capito bene la lezione inglese. Sebbene le condizioni siano oggettivamente diverse, l'odio anti-israeliano che emerge ogni volta che parlano di politica in Medio Oriente è così evidente che anche chi non apprezza Donald Trump finisce comunque per preferirlo a qualsiasi candidato democratico.
   Il più accanito anti-israeliano è paradossalmente un ebreo, Bernie Sanders, che anche ieri parlando a Los Angeles durante un dibattito tra i candidati democratici alle primarie, ha attaccato duramente la politica israeliana e in particolare quella di Benjamin Netanyahu.
   «Israele ha - e lo dico come qualcuno che ha vissuto in Israele da bambino, orgogliosamente ebreo - il diritto di esistere, non solo per esistere ma per esistere in pace e sicurezza. Ma ciò che deve essere la politica estera degli Stati Uniti non è solo essere pro-Israele. Anche noi dobbiamo essere filo-palestinesi» ha detto Sanders dal palco democratico.
   Poi è passato agli insulti verso Netanyahu definendolo "un razzista". «Dobbiamo capire che proprio ora in Israele abbiamo una leadership sotto Netanyahu, che recentemente, come sapete, è stato incriminato per corruzione e che, a mio avviso, è un razzista» ha detto Sanders.
   Poi ha detto che la politica americana in Medio Oriente dovrebbe essere più equa e pensare anche a Gaza dove c'è una disoccupazione giovanile pari al 60/70% come se la colpa di questa situazione sia di Israele e non dei mafiosi di Hamas che tengono deliberatamente la popolazione al limite della povertà nonostante le decine di miliardi di dollari ricevuti come aiuti umanitari e spesi in armi o trasferiti sui conti miliardari dei loro capi.
   Bernie Sanders ha poi insistito ancora una volta sul fatto che gli Stati Uniti dovrebbero condizionare gli aiuti militari a Israele al fatto che Gerusalemme dovrebbe piegarsi alle richieste palestinesi sulla soluzione a due stati basata sui confini del 1967 e quindi evacuare gli insediamenti in Giudea e Samaria.
   Ma non è solo Sanders ad avanzare tali ipotesi. Altri due candidati democratici, Elizabeth Warren e Pete Buttigieg, hanno espresso gli stessi concetti pur con qualche distinguo e meno insulti al governo israeliano.
   Pete Buttigieg ha attaccato Trump definendo la sua politica in Medio Oriente come «incentrata a interferire efficacemente nella politica interna israeliana».
   Ad insistere sulla soluzione a due stati basata sui confini del 67 è stato anche l'ex vice-Presidente, Joe Biden, pure lui in corsa per sfidare Donald Trump.
   «Non c'è soluzione per Israele al di fuori della soluzione a due stati», ha detto Biden. «Dobbiamo esercitare costantemente pressioni sugli israeliani affinché si muovano verso una soluzione a due stati, a costo di usare gli aiuti per la sicurezza come arma di pressione».
   Alla fine sembra che tutti i candidati repubblicani alla presidenza abbiano una linea comune per quanto riguarda la politica americana in Medio Oriente, una politica palesemente filo-palestinese e quindi anti-israeliana.
   E così anche il più accanito oppositore di Donald Trump si trova nelle condizioni di non poter votare chi vorrebbe tornare alla politica filo-araba di Obama che tanti danni ha creato in Medio Oriente, danni di cui ancora ne stiamo pagando il prezzo.

(Rights Reporters, 20 dicembre 2019)


Il pregiudizio contro Israele e la pericolosa saldatura tra la sinistra occidentale e l'islamismo

di Dorian Gray

Sono in diversi ormai, tra i critici delle sardine, a commentare gli articoli pubblicati sul caso "Nibras e Suleiman Hijazi" con delle frasi definitive quali "ma smettetela di parlare di questi tizi inutili".
  Una critica da non sottovalutare, ma che purtroppo non va nella direzione giusta. Chi scrive ritiene che elettoralmente parlando, le "sardine" spostino pochino, perché fondamentalmente fanno già parte di un elettorato di sinistra, che al massimo aveva scelto l'astensionismo negli ultimi tempi. Detto questo, visto che di sinistra parliamo, il dibattito che si è scatenato dopo il caso Nibras non è solamente ascrivibile alla normale dialettica maggioranza-opposizione, riguarda una questione centrale per il progressismo italiano e internazionale.
  Il tema di cui parlo è il rapporto che, ormai da decenni, si è venuto a creare fra la sinistra occidentale e l'islamismo politico, prevalentemente sunnita, ma anche sciita. Un rapporto che, semplificando al massimo, ha iniziato a prendere forma dopo la guerra del 1967 quando, da Paese vittima, per l'ideologia progressista occidentale Israele diventa un Paese occupante. Un passaggio figlio della Guerra Fredda e dello schieramento definitivo dello Stato ebraico nel campo degli Stati Uniti. Spinti dall'URSS, i partiti e i movimenti comunisti dell'epoca iniziarono a dipingere Israele come il nemico, in una versione "laica" molto simile a quella che ha ancora oggi la Repubblica Islamica dell'Iran (ovvero gli Stati Uniti come il "Grande Satana" e Israele come il "Piccolo Satana"). Da questo pregiudizio, si badi bene, nasce ad esempio la risoluzione Onu 3379, che equiparava il sionismo ad una forma di razzismo (fortunatamente abolita anni dopo).
  Dopo la fine della Guerra Fredda, fortunatamente, abbiamo assistito ad una certa evoluzione nel mondo progressista, ma nonostante tutto, l'humus del pregiudizio verso Israele è rimasto, soprattutto alla sinistra di quei partiti progressisti - spesso ex comunisti - che, arrivati al potere, hanno dovuto fare i conti con la realtà, oltre l'ideologia e i preconcetti. Nonostante tutto, questo preconcetto è spesso rimasto e si è amplificato quando, nel mondo islamico, hanno capito che potevano sfruttare i codici e i valori occidentali, per fini politici a loro congeniali. Ovviamente, il primo obiettivo era quello di mantenere alta l'ostilità verso Israele, arma di distrazione di massa per eccellenza usata dai regimi arabi per evitare che l'attenzione mondiale venga spostata sulle loro drammatiche malefatte.
  Ecco allora che i diritti umani, dalla Conferenza di Durban del 2001, vengono sfruttati per promuovere il boicottaggio di Israele, accusato di essere praticamente la fonte di tutti i mali. Da quella conferenza prende forma il cosiddetto movimento BDS, le cui teste e i cui finanziatori vivono serenamente nel mondo arabo, che praticamente con la scusa dei diritti umani promuove direttamente e indirettamente la cancellazione dello Stato d'Israele.
  Lo scoppio delle Primavere arabe nel 2011 ha quindi dimostrato come la sinistra - talvolta anche istituzionale - non abbia compiuto una riflessione sostanziale sul rapporto con l'islamismo politico. Quando quelle proteste di piazza scoppiarono, guidate dai partiti legati alla Fratellanza Musulmana, la sinistra abbracciò acriticamente le proteste, guidata in primis dall'allora presidente americano Barack Obama, che decise dal giorno alla notte di abbandonare al loro destino una serie di alleati storici in Medio Oriente, con il fine ultimo di legittimare per la prima volta la Repubblica Islamica dell'Iran, Paese guidato da un regime teocratico sciita dal 1979. Come sono andate a finire le Primavere arabe, il governo Morsi e l'appeasement con l'Iran, è ormai storia e certamente non è una storia positiva.
  Riassumendo, siamo quindi arrivati al fenomeno sardine e al caso di Sulaiman Hijazi e di sua moglie Nibras. Nuovamente, il mondo progressista ci ricasca, legittimando l'Islam politico con la scusa dell'uso dei codici occidentali (in questo caso la Costituzione italiana) e di alcuni valori sociali comuni. Peccato che, nonostante le comunanze, ci sono tante differenze che da anni nessuno vuole vedere e da cui pochi hanno il coraggio di prendere le distanze (spesso anche per interessi elettorali, data la capacità delle associazioni dei Fratelli Musulmani in Europa di mobilitare elettorati ad hoc, sfruttando i musulmani diventati italiani o le seconde generazioni).
  Le "sardine" dovrebbero cogliere l'occasione di questo brutto inciampo per ritornare al problema sostanziale, ovvero il rapporto errato tra progressismo e Islam politico. Dietro le belle parole dei Fratelli Musulmani in Europa sui diritti delle minoranze, sulle libertà civili e quelle sociali, c'è una ideologia che non lascia spazio ad interpretazioni, promossa da personalità del passato come Sayyd Qutb o ideologhi del presente come Yusuf al-Qaradawi, che odiano l'Occidente e che vorrebbero una società guidata dalla Sharia, in cui le donne sono sottomesse agli uomini e in cui le minoranze riconosciute devono pagare una tassa per vivere liberamente. E non è un caso che lo stesso Hijazi ha fra i suoi mentori un religioso giordano di nome Riyadh al-Bustanji che, incredibilmente, viaggia liberamente in Italia dopo aver dichiarato di aver già mandato sua figlia a Gaza per imparare il martirio…
  Dunque, le sardine non dovrebbero prendere le distanze dai Fratelli Musulmani solo perché è sbagliato andare a braccetto con i sostenitori di Hamas, ma soprattutto per loro stesse. Se quello che promuovono è veramente uno Stato laico e rispettoso del prossimo, allora liberarsi dell'infiltrazione nociva dei Fratelli Musulmani deve rappresentare un loro fondamentale interesse, per tutelare i valori e le idee che pretendono di promuovere. Altrimenti, invece di "nuotare liberamente", le "sardine" finiranno per infilarsi in un mare pieno di squali…

(Atlantico, 20 dicembre 2019)



Gli inquietanti giochi di guerra di Erdogan

di Michael Sfaradi

 
Che nel bacino del Mediterraneo ci siano movimenti strani e tentativi di bullismo navale turco al di fuori di quelle che sono le regole internazionali, è ormai palese. Lo sanno gli addetti ai lavori, è noto alle cancellerie ma la gente comune ne sa poco o niente perché tenuta abilmente all'oscuro o nella nebbia di quelle notizie che vengono divulgate, in piccolo e una volta sola, solo per soddisfare il dovere di cronaca nel minimo sindacale.
  Ma non è tutto, queste notizie oltre alla nebbia vengono anche scollegate fra loro in modo da non dare la possibilità di collegarle e, di conseguenza, capirne la gravità e la portata. Questo modo di fare giornalismo può andare avanti per un po', ma quando si arriverà alla resa dei conti, e quel momento potrebbe purtroppo essere più vicino di quello che possiamo immaginare, ai più sembrerà uno scoppio improvviso mentre nella realtà si era sempre trattato, fin dall'inizio, di una bomba a orologeria con il timer impazzito che nessuno ha avuto il coraggio di disinnescare. Per capire la situazione nel suo insieme è necessario tenere presente alcune vicende che si sono susseguite negli ultimi mesi.
  Da quando Erdogan è salito al potere, la Turchia, che per anni era stata una delle nazioni cardine dell'Alleanza Atlantica, è diventata una scheggia impazzita. Il moderno sultano ha fatto di tutto per rompere con gli alleati storici, in primis con Israele che da alleato strategico è diventato nemico da abbattere, per proseguire con mosse politiche, come ad esempio dotarsi di sistemi antimissile russi, che andavano contro gli interessi della NATO di cui, al momento, ancora fa parte. Da quando poi sono stati scoperti i giacimenti di gas al largo delle coste israeliane e cipriote, la situazione si è molto scaldata e, a tratti, è diventata addirittura incandescente.
  Il 23 febbraio 2018 la nave per ricerche petrolifere dell'ENI "Saipem 12000" è stata costretta ad abbandonare l'area di mare a Sud Est di Cipro dopo essere stata bloccata e minacciata di speronamento dalla marina militare turca, tutta questo davanti agli occhi della fregata Zeffiro della Marina Militare italiana che era in zona e che, per evitare il peggio, si è limitata a seguire gli eventi. Stesso scenario si è riproposto il 18 novembre scorso quando la nave per ricerche oceanografiche israeliana Bat Galim è stata avvicinata da un'unità della marina militare turca che l'ha spinta ad abbandonare la zona economica esclusiva di Cipro. La Bat Galim, aveva a bordo ricercatori dell'Università Ben Gurion e un geologo di Limassol, che stavano facendo ricerche approvate da Nicosia nelle acque cipriote.
  Considerando che quelle acque non sono di competenza della flotta turca e tenendo presente sia il ruolo di Israele nella regione sia, e soprattutto, che non è quello israeliano un governo ben disposto a rimanere immobile davanti alle scorrettezze, quella decisa dal governo di Ankara è stata una mossa decisamente avventata le cui conseguenze potrebbero riempire i titoli dei giornali dei prossimi giorni. Recentemente aerei da guerra israeliani e greci hanno più volte sorvolato le navi turche, e questo non è un segnale tranquillizzante, ma a mettere ulteriore benzina sul fuoco c'è la notizia che il 18 dicembre alle 7.35 (ora locale), la nave Bat Galim è salpata dal porto di Haifa, in Israele, diretta nuovamente a Cipro e giungerà a Limassol, sulla costa meridionale dell'isola, nella mattina del 19 dicembre. Nei prossimi giorni riprenderà nuovamente il programma ricerche sui fondali coordinato con il governo cipriota.
  Questa volta però la Bat Galim non sarà sola, infatti da alcuni giorni la Marina Militare israeliana, insieme ad altre Unità navali alleate, sta eseguendo a largo di Cipro delle manovre militari. La Israel Navy è presente con diverse unità tra le quali anche alcune navi tipo Saar 4 e Saar 5, e due sommergibili della classe Dolphin. Inoltre, in un aeroporto cipriota, l'aeronautica militare israeliana ha trasferito diversi aerei fra i quali anche alcuni F-35A. Il messaggio è palesemente chiaro, Israele intende far rispettare la legge internazionale a chiunque, anche alla Turchia, e non permetterà che siano ostacolate le sue esportazioni di gas verso l'Europa, in particolare il passaggio del gasdotto, l'East-Med, che rappresenta una fondamentale rotta del gas per Israele, Cipro, Grecia e Italia.
  Non è un caso, infatti, che la fregata Federico Martinengo, una delle più moderne unità della Marina Militare italiana è arrivata a Cipro per alcune manovre nel Mediterraneo orientale. Si tratta di una mossa silenziosa ma importante che segue l'accordo tra Libia e Turchia sulle Zone Economiche Esclusive e, soprattutto, dopo le continue minacce di Recep Tayyip Erdogan. Anche l'italiana ENI ha un ruolo di fondamentale importanza in quello scacchiere. La sosta della Federico Martinengo nel porto di Larnaca è iniziata lo scorso venerdì 6 dicembre, poi, tra il 12 e il 14, sarà dato il via a una serie di manovre congiunte con altre nove marine militari alleate, probabilmente le stesse manovre navali a cui accennavo precedentemente.
  La partecipazione a questa serie di addestramenti congiunti, che altro non sono che una passerella di muscoli navali, serve a far capire che se dovesse essercene bisogno i governi interessati sono pronti a far valere i loro diritti sia di carattere strategico, che generale, nel bacino del Mediterraneo allargato. In particolare nel settore orientale dove ci sono i ricchi fondali nella zona cipriota, fondali da tempo finiti sotto gli occhi di Erdogan che vede quei giacimenti come parte delle risorse Turche.
  Intanto la Grecia, Cipro ed Egitto hanno dichiarato che il nuovo accordo fra Turchia e Libia è incompatibile con il diritto internazionale, la Grecia ha espulso l'ambasciatore libico e l'Unione Europea ha dichiarato che quegli accordi violano i diritti sovrani dei paesi terzi e non sono conformi al diritto del mare. Pertanto non possono produrre conseguenze giuridiche per i paesi terzi. Insomma ce n'è abbastanza per non stare tranquilli.

(Nicola Porro, 20 dicembre 2019)


E' Chanukkà, festa delle luci per gli ebrei

di Daniele Silva

Era il 200 a.C. quando i Seleucidi dominavano su Gerusalemme. Dopo una prima fase di relativa pace, salì al potere il re Antioco Epifane, che proibì agli ebrei di osservare i precetti religiosi, imponendo la conversione all'ellenismo e profanando l'antico tempio. Un gruppo di ebrei - i Maccabei, dal nome del loro capo Yehudà Hamakabi - si ribellarono, sconfiggendo gli invasori, e furono testimoni di un miracolo: il candelabro sacro del tempio, profanato dai greci, rimase acceso per otto giorni, nonostante l'olio fosse sufficiente per un giorno solo. Per ricordare il miracolo del candelabro e l'insperata vittoria militare, si celebra la festa di Chanukkà, o "festa delle luci", a partire dalla sera di domenica 22 dicembre e per gli otto giorni successivi, fino al 30 dicembre.
   Durante la festa si accendono le luci una per ogni sera - su un particolare candelabro a nove braccia, la "Chanukkià" -, per rivivere il miracolo. Numerose sono le usanze che accompagnano la festa, che come di consueto si celebra in compagnia di amici e parenti: ci si scambia regali, con particolare attenzione per i più piccoli, si mangiano frittelle ("Sufganiot" in ebraico) e altri dolci fritti, si gioca con le trottole ("Sevivon").

(Stampa Torino Sette, 20 dicembre 2019)


Ambasciatore Dermer: "La realtà è che gli ebrei sono sia un popolo che una fede"

Nessuno vuole impedire le critiche al governo israeliano, ma negare il diritto all'autodeterminazione degli ebrei significa applicare una discriminazione antisemita.

Durante un evento alla vigilia della festa di Hanukkà presso l'ambasciata d'Israele a Washington, l'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Ron Dermer ha parlato dell'Ordine esecutivo firmato dal presidente Donald Trump contro l'antisemitismo nei campus universitari. "La scorsa settimana - ha detto Dermer - il presidente Trump ha utilizzato la sua autorità esecutiva per contrastare l'odio anti-ebraico nei campus universitari, che sono diventati l'epicentro del vergognoso tentativo di diffamare e demonizzare lo stato ebraico e dove molti ebrei non si sentono più al sicuro nell'esprimere la propria identità. Ho trovato interessante - ha proseguito l'ambasciatore - che, quando il presidente Trump ha preso questa decisione, è scoppiato un dibattito sui social network circa il fatto se gli ebrei siano un popolo o solo una fede religiosa. Da oltre un secolo gli anti-sionisti, sia ebrei che non ebrei, cercano di negare che gli ebrei sono un popolo. Gli ebrei anti-sionisti negano che gli ebrei sono un popolo per paura che i non ebrei li discriminino o perseguitino come appartenenti a una nazione separata. I non ebrei anti-sionisti negano che gli ebrei sono un popolo per negare al popolo ebraico il diritto all'autodeterminazione cui hanno titolo tutti i popoli. In ogni caso - ha concluso Dermer - a prescindere dalle diverse motivazioni e dalle sciocchezze che circolano sui social network, la realtà è che gli ebrei sono sia un popolo che una fede"...

(israele.net, 20 dicembre 2019)


La Brigata di Carta che salvò la cultura Yiddish

Nel 1941 i nazisti trasformarono Vilnius, allora popolata da 60mila ebrei, in un centro di smistamento di libri, documenti e opere d'arte ebraici proveniente da tutta l'Europa dell'Est. Affidarono il lavoro agli intellettuali della "Gerusalemme di Lituania", che dovevano separare le opere rare, da inviare all'istituto di ricerca nazista sugli ebrei a Francoforte, da quelle meno importanti, destinate alla distruzione. Gli eroi della "Brigata della carta", come venivano chiamati nel ghetto, riuscirono a nascondere e a salvare - almeno temporaneamente - migliaia di opere.
Grazie alla resistenza di Herman Kruk, militante del partito operaio ebraico, del linguista Zelig Kalmanovich, o ancora dei poeti Shmerke Kaczerginski e Avrom Sutzkever, questi tesori della cultura Yiddish sono oggi conservati nel nuovo YIVO (Istituto Scientifico Ebraico) di New York e alla Biblioteca nazionale di Lituania.
La regista belga Diane Perelsztejn ne ha ritracciato la storia in questo documentario di ARTE in italiano, che la redazione di Pagine Ebraiche ha potuto vedere in anteprima.

(moked, 19 dicembre 2019)


Intercettato razzo da Gaza

In risposta l'esercito colpisce una base di Hamas nella Striscia

Un razzo è stato lanciato ieri sera da Gaza verso il sud di Israele in particolare verso la città di Sderot, dove erano risuonate poco prima le sirene di allarme. Lo ha detto il portavoce militare aggiungendo che il razzo è stato intercettato dal sistema di difesa antimissili Iron Dome. In risposta al lancio del razzo, in nottata, l'esercito israeliano ha fatto sapere di aver colpito nel nord della Striscia un deposito di armi di Hamas. Questa mattina il Cogat, il Comitato di governo israeliano dei Territori Palestinesi, ha annunciato che dopo il lancio del razzo dalla Striscia è stata ridotta a 10 miglia nautiche la zona nautica consentita alla pesca al largo della costa di Gaza.

(ANSAmed, 19 dicembre 2019)


Una mozione per istituire "una Settimana della Memoria"

Lo scopo? «Ricordare tutti i genocidi e crimini contro l'umanità, e non concentrarsi unicamente sulla Shoah.

BELLINZONA - Istituire "una Settimana della Memoria (in sostituzione e/o in aggiunta alla giornata cantonale della Memoria) in ricordo delle vittime e dei popoli oppressi, discriminati o che hanno perso la vita in ragione del loro pensiero, della loro etnia, religione, razza, origine, del loro sesso o per altre ragioni discriminatorie inammissibili in uno Stato democratico moderno". A chiederlo, tramite una mozione interpartitica, sono Nadia Ghisolfi, Henrik Bang, Giovanni Berardi, Boris Bignasca, Gina La Mantia, Tamara Merlo, Roberta Passardi e Amanda Rückert.
Fino al 2013 - si ricorda nella mozione - esistevano due distinte giornate che fungevano a tale scopo: una Giornata cantonale della memoria il 21 marzo e quella internazionale dedicata alle vittime dell'Olocausto dell'ONU il 27 gennaio.
Nel 2013, il Cantone si è allineato a quanto avviene nel resto della Svizzera e nel resto del mondo, decretando il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz, la data ufficiale de "La giornata della memoria", per ricordare tutti i crimini contro l'umanità e ogni forma di discriminazione.
«Lo scopo all'origine dell'iniziativa parlamentare approvata nel 2005 (che istituiva la giornata cantonale) però è quello di ricordare tutti i genocidi e crimini contro l'umanità, e non concentrarsi unicamente sulla Shoah», viene sottolineato. «E' ottima cosa - conclude la mozione - che il Cantone abbia la sua Giornata cantonale in quanto è compito proprio dell'autorità mantenere vivo il ricordo di tutte le vittime del male, di cui oggi si parla però sempre meno. Per permettere al Cantone, come lo faceva in passato, di concentrarsi su tutti i temi, con la presente mozione si chiede di estendere la giornata della Memoria a una settimana della Memoria. In questo modo, la stessa potrebbe venire aperta il 27 gennaio, ricordando, in concomitanza con la giornata internazionale, le vittime dell'Olocausto, e permetterebbe in seguito di commemorare i genocidi, crimini contro l'umanità, soprusi e discriminazioni che sono continuati e continuano e non si sono fermati nel 1945».

(tio.ch, 19 dicembre 2019)


Perché concentrarsi solo sui genocidi e perché solo una settimana? Si potrebbe istituire il "Mese della Memoria" in ricordo di tutti i morti ammazzati in tutti i secoli passati e in tutti i continenti. Dopo il «negazionismo», ormai screditato e criminalizzato, sta emergendo una nuova forma “nobile” di svalutazione della Shoah: l’«inclusivismo”. M.C.



Esiste la nazione ebraica?

Il presidente Trump ha firmato recentemente un decreto esecutivo in cui definisce l’ebraismo una nazionalità e non solo una religione. Forse senza rendersene conto, sia pure per contingenti suoi motivi politici, ha riacceso l’attenzione su un rapporto fondamentale: quello tra ebraismo e nazionalità. Chi scrive sostiene da tempo che il concetto biblico primario che sta alla base del “fenomeno ebrei” è quello di nazione. Proprio per questo l’antisionismo è, in questo periodo della storia, l’espressione più netta e micidiale di antiebraismo. L’indignazione generale che oggi si solleva intorno all'«odio» che si esprime in forme di razzismo e generico antisemitismo appare sempre di più come un enorme polverone che confonde forme, sfuma contorni e inebetisce chi parla e chi ascolta. Perché si parla molto di ebrei, e sono tanti quelli che li vorrebbero difendere. Soprattutto attaccando altri. Forse ogni tanto varrebbe la pena di provare a fermarsi, documentarsi e riflettere. Ripresentiamo a questo scopo, come semplice stimolo e ausilio, alcuni paragrafi tratti dal libro "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo".

di Marcello Cicchese

Per secoli gli ebrei sono stati considerati un gruppo sociale accomunato da una religione superata e opposta a quella vera, con un passato storico negativo e un presente politico che costringeva le nazioni in cui si trovavano a porsi ogni volta il problema della loro presenza su una terra che non apparteneva a loro. Dal 70 al 1948 d.C. gli ebrei non hanno più avuto una terra, non sono più stati una nazione e la loro presenza è stata considerata un continuo intralcio storico, qualche volta tollerato con benevolenza e con risvolti anche positivi, ma nella maggior parte dei casi subito come una specie di maledizione. «Gli ebrei sono la nostra disgrazia», è la conclusione che in molti casi si traeva quando le cose andavano male e la gente trovava conforto in una spiegazione semplice che accomunava tutti, a parte gli ebrei.
   L'avvento dell'Illuminismo, con il conseguente declino dell'influenza della Chiesa sulle società europee, rese sempre meno plausibile la diversificazione degli uomini sulla base della religione. Non si abolì del tutto l'idea di Dio: generosamente gli si lasciò il diritto all'esistenza, ma gli si tolse il diritto di parola. Da quel momento Dio, non potendo più parlare, non poté più dire qual è la religione giusta e quale quella sbagliata: dovette accontentarsi di aver creato il mondo e di continuare a produrre esseri umani tutti uguali tra loro quanto ai diritti, anche se suddivisi in vari gruppi socialmente e politicamente organizzati chiamati "nazioni".
   Attenzione però: la suddivisione in gruppi nazionali non doveva avere niente a che fare con Dio, come ai tempi della "cuius regio, eius religio": il riferimento a Dio doveva restare un fatto individuale, un diritto intangibile della singola persona che non doveva interferire con la struttura politica della nazione. Anche gli ebrei, quindi, da quel momento furono considerati come tutti gli altri: furono "emancipati". Non poterono più essere esclusi per il fatto che si riferivano a Mosè e alla Torà invece che a Gesù Cristo, ma neppure dovevano pensare di avere diritto a un trattamento particolare. Si poteva essere ebrei, cristiani, atei o altro ancora, ma bisognava essere leali verso la nazione di cui si faceva parte. Così si pensava, almeno fino a un secolo fa.
   La maggior parte degli ebrei, anche se non tutti, accettò questa situazione. Dopo tanti secoli di emarginazione e limitazioni, l'idea di avere - come i non ebrei - libertà d'azione in una terra da poter considerare - insieme ai non ebrei - come loro patria, era troppo attraente.
   La cosa cominciò con Napoleone.
    "Napoleone, ormai Imperatore dei Francesi (dal maggio 1804) vuole avere il dominio e il controllo su tutti. Siccome le popolazioni dell'Alsazia e Lorena presentarono all'Imperatore le loro lagnanze attribuendo agli Ebrei la causa di tutte le loro sciagure,
       Napoleone volle esaminare il problema ebraico: nel 1806 esso fu discusso due volte al Consiglio di Stato; e in lui maturò l'idea di convocare il Sinedrio. Un Napoleone non poteva accontentarsi di una semplice Assemblea rappresentativa; doveva essere il Sinedrio, come nei tempi antichi, autorevole e venerando come l'antico Sinedrio, di cui doveva essere una copia precisa. Nel luglio del 1806 si riunì a Parigi l'Assemblea dei notabili ebrei composta da 112 deputati [...] Al Sinedrio fu presentata la seguente dichiarazione: "L'Ebreo considera il suo paese natale come sua patria, e ritiene suo dovere difenderla" . E tutti i delegati, in piedi, gridarono: "Fino alla morte!"
Quasi mezzo secolo dopo, non più in Francia ma in Germania, nel 1848, il rabbino di Magdeburgo scrisse sul giornale "Allgemeine Zeitung des Judentums", di cui era direttore, parole accorate in difesa della fratellanza ebraico- tedesca:
    "Smetteremo di considerare il nostro un caso speciale; è tutt'uno con la causa della patria: insieme i due vinceranno; insieme falliranno. Siamo tedeschi e non desideriamo essere altro! Abbiamo una patria tedesca e non ne desideriamo altre! Non siamo più israeliti se non nella nostra fede religiosa - in ogni altro rispetto apparteniamo davvero allo stato in cui viviamo".
Quanto all'Italia, la situazione era ancora più chiara:
    "In realtà, dal 1870 in poi, sino al fascismo e ancora dopo - per molti sino quasi alle persecuzioni razziali - la maggioranza degli ebrei italiani imboccò con estrema decisione e percorse a grandi passi la via dell'assimilazione, fondendosi organicamente con il resto degli italiani. Abbandonati i ghetti, abbandonate le tradizionali attività, andati a vivere tra gli «altri», entrati e rapidamente affermatisi nelle attività sino allora precluse - la burocrazia, l'insegnamento, la carriera militare, ecc. - e ovunque accolti senza resistenze e addirittura con simpatia, i più di questi ebrei si italianizzarono anche psicologicamente ed intellettualmente."
Vi erano dunque francesi di religione ebraica, tedeschi di religione ebraica, italiani di religione ebraica. L'elemento primario a cui si prometteva lealtà era la nazione, mentre la religione restava un fatto individuale che non serviva più a delineare i contorni netti di un gruppo sociale, ma anzi era spesso causa di contrasti supplementari in seno alla nazione. Si videro dunque, durante la prima guerra mondiale, ebrei francesi, tedeschi e italiani ammazzarsi in piena coscienza fra di loro in quanto appartenenti a nazioni diverse in lotta, a cui ciascuno aveva giurato fedeltà. Lealmente mantennero la promessa di essere prima francesi poi ebrei, prima tedeschi poi ebrei, prima italiani poi ebrei. Il risultato fu che si trovarono insieme come ebrei, presi a calci da tutti: francesi, tedeschi e italiani.
    La motivazione di fondo addotta dai persecutori fu la scoperta che l'ebraismo non è soltanto una religione che regola il rapporto del singolo con Dio, ma è prima di tutto un'appartenenza a una realtà sociale che, non essendosi potuta chiamare per molti secoli "nazione", è stata chiamata con i nomi di "razza", "stirpe", "tribù", "genìa", "internazionale ebraica" e altri titoli dalla risonanza più o meno sinistra. Nei momenti cruciali sorge quindi nei nazionalisti il sospetto - o torna utile sollevare strumentalmente l'accusa - che l'ebreo finga di essere fedele alla nazione a cui appartiene, mentre in realtà rivolge la sua fedeltà primariamente alla comunità dei suoi fratelli ebrei. Con conseguenze altamente dannose per la nazione.
   Può essere portato ad esempio proprio il caso degli ebrei italiani, che per molti anni hanno partecipato attivamente e in modo convinto prima al risorgimento e poi anche al fascismo. Quando il governo fascista decise di imboccare la strada della discriminazione razziale, cominciarono ad uscire sulla stampa articoli che non volevano presentarsi come manifestamente antisemiti, ma esponevano "perplessità" sulla fedeltà degli ebrei alla causa nazionale fascista. Il 12 settembre 1936, il giornale del gerarca Roberto Farinacci, «Il regime fascista», pubblicò un fondo dal titolo Una tremenda inquisitoria, in cui a un certo punto vengono nominati gli ebrei.
    "Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono una infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nelle scuole, non hanno svolto un'opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Dobbiamo confessare che hanno sempre pagato i loro tributi, obbedito alle leggi, compiuto anche in guerra il loro dovere.
    Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo, che può suscitare qualche sospetto. Perché non hanno detto mai una parola che valga a persuadere tutti gli italiani ch'essi compiono il loro dovere di cittadini per amore, non per timore o per utilità?
    Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo della internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?...
    Si sta generando la sensazione che fra poco tutta l'Europa sarà teatro di una guerra di religione. Non se ne accorgono essi?
    Siamo già sicuri che da più parti si griderà: noi siamo ebrei fascisti. Non basta. Bisognerà dare la prova matematica di essere prima fascisti, poi ebrei."
Ecco dunque l'accusa periodicamente ricorrente: la doppia nazionalità dell'ebreo, di cui la più importante non sarebbe la nazione in cui vive, ma l'internazionale ebraica o, adesso, lo Stato d'Israele.
   Quanto alla tenebrosa internazionale ebraica, ci si potrebbe chiedere come mai non si è sentito il bisogno di parlare, con altrettanto alone di mistero, di internazionale cattolica o internazionale islamica, anche in considerazione del fatto che i fedeli di ciascuna di queste due religioni superano il miliardo, mentre gli ebrei in tutto il mondo non superano i 16 milioni. Se si trovasse un libello in cui fosse scritto che il Vaticano sta coltivando il progetto di dominare il mondo attraverso la sua rete bancaria, la sua struttura gerarchica piramidale, i suoi ordini religiosi, le sue società più o meno segrete come la Compagnia di Gesù o l'Opus Dei, il suo accesso ai media internazionali con cui il Papa influenza tutti i giorni l'opinione pubblica, non sarebbe più verosimile dei "Protocolli dei savi anziani di Sion"? Sarebbe ragionevole pensarlo, ma sembra che quando si tocca il tema "ebrei" o "Israele" molti smarriscano gli usuali punti di riferimento logici e si avventurino in uno mondo fantasioso in cui non valgono più gli usuali principi di razionalità. Potrebbe essere un'anticipazione della profezia biblica in cui Dio dice, riferendosi agli ultimi tempi: «Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti» (Zaccaria 12:2). Potrebbe essere, ma non è detto. Però si direbbe proprio che per qualcuno una certa forma di stordimento sia già cominciata.


NOSTALGIA DELLA NAZIONE EBRAICA

Le considerazioni fin qui fatte possono aiutare a rendersi conto che dalla fine dell'Ottocento la cosiddetta "questione ebraica" si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L'emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell'ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
   Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
   Le cose invece sono andate diversamente nell'Europa dell'est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell'impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo "Auto-emancipazione". Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell'individuazione del motivo profondo che secondo l'autore sta alla base dell'antisemitismo moderno: l'assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
   Varrà la pena di fare lunghe citazioni di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
    "Come nei tempi passati, l'eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
    Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
    Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo."
Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare "sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l'allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l'originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.
    "Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
    Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
    Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo."
Pinsker parla di "riconquista di un'esistenza nazionale indipendente", dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell'esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l'assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: "Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli". La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L'autore non discute su che cosa l'abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.
    "Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
       Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione."
Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall'inesistenza all'esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.
    "In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
    Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.
Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
   Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
    In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
  1. cittadini (il popolo);
  2. patria (la terra);
  3. sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l'elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte "spirituale". Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell'impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità "spirituale", nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
    "Questa apparizione spettrale, questa figura d'un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
    La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
    Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di 'demonopatia': ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
    La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.
Per Pinsker dunque l'antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L'emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.
    "La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E' il limite massimo della nostra ambizione.
    È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".
Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.
    "Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato, la nostra vita individuale abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente."
E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:
    "Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
    Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?"


EMANCIPAZIONE E ASSIMILAZIONE NON RISOLVONO IL PROBLEMA

I vantaggi ottenuti dagli ebrei a partire dalla fine del Settecento con i vari editti di emancipazione che li equiparavano agli altri cittadini fece pensare a molti di loro che la risoluzione del problema ebraico consistesse nel percorrere fino in fondo la via dell'assimilazione. Abbiamo già visto come, nei decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, molti ebrei di differenti nazioni europee erano fieri di poter essere cittadini a pieno titolo della nazione in cui vivevano, e in certi casi sembravano addirittura voler dimostrare di essere ancora più patrioti degli altri. La partecipazione convinta degli ebrei alla prima guerra mondiale, raccomandata dai dirigenti delle diverse comunità ebraiche come segno di fedeltà alla nazione, avrebbe dovuto sancire la definitiva omologazione degli ebrei facendo vedere chiaramente che per la loro patria erano pronti anche a morire. Si può citare, a conferma, la solenne frase con cui il giornale "Il Vessillo Israelitico" presentò l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915:
    "L'Italia è in guerra e noi all'Italia daremo noi stessi interamente. Ogni sacrificio ci parrà dolce, ogni privazione un dovere. Daremo tutto noi - ebrei - alla patria nostra: daremo i figli, le sostanze nostre, le nostre vite. Tutto l'Italia ha diritto a pretendere da noi e tutto noi le daremo".
Quanto al sionismo, ben pochi in Italia lo vivevano come un desiderio di raggiungere la propria vera patria. A riprova di questo si può portare il fatto che tra il 1926 e il 1938 solamente 151 ebrei italiani sono emigrati in Palestina. Quelli che appoggiavano il sionismo dicevano di farlo per scopi filantropici, cioè per solidarietà verso gli ebrei che fuggivano dall'est o dalla Germania nazista a causa della persecuzione. Gli ebrei che invece avevano la possibilità di essere cittadini a pieno titolo di una nazione, come gli italiani, non desideravano un'altra patria, ma agivano spinti dall'obbligo morale di aiutare i loro correligionari meno fortunati ancora privi di una patria. Altri vi aggiungevano che il sionismo, come aspirazione a ritornare in Sion, poteva anche servire a risvegliare certi valori tradizionali dell'ebraismo che molti assimilati tendevano a dimenticare e trascurare, ma questo tuttavia non doveva né voleva sminuire l'attaccamento alla patria degli ebrei italiani. Questa forma di sionismo all'italiana è ben espressa da un intervento del sionista C.A. Viterbo in una riunione del consiglio dell'Unione delle Comunità Israelitiche del 9 gennaio 1935:
    "... il nostro sionismo è un'appendice della nostra ebraicità... noi cerchiamo di essere onesti, chiari, fuori dell'equivoco, ma non possiamo combattere coloro che hanno la stessa nostra tradizione di fede tramandata dai nostri maestri... è errato, fuori del mondo, negare l'italianità dei sionisti, italianità della quale da millenni essi sono permeati, italianità che essi non possono strappare a loro stessi perché il loro attaccamento alla Patria non è fedeltà, ma amore... Molti sionisti hanno combattuto nella grande guerra e molti sono camicie nere. Ma noi sionisti amiamo anche Israele. Il sionismo lo intendiamo non soltanto filantropico, ma anche fatto per noi stessi, perché dalla rinascita d'Israele rifluisce una vivificazione della lingua, della cultura, delle nostre più nobili tradizioni."
Tre anni dopo, quella patria a cui gli ebrei italiani si sentivano attaccati non per sola fedeltà ma per amore, emetteva le leggi razziali precedute da un "Manifesto degli scienziati razzisti". Al punto 9) di questo documento si legge:
    "Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani."
Più di cinquant'anni prima Pinsker aveva previsto una situazione del genere:
    "Siamo scesi così in basso che esultiamo di giubilo quando in Occidente una piccola parte del nostro popolo viene posta allo stesso grado dei non ebrei. Però se qualcuno ha bisogno che altri lo tenga in piedi, vuol dire che la sua posizione è poco solida. Se non si bada alla nostra origine e ci si tratta al pari degli altri abitanti nati nel paese, siamo riconoscenti al punto da rinnegare completamente il nostro essere. Per vivere meglio, per godere in pace un piatto di carne, cerchiamo di far credere a noi e agli altri che non siamo più ebrei, ma figli legittimi ed autentici della patria. Vana illusione! Voi potete dimostrare di essere veri patrioti finché volete; vi ricorderanno ad ogni occasione la vostra origine semitica. Questo fatale memento mori non vi impedirà tuttavia di godere una larga ospitalità, finché un bel giorno non sarete cacciati dal paese e finché la plebe scettica della vostra legittimità non vi ricorderà che voi non siete, dopo tutto, altro che nomadi e parassiti, non protetti da nessuna legge. [...]
    Non vogliamo neppure ricominciare una nuova vita quale nazione a sé, onde vivere come gli altri popoli, perché i patrioti fanatici che sono fra noi credono necessario sacrificare ogni diritto all'esistenza nazionale indipendente, allo scopo di dimostrare una cosa che non ha bisogno di prove, cioè che sono leali cittadini delle terre in cui abitano. Questi patrioti fanatici negano il loro originale carattere etnico per mostrarsi figli di un'altra nazione qualunque essa sia, umile o alta. Ma essi non ingannano nessuno. Non si accorgono quanto impegno mettono gli altri per liberarsi da questa compagnia ebraica."

IL CONCETTO BIBLICO DI NAZIONE EBRAICA

E' noto che alla domanda "chi è ebreo?" sono state date innumerevoli risposte. E' un interrogativo che oggi travaglia in modo particolare lo Stato d'Israele, perché dalla risposta a questa domanda può dipendere l'ottenimento della cittadinanza israeliana. Ma prima ancora di questa domanda se ne può porre un'altra, che in forma volutamente piatta e banale può suonare così: chi viene prima, gli ebrei o il popolo ebraico? Di solito si procede così: dal magma confuso e disperso su tutta la faccia della terra di individui che per qualche motivo si dicono o sono detti "ebrei" alcuni scelgono una qualche proprietà comune a una parte di loro e arrivano alla conclusione che il vero popolo ebraico è costituito da coloro che soddisfano quella certa proprietà. E' un processo di generazione dal basso che pone prima i singoli, poi la società. E' chiaro che la quantità di "popoli ebraici" che si possono generare con procedimenti induttivi di questo tipo è «come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare» (Genesi 32:12).
   Anche gli italiani sono diversi fra loro sotto moltissimi aspetti, e tuttavia l'elemento unitario del popolo italiano non è costituito da qualche proprietà etnica o morale comune a tutti, ma dall'appartenenza ad un'unica nazione, esistente da prima che tutti gli attuali italiani fossero venuti al mondo ed espressa formalmente da una precisa persona: il Presidente della Repubblica.
   Si può dunque dire che sul piano giuridico, che non è pura formalità ma è il piano reale su cui avvengono i rapporti fra gli uomini, esiste prima la nazione, poi il popolo, poi i cittadini.
   La stessa cosa è vera per gli ebrei: prima viene la nazione ebraica, poi il popolo ebraico, poi gli ebrei. Avere sottolineato questo aspetto trascurato della questione ebraica costituisce il valido contributo al sionismo dato da persone come Pinsker e altri dopo di lui.
   Qualcuno dirà che la sottolineatura del concetto di nazione può condurre a fenomeni di fascismo. come in Italia e in Germania. E' vero: può avvenire, anzi è già avvenuto. Ma questo non significa che l'impostazione nazionale sia sbagliata. Si dice solitamente che il sionismo è un movimento che emerge e si sviluppa nella scia del generale risveglio dei sentimenti nazionali di vari popoli. Sul piano della mera osservazione dei fatti, questo è vero, ma sul piano dell'interpretazione della storia fornita dalla Bibbia, è il sionismo che ha prodotto, come necessità anticipatoria, il risveglio dei vari nazionalismi; ed è l'avvicinarsi dell'inevitabile ricostituzione politica e territoriale della nazione ebraica che ha provocato la diabolica contraffazione costituita dal Terzo Reich. Tra tutti gli studi fatti sul nazismo, sarebbe interessante trovarne qualcuno che esamini a fondo quella sorta di teologia della sostituzione presente nella falsificazione messianica dell'ideologia nazista. Le motivazioni di certe forme di antisemitismo risulterebbero più chiare se si capisse che si tratta dell'odio che l'imitazione sofisticata ha per il prodotto originale. Come beffa aggiuntiva, dopo il definitivo crollo di quella immonda falsificazione del regno di Dio messianico costituita dal Terzo Reich, la forza diabolica dell'equiparazione è ricomparsa nella nuova forma di ripetute accuse alla politica israeliana, a cui si rinfaccia di usare forme e metodi del nazismo!
   Non si vuole qui sostenere che l'attuale Stato d'Israele rappresenta il regno di Dio sulla terra, ma che la sua presenza oggi sulla scena politica mondiale è espressione di una precisa volontà di Dio all'interno del suo sovrano progetto storico. Di conseguenza, l'odio contro questo Stato, il tentativo o anche il solo desiderio di distruggerlo, sia che venga da ebrei laici o superortodossi, sia che venga da gentili cristiani, musulmani o di qualsiasi altra religione, è di natura diabolica. Ciascuno è libero di usare i criteri che ritiene più validi per interpretare la storia dei popoli, ma quando si tratta di Israele, i criteri più validi, quelli che anche a posteriori si confermano essere i più idonei a spiegare i fatti avvenuti e quindi in una certa misura anche a prevedere quelli futuri, sono i criteri biblici. Voler tentare di capire la storia del popolo d'Israele prescindendo dal Dio d'Israele che si è rivelato nella Sacra Scrittura, è impresa vana, destinata fin dall'inizio al fallimento.

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(Notizie su Israele, 19 dicembre 2019)


 


Dove va la Turchia? Verso il Medioevo

di Francesco Greco

Sapevate che Erdogan si è fatto costruire una reggia favolosa, dove vive con la famiglia e i cortigiani? Che è così sospettoso e impaurito che i suoi cibi passano l'esame di ben 17 assaggiatori, prima di finire sulla sua mensa?
Cose da raiss da suk città vecchia, citazioni da sultano postdatato, da feroce Saladino (nel 2011 si beccò una copertina di "Time"), uno spregiudicato che sogna di restaurare l'impero ottomano sotto la bandiera dell'Islam, da guida del blocco sunnita.
Dove va la Turchia, "mina vagante del Mediterraneo"? Ce lo spiega con acutezza analitica e intenti divulgativi Marco Guidi in "Atatürk addio" (Come Erdogan ha cambiato la Turchia), il Mulino, Bologna 2018, pp. 156, euro 14,00 (collana "Contemporanea").
Sta facendo tutto da solo? Giammai. Il silenzio dell'Europa è grave e complice: realpolitik, i commerci prima di tutto. Così gli alleati migliori del sultano sono nelle cancellerie europee. Le stesse che invocano, a parole, una Turchia non solo nella Nato, ma anche nell'UE. Eppure la sua storia è profondamente intrecciata con la nostra, anche attraverso le repubbliche marinare (Genova e Venezia su tutte).
   Ma il dittatore (due interventi chirurgici per un cancro all'intestino) guarda più all'Asia, il Medio Oriente, i Balcani, che all'Europa. E il lavoro del padre della patria Atatürk, che meno di un secolo fa puntò alla sua laicizzazione, è ormai quasi formattato.
   Intanto il libero pensiero è perseguitato, le galere colme di nemici veri e potenziali. Giornali chiusi, giornalisti arrestati ("Se ne vanno quelli turchi, arrivano dal Medio Oriente", Carmela Giglio, GR1), burocrati e magistrati in odor di eresia nelle patrie galere. Stato di diritto estinto, plebiscito assicurato. Un lager di 80 milioni di persone alle porte dell'Europa.
   C'è un pensiero contro, un'opposizione? Guidi indica gli aleviti, i curdi, gli armeni, i cristiani, gli ebrei. In generale, gli appartenenti alla classe media svezzata nei valori della democrazia e della libertà, sbrigativamente definiti "occidentali".
   Che agibilità politica hanno tutti questi soggetti in campo, oltre a marce rituali che non scalfiscono il potere del satrapo (da sempre legato ai Fratelli Musulmani), che ormai ha un potere assoluto, che ha destrutturato ogni minimo riferimento, politico e culturale, al pensiero del padre e fondatore della patria moderna, ricacciando la Turchia in un delirante Medioevo?

(Giornale di Puglia, 19 dicembre 2019)


Israele: cresce il numero di turisti italiani

L'Italia 6o mercato internazionale, con un totale di 175.438 visitatori da gennaio a metà dicembre

Israele continua ad accogliere un numero sempre più alto di turisti italiani, come dichiara Avital Kotzer Adari, direttrice Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia, "l'Italia è il 6o mercato internazionale per Israele, con un totale di 175.438 visitatori da gennaio a metà dicembre. Nel corso dell'anno ha registrato una crescita del +31,5% rispetto al 2018. Sono numeri importanti che siamo fiduciosi possano continuare a crescere anche nel nuovo anno", ha affermato la direttrice.
Intanto, non mancano le occasioni di visita del Paese o le diverse motivazioni. "Si potrà approfittare delle temperature miti dell'inverno israeliano per andare di corsa alla scoperta di Tel Aviv, oppure muoversi a ritmo di jazz per le vie di Gerusalemme, mentre gli appassionati di danza potranno assistere agli spettacoli della Jerusalem International Dance Week. Per un tour fuori dalle grandi città, suggeriamo una visita al Timna Park, un luogo dalla storia millenaria famoso per le sue rocce scolpite dal vento. Più a Nord, in Galilea, ci si sta invece preparando al Natale con un festival di tre giorni. Inoltre, dal 22 al 30 dicembre si celebrerà Chanukkah, una delle feste più importanti per il popolo ebraico".

(Guida Viaggi, 19 dicembre 2019)


Basket - I tifosi AEK Atene hanno bruciato una bandiera israeliana

Ora la FIBA potrebbe punire pesantemente la squadra greca.

Ieri durante la partita tra AEK Atene e Hapoel Gerusalemme di Champions League i tifosi locali hanno bruciato una bandiera israeliana. La FIBA potrebbe punire pesantemente la squadra greca.
I circa 400 tifosi israeliani hanno filmato il tutto e ora lo hanno mandato alla FIBA, che ha aperto un iter disciplinare che potrebbe portare a sanzioni verso la squadra greca.
Questa la nota dell'Hapoel: "Abbiamo notificato alla BCL che non c'è spazio per questo tipo di gesti in un posto di sport. Stiamo lavorando con le autorità FIBA per risolvere questo problema. Vogliamo farlo anche per i circa 400 tifosi che hanno supportato la nostra squadra alla partita"
Per la cronaca AEK ha vinto 91-78 con un grande ultimo quarto. Video

(La Gazzetta dello Sport, 19 dicembre 2019)


La festa delle luci

I festeggiamenti di Chanukkah, la festa ebraica delle luci

I festeggiamenti di Chanukkah - la festa ebraica delle luci - quest'anno si protrarranno dalla sera di domenica 22 dicembre, alla sera di lunedì 30, per i consueti otto giorni.
   Durante questi giorni di festa in ogni casa ebraica vengono accese delle speciali luci, in ricordo del miracolo dell'olio. Le lampade, in questa occasione, vengono poste vicino la finestra, affinché possano essere viste dall'esterno e ricordino al mondo che non solo la vita dell'uomo è sacra, ma anche i suoi ideali. Il miracolo dell'olio viene raccontato nel primo e secondo libro dei Maccabei, testo apocrifo della Torà (Bibbia ebraica). I fatti storici, nel cui contesto si è verificato il miracolo, sono avvenuti dopo la morte di Alessandro Magno (IV secolo a.C.).
   Il regno a seguito della sua scomparsa si era smembrato in tanti reami. La Giudea era governata dal re Antioco IV, che perseguiva l'intento di omogenizzare le culture dei diversi popoli che abitavano le sue terre, imponendo loro norme civili e religiose originarie dal mondo greco. Ciò comportava l'accettazione, da parte di tutti i sudditi, della religione politeista, con il culto dell'affollato panteon delle divinità greche. Questa perdita della libertà religiosa non venne accettata in Giudea, dove da parte degli ebrei più osservanti si ebbe una violentissima reazione, che presto giunse ad una vera e propria rivolta militare. Tra il potente imperatore ed il piccolo popolo ebraico, rigorosamente fedele alla religione monoteista, scoppiò quindi un acceso conflitto.
   La storia, dopo si ripeterà con la invasione romana e con il rifiuto, da parte degli ebrei, della imposizione di una nuova religione di stato. Questo secondo rifiuto sarà fatale per il popolo ebraico e per la Giudea. In quanto comporterà, ancora una volta, la distruzione della città di Gerusalemme, del suo secondo Tempio e la dispersione della popolazione per il mondo o la sua riduzione in schiavitù. Ma anche Antioco IV, fu alquanto aggressivo. Infatti, per tentare di piegare il tenace rifiuto degli ebrei ad accettare la religione greca, impose la proibizione del culto da loro praticato, in ogni sua manifestazione. A tal fine impedì lo studio della Torà ed ordinò che a Gerusalemme venisse consumata una strage tra la popolazione rimasta fedele alla religione ebraica. Per realizzare questo suo piano di sopraffazione volle costruire una fortezza, poi rimasta presidiata da truppe siriache ed infine, in modo sacrilego, fece edificare un altare, dedicato a Giove, sul monte del Tempio.
   Il popolo spinto dalla fede nei propri ideali religiosi insorse in armi dando luogo, così alla prima guerra partigiana della storia. Tra i combattenti ebbe un ruolo decisivo Mattatià e i suoi cinque figli, a cui venne attribuito il nome di Maccabei, maccab vuol dire martello, in quanto la loro tattica di combattimento consisteva in martellanti e rapidi incursioni contro le truppe dell'invasore. Allorché gli insorti ebbero, finalmente, la vittoria, in un quadro geopolitico che andava sempre più complicandosi per Antioco IV, per via dell'ingresso sulla scena dei romani, gli ebrei riconquistarono Gerusalemme con il suo tempio. I nuovi vincitori si trovarono a dover rimediare alla profanazione che il luogo sacro per eccellenza aveva subito per mano degli invasori. La cerimonia di riconsacrazione prevedeva la riaccensione del grande lume del tempio, che con la sua perenne fiamma ardente testimoniava la costanza nella fede del popolo di Dio.
   Nei locali del tempio devastato dai soldati di Antioco IV, a seguito del saccheggio, anche l'olio sacro per accendere il lume era stato asportato ed era rimasta soltanto un'ampollina, che conteneva una quantità di olio sufficiente per alimentare la fiamma per un solo giorno, mentre la consacrazione di nuovo olio richiedeva almeno otto giorni. L'esigenza di riconsacrare il Tempio al più presto inducesse i sacerdoti ad utilizzare quell'olio, ritrovato, con la certezza si sarebbe consumato e la luce del lume si sarebbe spenta ben presto. Ma ecco che accadde il miracolo. L' olio non si consumava e la fiamma restò ininterrottamente accesa per otto giorni, il tempo necessario per la consacrazione del nuovo olio.
   Nei millenni che si sono susseguenti la celebrazione della ricorrenza è stata ripetuta ciascun anno, certamente, non per celebrare una vittoria militare, ma per ricordare che la fede ha avuto il sopravvento sulle imposizioni e sulle ostilità degli invasori pagani, che avrebbero voluto cancellare per sempre la religione ebraica.
   Channuhha, questo lascito plurisecolare, quest'anno più che mai, è il simbolo di una delle più importanti sfide dei nostri giorni, quella della convivenza, della cultura, della vittoria della luce sulle tenebre , del bene sul male. Una sfida sempre di grande attualità, in un mondo che ha ancora spinte razziste, discriminatorie e di odio antisemita.

(Quotidiano di Sicilia, 19 dicembre 2019)


"Israele falsifica i reperti archeologici scrivendoci sopra in ebraico"

Questa la fantasiosa tesi, necessaria alla narrativa palestinese, sostenuta da un "esperto" egiziano alla TV di Abu Mazen

Dirigenti ed esponenti dell'Autorità Palestinese distorcono costantemente la storia pur di sostenere che gli ebrei non hanno alcun legame storico con Gerusalemme né con l'intera area della Terra di Israele.
Per sostenere questa tesi di pura fantasia, i palestinesi devono anche inventarsi un modo per spiegare la quantità di prove ed evidenze documentali e archeologiche della storia ebraica nel paese, molte delle quali portano testimonianza dell'antica scrittura ebraica. Invece di riconoscere la realtà della storia ebraica e l'autenticità dei reperti ebraici, l'Autorità Palestinese afferma che Israele "ruba" reperti archeologici "palestinesi" e vi incide falsi testi in ebraico. Questa negazione è parte cruciale e necessaria della narrativa con la quale i palestinesi rivendicano una sorta di "proprietà esclusiva" sul paese in base a una fittizia "storia esclusivamente palestinese" lunga migliaia di anni....

(israele.net, 19 dicembre 2019)


Sa'ar lancia la sfida a Netanyahu per le primarie del Likud

Il mancato accordo con Gantz per un governo di unità nazionale e i guai legali hanno indebolito la leadership del premier israeliano

di Cecilia Scaldaferri

Gideon Sa'ar
Gideon Sa'ar ha lanciato ufficialmente la sfida a Benjamin Netanyahu in vista delle primarie del Likud del prossimo 26 dicembre. "Un voto per me assicurerà il dominio di Likud e la formazione di un nuovo governo guidato da noi; un voto per Netanyahu è un voto per il prossimo capo dell'opposizione", ha sottolineato l'ex ministro dell'Istruzione, rivolgendosi ai 500 attivisti che si sono riuniti all'evento di lancio della campagna a Or Yehuda, un sobborgo di Tel Aviv.
   Sostenuto dallo slogan "Solo Sa'ar puo'", il principale avversario del premier israeliano nel partito ha già incassato il sostegno di alcuni deputati del Likud, tra cui il potente presidente dell'organo esecutivo. Parlando ai sostenitori, Sa'ar ha riconosciuto il ruolo di Netanyahu, sottolineando che "ci ha portati al potere quattro volte, ma il futuro è già scritto, non ci sarà una quinta".
   Il ferreo controllo di Netanyahu sul partito è stato indebolito dall'incriminazione per corruzione, frode e abuso di fiducia in tre casi e dal non essere stato in grado di raggiungere un accordo con Blu e Bianco per un esecutivo di unità nazionale.
   Il partito di Benny Gantz ha più volte escluso la possibilità di sedere al governo con un incriminato, chiedendo a Netanyahu di fare un passo indietro fino a quando non avrà risolto le sue beghe giudiziarie. Una situazione di stallo politico dal quale Israele non riesce a liberarsi e che lo sta conducendo al terzo round di elezioni in 12 mesi (le prossime si terranno il 2 marzo 2020) dopo l'appuntamento alle urne di aprile e settembre.
   Secondo un recente sondaggio, il Likud con Sa'ar alla guida creerebbe un blocco più potente con gli alleati ultraortodossi e nazionalisti e avrebbe più facilità nel raggiungere un compromesso per un governo di unità nazionale. D'altra parte, la mossa di Sa'ar di candidarsi alla luce del sole per rimpiazzare Netanyahu è ardita per un partito fortemente legato al valore della fedeltà e che ha avuto solo quattro leader negli oltre 70 anni di storia.

(AGI, 18 dicembre 2019)


Esercitazioni delle forze israeliane contro Hezbollah

Al confine col Libano

Una vasta esercitazione che aveva come punto di partenza l'infiltrazione a sorpresa in territorio israeliano di unità di élite degli Hezbollah e l'occupazione di villaggi israeliani di frontiera è stata condotta dall'esercito al confine con il Libano. L'anno scorso Israele ha distrutto sei tunnel degli Hezbollah che penetravano in territorio israeliano. Secondo l'esercito, Hezbollah dispone nel Libano Sud di altri tunnel che però non hanno finora sconfinato in Israele.

(La Stampa, 18 dicembre 2019)


Israele studia il motore ad idrogeno. Una startup ha un sistema per riciclarlo

Per molti l'alimentazione con il più leggero degli elementi chimici può essere una realistica alternativa all'auto elettrica. Electriq Global e H2 Energy Now ci lavorano. La prima ha già pronta una sua bici a idrogeno.

di Fiammetta Martegani

 
Prototipo israeliano di bicicletta elettrica a motore idrogeno
Le sfide poste dal cambiamento climatico e dall'inquinamento ambientale hanno reso, negli ultimi anni, la ricerca in fonti di energia rinnovabili e a zero emissioni non solo un obiettivo necessario, ma anche una delle nuove frontiere nel mondo fin tech. In particolare, quando si parla di nuove tecnologie a base di idrogeno, il giro di affari su scala globale è di 359 miliardi di dollari, e sono molti i Paesi che ci stanno già investendo. A cominciare da Israele. Non sorprende che Paolo Scudieri, presidente di Anfia, l'Associazione nazionale filiera industria automobilistica, parlando delle nuove fonti di energia a idrogeno, abbia espressamente definito Israele «il partner ideale, con le sue startup all'avanguardia». I numeri della Startup Nation parlano chiaro: 6.300 nuove iniziative, 94 acceleratori, 200 incubatori e 440 compagnie di investimento. Tra queste spiccano, in particolare, due ambiziosi progetti.
   «Solitamente i sostituti della benzina sono due - spiega Baruch Halpert, Ceo di Electriq Global -: batterie al litio-ionio, che hanno comunque una vita limitata, o l'idrogeno compresso, che essendo altamente infiammabile e ad alto rischio di esplosione, ha costi a dir poco proibitivi in quanto a sicurezza». La soluzione proposta dalla sua innovativa startup, che ha sede ad Haifa, dove si trovano anche i laboratori, è dunque di riutilizzare l'idrogeno attraverso un catalizzatore che lo ricicla, o meglio, usando le parole di Halpert, lo "re-idrogenizza". Nello specifico, una capsula di boroidruro di potassio, entrando in contatto con l'acqua, produce energia a idrogeno che viene automaticamente riassorbito in modo da abbassare i costi di produzione e di stoccaggio. «È come una macchinetta Nespresso a capsule di boro idruro di potassio - spiega Roy Kerem, Direttore Sviluppo della compagnia - con la differenza che non c'è bisogno di aggiungere l'acqua ogni volta», il che permette di produrre idrogeno on-demand, per ogni tipi di veicolo, garantendo la più totale sicurezza, a prezzi competitivi, e implementando un ecosistema autonomo di circular energy.
   Il primo prototipo di bicicletta elettrica a motore idrogeno è già in circolazione. E noi l'abbiamo provata sul lungomare di Haifa, la città del Technion, dove si sono formati molti degli ingegneri, sia ebrei sia arabi, che vivono in città e lavorano in questa compagnia emergente, dove si va a lavoro su due ruote, senza inquinare e senza il problema della benzina o delle batterie. Se la tecnologia di Electriq Global è basata essenzialmente sul riciclaggio dell'idrogeno, H2 Energy Now si basa invece sulla capacità di isolarlo. «L'acqua è costituita da idrogeno e ossigeno: basta sapere come separarli e stoccarli, per rendere il mondo un posto migliore», spiega Sonya Davidson, Ceo e fondatrice di questa startup collocata a Beersheva, la cui Università Ben Gurion fa parte di una delle eccellenze che ha permesso a Israele, negli ultimi anni, di aggiudicarsi il secondo posto al mondo, dopo la Silicon Valley, per innovazione tecnologica. «La maggior fonte di ispirazione per il nostro prodotto è stata proprio un italiano: Guglielmo Marconi - racconta sorridendo Davidson, originaria degli Stati Uniti e in Israele dal 2007 - così mi sono immaginata di utilizzare le onde elettromagnetiche per separare l'idrogeno dall'ossigeno e immagazzinarlo in modo da poterlo utilizzare 24 ore al giorno, 365 giorni all'anno». Per far capire meglio il funzionamento di H2 Energy Now, Davidson - cinque diplomi accademici alle spalle - spiega che «è come mettere l'acqua in un forno a microonde, ma utilizzando frequenze diverse». L'esperimento ha funzionato, tanto da consentire a questa innovativa startup di conquistarsi, nel 2018, il premio Nasa iTech come «partner per l'esplorazione dello spazio e a beneficio dell'umanità». La vita, così come la conosciamo, è cominciata dall'acqua e forse, per preservarla, proprio dall'acqua sarà necessario ricominciare. Israele si sta portando avanti.

(Avvenire, 18 dicembre 2019)


Trapela il piano di pace Usa. ''Gerusalemme sarà condivisa''

Un'emittente libanese rivela i dettagli della bozza di intesa per la regione a cui lavora la Casa Bianca. Città Santa gestita da Israele, a Gaza e Cisgiordania Stato palestinese collegato da un'autostrada. L'accordo è stato diffuso in anticipo, israeliani prudenti sull'applicabilità.

di Rolla Scolari

Gerusalemme non sarebbe «divisa» bensì «condivisa» in un piano di pace tripartito tra Israele, Autorità nazionale palestinese e Hamas. È l' emittente libanese «al Mayadeen» a rivelare la bozza dell'«Accordo del secolo», il piano cui da anni lavora il genero del presidente, Jared Kushner, e di cui finora sono emersi pochi e confusi dettagli. Avrebbe dovuto essere presentato al termine del mese islamico del Ramadan, in estate. Poi, l'annuncio è stato posticipato dopo le elezioni in Israele e la formazione di un governo. Il governo non è però mai nato e Israele voterà a marzo per la terza volta in un anno.

 Le reazioni
  Mentre la stampa americana dubita da settimane sui destini del piano e uno dei suoi principali architetti, l'inviato per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha dato le dimissioni, i particolari dell'accordo sono stati divulgati da Beirut da un'emittente vicina a Hezbollah, partito al governo in Libano, ma anche milizia sciita sostenuta dall'Iran e principale rivale d'Israele.
  I dettagli sul possibile accordo sono stati ripresi con freddezza dalla stampa israeliana e la prudenza sullo stato di avanzamento della bozza è d'obbligo.
  Tuttavia i dettagli emersi riprendono in blocco in alcuni casi notizie degli ultimi mesi: la custodia dei luoghi sacri di Gerusalemme, per esempio, passerebbe all'Arabia Saudita, togliendo il compito alla Giordania. La Valle del Giordano resterebbe sotto sovranità israeliana, ed è da poco che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto sapere di avere, proprio su questo, l'appoggio americano.
  Nella bozza, uno Stato palestinese nascerebbe in Cisgiordania e Gaza. Lo Stato non includerebbe i blocchi di insediamenti israeliani oggi esistenti nei Territori palestinesi, che resterebbero sotto Israele. Gaza e Cisgiordania, geograficamente separate, sarebbero unite da un'autostrada costruita da una compagnia cinese a 30 metri di altezza dal suolo (israeliano).
  L'Egitto, che ha sempre negato questa eventualità, garantirebbe ai palestinesi di Gaza terra per la costruzione di un aeroporto e zone industriali non abitabili. Il blocco israeliano ed egiziano sulla Striscia sarebbe progressivamente allentato. Il gruppo islamico che controlla la Striscia, Hamas, che recentemente non ha mai accennato all'abbandono della lotta armata, deporrebbe le sue anni. Gli stipendi dei suoi (ex) miliziani sarebbero pagati dai Paesi arabi, gli stessi che però da anni sono sempre meno coinvolti dalla questione palestinese. Lo Stato palestinese sarebbe demilitarizzato e il compito di proteggerlo da minacce esterne ricadrebbe-sotto il pagamento di una somma da stabilire- all'esercito israeliano. Gerusalemme, la capitale contesa, sarebbe «condivisa». La municipalità resterebbe amministrata da Israele, lo Stato palestinese gestirebbe l'educazione dei residenti arabi, che avrebbero passaporto palestinese.
  Se Israele non accettasse il piano - finanziato con 30 miliardi di dollari in cinque anni al 20 per cento dagli Stati Uniti, al dieci dall'Europa e al 70 dagli Stati del Golfo - Washington interromperebbe gli aiuti economici all'alleato. Lo stesso varrebbe per la leadership palestinese. A un anno dalla firma sarebbero indette in Palestina elezioni democratiche. E nel giro di tre anni sarebbero liberati i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

LE CONDIZIONI DELL'«ACCORDO DEL SECOLO»
I luoghi sacri
La custodia dei luoghi sacri di Gerusalemme all'Arabia Saudita, la municipalità sarebbe in capo a Israele, i palestinesi curerebbero l'educazione dei residenti arabi
Il nuovo Stato
Uno Stato palestinese nascerebbe in Cisgiordania e Gaza, non includerebbe gli insediamenti israeliani nei Territori, sarebbe unito da un'autostrada costruita dai cinesi
Armi e aiuti
Hamas dovrebbe deporre le armi. Se Israele non accettasse il piano perderebbe gli aiuti economici da Washington. Lo stesso varrebbe per la leadership palestinese

(La Stampa, 18 dicembre 2019)


Sardine in barile, disinformate o in malafede: la causa di Hamas è la distruzione di Israele

di Publius Valerius

Nibras Asfa
Abbiamo appreso da Open che Lorenzo Donnoli è la "sardina" che ha invitato sul palco a Roma Nibras Asfa, la cui presenza, come noto, sta facendo molto discutere, non solo perché Nibras si è presentata sul palco velatissima, ma anche e soprattutto per le posizioni politiche del marito, Sulaiman Hijazi, aperto sostenitore del gruppo terroristico palestinese Hamas.
   Nell'intervista ad Open e in un post pubblicato sul suo profilo Facebook, Donnoli difende a spada tratta la scelta di invitarli e sostiene che ciò per cui si battono Nibras e Sulaiman è la "causa del popolo palestinese contro l'occupazione di nuove terre che sta calpestando i diritti umani". Nel suo post su Facebook, esprime il suo amore per lo Stato di Israele, che intende difendere strenuamente perché, dice sempre Donnoli, "mi sento ebreo, mi sento israeliano".
   Ora, senza entrare nel merito dei cosiddetti territori occupati, su cui ci sarebbe tanto da dire - a cominciare dal fatto che, proprio a Hebron (città natale di Sulaiman Hijazi), gli ebrei rappresentano meno del 3 per cento della popolazione e non possono girare liberamente se non sotto scorta - gli argomenti usati da Donnoli indicano più che un generale preconcetto, la sua estrema ignoranza della questione di cui si sta parlando.
   Se avesse aperto un libro sul conflitto israelo-palestinese, avrebbe scoperto facilmente che, quando si parla di Hamas, la questione dell'occupazione e l'idea stessa di due Stati per due Popoli, non c'entra nulla. Hamas è una organizzazione islamista, apertamente votata alla jihad, che per Statuto (a proposito degli Statuti, tanto cari a Nibras…) non solo ha come obiettivo l'eliminazione dello Stato di Israele (che Donnoli dice di amare), ma anche quello di eliminare completamente gli ebrei dalla faccia della Terra.
   E badi bene: questa affermazione, caro Donnoli, non è una interpretazione personale, ma semplicemente quanto scritto nero su bianco nell'articolo 7 del suddetto Statuto di Hamas che, alla fine, riporta testualmente:
    "L'Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me - vieni e uccidilo; ma l'albero di Gharqad non lo dirà, perché è l'albero degli ebrei".
È proprio per questo che Hamas, pur essendo una organizzazione sunnita, non si fa problemi a ricevere armi e soldi da chiunque abbia come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato di Israele, in primis dall'Iran islamista sciita, un regime teocratico, misognino e terrorista.
   Questo è Hamas. Hamas non è purtroppo quanto scritto da Sulaiman Hijazi nel 2014, ovvero "un partito non di estremisti e preti come viene detto in Occidente ma di persone con alto livello di studi e intelligenza". No, caro Donnoli: i miliziani di Hamas hanno usato i loro "studi e intelligenza" non al servizio della pace e della convivenza nella regione, ma al servizio della jihad islamica, non solo contro gli ebrei, ma anche contro i cristiani della Striscia di Gaza, che da anni ormai hanno quasi totalmente abbandonato l'area per paura delle repressioni interne.
   Dunque, caro Donnoli, le critiche che Nibras e Sulaiman stanno ricevendo non sono il frutto di un "gomblotto" della destra, come lei ha lasciato intendere nel suo commento su Facebook. Sono semplicemente il risultato del piatto che il signor Sulaiman Hijazi si è cucinato da solo, con i suoi post pubblici su Facebook (profilo che ora ha reso privato…), capaci di attirare persino i like e i cuoricini di Francesco Giordano, già terrorista rosso mai pentito e apertamente sostenitore del gruppo terroristico palestinese Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.
   Infine, visto che il movimento delle "sardine" predica l'europeismo, cogliamo l'occasione per farle presente che Hamas è un gruppo terroristico non solo per i "cattivoni" negli Stati Uniti e in Israele, ma anche per la stessa Unione europea…
   Concludendo, caro Donnoli, ci permettiamo di darle qualche suggerimento, al di là delle questioni politiche interne che possono unirci o dividerci: studi, si informi e non si faccia prendere in giro da chi usa la nostra bella Costituzione per difendere la libertà e i diritti civili solo quando fa comodo ad una fazione, per giunta portatrice di una ideologia criminale e anti-occidentale. Fino a quel momento, se può, resti fuori dalle questioni di politica estera. Sono troppo serie per lasciarle a Facebook… e alle Sardine, evidentemente.

(Atlantico, 18 dicembre 2019)


Hamas pianifica attentati in Israele con l'aiuto della Turchia

di Paola P. Goldberger

La Turchia sta permettendo ad Hamas di pianificare attentati in Israele dal suo territorio e in particolare dalla sede concessa da Erdogan ai terroristi palestinesi a Istanbul.
A rivelarlo sono fonti di intelligence israeliane ripresa anche dal The Telegraph il quale sostiene di essere entrato in possesso delle trascrizioni di alcuni interrogatori della polizia israeliana.
Tra questi attentati pianificati in Turchia ci sarebbe anche quello ordito all'inizio dell'anno contro il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat.
In realtà quella del The Telegraph è una "non notizia". L'intelligence israeliana è perfettamente al corrente che la Turchia sta aiutando Hamas a pianificare operazioni terroristiche in Israele e in Giudea e Samaria.
È per questo motivo che le relazioni tra Israele e Turchia, sebbene ufficialmente regolari, sono in realtà perennemente in tensione.
Sabato scorso il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha incontrato il dittatore turco, Recep Tayyip Erdogan, per discutere su come la Turchia può aiutare ulteriormente Hamas.
In quella occasione Erdogan ha ribadito l'aiuto della Turchia al gruppo terrorista palestinese. «Continueremo a sostenere i nostri fratelli in Palestina» ha detto il dittatore turco.
Erdogan si è poi lamentato del fatto che quasi tutto il mondo considera Hamas un gruppo terrorista, compresi molti paesi arabi, mentre invece secondo lui Hamas è un partito politico che rientra nella galassia della Fratellanza Musulmana.
«Israele è estremamente preoccupato per il fatto che la Turchia stia permettendo ai terroristi di Hamas di operare dal suo territorio, nel pianificare e impegnarsi in attacchi terroristici contro civili israeliani» ha detto il Ministero degli esteri israeliano in una nota successiva alla visita di Ismail Haniyeh in Turchia.

 La Turchia ospita anche terroristi ricercati
  Nell'ultimo anno almeno una dozzina di figure di alto livello di Hamas si sono trasferiti da Gaza a Istanbul.
Tra questi c'è Abdel Rahman Ghanimat, ex leader della "cellula Surif", una squadra di Hamas responsabile di una serie di attentati suicidi, tra cui un attacco del 1997 al Café Apropo di Tel Aviv che ha ucciso tre giovani donne.
Anche Kamal Awad, un finanziere di Hamas recentemente inserito nella black list dal Ministero del Tesoro americano, si è da poco trasferito a Istanbul.

 Una bomba a orologeria
  Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la Turchia è una bomba a orologeria, anzi, una bomba islamica a orologeria.
Appoggia apertamente Hamas, ha reclutato migliaia di ex membri di ISIS e Al Qaeda creando milizie islamiche che operano in Siria e stanno massacrando i curdi. Ha preso possesso con la forza di mezzo Mediterraneo orientale attraverso un accordo con la Libia che viola palesemente il Diritto Internazionale. Sta portando avanti una politica aggressiva in Africa. Cerca di infiltrarsi in Europa attraverso i Balcani usando le ONG islamiche.
Cos'altro serve per far capire al mondo l'estrema pericolosità della Turchia?

(Rights Reporters, 18 dicembre 2019)


L'eredità di Bruno Segre

L'avvocato, 101 anni, ha deciso di donare alla Città di Torino la sua collezione di francobolli dal 1861 a oggi. «Io amo Torino, un regalo per i miei concittadini».

Rarità
È la «Volta violetto» senza sovrastampa, acquistata a Vienna per 2.500 euro
Preziosi
La stima dei francobolli in base ai valori medi di mercato è di mezzo milione di euro

di Gabriele Guccione

 
Si scorge la storia d'Italia dietro la lente di ingrandimento con cui Bruno Segre, 101 anni, osserva meticolosamente i suoi francobolli: le dentellature pressoché perfette, l'assenza di difetti di stampa nella sovrapposizione dei colori, i bordi integri. E poi i volti degli uomini e delle donne, ma anche le immagini delle opere dell'ingegno italiano, degli avvenimenti storici e dei simboli che hanno fatto grande il Paese. Una storia, raccontata attraverso 158 anni di emissioni filateliche, che si appresta ora a passare dalle mani di uno degli ultimi testimoni torinesi del Novecento, protagonista di tante battaglie per la libertà, a quelle di tutta la comunità.
   «Io amo la mia città, e così ho deciso di regalare tutto questo ai miei concittadini», spiega con poche parole l'avvocato Segre, aprendo le porte del suo studio sommerso di libri e riviste in via della Consolata. Così, «per amore», e perché diventi patrimonio comune, la sua preziosa collezione traslocherà nelle sale dell'Archivio storico della città in via Barbaroux: 67 album che raccolgono tutti, o quasi tutti («Direi che è completa al 95 per cento»), i francobolli emessi dal 17 marzo 1861, dall'inizio del Regno d'Italia, fino al 2019. «C'è pure un "Volta violetto" senza sovrastampa: l'ho comprato a Vienna a un'asta per 2.500 euro», fa notare non senza un certo orgoglio l'avvocato Segre. Un esemplare raro risalente al 1927 che gli addetti ai lavori definiscono l'errore di stampa più celebre della filatelia del Regno d'Italia. Ma è solo un pezzo di una collezione talmente vasta che nemmeno chi l'ha messa assieme in quasi novant'anni ne conosce con esattezza i numeri. «Non ho mai contato tutti i miei francobolli - ammette l'avvocato -. Per accettare la donazione, il Comune mi ha chiesto di quantificarne il valore. La stima in base ai valori medi di mercato è di 500 mila euro».
   Quella per la filatelia è forse la meno civile tra le passioni di Segre, uno degli ultimi protagonisti viventi della storia di Torino nel Secolo breve, con le sue tante battaglie davanti alle quali non si è mai arreso, come recita il titolo della sua biografia. La laicità delle istituzioni, i diritti umani, gli ideali libertari e socialisti che lo hanno portato a militare in Giustizia e libertà durante la Resistenza e a battersi nel 1949 per l'obiezione di coscienza e negli anni Settanta a favore del divorzio, oltre all'impegno attraverso il mensile L'incontro. E, insieme a tutto questo, i francobolli. «Sin da quando avevo 12 anni e pochi soldi cominciai a comprare qualche francobollino - racconta l'avvocato -. La collezione è nata così, quasi per gioco: Bolaffi pubblicava sulle pagine della Gazzetta del Popolo una vignetta con tre francobolli, bisognava rispondere a una sorta di quiz, e chi indovinava riceveva la busta in omaggio. Negli anni, poi, la collezione si è ingrandita». I ricordi da collezionista, prima che da partigiano, ex prigioniero politico o militante per i diritti civili, si affastellano nella memoria. «Dalla grave crisi filatelica che seguì gli anni della Liberazione, con emissioni ridottissime, al macero dei francobolli invenduti voluto dai grandi commercianti di filatelia negli anni Sessanta; fino ai giorni nostri, tempi di un'altra crisi - constata con amarezza Segre - dovuta all'abbandono dell'uso del francobollo: quest'anno sono state fatte 72 emissioni, alcune parecchio brutte».
   I suoi preziosi francobolli ora sono diventati patrimonio della città (la donazione è stata accettata ieri dalla giunta comunale). Ma non sono l'unica eredità, in vita, dell'«avvocato partigiano» che non ha mai perso la voglia di lottare. E che, anzi, continua a intervenire nel tempo presente: «Le sardine? Guardo a loro molto favorevolmente, palesano l'insurrezione della parte sensibile del Paese alle invettive degli analfabeti della democrazia».

(Corriere Torino, 18 dicembre 2019)


Israele per la prima volta diventa esportatore di gas

Accordo storico con l'Egitto

Israele, per la prima volta nella sua storia, esporterà gas naturale e in particolare verso l'Egitto. Ieri il ministro dell'Energia Yuval Steinitz ha firmato i permessi che consentono l'avvio delle operazioni in due settimane con il trasferimento dei giacimenti Tamar e Leviathan. «L'approvazione - ha detto il ministro - è stata decisa dopo che si sono concluse tutte le procedure ufficiali sulla vicenda. Si tratta della più importante cooperazione economica tra i due Paesi dal Trattato di pace del 1979».
Il ministro ha sottolineato come Israele, con questa operazione, diventi per la prima volta nella sua storia un esportatore di energia. L'impatto sarà duplice: produrrà importanti royalties per lo Stato e contribuirà a ridurre l'inquinamento ambientale.
La decisione del governo israeliano di sfruttare le riserve di gas, frutto di esplorazioni e scoperte più recenti, sta però incontrando forti resistenze negli ambientalisti. Gli attivisti locali hanno accusato le autorità di essere troppo compiacenti nei confronti delle grandi imprese coinvolte nell'esplorazione e nell'estrazione di gas trascurando gli investimenti nelle energie rinnovabili.

(Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2019)


Antiche preferenze culinarie romane scoperte negli scavi di Ashkelon

Sono state recentemente scoperte ad Ashkelon, nel sud di Israele, delle vasche utilizzate duemila anni fa per produrre salsa di pesce (garum). Lo scavo, condotto in preparazione della creazione di un Eco-Sport Park, ha rivelato testimonianze dei gusti gastronomici romani e bizantini.
Allo scavo hanno partecipato giovani del kibbutz Yad Mordecai e alunni di una scuola della zona. Spiega l'archeologa Tali Erickson-Gini, della Israel Antiquities Authority: "Molto prima della pasta e della pizza, l'antica dieta romana si basava in gran parte sulla salsa di pesce.
Fonti storiche parlando della produzione della speciale salsa di pesce utilizzata come condimento di base per il cibo in epoca romana e bizantina in tutto il bacino del Mediterraneo, e riferiscono dei forti odori che accompagnavano la sua produzione tanto da richiedere che avvenisse a distanza dalle aree urbane. E infatti gli impianti sono stati scoperti a circa 2 km dall'antica Ashkelon. Si tratta di una scoperta rara nella nostra regione, e sono pochissime le installazioni di questo tipo trovate nel Mediterraneo orientale. Fonti antiche fanno anche riferimento alla produzione di garum ebraico".
Il sito, successivamente utilizzato da una comunità di monaci cristiani per la produzione di vino, venne abbandonato qualche tempo dopo la conquista islamica della regione nel VII secolo, per poi essere utilizzato da famiglie nomadi residenti in tende che smantellarono parte delle strutture per venderle come materiale da costruzione".

(israele.net, 17 dicembre 2019)


Le startup italiane in Israele per crescere

Grazie al supporto di Intesa Sanpaolo e alla nostra ambasciata a Tel Aviv, sette aziende neonate entrano nell'acceleratore di Eilat.

di Adriano Bascapè

Parte a gennaio il primo programma di accelerazione per startup italiane in Israele lanciato dall'ambasciata d'Italia in Israele e da Intesa Sanpaolo Innovation Center, la società del gruppo bancario presieduta da Maurizio Montagnese. Tramite un bando digara pubblicato a gennaio del 2019 sono state selezionate dieci startup, sette delle quali trascorreranno tre mesi presso l'Eilat Tech Center ( Gruppo Arieli), tra i principali acceleratori di startup israeliani, con lo scopo di sviluppare nuove idee d'impresa in uno degli ecosistemi dell'innovazione più all'avanguardia a livello mondiale.
  Le domande di adesione al bando sono state complessivamente 40 e il Comitato di valutazione ha selezionato le migliori realtà attive in diversi settori, dall'health tech alla smart mobility, dalfood tech al clean tech. Il comitato composto dal chief scientist dell'ambasciata d'Italia in Israele, Stefano Ventura e da Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo Innovation Center, ha coinvolto anche Danny Biran, ex vicepresiden - te della Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup Nation Centrai e Dan Fishel di OurCrowd.

 Sistemi complementari
  «Grazie al programma di accelerazione, sette giovani startup italiane potranno per tre mesi sviluppare la loro idea d'impresa nell'eccezionale e dinamico ecosistema della "Startup Nation". Il programma è un nuovo strumento per sfruttare la complementarietà dei due sistemi economici: il nostro ecosistema manifatturiero d'eccellenza mondiale e quello israeliano vocato all'innovazione e al venture capital, un obiettivo condiviso anche dai ministri degli Esteri dei due Paesi in occasione del Rome Med Dialogue», ha sottolineato l'ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti.
  «Intesa Sanpaolo lnnovation Center da diversi anni collabora attivamente con Israele attraverso diverse iniziative con hub di innovazione, investitori e istituzioni, in collaborazione con l'ambasciata Italiana», spiega Guido de Vecchi, direttore generale di Intesa Sanpaolo Innovation Center, «questa iniziativa è una preziosa occasione per offrire a startup selezionate l'accesso ad una concreta opportunità di scale-up internazionale, in un percorso di valorizzazione dell'ecosistema italiano dell'innovazione».
  «Questa entusiasmante partnership», ha concluso Or Haviv, partner di Arieli Capitai, «offrirà alle startup italiane un'opportunità unica di connettersi con il cuore di una delle scene più high tech al mondo, quella israeliana. Il programma farà crescere le startup partecipanti, creando nuove società ad alto impatto tecnologico che trarranno il meglio da Italia e Israele».

 Capitali stranieri
  Il programma nasce nell'ambito delle attività previste dall'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica e punta a sviluppare le startup italiane in quello che viene considerato il Paese più innovativo al mondo e rinomato per la sua forte capacità di attrarre capitali stranieri (circa il 47% contro una media europea del 9%): nel solo 2018 le startup israeliane hanno raccolto circa 6,1 miliardi di dollari.
  Il programma si svolgerà da gennaio a marzo del 2020 e prevede un soggiorno presso la città di Eilat, a sud di Israele, fornita di alloggi e spazi per il co-working. Sono previsti inoltre mentor e tutor che affronteranno temi validi per tutte le giovani imprese e temi specifici a seconda del settore di appartenenza delle singole startup. Numerosi gli incontri di networking con aziende israeliane di successo nei relativi settori. Come previsto dal bando l'Ambasciata d'Italia in Israele ha messo a disposizione un plafond di 100 mila euro che erogherà in favore delle startup selezionate con un contributo di 10.000 euro ciascuna, di cui 8.500 euro destinati al programma di accelerazione e 1.500 euro come rimborso spese.
  Intesa Sanpaolo Innovation Center ha svolto un ruolo centrale nel diffondere la conoscenza del bando nell' ecosistema delle giovani imprese in Italia e nell'analisi delle startup partecipanti. Inoltre, ha coinvolto due dei principali partner in Israele, OurCrowd e Startup Nation Central, all'interno del Comitato di valutazione e collaborato nella ricerca dell'acceleratore.

(Libero, 17 dicembre 2019)


Profanata la tomba di Heydrich, ex gerarca delle SS

di Letizia Tortello

 
La tomba era senza nome, né indicazioni di sorta, al cimitero degli Invalidi, a Berlino. Dunque, chi ha profanato il sepolcro dell'ufficiale delle SS, Reinhard Heydrich, è andato a colpo sicuro: sapeva dov'era e si è mosso con la complicità di qualcuno. Era una legge imposta dalle Forze alleate alla fine della Seconda Guerra mondiale, quella di non mettere indicazioni sulle tombe dei nazisti, per evitare che diventassero luogo di pellegrinaggio di nostalgici e simpatizzanti.
  La polizia della capitale tedesca sta cercando indizi che riconducano ai colpevoli, e si affretta a dichiarare che non sono state trafugate ossa, anche se la tomba è stata aperta. Il misfatto è stato scoperto da un impiegato dell'Invalidenfriedhof, nel centro della città, giovedì scorso. Un reato di questo tipo è classificato come «grave profanazione» e perseguito con pene severissime, secondo la legge tedesca. Ma non è la prima volta che la tomba di un nazista viene scoperchiata: era accaduto al cimitero St. Nikolai nel quartiere Prenzlauer Berg nel 2000, quando un gruppo di estrema sinistra entrò in quella che sosteneva fosse la tomba di Horst Wessel, membro dello Stofstrupp, la fanteria d'assalto nazista. Wessel fu assassinato nel 1930 e trasformato in martire. I profanatori dichiararono di aver gettato il cranio nel fiume Sprea a sfregio, ma la polizia smentì, affermando che la tomba era in realtà quella del padre di Wessel, e che non erano state rimosse ossa.

 Lo uccisero agenti cecoslovacchi
  Stessa dinamica per Heydrich, ma la tomba stavolta era quella giusta. Ufficiale di alto livello, l'ex gerarca fu ucciso dagli agenti cecoslovacchi nel 1942. Si impegnò in prima linea per organizzare l'Olocausto, guidò la Conferenza di Wannsee, nella villa su uno dei laghi di Berlino, gennaio del '42, in cui generali e burocrati del Reich vennero informati delle tappe organizzative per mettere in atto la soluzione finale. Fu soprannominato «il Macellaio», dal direttore del Reichssicherheitshauptamt, l'Ufficio generale per la Sicurezza del regime creato da Himmler, responsabile dello spionaggio in Germania e all'estero.
  Adolf Hitler chiamava Heydrich «l'uomo dal cuore di ferro». Nella primavera 1941 fu nominato dal Führer governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, dove mise in atto persecuzioni e repressioni per annientare la resistenza anti-tedesca. Fino all'età di 38 anni, maggio del '42, quando agenti cecoslovacchi addestrati dagli inglesi attaccarono la sua limousine. Heydrick morì per le ferite riportate. Per rappresaglia, i nazisti distrussero il villaggio di Lidice, uccidendo uomini e ragazzi adolescenti e deportando donne e bambini nei campi di concentramento.

(La Stampa, 17 dicembre 2019)


Pregiudizi su Israele tra i banchi, i cortocircuiti della scuola italiana

In una scuola di una città italiana viene invitato un ospite per parlare del conflitto tra israeliani e palestinesi, un tema complesso che richiede preparazione, soprattutto se si parla a un pubblico di studenti. L'ospite presenta invece un resoconto distorto. proponendo una visione semplicistica del conflitto e addossandone tutte le responsabilità a una sola delle parti in causa: Israele. È veramente questa l'analisi che si vuole proporre a degli studenti? La testimonianza del docente Andrea Atzeni.

di Andrea Atzeni, insegnante

Un anno fa. In un prestigioso liceo proprio al centro della principale città dopo la capitale. Una circolare annuncia la conferenza dell'inviato in Medio Oriente di uno dei nostri quotidiani più diffusi. Lavoro qui solo da un paio di mesi e non so chi l'abbia invitato, perché e percome. Il suo nome non mi è del tutto nuovo. Tra l'altro è il medesimo, circostanza su cui egli stesso ha talvolta scherzato, del leggiunese eletto miglior giocatore italiano di sempre.
  Il titolo è suggestivo: "Gaza Brucia". È uno slogan persino usurato in certe recenti cronache. Sembra mancare il complemento oggetto. Gaza brucia i campi israeliani, magari? Visto che da mesi si susseguono le notizie dei disastrosi incendi causati da aquiloni e palloni incendiari. Gaza brucia copertoni al confine, anche? Ogni venerdì infatti i terroristi coperti dal fumo e mescolati nella folla esagitata cercano di sfondare le barriere per fare strage di cittadini israeliani. Gaza non brucia forse pure il carburante delle centinaia di missili che scaglia di continuo contro le città di Israele? E così e in modi simili non brucia anche buona parte del danaro che le arriva da ogni parte del mondo?
  Poiché mi trovo ad accompagnarci una classe, ho modo di seguire l'incontro. Nonostante il titolo, non si parla granché di Gaza: né della miserevole situazione in cui i suoi abitanti sono tenuti dalla corrottissima dittatura di Hamas, né delle feroci violenze con cui essa soffoca ogni minima manifestazione interna di dissidenza. L'argomento sembra essere piuttosto la storia di Israele con controcanto palestinese. Almeno una grossa parte degli studenti partecipanti non frequentano l'ultimo anno, dunque il loro programma di storia non contempla le vicende in questione: sarà il solito primato dell'attualità a prescindere da tutto? E poi, diciamoci la verità, fossero anche tutti studenti prossimi all'esame di Stato, che cosa saprebbero veramente sulla storia di Israele e del popolo ebraico? In ogni caso i contenuti lasciano piuttosto perplessi. Tanto per cominciare, la rievocazione giornalistica del sionismo non prende le mosse, a differenza di ogni testo scolastico sull'argomento, da Herzl con l'affare Dreyfus e il Congresso di Basilea, e neppure dalla morte di Alessandro II coi pogrom giù fino ai Protocolli, e neanche da Moses Hess o dall'Alleanza Israelitica, e men che mai dall'identità millenaria di un popolo e dal suo movimento di autodeterminazione nazionale. Si parte dagli albori del XIX secolo, quando alcuni rabbini americani avrebbero lanciato l'idea di un "ritorno nella terra promessa del popolo eletto", sollecitando una prima ondata di immigrazione e la formazione dei primi nuclei ebraici in Palestina. Quali le fonti, i nomi, le date, le cifre? Non è dato saperlo. Di certo questa retrodatazione rabbinica statunitense delle origini del sionismo piacerebbe a quanti demonizzano Israele come il prodotto di un'aggressione colonialista da parte di occidentali razzisti che si proclamano guidati da Dio. Tuttavia, rispetto ai conflitti di Israele con palestinesi, arabi vari e musulmani assortiti, il relatore mette subito le mani avanti dichiarando di non voler definire ragioni e torti, lasciando agli astanti l'onere di stabilire chi abbia ragione. A sentire quel che dice in seguito e come lo dice, si ricava un'impressione un po' meno lineare, anche se in cuor suo l'intenzione oggettivamente descrittiva è in certo senso del tutto sincera. E poi come si potrebbe mai porre in dubbio la buona fede? L'asserita equidistanza pare un suo modo d'intendere l'equanimità.
  Ora, posto che davvero lo si possa essere, neutrali e terzi, va osservato che la scuola (i programmi ministeriali, i manuali in adozione, le sue pratiche didattiche abituali) non sempre parte dallo stesso presupposto. Come se, per dire, nel riferire di un conflitto fosse sempre meglio tirarsene fuori, astenendosi da qualsiasi distinzione. Di solito anzi è ritenuto nel giusto chi, aggredito, si difende. Mentre il superamento in armi di un confine, lo sforzo di massacrare quanti più civili possibile, l'aggressione unilaterale finalizzata a cancellare un popolo e consimili gesta non sono ritenute di solito commendevoli. I libri di testo si dichiarano forse terzi tra Hitler e la Cecoslovacchia o la Polonia? Non sembrano indifferenti neppure rispetto all'Anschluss. Sappiamo però che alcuni riescono a vedere tutto alla rovescia. Colpisce poi l'evocazione del genocidio nazista come precondizione della nascita del focolare nazionale ebraico. Israele cioè esiste solo grazie alla Shoah? Per via dei subitanei rimorsi di chi non è riuscito a impedirla? Di certo questa posticipazione funesta dell'affermarsi del sionismo piacerebbe a quanti demonizzano Israele come il frutto avvelenato del senso di colpa europeo servito agli incolpevoli popoli arabi, condannati così a subire le stesse sofferenze patite poco prima dagli ebrei. E d'altra parte la vecchia storiella a seguire, sull'acqua rubata dagli ebrei ai palestinesi, ora riproposta a proposito di Gaza con tanto di percentuali insieme precise e reticenti, non ricorda forse la vecchissima leggenda medievale degli ebrei avvelenatori di pozzi? Ma, a volerla dire tutta, non si saprebbe neppure dove iniziare: ci sono le vaghezze sulle imperfezioni della democrazia israeliana e su Hamas "organizzazione religiosa", le ambiguità sulle minoranze ebraiche in Europa che porterebbero alla diffusione dell'antisemitismo, le insinuazioni su Ben Gurion e Jabotinsky, le indulgenze sulla cosiddetta Nakba e sulla pretesa dei profughi palestinesi per ius soli o per ius sanguinis al ritorno nelle terre che proclamano loro, le fantasie sull'assassinio di Rabin causa del fallimento delle trattative di pace, quelle sul pacifico Arafat stanco di guerra frenato da una telefonata minatoria, l'immancabile bantustanizzazione della Cisgiordania, i pacati giudizi sui sionisti guerrafondai con la bomba atomica e sulle inoffensive sassaiole dei palestinesi scavatori di tunnel, e via barcamenandosi senza né vittime né persecutori. Una sequela travolgente sconcertante e desolata. Anche a voler far chiarezza, da dove cominciare?
  Privo come sono di qualsiasi autorevolezza in materia, preferisco inoltrare i miei appunti sulla mattinata a un paio di esperti di sionismo e antisionismo per acquisire la loro opinione. Uno di loro, a proposito del relatore, finemente osserva: "Sembra che voglia fare un grande sforzo di obiettività, di moderazione, di equidistanza, di comprensione delle ragioni degli uni e degli altri ma in realtà non è affatto così. Si capisce a ogni riga che agli arabi e ai palestinesi fa lo sconto, sono le vittime, mentre contro Israele continuamente insinua cose false e ingiuste, Chi esce dopo aver ascoltato questa conferenza non dice: è vero, ci sono torti e ragioni. Dice: che bastardi questi israeliani! con la scusa della Shoah ... Penso che se io fossi stato presente, con molta calma avrei rintuzzato qua e là le falsità e le inesattezze. Soprattutto avrei sottolineato che la guerra dura da 70 anni perché il rifiuto della convivenza è arabo e palestinese". E, più in generale: "Il problema vero è che vengono proposti in termini equilibrati, non propagandistici, imparziali e obiettivi, discorsi che sono in realtà faziosi e orientati a presentare Israele in una luce falsa e distorta". Un altro mio interlocutore è più secco: "Il discorso è pieno di errori grossolani. A parte questi, l'interpretazione è tendenziosa e violentemente antisraeliana, veramente inaccettabile. Bisognerebbe sempre chiedere che di fronte a questo signore vi sia un'altra opinione, per smentire coi fatti le sue menzogne".
  Mesi dopo mi imbatto nella segnalazione di un articolo del giornalista in questione su una testata online. Mando anche ai loro collaboratori i miei appunti, chiedendo un parere. Due giorni dopo questi vengono pubblicati sulla loro pagina. Il commento introduttivo chiosa: "Nella conferenza presso il liceo sono molte le prese di posizione ostili e la lunga ricostruzione storica e omissiva e incompleta, e di conseguenza faziosa [ ... ] per esempio sminuisce completamente il terrorismo arabo palestinese, mentre focalizza l'attenzione quasi esclusivamente su Israele, colpevole secondo il canone degli odiatori". Poi un duro interrogativo: ''Ancora più grave è il fatto che un pubblico di studenti sia stato costretto ad ascoltarlo a lungo. E' legale la propaganda, senza contraddittorio, nelle scuole italiane?"
  Solo a fine anno scolastico la notizia di tale pubblicazione filtra in alcuni ambienti dell'istituto. Le scuole non amano la pubblicità e preferiscono curare direttamente i rapporti con l'esterno (infatti, nonostante le invadenti rappresentanze genitoriali e qualche occasionale scalpore giornalistico, al di fuori non si sa granché di quel che vi succede). I panni sporchi cercano di lavarli in famiglia, ammesso e non concesso che riconoscano le macchie e intendano davvero farle scomparire. Inoltre le ultime frasi citate devono suonare minacciose. In realtà non c'è stata alcuna costrizione e la domanda sulla legalità non è molto indovinata. Manco a farlo di proposito, proprio negli stessi giorni fa notizia la vicenda dell'insegnante di Palermo sospesa per non aver vigilato adeguatamente l'operato dei propri studenti, che durante una sua lezione si erano lanciati in una spericolata equiparazione del controverso decreto sicurezza con le leggi razziste di ottant'anni prima. Anche tale episodio fa emergere diverse questioni degne di riflessione mentre non si è certo provveduto ad affrontarle in modo adeguato.
  A scuola comunque del merito non si parla. Nessuno mette in dubbio la fedeltà della trascrizione, anzi mi si accusa di aver registrato tutto senza autorizzazione e di averlo pubblicato su un blog. Urge piuttosto rinfacciarmi la violazione, col mio subdolo comportamento, delle tacite consuetudini di buona creanza scolastica. Avrei potuto intervenire subito per porre domande, correggere, sottolineare eventuali lacune e sostenere un punto di vista diverso. Mentre così ho invece sdegnato il relatore, chi l'ha invitato e insieme la scuola tutta. Sebbene tardivamente, attanagliato dal senso di colpa, cerco di fare ammenda porgendo i miei dubbi direttamente al giornalista, con la massima riverenza possibile, tramite l'indirizzo della redazione. Non ricevo risposta alcuna. Forse troppo tardi, ormai. Che si sia davvero adontato pure lui?

(Pagine Ebraiche, dicembre 2019)


Schmidt, il cacciatore di opere rubate. ''Devono tornare al loro posto

Dopo l'operazione rientro del "Vaso di fiori", il direttore degli Uffizi e le mosse per recuperare gli altri pezzi spariti durante la guerra: "Ne mancano un'ottantina". Gli appelli della comunità ebraica e l'intelligence interforze al lavoro.

di Maria Cristina Carratù

 
"Vaso di fiori", il dipinto di Jan van Huysum
Dopo il recupero del Vaso di fiori, il dipinto dell'olandese Jan van Huysum sottratto dai nazisti nella seconda guerra mondiale e tornato agli Uffizi, lo scorso luglio, il direttore della Galleria Eike Schmidt rivela di non aver affatto abbandonato il ruolo di "detective" nelle complesse operazioni di recupero delle opere d'arte trafugate dai musei fiorentini durante l'ultimo conflitto. Furti rimasti impuniti per la difficoltà di ricostruire i passaggi di mano avvenuti, o per l'assoluta assenza di tracce. «La sfida» aveva già detto Schmidt presentando l'Huysum recuperato, «è ora quella di una moral suasion da fare anche attraverso i governi esteri, con un'interazione con le forze dell'ordine internazionali». Ma era sembrato soprattutto un appello lanciato ad altri, mentre ieri, a margine della inaugurazione della mostra sull'arte della calzatura a Palazzo Pitti, il direttore degli Uffizi ha detto di essere «al lavoro» in prima persona sul fronte del recupero, e di voler proseguire sulla strada inaugurata dal recupero del Vaso di fiori. «Sì, ci stiamo lavorando», ha detto, «non c'è ancora niente di concreto, ma ce ne stiamo occupando». Quante opere mancano all'appello dalle collezioni della Galleria? «I numeri sono noti», ha aggiunto il direttore, ricordando che «da Firenze ne manca ancora un'ottantina», anche se, ha detto, «non tutte della stessa importanza». Alcune decine, infatti, «sarebbero da deposito», in quanto non all'altezza di un'esposizione permanente. E non per questo, da trascurare: «In quanto rubate, vano ricondotte alla loro originaria destinazione». Anche se, essendo di secondo piano, non è detto che valga la pena, per ottenerle, di scomodare relazioni diplomatiche o esercitare pressioni sui governi, come nel caso del quadro di Huysum. E c'è poi una storia nella storia: la richiesta avanzata da alcuni esponenti della Comunità ebraica fiorentina, le cui famiglie sono state depredate dai nazifascisti di opere di loro proprietà, e che, incoraggiati dalla determinazione di Schmidt nella vicenda del Vaso di fiori gli hanno chiesto di aiutarli a cercare anche queste sulla base degli indizi in loro possesso. Un compito delicato, questo, come la ricerca delle opere trafugate, da con"intelligence" interforze (apparati della sicurezza e diplomatici, forze dell'ordine, eccetera), nel rispetto degli specifici ambiti di intervento di ogni soggetto. A queste condizioni, Schmidt lo ha promesso: «Sono pronto a dare una mano».

(la Repubblica - Firenze, 17 dicembre 2019)



Italiani internati nel Reich. L'assillo tardivo di Mussolini

In un saggio di Alfio Caruso (Neri Pozza) la preoccupazione per i soldati prigionieri di Hitler. Il console a Berlino Luciano Giretti era stimato da Goebbels ma salvò due ebrei.

di Aldo Cazzullo

«Morera mi raccomando: bisogna fare non il possibile, ma l'impossibile per salvare il fiore della nostra generazione, cioè gli internati. Occorre impedire che quei 700 mila ragazzi tornino a casa morti o malati com'è successo finora che sono rientrati tutti tubercolotici. Non dobbiamo rovinare il futuro del nostro Paese». Così parlò Mussolini al generale Umberto Morera, comandante la missione militare della Repubblica sociale a Berlino, il 20 luglio 1944. Il Duce e il suo seguito sono diretti a Rastenburg per quello che sarà l'ultimo incontro con Hitler. Il convoglio, sul quale viaggiano, è stato fermato allo snodo ferroviario di Goerlitz. Mussolini ovviamente ignora che Hitler è appena sfuggito all'attentato ordito dal colonnello von Stauffenberg. Approfitta, però, della sosta per convocare Morera e dargli quell'ordine sorprendente, diretto a salvare soprattutto gli internati militari in Germania, che più volte hanno detto no alle sue lusinghe, alle pressanti richieste - del Duce e dei tedeschi - di arruolarsi con l'esercito di Salò.
   L'inedito episodio è raccontato da Alfio Caruso in Salvate gli italiani. Mussolini contro Hitler, Berlino 1944 {Neri Pozza). A Caruso lo ha svelato il figlio di Morera, il novantaduenne avvocato Renzo, giunto a Berlino il 31 maggio 1944 con la madre e il fratello minore.
   Volontario a diciassette anni nel battaglione San Marco, Renzo diventa lo straordinario testimone dell'agonia di Berlino e del Terzo Reich. Il padre lo spedisce negli sperduti avamposti del Nord Europa occupati dai reparti italiani. La posizione geografica li ha obbligati, volenti o nolenti, a battersi con la Wehrmacht. Già prima della perentoria disposizione di Mussolini, l'assillo della missione militare è stato la salvaguardia dei connazionali esposti alle angherie dei nazisti. Anche l'ambasciata, guidata da Filippo Anfuso - per molti anni il collaboratore più stretto di Galeazzo Ciano - ha provato a frapporsi tra la crescente ostilità tedesca e le miserevoli condizioni dei nostri soldati.
   Caso mai, come scrive Caruso, meraviglia l'improvvisa angoscia del Duce per la salvaguardia degli italiani, dai quali quattro anni prima pretendeva un migliaio di morti pur di sedere al tavolo della pace. Mussolini è forse attento più alla propria reputazione futura che al benessere dei compatrioti. Ma nell'invito rivolto a Morera, ignorando che gli italiani di Berlino già si adoperavano in tal senso, ha anche pesato il desiderio - o meglio l'illusione - di confermare a se stesso che lui era davvero lo scudo degli italiani, e poteva sfidare, per interposta persona, uno dei diktat di Hitler. Il libro infatti narra l'avversione crescente di Mussolini per il Führer dopo tanti anni di vergognosa sottomissione, figlia del terrore quasi fisico dello stesso Duce e degli alti gerarchi.
   Emerge dal libro di Caruso la preziosa e sconosciuta opera del direttore del Sai (Servizio assistenza internati), Armando Foppiani, del tenente colonnello Viappiani, soprattutto del giovanissimo consigliere diplomatico Giangaleazzo Bettoni. E sua figlia Prisca racconta di quando il padre indossò la divisa da tenente delle SS e con la collaborazione di Foppiani strappò ai nazisti alcuni italiani condannati a morte. Un episodio rivelato a Prisca e ai suoi fratelli da Carlo Azeglio Ciampi, che nel 1939 a Lipsia aveva instaurato con Bettoni un'amicizia durata tutta la vita.
   In quei mesi disperati, ogni giorno si gioca a Berlino una rischiosissima partita nel nome della comune origine, al di là delle feroci contrapposizioni ideologiche. Il console Luciano Giretti, alla cui tavola spesso siede von Karajan invischiato in una relazione extraconiugale, è considerato da Goebbels uno dei pochissimi italiani dei quali fidarsi: invece per venti mesi nasconde in casa una coppia di coniugi ebrei polacchi condannati a morte e procura loro i passaporti per spedirli in Italia. Partono con uno dei treni ospedali allestiti da Foppiani e dal professore Giorgio Alberto Chiurco, direttore della Croce Rossa a Berlino, sui quali vengono caricati tanti che malati non sono.
   L'Armata Rossa stringe la morsa, Hitler trasforma la sua capitale in una piazzaforte militare sottoposta alla corte marziale. Il generale Morera prende allora la decisione di fornire falsi lasciapassare a chi se la sente di rischiare. Diplomatici e militari di Salò intraprendono una gara contro il tempo per concedere una chance di salvezza al maggior numero di compatrioti. Nello stesso tempo, Berlino si riempie di fascisti venuti da tutta Europa per immolarsi nella battaglia finale invocata dal Führer. Ma a fine marzo 1945 Mussolini ordina l'esodo: non un Italiano deve morire per Berlino. E il suo ultimo sgarbo a Hitler. Il 16 aprile Umberto e Renzo Morera sono nell'ultimo gruppetto, che parte verso il Brennero.

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2019)


In Israele al via il primo programma di accelerazione per startup italiane

MILANO - Partirà a gennaio il primo programma di accelerazione per startup italiane in Israele lanciato dall'Ambasciata d'Italia in Israele e da Intesa Sanpaolo Innovation Center, la società del gruppo bancario presieduta da Maurizio Montagnese. Tramite un bando di gara pubblicato a gennaio 2019 sono state selezionate 10 startup, sette delle quali trascorreranno tre mesi presso l'Eilat Tech Center (Gruppo Arieli), tra i principali acceleratori di startup israeliani, con lo scopo di sviluppare nuove idee d'impresa in uno degli ecosistemi dell'innovazione più all'avanguardia a livello mondiale.
   Le domande di adesione al bando sono state complessivamente 40 e il Comitato di valutazione ha selezionato le migliori realtà attive in diversi settori, dall'health tech alla smart mobility, dal food tech al clean tech. Il comitato composto dal Chief Scientist dell'Ambasciata d'Italia in Israele, Stefano Ventura e da Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo Innovation Center, ha coinvolto anche Danny Biran, ex Vice president della Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup Nation Central e Dan Fishel di OurCrowd.
   "Grazie al programma di accelerazione, sette giovani startup italiane potranno per tre mesi sviluppare la loro idea d'impresa nell'eccezionale e dinamico ecosistema della Startup Nation", ha sottolineato l'Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti. "Il programma è un nuovo strumento per sfruttare la complementarietà dei due sistemi economici: il nostro ecosistema manifatturiero d'eccellenza mondiale e quello israeliano vocato all'innovazione e al venture capital, un obiettivo condiviso anche dai Ministri degli Esteri dei due Paesi in occasione del Rome Med Dialogue".

(askanews, 16 dicembre 2019)


Israele a Expo di Dubai, nuovo passo verso il mondo arabo

Ministro Katz: 'Cresce il nostro status tra Paesi della regione'

di Massimo Lomonaco

 
 
 
Expo Dubai 2020
Israele sarà presente con un proprio padiglione all'Expo 2020 di Dubai, negli Emirati. Un fatto storico visto che Israele non ha rapporti diplomatici con la Federazione che si affaccia sul Golfo Persico, con la quale, tuttavia, da tempo i rapporti si stanno intensificando. La partecipazione all'Expo - in programma da ottobre del prossimo anno fino ad aprile del 2021 - è quindi una tappa di quel percorso più generale da parte di Israele e del fronte arabo sunnita con in testa l'Arabia Saudita, che non dimentica certo la causa palestinese, per avviare relazioni anche come deterrenza riguardo all'Iran e ai suoi alleati nell'area. Non a caso a firmare il protocollo di partecipazione è stato, la settimana scorsa, il direttore generale del ministero degli esteri, Yuval Rotem, in una visita a Dubai. L'intesa è stata esaltata dal ministro degli Esteri Israel Katz come una "crescita dello status di Israele, non solo a livello internazionale, ma anche tra gli Stati chiave della regione". "Questa partecipazione - ha aggiunto Katz - offre ad Israele una straordinaria opportunità di mostrare le sue capacità e i risultati raggiunti nel campo della tecnologia accanto alla vivace cultura israeliana". In perfetta linea con quanto rivendicato dal premier Benyamin Netanyahu, che ad aprile scorso, quando si cominciò a parlare della possibile partecipazione all'Expo di Dubai, ne sottolineò l'importanza politica come ulteriore prova del "crescente rango" di Israele nell'area.
   A testimoniare il crescente scambio, è di ieri la notizia che una delegazione di alti esponenti israeliani del ministero della giustizia è ad Abu Dhabi per partecipare una conferenza internazionale sulla corruzione. Senza dimenticare che lo scorso anno l'inno israeliano fu suonato in una competizione internazionale ad Abu Dhabi quando un atleta israeliano vinse la medaglia d'oro di judo. Ed ora, secondo quanto ha segnalato di recente il quotidiano Yediot Ahronot, gli Emirati stanno pensando di consentire ai turisti israeliani di entrare liberamente nel Paese a partire dall'inizio dell'Expo (circa 25 milioni di visitatori stimati) nell'ottobre del prossimo anno.
   Cosa fino ad adesso non consentita. Infine - e non sembra proprio un caso - 'Gates of Tomorrow', il Padiglione israeliano (disegnato dall'architetto David Knafo, lo stesso che progettò quello all'Expo di Milano, insieme ad Avs) rassomiglierà, ha raccontato il sito Xnet, ad duna di sabbia accompagnata da grandi schermi sui quali saranno proiettati paesaggi di Israele e i risultati raggiunti dal Paese.

(ANSAmed, 16 dicembre 2019)


Gas a Cipro, Erdogan accende la miccia nel Mediterraneo?

L'incidente militare tra Turchia e Israele riapre la questione sulle conseguenze delle reiterate provocazioni di Ankara nel Mediterraneo orientale per la supremazia sul gas

di Francesco De Palo

Un incidente militare tra Turchia e Israele riapre la questione sulle conseguenze geopolitiche e strategiche delle reiterate provocazioni di Ankara nel Mediterraneo orientale. Il presidente turco Erdogan accende una miccia intrecciando i destini di Libia, Grecia, Israele e Cipro? E quali altre mosse si prefigurano all'orizzonte, dopo l'accordo stipulato con la Libia che investe anche la situazione alle porte di Tripoli?

 Scontro o intimidazione?
  Si apprende oggi che due settimane fa una nave da guerra turca ha "espulso" una nave da ricerca israeliana situata all'interno della Zee cipriota. La notizia è stata confermata dal ministero israeliano dell'energia. La nave Bat Galim del Servizio di ricerca oceanografica e lagunare aveva a bordo ricercatori dell'Università Ben-Gurion e un geologo cipriota che conduceva ricerche subacquee sul gasdotto EastMed per volere del governo israeliano. La nave turca ha inviato un messaggio intimando l'allontanamento della nave israeliana perché si trovava "all'interno della Zee turca", nonostante la nave stesse navigando su autorizzazione da parte delle autorità cipriote.

 Le provocazioni turche
  Appare evidente come in questo momento Ankara intenda contrastare in ogni modo la cooperazione trilaterale esistente tra Israele, Cipro e Grecia che si è compattata sul dossier energetico. Tel Aviv ritiene ormai strategica l'interlocuzione con Atene proprio perché fondata su interessi di lungo termine, come ribadito recentemente dall'ambasciatore israeliano ad Atene Yossi Amrani, annunciando altre partnership oltre il gas come quella nei settori della difesa. All'orizzonte la possibilità che il cosiddetto triumvirato del gas tra Atene, Nicosia e Tel Aviv si "allarghi" ad una sorta di alleanza di difesa, al fine di tutelare gli interessi nazionali dei tre player.
  "La tensione sta effettivamente aumentando e sta diventando più frequente - ha puntualizzato Amrani con riferimento alle provocazioni di Erdogan - Siamo pienamente consapevoli delle implicazioni di politiche specifiche per la sovranità e la sicurezza, ma anche della nostra capacità di sfruttare le risorse naturali. Il nostro messaggio è chiaro".

 Tensioni nel mediterraneo
  Rispetto a 12 mesi fa, le tensioni sul gas in questo fazzoletto di acque mediterranee stanno aumentando esponenzialmente, soprattutto a seguito dell'accordo tra Turchia e Libia per un corridoio di Zee tra Ankara e Tripoli. Sul punto, dopo la crisi diplomatica tra Libia e Atene dettata dal fatto che l'accordo siglato non tiene conto dell'isola di Creta, ecco un nuovo punto di frizione. L'ambasciata libica in Egitto ha chiuso i battenti a causa di "preoccupazioni per la sicurezza" come recita una nota apparsa sul profilo Facebook.
  L'ambasciata, che rappresenta il governo di unità nazionale (ECE) riconosciuto a livello internazionale, ha negato in una successiva dichiarazione che la sospensione della missione diplomatica fosse legata ai motivi di carattere interno (Haftar vs Serraj), citando generiche "violazioni" e tentativi di estorsione, senza fornire ulteriori dettagli. Lo stesso Serraj è stato ieri ospite del presidente turco (per la seconda volta in meno di un mese) senza che l'incontro fosse ufficialmente presente in agenda. Nonostante non siano trapelati elementi di merito, è verosimile che abbiano parlato del possibile invio di forze militari turche in Libia a sostegno del governo di Tripoli contro gli uomini di Haftar.

 I sospetti
  A dimostrazione dell'elevato stato di agitazione nell'Egeo e nel Mediterraneo orientale, un ulteriore momento di confronto ci sarà oggi a Ginevra tra il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias, per discutere di sicurezza regionale. Sullo sfondo le minacce di Erdogan non solo di sconfessare apertamente il Trattato di Losanna che nel 1923 stabilì i confini nell'Egeo (ma che Ankara contesta strumentalmente solo adesso per la scoperta del gas a Cipro), ma di impedire l'accesso degli Usa alla base turca di Incirlik, da cui il Pentagono ha da tempo avviato un progressivo disimpegno spostando uomini e mezzi in quattro basi elleniche.

(formiche, 16 dicembre 2019)


Montenegro acquisterà un sistema di armi israeliano per 35 milioni di dollari

PODGORICA - La compagnia israeliana Elbit system consegnerà al Montenegro un sistema di armi dal valore di 35 milioni di dollari, in base a un accordo firmato tra i due paesi domenica. Secondo quanto riferisce il sito di informazione "The Times of Israel", Elbit fornirà un sistema di controllo a distanza di armi che sarà integrato in veicoli leggeri tattici di produzione statunitense in dotazione alle forze armate montenegrine. L'accordo prevede la consegna del sistema e delle parti di ricambio, nonché una guida all'addestramento per l'esercito e il ministero della Difesa di Podgorica. L'accordo è stato firmato dal Direttorato per la cooperazione internazionale nel settore della Difesa israeliano (Sibat) e dal ministero montenegrino. Il direttore di Sibat, il brigadier generale Yaur Jykasm ha affermato che l'accordo "rispecchia il valore delle innovazioni israeliane nel settore della difesa, che si occupano di problemi che i nostri partner strategici e i nostri alleati possono affrontare".

(Agenzia Nova, 16 dicembre 2019)


Israele, una promozione a pieni voti

di Carlo Marroni

 
Un'economia dinamica in un contesto difficile, che può far peggiorare il "rating" del Paese, il merito di credito. È recente un rapporto dell'agenzia di rating Moody's sull'economia israeliana, dove si mettono in luce i punti di forza. Israele ha certamente un'economia resiliente, diversificata e competitiva. Resta la principale debolezza del credito, che è la suscettibilità del paese ai rischi geopolitici. Un giudizio che guarda certamente al lungo termine e non a fattori contingenti, come per esempio il recente riesplodere del conflitto con Gaza, con lancio di missili verso Tel Aviv anche a seguito dell'uccisione del leader della jiahd islamica nella Striscia. I punti di forza del credito israeliano (positivo per Al) comprendono la sua economia forte e competitiva, un'altissima forza istituzionale e le sue dinamiche fiscali favorevoli a lungo termine, ha scritto Moody's Investors Service nel suo rapporto annuale.
   Quindi, in questo quadro un po' a doppia facciata, Israele ha visto un sostanziale miglioramento dei fattori del debito pubblico negli ultimi dieci anni, ed è uno dei pochi paesi avanzati che ha un rapporto debito/Pil inferiore rispetto a prima della crisi finanziaria globale - l' attuale livello è stimabile nel 64%. Un fatto di per sé eccezionale.
   "La crescita economica di Israele (gli ultimi dati indicano una crescita del Pil sullo scorso anno del 3,3%, ndr) ha superato la maggior parte degli altri paesi industriali avanzati negli ultimi dieci anni, guidata da un settore delle esportazioni ad alta tecnologia fortemente competitivo e da una base economica diversificata che ora include le esportazioni di energia" ha affermato Evan Wohlmann, Vice Presidente di Moody's - Senior Credit Officer e autore del rapporto. "Lo sviluppo del giacimento di gas del Leviatano probabilmente rafforzerà ulteriormente la posizione di creditore netto di Israele". Il giacimento è stato scoperto nel 2010, e si tratta di una delle maggiori scoperte dell'ultimo decennio: dovrebbe contenere fino a 605 miliardi di metri cubi di gas naturale, equivalente - è stato stimato, a 65 anni di consumo interno. Le compagnie petrolifere che sono al lavoro hanno finora investito nel progetto 3,75 miliardi di dollari. Un fattore che resta di debolezza è legato alle infrastrutture, e in particolare alla linea ferroviaria ad alta velocità Tel Aviv-Gerusalemme, ancora inspiegabilmente non funzionante.
   Resta la principale debolezza creditizia del Paese: "La sua suscettibilità al rischio politico, in particolare rischi geopolitici persistenti con il potenziale di essere coinvolti in conflitti su piccola scala nella regione, nonché il rischio di un'escalation delle tensioni con i palestinesi". Detto questo, Israele - per Moody's - ha visto un miglioramento della sua situazione di sicurezza negli ultimi anni. Allo stesso tempo, l'attuale prolungata stagione elettorale - che resta ancora un'incognita - ha prolungato l'incertezza politica e l'inerzia delle riforme, "ritardando al contempo gli sforzi più completi per affrontare il crescente deficit di bilancio". Un'intensificazione degli sforzi di risanamento del bilancio a seguito della formazione del prossimo governo, quando ci sarà, che aiuta a preservare ampiamente i guadagni di riduzione del debito osservati nell'ultimo decennio "sarebbe positiva per il credito", inteso come rating vero e proprio. Il continuo sviluppo del giacimento di gas del Leviatano e una maggiore chiarezza sulle dimensioni e sui tempi potenziali dei benefici economici e fiscali sarebbero positivi per il credito. "Le prospettive potrebbero essere stabilizzate se gli sviluppi geopolitici compromettessero materialmente la stabilità economica di Israele o se il governo dimostrasse un impegno nei confronti della disciplina fiscale, incluso un basso onere del debito, se si volgesse" conclude l'agenzia di rating.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2019)



Essere ebrei, una faccenda terribilmente complicata

di Elena Loewenthal

Non è facile essere ebreo: lo spiega Riccardo Calimani nel suo nuovo libro, appena pubblicato con questo titolo dalla Nave di Teseo (pp.167, € 12). E lo fa rivolgendosi soprattutto a chi ebreo non lo è, passando dalla mistica della Qabbalah all'umorismo, dal tabù dell'idolatria all'espulsione dalla Spagna, nel 1492.
   Il volume si presenta come un'agile guida ai fondamentali di un'identità religiosa, storica, culturale davvero difficile da cogliere: è ebreo chi è figlio di madre ebrea (grande privilegio, entro i confini di una società tanto per cambiare ad alto tasso di maschilismo), oppure chi si converte all'ebraismo (cosa che per lo più non è nota e desta immancabilmente un certo stupore: ma come, si può diventare ebrei? Sì, a patto di aver voglia di studiare). Se non che, al di là di questo assioma, tutto si complica in un insieme di comuni denominatori e apparentemente insormontabili differenze che si riconoscono nella varietà delle declinazioni. In parole povere, essere ebreo a Varsavia, a Cochin in India, a Sanaa in Yemen, a Roma o a Buenos Aires significa - e significava - cose molto diverse. E la stessa inafferrabilità si coglie ovviamente in una prospettiva diacronica.
   Calimani riesce a impostare il racconto dell'identità in modo scorrevole e comprensibile, addentrandosi nei suoi meandri: «Che cosa è un ebreo? È uno che quando gli racconti una storiella ebraica ti risponde che la sapeva già e te la ripete migliorandola. Non potrei quindi spiegare a un ebreo che cosa significa essere ebreo: non soltanto lo sa benissimo, o crede di saperlo, ma sarebbe capace di spiegarlo molto meglio di me. Dunque, ai lettori ebrei queste pagine non servono».
   Ma in realtà il libro è utile anche a chi questa identità ce l'ha. Come dice un'altra vecchia storiella, la prima cosa che un ebreo fa da naufrago su un'isola deserta è costruirsi due sinagoghe: una che frequenterà, l'altra dove non metterà piede manco morto. Perché al di là della difficoltà, come dice il titolo del libro, il punto è che essere ebrei è terribilmente complicato, costringe a un confronto continuo con la complessità della propria condizione - storica, religiosa, nazionale, culturale, linguistica e chi più ne ha più ne metta. Ma forse soprattutto con quel paradosso che è una Legge divina fondamento dell'identità, che però ti impone il principio della libertà come precondizione dell'osservanza (se non hai la facoltà di trasgredirla, rispettare la legge non è più un merito, violarla non è più una colpa). Forse tutto parte di lì, da quella contraddizione primigenia, che è anche, infondo, la cifra di ogni identità umana.

(La Stampa, 16 dicembre 2019)


Ardenne, l'ultimo ruggito di Hitler

Settantacinque anni fa in Belgio la disperata offensiva del Reich: gli alleati rischiarono di soccombere. Il Führer aveva ammassato truppe segretamente. Centomila soldati Usa morti e feriti nella battaglia.

di Cesare De Carlo

WASHINGTON - Nacht und Nebel. E appunto di notte e nella nebbia, il 16 dicembre di 75 anni fa, nelle Ardenne belghe, Adolf Hitler lanciò la sua ultima grande offensiva. Anzi controffensiva. Gli angloamericani erano prossimi alle frontiere del Reich. Il calcolo: rovesciare le sorti della guerra. E per poco non riuscì. A dire la verità Nacht und Nebel non era stato coniato con significati strategici. Risaliva a tre anni prima, al dicembre 1941, quando il grande sterminatore, il maresciallo Heinrich Himmler, ordinò l'eliminazione sistematica e nascosta degli avversari del regime, civili o militari. «Il Führer - sancì in un decreto - ritiene che ogni pena detentiva e il lavoro forzato rischino di essere presi come segni di debolezza». Ma in quel tardo autunno del 1944 il dittatore tedesco rispolverò lo slogan nella pianificazione dell'operazione Wacht am Rhein, Guardia al Reno dal titolo di un inno tedesco. Sarebbe poi stata ribattezzata, non a caso, Herbstnebel, nebbia autunnale. E infatti una nebbia fitta e stabile gravava su quelle alture gelide. Temperature a meno 20: Impossibili le incursioni aree. E impossibile anche la ricognizione in una regione coperta da fitte foreste. Dunque i comandi americani furono colti di sorpresa.
   Nessuno si era accorto che Hitler aveva ammassato un'imponente armata, oltre duecentomila soldati fra cui una panzerdivision SS con i carri Tiger II. Fu - avrebbero convenuto gli storici - il più grande fallimento dell'intelligence dopo Pearl Harbor. Quella zona del fronte era stata affidata ai generali Bradley, Hodges, Patton. A loro faceva capo la raccolta di informazioni. Hitler non li stimava. Nonostante il D Day, si era apparentemente fatto un'opinione non lusinghiera dei soldati americani. Dilettanti e indisciplinati. Oltretutto in inferiorità numerica: centomila uomini. Sfondando nelle Ardenne avrebbe avuto la via libera verso il mare del Nord. Avrebbe neutralizzato il porto di Anversa, prezioso per i rifornimenti alleati, e separato gli americani da inglesi e francesi. In altri termini avrebbe potuto ripetere la brillante operazione del 1940: la Wehrmacht aveva spezzato il fronte avversario e costretto i britannici a rifugiarsi nella sacca di Dunkirk (o Dunkerque), da dove in qualche maniera sarebbero ritornati oltre Manica. Bellissimo il recente omonimo film.
   A quel punto - sempre secondo Hitler - a Londra il governo Churchill sarebbe caduto, a Washington sarebbero subentrate stanchezza e delusione. E lui avrebbe avuto più tempo per l'arma segreta, presumibilmente nucleare, o comunque per un armistizio vantaggioso. Non andò così, come si sa. Già a fine dicembre lo slancio tedesco si era arrestato.
   Eisenhower, il comandante in capo, accorso in gran fretta, fece affluire altri cinquecentomila soldati per un totale di seicentomila. La battaglia si concluse a fine gennaio 1945. Fu la più grande mai combattuta dalla US Army. Ma a che prezzo! Centornila fra morti e feriti da parte americana. La 105a divisione fu annientata, come raccontò Kurt Vonnegut, un sopravvissuto, in Slaughterhouse Five (Mattatoio numero 5).
   A Bastogne diecimila paracadutisti della 101a resistettero una settimana contro cinquantamila nemici. Molti film anche su questi episodi. A fine gennaio Hitler aveva perso la scommessa. La strada era libera verso il Reno. E, impegnando le ultime forze a ovest, aveva consentito a Stalin di rompere il fronte tedesco a est. Anche la strada di Berlino era aperta.

(Nazione-Carlino-Giorno, 15 dicembre 2019)


Alta tensione nel Mediterraneo: navi da guerra turche bloccano nave israeliana

Alta tensione nel Mediterraneo. Alcune navi da guerra turche hanno prima bloccato e poi costretto ad allontanarsi una nave da prospezione israeliana che stava facendo ricerche in acque cipriote.
   La nave Bat Galim, dell'istituto israeliano di ricerca oceanografica, stava conducendo ricerche in acque cipriote in collaborazione con le autorità di Cipro quando è stata avvicinata da navi da guerra turche che prima le hanno chiesto i motivi della sua presenza nell'area e poi le hanno intimato di allontanarsi adducendo il motivo che quelle acque erano di pertinenza turca in base ad un accordo con la Libia.
   In realtà la nave israeliana stava operando in acque territoriali cipriote con il consenso e addirittura la collaborazione delle autorità di Cipro, ma secondo i turchi tutte le acque che vanno dalla Libia alla Turchia passando per le acque cipriote e greche sono di loro proprietà in base ad un accordo che non ha nessuna pertinenza con il Diritto Internazionale. Un vero atto di prepotenza.
   Pochi giorni prima un funzionario dell'ambasciata israeliana ad Ankara era stato convocato dalle autorità turche le quali gli hanno notificato che in base a quell'assurdo accordo con Tripoli qualsiasi operazione in quel tratto di mare (praticamente metà del Mediterraneo Orientale) avrebbe richiesto l'approvazione turca.
   Israele in accordo con Cipro e con la Grecia ha intenzione di costruire un gasdotto sottomarino che possa portare il gas dei ricchi giacimenti al largo delle coste israeliane, cipriote e greche, direttamente in Europa. Ma ora la Turchia rivendica unilateralmente il controllo su quei tratti di mare e quindi dei giacimenti.
   «I turchi stanno cercando di affermarsi come coloro che gestiscono il Mediterraneo Orientale» ha detto una fonte israeliana. «Questo è molto preoccupante» ha aggiunto.
   Già in passato la Turchia aveva fatto la stessa cosa con alcune navi da prospezione di proprietà dell'ENI che operavano in acque cipriote tanto che l'Italia ha recentemente deciso di inviare una nave da guerra, la fregata Federico Martinengo, per tutelare gli interessi italiani. Una sfida aperta alla Turchia che rivendica zone di perforazione assegnate all'ENI e alla francese Total.
   E di certo Israele non rimarrà impassibile di fronte a cotanta prepotenza da parte della Turchia. «Israele ha il dovere di tutelare i propri interessi a dispetto di quello che sostiene Ankara» ha detto un funzionario israeliano che vuole rimanere anonimo a RR. «E di certo non ci faremo intimidire e non rinunceremo ai nostri progetti per le smanie di grandezza di Erdogan» ha continuato.
   Alla domanda se anche Israele intende dare copertura militare alle navi da prospezione e ricerca, con il forte rischio di uno scontro armato con le navi turche, il funzionario non ha risposto ma ha confermato che «Gerusalemme tutelerà i propri legittimi interessi con ogni mezzo».

(Rights Reporters, 15 dicembre 2019)


L'imam amico degli ebrei che combatte l'islamismo

Predica la pace, un culto che rispetti la donna e che si stacchi dalla politica. Rischiando la vita

di Alberto Giannoni

 
Imam Hassen Chalghoumi
Combatte a viso aperto gli oscurantisti, considera «un veleno» l'islam politico e chiede che i Fratelli Musulmani siano riconosciuti come gruppo terroristico. Vive sotto scorta da quando - dieci anni fa - la sua moschea è stata presa d'assalto.
   Lo chiamano «l'imam degli ebrei» per screditarlo, ma lui se ne fa un vanto. «Altro che traditore. Traditore è chi tradisce la vita».
   Hassen Chalghoumi è l'imam di Drancy e in questo sobborgo a dieci minuti da Parigi, nel 1941, le autorità collaborazioniste aprirono un campo d'internamento per deportare gli ebrei francesi. Dalla Francia di oggi, gli ebrei sono costretti a scappare dopo un'escalation di minacce e atti criminali: un anno e mezzo fa la 85enne Mireille Knoll è stata accoltellata e bruciata nel suo appartamento, lei che a 9 anni era scampata al rastrellamento del Vélodrome d'Hiver. Stessa matrice antisemita, un anno prima Sarah Halimi era stata gettata dal terzo piano del suo palazzo al grido di «Allah u Akbar». Nel 2012 quattro persone (tre bambini) furono uccise a Tolosa all'ingresso di una scuola ebraica. Nel 2006 Ilan Halimi, 24 anni, fu rapito e torturato per tre settimane da una banda islamista nel sobborgo di Bagneux, e la targa che lo ricordava è stata vandalizzata per due volte, tanto da indurre la madre a dargli sepoltura in Israele. I crimini antisemiti proseguono: il 3 dicembre oltre cento tombe sono state profanate nel cimitero ebraico di Westhoffen, vicino a Strasburgo. Chalghoumi li ha definiti «comportamenti razzisti, intolleranti e vigliacchi». Erano svastiche, ma Hassen sa che non è solo il neonazismo la minaccia. «In Francia ammette - gli ultimi attacchi contro gli ebrei sono stati perpetrati da musulmani». E cita Tolosa e Bruxelles, e l'Hyper Cacher di Porte de Vincennes, dove nel gennaio 2015 si aprì una stagione di sangue che poi si sarebbe orrendamente conclusa al Bataclan.
   Nato a Tunisi nel 1972, studi a Damasco, in Francia dal '96, nelle banlieue in fiamme l'imam di Drancy è un muro umano contro la follia jihadista. Predica un islam «che separi la moschea dalla politica». «Un «islam liberale, di luce - lo chiama così - che rispetti la dignità della donna e si stacchi dall'islam politico e dagli estremisti». «Nel 2010 - racconta - fui fra i primi contro il velo integrale e per questo mi definirono il muftì di Sarkozy (l'allora presidente francese, ndr). Nato in una famiglia normale - padre veterinario e madre casalinga - sente un debito di riconoscenza per la Tunisia di allora. «Rendo omaggio al presidente Habib Bourghiba, che ha spinto molto sull'educazione e sull'emancipazione della donna. Ben Alì e Beji Caid Essebsi hanno proseguito questa tradizione, grazie alla quale per esempio mia sorella oggi è professoressa universitaria in Canada. Il nuovo presidente ha una visione diversa, io spero che cambi idea, che pensi all'interesse generale, la priorità dei tunisini è l'economia, non certo il conflitto israelo-palestinese». La Tunisia di oggi lo preoccupa. Definisce «catastrofico» il risultato elettorale e vede «ingerenze straniere». «Qatar, Turchia e Paesi vicini vogliono destabilizzarla, ma penso che la società civile e le donne sapranno resistere e proteggere i valori acquisiti in passato. La Tunisia resterà un Paese moderno».
   Chalghoumi è sposato e ha 5 figli. Racconta che il suo «bisogno di conoscere la religione» è venuto fuori nel 1988: «In Algeria gli islamisti uccisero una donna e il suo bambino piccolo. Questo mi ha spinto a capire bene l'islam e l'islamismo». Il giudizio è netto: «Un islamista è un islamista. I Fratelli Musulmani sono sempre loro, con la loro ideologia, islam politico. Vogliono il potere usando la sharia, non sono gruppi pacifici. Chi fomenta il conflitto israelo-palestinese sono loro: Hamas è un gruppo terroristico. Gli Hezbollah sono come Fratelli Musulmani sciiti, stessa cosa Jabhat al-Nusra, e poi nello Yemen, in Tunisia e in Libia. Gruppi in collegamento coi Fratelli. Abbiamo visto i danni che hanno fatto in Egitto, nello Yemen, ovunque. Spero che presto l'Europa e l'Onu li considerino come un gruppo terroristico. È il momento». Hassen in Israele ha incontrato il premier Benjamin Netanyahu, il presidente Reuven Rivlin e il predecessore Shimon Peres, Nobel nel '94. «Ho avuto l'onore di portare cento imam al memoriale della Shoah». «Sono uomo di pace - dice - E il mio rapporto di pace con Israele lo pago». «Da anni - racconta - ricevo minacce di morte dal Daesh e fatwe anche da membri di Al Qaeda e di Hamas. Questo dimostra che il nostro discorso è più forte dell'odio. Io non posso stare in silenzio».
   Pochi giorni fa ha partecipato all'accensione dell'albero di Natale in piazza San Pietro, dove nel 2013 era già stato con altri imam. A Roma era accompagnato da Alessandro Bertoldi, direttore dell'Istituto Friedman e presidente dell'Alleanza per Israele. «Lo inviterò ancora - dice Bertoldi - Chalghoumi è una personalità eccezionale, ha messo la sua vita al servizio della pace, della democrazia e della libertà, e rischia la vita per difendere i nostri comuni valori dalla minaccia islamista e dal terrorismo».
   «L'islam - dice Chalghoumi - sarebbe religione di pace e amore. Rispettare il prossimo è rispettare la vita, invece l'islam politico la prende in ostaggio». «Io? Sono un musulmano repubblicano, credo nella Repubblica. Io ho vissuto nella repubblica tunisina e in Francia, dove la laicità separa la religione dal potere. Un musulmano deve adattarsi alla modernità, la religione non deve essere un ostacolo». Oggi, la sua voce sembra predicare nel deserto, ma Chalghoumi assicura: «Il 60% dei musulmani la pensa come me». Però sa anche che ci vorrà molto tempo prima che questo suo islam illuminato abbia la meglio: «Anche il Cristianesimo ha avuto bisogno di tempo, ma pure l'islam troverà il suo posto».

(il Giornale, 15 dicembre 2019)


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Ecco cosa si predica nella moschea al-Aqsa

«Da qui partirà l'esercito che conquisterà la Palestina, assedierà Roma e sottometterà il mondo". Imam francese in visita in Israele: l'anti-sionismo è una maschera dell'antisemitismo.

Durante un sermone nella moschea al-Aqsa di Gerusalemme postato su internet lo sorso 2 giugno, lo sceicco palestinese Abu Hanifa Awda ha detto che Gerusalemme è il "centro" dove sventoleranno gli stendardi del califfato, si raduneranno le brigate militari e sarà annunciata la nascita del califfato islamico. Da Gerusalemme, ha proclamato Abu Hanifa Awda, l'esercito dell'islam partirà per conquistare e sottomettere la Palestina e il mondo intero, Roma compresa....

(israele.net, 15 dicembre 2019)


Fantasmi di sangue. Ebrei eterni colpevoli

Trento ospita una rassegna sul «beato Simonino». un bambino il cui omicidio offri il pretesto per una persecuzione antisemita. I meccanismi di costruzione del mostro e il ritorno inquietante delle collaudate calunnie contro gli «usurai».

di Piero Stefani

Simonino da Trento trionfante con due fanciulli. Pittore cremonese
Le Sacre Scritture ebraiche proibiscono non solo di uccidere, ma anche di toccare i cadaveri, eppure a Pasqua gli ebrei sono accusati, a torto, di dividersi il cuore di un bimbo cristiano. Se in qualche posto viene trovato un cadavere, gli ebrei sono perfidamente accusati di omicidio e con questo pretesto vengono perseguitati, spogliati dei loro beni e torturati. Le parole qui sunteggiate non sono di un apologeta ebreo, si trovano in una bolla di papa Innocenzo IV del 1247. Eppure si presentano come una specie di cronaca di quanto sarebbe avvenuto a Trento nel 1475.
   L'accusa antiebraica di usare il sangue cristiano per scopi magico-rituali è attestata in Europa a partire dalla metà del XII secolo; proseguì per centinaia di anni. Le reiterate smentite da parte del magistero pontificio rientrano nella sfera delle «grida manzoniane». Specie in area tedesca e alpina, l'accusa di omicidio rituale restò fortemente radicata. Una dozzina di anni fa il libro di Ariel Toaff Pasque di sangue (il Mulino) non ne escluse, in alcuni casi, la fondatezza. Le polemiche furono accesissime.
   La prevalente collocazione pasquale dell'accusa di omicidio costituiva una specie di reiterazione degli eventi connessi alla morte di Gesù. Per l'antigiudaismo il versamento di sangue cristiano da parte di ebrei era considerato un atto dotato di atroce ambivalenza: da un lato questi presunti gesti costituivano un'implicita ammissione di quanto insostituibile fosse per gli ebrei il sangue di Cristo, mentre, dall'altro, evidenziavano l'assunzione diretta, a opera dei discendenti, della colpa dei padri che di fronte a Pilato gridarono: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Matteo 27, 25).
In Italia il caso più noto è quello di Simonino da Trento. Lo è per due ragioni diametralmente opposte: la prima perché quell'omicidio diede luogo a un culto diffuso per secoli, la seconda perché quel culto è stato abolito. Il giorno di Pasqua del 1475 Samuele di Norimberga riferì alle autorità che in una roggia sotto casa sua c'era il cadavere di un bimbo di circa due anni. Colui che denunciò il fatto venne considerato colpevole, fu arrestato assieme alla sua famiglia e ad altri ebrei: ci furono torture, processi, condanne a morte, espulsioni. Iniziò un culto del piccolo martire che fu contrastato da Papa Sisto IV e favorito dal vescovo locale Hinderbach; passò un secolo, nel 1588 Sisto V approvò, di fatto, il culto. Simonino divenne beato.
   Si dovette attendere la seconda metà del Novecento perché l'azione congiunta dell'ebrea triestina Gemma Volli, di monsignor Igino Rogger, storico della Chiesa trentina, e del domenicano padre Eckert smontasse le accuse e consentisse alla Congregazione dei riti di rimuovere il culto del presunto beato, ma vero bimbo assassinato da mani ignote. li 28 ottobre 1965 - il giorno in cui il Concilio vaticano II approvò la dichiarazione Nostra aetate, destinata a mutare l'insegnamento cattolico nei confronti degli ebrei - il vescovo di Trento, Alessandro Maria Gottardi, rese operativa la decisione.
   Nel centenario della nascita di Igino Rogger, la mostra L'invenzione del colpevole. Il «caso» di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia ripercorre attraverso documenti, quadri. statue. sussidi multimediali l'intera vicenda. L'attualizza soprattutto presentandola come un modo per diffondere con i mezzi di comunicazione (compresa l'allora recentissima stampa) notizie false volte a manipolare le convinzioni della gente.
   L'altro versante attualizzante concerne il ritorno dell'antisemitismo e dell'odio per il «diverso». Oggi l'accusa di omicidio rituale non fa più parte del bagaglio antisemita. Le cose stanno diversamente per un altro fenomeno relativo alla «finanza ebraica», che allora favori l'odio nei confronti degli ebrei. Il tuttora beato Bernardino da Feltre fu uno dei più attivi fondatori dei Monti di pietà, la sua predicazione contro l'usura fu violentemente antiebraica. Avvenne così anche a Trento ai primi del 1475. Pur non essendoci un nesso diretto tra predicazione e presunto omicidio rituale, non c'è dubbio che Bernardino favorì la diffusione di un pesante clima antiebraico. Nell'attuale revival dell'«economia francescana» (testimoniato pure dal convegno The Economy of Francesco, in programma il 26-28 marzo 2020, a cui interverrà il Papa) queste spesse ombre non vanno dimenticate.

(Corriere della Sera - Lettura, 15 dicembre 2019)



Ministro degli Esteri israeliano elegia Unesco per la decisione sul carnevale belga "antisemita"

GERUSALEMME - Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha accolto con favore la decisione dell'Unesco di rimuovere dalla lista dei beni protetti il carnevale fiammingo di Aalst per accuse di antisemitismo sui carri allegorici. "Nel ventunesimo secolo, in un periodo in cui l'antisemitismo sta ancora una volta sollevando la sua orribile testa, non può esserci alcuna tolleranza per questo orrendo fenomeno", ha scritto Katz in una dichiarazione, esortando il governo belga a reprimere il tradizionale carnevale della città belga di Aalst, nella provincia delle Fiandre orientali. La festa della durata di due giorni era entrata a far parte della lista dei patrimoni dell'umanità nel 2010, attirando subito critiche per le ricorrenti maschere razziste a antisemite che appaiono nella sfilata dei carri: nello sbeffeggiare il rapporto tra capitalismo e potere vengono proposte caricature di topi e israeliti seduti su sacchi d'oro. Per la prima volta, l'Unesco è tornata sui suoi passi per mandare un segnale di rispetto dei "principi fondanti di dignità, parità, mutuo rispetto fra i popoli e condanna di ogni forma di razzismo e antisemitismo".

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2019)


Ebreo lui, ebrea lei, e un oceano di distanza

«Yekl» di Abraham Cahan e gli strappi dell'immigrazione (nell'Ottocento)

di Marco Ostoni

Ha più di un secolo (uscì negli Stati Uniti nel 1896), ma non risente del peso degli anni. Anzi. La sua attualità è sorprendente se solo si allarga il focus dell'attenzione dalla comunità ebraica newyorkese di fine Ottocento, frutto dell'ennesima diaspora del «popolo eletto» - allora in fuga dai pogrom esplosi nella grande Russia zarista dopo l'attentato contro Alessandro Il nel 1881 - all'Occidente di oggi, nuova Terra promessa per migliaia di uomini costretti a lasciare i propri Paesi a causa della guerra, della fame, del clima che impazzisce.
   Cambiano gli scenari ma non cambia il tema dello sradicamento di chi deve ripartire da zero, lontano migliaia di chilometri da luoghi, culture e tradizioni, spesso recidendo anche i legami familiari nella speranza, prima o poi, di riuscire a ricucirli. Ed è proprio attorno a questo snodo, al tema cioè della difficoltà di recuperare relazioni dopo anni di distanza e in contesti socio-culturali completamente diversi, che si svolge questo romanzo breve di Abraham Cahan (1860-1951), scrittore, giornalista e politico statunitense di origine ebraica, nativo della Lituania.
   A chi immagina gli ebrei quali un popolo talmente arroccato attorno alla sua peculiare matrice storico-religiosa e alla sua lingua franca (l'yiddish) da uscire indenne da ogni «deportazione», Cahan - forte anche dell'esperienza personale e dell'osservatorio offertogli dal giornale che diresse per 40 anni all'interno della comunità ebraica americana - mostra in queste pagine quanto in realtà siffatto quadro fosse screziato da profonde ferite. E mostra quanto la perdita delle radici sia stata foriera di tanti piccoli drammi personali e familiari tra i greenhom dell'Europa orientale: i sempliciotti o pivelli, come venivano chiamati gli ebrei appena sbarcati oltre Atlantico.
   Yekl, il protagonista del romanzo, è uno di questi: fuggito poco più che ventenne da un paese dell'arretrata Russia zarista, non fatica ad adattarsi ai nuovi e luccicanti costumi a stelle e strisce, ivi compresi quelli della libertà sessuale, ma si trova spiazzato all'arrivo, tre anni più tardi, della giovane moglie, che è invece ancora in tutto e per tutto un'ebrea ortodossa, profondamente religiosa e con tanto di parrucca a celare in pubblico i preziosi capelli.
   L'incontro si trasforma presto in un aspro scontro a dispetto dell'affetto che Yekl, americanizzatosi anche nel nome in Jake, nutre per il figlioletto che la donna ha portato con sé per ricongiungere la famiglia originaria. Ed è nelle pagine che raccontano di questa profonda frattura che Cahan mette in mostra le sue migliori qualità di scrittore grazie a una penna acuminata e brillante, con rapide pennellate ad affrescare altrettanto rapidi quadri, e a efficacissimi dialoghi.
   Ottima anche la traduzione di Livio Crescenzi che, pur non potendo riportare in italiano i giochi linguistici fra yiddish e inglese, ne dà conto nell'apparato critico da lui stesso curato.

(Corriere della Sera - Lettura, 15 dicembre 2019)




Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti

Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, della stirpe di Davide, secondo il mio vangelo, per il quale io soffro fino ad essere incatenato come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata. Ecco perché sopporto ogni cosa per amor degli eletti, affinché anch'essi conseguano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Certa è quest'affermazione: se siamo morti con lui, con lui anche vivremo; se abbiamo costanza, con lui anche regneremo; se lo rinnegheremo anch'egli ci rinnegherà; se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

(dalla seconda lettera dell'apostolo Paolo a Timoteo, cap. 2)


 


Un batterio che mangia la CO2

Ricercatori israeliani hanno modificato la dieta di alcuni batteri di escherichia coli: niente più zuccheri ma anidride carbonica.

Ricercatori del Weizmann Institute of Science, in Israele, affermano di essere riusciti a modificare la dieta di alcuni batteri di escherichia coli: "Ora si nutrono di anidride carbonica invece che di zucchero", ha spiegato all'Associated Press il ricercatore Shmuel Gleizer, autore della studio pubblicato sulla rivista scientifica "Cell". I batteri modificati, inoltre, producono biomassa.
"Li abbiamo nutriti per mesi con sola anidride carbonica e di formiato. In seguito siamo stati in grado di isolare i batteri che non avevano più bisogno di zucchero per sopravvivere."
La speranza è che in futuro si possano creare biotecnologie utili nel campo delle energie rinnovabili e dei cambiamenti climatici.

(RSI News, 14 dicembre 2019)


Per l'anno dedicato a Leonardo da Vinci una serie di eventi in Israele tra umanesimo e scienza

di Eike Schmidt

 
Una sintesi tra umanesimo e scienza. Hanno seguito questa ispirazione, così connaturata all'uomo rinascimentale, gli eventi organizzati in Israele dall'Ambasciata d'Italia e dagli Istituti di cultura di Tel Aviv e Haifa per celebrare l'anno di Leonardo. E' stato così un modo per comunicare un'immagine del Sistema Italia, legato inevitabilmente alla propria millenaria tradizione culturale, ma anche proiettato verso la ricerca e la tecnologia.
  Il calendario di iniziative ha alternato appuntamenti specialistici e destinati ad addetti ai lavori a momenti più divulgativi che in alcuni casi hanno coinvolto anche i più piccoli. Si è partiti ad aprile con conferenze che hanno messo in campo alcuni nomi di eccellenza del panorama culturale italiano. Il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, ha tenuto un incontro dedicato a "Leonardo da Vinci e gli Uffizi" al Museo d'arte di Tel Aviv per replicare il giorno dopo alla facoltà delle Arti dell'università della stessa città, davanti ad un pubblico di studenti ed accademici. Sempre ad aprile è stata la volta di Domenico Laurenza, curatore della nuova edizione del Codice Leicester, esplorare aspetti meno conosciuti della ricerca leonardiana nel colloquio su "Leonardo: la geologia, i fossili e la scoperta della storia della terra".
  A luglio è stata inaugurata la mostra "Leonardo's questions" al Bloomfield Science Museum di Gerusalemme, che resta aperta fino a giugno 2020 e che in varie sezioni tematiche affronta i campi di azione della ricerca portata avanti dal genio del Rinascimento. Per l'occasione, i Musei Reali di Torino che hanno consentito la realizzazione di una riproduzione digitale ad alta definizione del famoso Codice sul volo degli uccelli, proprietà del museo piemontese. E a settembre nella stessa sede la direttrice dei Musei reali di Torino, Enrica Pagella, ha tenuto una conferenza proprio sui disegni autografi di Leonardo ospitati della Biblioteca dei Musei, tra cui il celeberrimo "Ritratto di vecchio", ritenuto l'Autoritratto di Leonardo.
  Un'altra serie di conferenza si è tenuta al Museo Madatech di Haifa dove è stata inaugurato un nuovo allestimento di un'ala dedicata a ricostruzioni in legno delle macchine di Leonardo che con questo assetto sarà visitabile nei prossimi anni. Per spiegare il genio di Leonardo ai bambini dal 14 al 21 ottobre è stato messo in scena, con tre spettacoli quotidiani, "Incontro con Leonardo" che ha registrato sempre il tutto esaurito. Si tratta di uno spettacolo teatrale coprodotto dall'Istituto di cultura di Haifa e dal Madatech Museum che, visto il successo, sarà ripresentato per le prossime festività. Infine In occasione dei 50 anni dalla fondazione dell'Holon Institut of Technology, uno dei principali istituti nel sistema accademico israeliano, è stata dedicata un'intera giornata di studi ai rapporti fra le ricerche di Leonardo nei settori dell'ingegneria, idraulica, meccanica, anatomia, aerodinamica, zoologia, cartografia e l'evoluzione contemporanea di queste scienze.

(Turismo Italia News, 14 dicembre 2019)



La scienziata di Manfredonia che accende la speranza nella lotta al tumore osseo

Una ricercatrice spontina talentuosa e tenace è entrata a far parte di un team di ricercatori internazionali presso il Weizmann Institute of Science, uno dei centri di ricerca più importanti del mondo con sede a Rehovot in Israele.

di Maria Teresa Valente

Mattia Lauriola
È difficile chiamare un tumore con il suo nome e per molti c'è sempre un approccio timoroso, quasi come se definendolo semplicemente un 'brutto male' possa essere meno orribile. C'è poi chi, molto coraggiosamente, getta mente e cuore oltre l'ostacolo e spoglia il 'brutto male' al microscopio, per togliergli la maschera da mostro e donare una speranza a chi contro di esso ingaggia una battaglia quotidiana.
   Mattia Lauriola, 39 anni ed una laurea in Biotecnologie a Bologna, è originaria di Manfredonia. Dopo aver conseguito il Dottorato, nel 2007 è volata in Florida per un Internato in Oncologia Molecolare, presso il "Moffitt Cancer Center and Research Institute". Il suo studio 'matto e disperatissimo' è alla base della rivoluzionaria scoperta che potrebbe portare alla cura del sarcoma di Ewing, un tumore osseo raro e maligno che appare principalmente tra bambini e adolescenti ed ha un alto potenziale metastatico.
   La giovane sipontina è una ricercatrice talentuosa e tenace che, in questa Italia un po' bislacca, per approfondire i propri studi ha trascorso diversi anni all'estero ed è entrata a far parte di un team di ricercatori internazionali presso il Weizmann Institute of Science, uno dei centri di ricerca più importanti del mondo con sede a Rehovot in Israele.
   Ed è proprio qui che cinque anni fa ha compiuto un fondamentale passo nei suoi studi, scoprendo le interazioni molecolari che sono alla base del sarcoma di Ewing, ed ha proposto un potenziale trattamento che ha mostrato risultati promettenti in uno studio sui topi.
   "Sono molto fiera di questi risultati che sono il frutto di ricerche cominciate nel lontano 2010 - spiega la ricercatrice sipontina - In quegli anni, infatti, lasciavo Bologna per trasferirmi in Israele e lavorare presso il Weizmann Institute of Science, che è tra i primi 10 centri al mondo per la ricerca di base".
   La ricerca di base, occorre spiegarlo, è un po' la cenerentola della ricerca, perché ha come oggetto di studio le semplici molecole biologiche, DNA, RNA, proteine senza necessariamente connetterle ad un trattamento farmacologico. "Quando manca un interesse diretto da parte di una casa farmaceutica, il finanziamento pubblico o privato diventa fondamentale, e in Israele sono molto attenti a questo tipo di ricerca", evidenzia, svelando come proprio durante i 5 anni in Israele abbia iniziato a studiare i meccanismi con cui gli ormoni steroidei (tra cui i più famosi sono quelli sessuali, ma appartengono a questa famiglia anche gli ormoni responsabili del metabolismo glucidico tra cui i glucocorticoidi) interagiscono con fattori di crescita responsabili della replicazione e migrazione cellulare giungendo alla conclusione che siano fattori chiave nella progressione tumorale.
   Una scoperta importantissima a cui è pervenuta proprio Mattia e che ha spalancato le porte al lavoro di altri colleghi ricercatori: "Successivamente, come risultato di queste ricerche, è arrivata una possibilità applicativa nel sarcoma di Ewing, per il quale al momento le terapie sono molto limitate". Gli esperimenti sui topi sono stati molto incoraggianti, dimostrando che "la modulazione del recettore dei glucocorticoidi con un potente antagonista, riuscirebbe a bloccare in maniera massiccia la progressione tumorale".
   Nel 2016 la scienziata manfredoniana, che tra le varie ed importanti esperienze annovera anche la collaborazione con il ricercatore leccese Gabriele D'Uva nell'individuare il gene potenzialmente in grado di rigenerare un cuore colpito da infarto, grazie ad un concorso da ricercatrice, è potuta rientrare in Italia ed oggi è al dipartimento di Medicina diagnostica specialistica e sperimentale del Policlinico Sant'Orsola di Bologna.
   "Sono molto contenta di questi risultati, che dimostrano che la pazienza e la tenacia sono due fattori chiave nella ricerca. Non a caso i risultati più importanti sono arrivati dopo anni di lavoro e la collaborazione di numerosi scienziati. Ora mi auguro che queste scoperte presto si concretizzino in clinical trials per valutare l'efficacia di tali terapie anche in clinica", conclude Mattia Lauriola, che confessa di portare sempre Manfredonia, la sua città, nel cuore, pur essendo ormai via da vent'anni.
   Ed è grazie a questa giovane sipontina, che non ha temuto l'approccio col 'brutto male' né si è fermata al pensiero di dover lasciare il calore della propria amata terra, che si è potuti giungere a risultati sorprendenti, dando finalmente una speranza a chi non ne aveva nella lotta contro uno dei tumori più temuti.

(bonculture, 14 dicembre 2019)


Sette start-up italiane volano in Israele per crescere

I vincitori del bando di Intesa Sanpaolo e dell'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv tre mesi in una «tech farm»

di Paola Pica

Al via tra meno di un mese l'avventura israeliana di sette «startupper» italiani che hanno superato la selezione di un bando aperto nel gennaio 2019 dall'Ambasciata d'Italia in Israele e da Intesa Sanpaolo Innovation Center. In palio, il primo programma di accelerazione in una delle maggiori «tech farm» del Paese.
   I titolari dei progetti Bionit Lab, Isaac, Nanomnia, Syndiag, Materias, Elysium Tech e Djungle che interessano vari settori del futuro dell'imprenditoria — dall'health tech, alle smart mobility, dal food all'ambiente — partiranno dunque a gennaio per un laboratorio di tre mesi presso il Tech Hub del gruppo Ariell di Eilat. Lì si sviluppano nuove idee d'impresa, lì è in continua espansione uno dei laboratori del Paese considerato il più innovativo al mondo. Le domande di adesione erano complessivamente 40. Di queste, le migliori sono state selezionate da un comitato composto dal chief scientist dell'Ambasciata, Stefano Ventura, e da Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo, con la collaborazione di Danny Biran, ex vicepresident di Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup nation central e Dan Fishel di OurCrowd. ll programma nasce nell'ambito dell'Accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica «Si tratta un nuovo strumento per sfruttare la complementarietà tra il nostro ecosistema manifatturiero d'eccellenza e quello israeliano vocato all'innovazione e al venture capital, obiettivo condiviso dai ministri degli Esteri dei due Paesi in occasione del Rome Med Dialogue» ha spiegato l'Ambasciatore Gianluigi Benedetti. Intesa Sanpaolo Innovation Center presieduta da Maurizio Montagnese e guidata da Guido de Vecchi collabora da diversi anni con Israele e l'Ambasciata. E questa, per de Vecchi «è una concreta opportunità di scale-up internazionale». I partecipanti, sostenuti economicamente (10mila euro ciascuno), avranno a disposizione strutture, mentor e tutor e numerosi incontri con aziende israeliane di successo nei relativi settori.

(Corriere della Sera, 14 dicembre 2019)


Da zero al Tour. Israele fa la storia dopo solo sei anni

Nel 2020 per la prima volta un team del Paese sarà alla Boucle: tra i 30 c'è Cimolai.

di Ciro Scognamiglio

 
Nes Harim è una salita molto popolare tra quelle ci sono nei dintorni di Gerusalemme: soprattutto nei fine settimana, ci vanno a pedalare in centinaia e centinaia. Nella primavera del 2014 due israeliani si incontrano in vetta: erano l'uomo d'affari Ron Baron e l'ex ciclista Ran Margaliot. La fatica non frena le parole e tantomeno l' entusiasmo. Chi avesse ascoltato avrebbe potuto prenderli per visionari: «Vogliamo creare la prima grande squadra israeliana di ciclismo». Sarebbero basti sei mesi per vederne le prime «pedalate».

 Salto
  Da quella primavera, ad arrivare alla fine di giugno 2020, passano sei anni. Nel frattempo quell'abbozzo di team è diventato uno dei 19 che fanno parte del World Tour, l'eccellenza della bici. Ora si chiama - la denominazione è stata appena rinnovata - Israel StartUp Nation. E il 27 giugno sarà al via del Tour de France. sicuramente con almeno uno dei 4 israeliani dell'organico inserito negli 8 selezionati per la Boucle. Israele al Tour, sì: e non era mai successo.

 Passi
  Nomi, date, appunti da ricordare. Il gruppo che batte la bandiera con la stella di David pedala molto velocemente. L'acquisizione della licenza World Tour della Katusha è recente, così come una campagna acquisti che ha allargato l'organico a 30 atleti (il massimo. 18 le Nazioni) tra cui il velocista tedesco Andrè Greipel e l'irlandese Dan Martin - oltre al bravo Davide Cimolai - per essere all'altezza della nuova dimensione. Ma non meno storico era stato l'impegno del patron. Sylvan Adams: un filantropo ebreo-canadese. appassionato di biciclette. emigrato in Israele nel 2016. Era stato lui a mettere sul piatto 20 milioni di euro per la grande partenza del Giro d'Italia 2018 da Gerusalemme. Per mostrare, come disse, «la normalità» e «il vero volto di una Nazione che vuole unire, senza violenza». Il tutto nel nome di Gino Bartali, nominato «Giusto tra le Nazioni» dallo Yad Vashem. il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell'olocausto fondato nel 1953: il grande Gino salvò oltre 800 ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Al via del Giro 2018 c'era anche la Israel Cycling Academy, e Guy Sagìv - ancora in organico - diventò il primo israeliano a terminare un grande giro.

 Tricolore
  Alla Israel Start-Up Nation si parla (anche) italiano e non solo per «merito» di Davide Cimolai. Nello staff tecnico c'è il d.s. Claudio Cozzi. sulla maglia e pantaloncini lo sponsor Vini Fantini. e parla benissimo la nostra lingua il team manager finlandese Kjell Carlstrom, che quando era corridore ha vissuto anche in Toscana. Una dimensione davvero mondiale: quella giusta per il Tour.

(La Gazzetta dello Sport, 14 dicembre 2019)


Bus di shabbat, code per salire

Quando alcune municipalità dell'area metropolitana di Gush Dan, guidate da Tel Aviv, hanno annunciato di voler avviare un trasporto pubblico di shabbat non sapevano quale sarebbe stata la risposta degli utenti. È vero che il 60% degli israeliani - secondo un sondaggio dell'Israel Democracy lnstitute - è favorevole che sia garantita anche il sabato, nonostante i divieti religiosi, la circolazione di autobus pubblici. Ma non c'erano garanzie che poi ne avrebbero usufruito. Tra venerdì 23 e sabato 24 novembre la risposta del pubblico è stata chiara: oltre 10mila persone hanno utilizzato i minibus che collegavano Tel Aviv con i comuni attorno. L'iniziativa ha avuto un'ampia copertura mediatica ed è stata considerata dai promotori un successo dalla portata inaspettata. L'amministrazione di Tel Aviv, a causa della forte domanda, ha annunciato già pochi giorni dopo l'avvio del progetto pilota l'aumento di circa il 50% in più della frequenza dei bus e la sostituzione di una parte dei veicoli con autobus più grandi da 52 posti a sedere. "Sono rimasta sorpresa dalla portata della risposta - ha dichiarato a ynet la vicesindaco di Tel Aviv Meital Lehavi - e questo significa che il pubblico è alla ricerca di soluzioni per il trasporto il sabato. Da qui, il progetto continuerà a prendere slancio. Sicuramente il significato di questo enorme successo è che sono necessari maggiori investimenti per soddisfare le aspettative". "Abbiamo visto giovani (usare gli autobus) per passare del tempo insieme al mare, adulti per andare dai parenti nelle città vicine, persone andare in visita ai propri cari all'lchilov (ospedale di Tel Aviv); c'erano passeggeri di tutte le età - la testimonianza del sindaco di Givatayim Ran Kunik - sono consapevole delle disavventure di alcuni a causa delle lunghe file, ma abbiamo imparato la lezione". Negli anni '90 alcuni mezzi di trasporto pubblico avevano ricevuto l'autorizzazione ufficiale a svolgere corse il sabato, in particolare le linee che viaggiano in aree a maggioranza araba e verso gli ospedali. Mentre alcune soluzioni di trasporto erano emerse nel corso degli anni - un servizio di taxi minivan a Tel Aviv e sporadiche linee dalla periferia alle spiagge della città - il nuovo progetto stabilisce una vera e propria rete di trasporto pubblico, permettendo a centinaia di migliaia di persone di attraversare la metropoli di Tel Aviv e non solo. Voci del mondo religioso hanno espresso la loro preoccupazione e contrarietà all'iniziativa definendola Hilul Shabbat, profanazione del sabato. "Non si può tornare indietro" la tesi di Roy Schwartz Tichon del gruppo Noa Tanua, che ha fortemente promosso le linee di autobus di shabbat.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2019)



Nel cartello: "Aspetto l'autobus di shabbat" Sono in tanti a dirlo I ragazzi vogliono andare da qualche parte di shabbat Anche loro "hanno bisogno" di andare da qualche parte di shabbat "Anch'io voglio viaggiare di shabbat", dice la signora E questi prendono l'autobus di shabbat  lightbox gallery plugin by VisualLightBox.com v6.0m


La perdita dello Shabbat

di Rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova

A partire da metà novembre, la città di Tel Aviv ha introdotto un servizio pubblico di autobus che circolano di Shabbat collegando anche alcuni cittadine circostanti. In quanto ebreo della diaspora, non posso entrare nel merito di quanto questa azione modifichi una precedente situazione di "status quo" nei rapporti tra i settori religiosi e laici della seconda città d'Israele; il fatto però che sia stata adottata questa risposta con l'intenzione di venire incontro all'esigenze che una parte, evidentemente considerevole della popolazione, avverte e manifesta sul modo di trascorrere lo Shabbat, tutto ciò mi riguarda molto direttamente, come riguarda ogni ebreo, per il fatto che lo Shabbat è una delle espressioni fondamentali della vita e dell'identità ebraica. Mi riguarda e mi preoccupa non meno degli altri temi della realtà israeliana che sono generalmente più al centro della nostra attenzione, da tutto ciò che riguarda la sicurezza alla situazione politica. Quello che io leggo in questo evolversi dei fatti è il dispiegarsi di una malattia in cui "il malato" rifiuta di riconoscersi come tale, anzi pretende di stare benissimo, e intende manifestare platealmente questo suo presunto stato ideale, i "medici" non trovano modo di curare il paziente, gli "amici lontani" assistono con incuriosita simpatia credendo di contemplare qualche idea interessante, senza accorgersi di trovarsi coinvolti da analoghi sintomi di un grave malessere. Il fatto che settori consistenti della società israeliana reclamino insistentemente l'introduzione di mezzi pubblici di Shabbat, come viene riferito molto spesso per raggiungere i grandi centri commerciali, è segno di un grave disagio nell'identità ebraica, che si manifesta in Israele come nelle comunità della diaspora. Ricordiamo bene l'affermazione del grande pensatore Achad Ha'am che affermava "Più di quanto il popolo ebraico abbia mantenuto lo Shabbat è stato lo Shabbat a mantenere il popolo ebraico", certo egli non si riferiva propriamente all'osservanza scrupolosa dei lavori proibiti di Shabbat ma al fatto che da questa giornata, comunque speciale e diversa dalle altre, gli ebrei continuassero comunque ad attingere la forza morale per resistere alle avversità, per alimentare la capacità di sviluppare i valori e gli ideali più alti.
   A parte questa considerazione, gettando uno sguardo al racconto biblico, nei libri storici dei Re e delle Cronache e nei Profeti, ci rendiamo conto di quanto fosse stato disastroso e foriero di irreparabili disgrazie, tanto sul piano religioso che su quello nazionale, politico e militare, l'idea che lo stato ebraico potesse essere "uno stato come tutti gli altri". Ora il voler rendere lo Shabbat il giorno della visita ai grandi magazzini non è esattamente il segno manifesto di una società che vuole essere "come tutte le altre"? Questo è il sintomo di una malattia che si rifiuta di riconoscere, pensando che la maggior mobilità sia il modo giustamente reclamato per manifestarsi come una società libera e sana e non - invece - come un pubblico che sta smarrendo una parte fondamentale delle propria identità. Chi dovrebbe curarla - i Maestri - non trova evidentemente terapie, non individua l'approccio adeguato, e chi questo approccio forse lo dispone trova scarso riscontro: sono usciti in questi giorni prese di posizione interessanti da parte di rabbanim come Yuval Sherlo, direttore della Yeshivà Orot Shaul, che lancia inascoltati appelli a mio parere assolutamente condivisibili. "Non calpestate lo Shabbat imparate ad amarlo! Il legame tra il popolo d'Israele e lo Shabbat si realizzi attraverso percorsi di spiritualità, manifestando la luce della Torah, sviluppando mondi di fede di pensiero, di ricchezza culturale, portando attività di Shabbat di città in città e di villaggio in villaggio. Non con la forza ma con lo spirito".
   Quanto a noi, di lontano, tendiamo ad assistere con attenzione curiosa, come se la perdita dello Shabbat non fosse, ancor più tra noi, uno dei sintomi più gravi di quel male che chiamiamo assimilazione - la cui presenza micidiale non possiamo disconoscere, perché erode in continuazione le nostre comunità, ma di cui tuttavia fatichiamo a riconoscere i sintomi, come appunto lo smarrimento dello Shabbat come segno fondante della nostra vita e della nostra identità. Poche settimane fa si è realizzata in tantissime comunità ebraiche, in tutto il mondo, anche in Italia, una nuova tornata dell'iniziativa "Shabbat project". Forse è il caso di ricordare che non di uno Shabbat speciale abbiamo bisogno, bensì di una speciale preoccupazione per riportare lo Shabbat al centro delle nostre attenzioni e delle attività di tutte le comunità, grandi e piccole.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2019)



Israele, l'impasse della sfida fra destre

Giuseppe Dentice (Ispi) a Interris.it: "Tra Gantz e Netanyahu è un duello sugli atteggiamenti, non sui contenuti"

di Damiano Mattana
   
 
Altro giro, altra corsa in Israele, dove i cittadini si preparano per la terza tornata elettorale in meno di un anno e ad appena tre mesi dall'ultima. Nessuna delle precedenti, tuttavia, è riuscita nell'intento di dare al Paese un governo in grado di guidarlo, tra le incertezze (politiche ed extra-politiche) legate al premier uscente Benyamin Netanyahu e gli incerti connotati politici del Blu-bianco di Binyamin Gantz che, come il rivale, a formare una maggioranza salva-stallo non c'è riuscito. Inevitabile, almeno per ora, restituire la parola alle urne, in un Paese forse mai così instabile sul piano politico interno, in cui la divergenza fra i due partiti in corsa si risolve in una gara fra schieramenti di destra-centrodestra alla ricerca di un punto di comune accordo che possa sciogliere le riserve sull'intesa di governo. Interris.it ha fatto il punto della situazione israeliana con il dottor Giuseppe Dentice, associate research fellow Medio Oriente e Nord Africa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

- Dott. Dentice, Israele sembra vivere una fase di stallo politico da cui pare difficile uscire attraverso il voto. Quali fattori stanno incidendo sugli schieramenti tanto da impedire la formazione di un governo?
  "Bisogna dire che le questioni politiche israeliane sono strettamente collegate al contesto interno, a cui va data priorità rispetto al contesto internazionale, anche se quest'ultimo incide con alcune dinamiche. Innanzitutto, quello che riguarda Israele e la sua instabilità scoperta, è dovuta al fatto che da un lato vi è un elettorato - e quindi una società - diviso al suo interno, su linee di frattura abbastanza consolidate: un voto sempre più basato su un elettorato che guarda a un tipo di pensiero influenzato anche dalla religione, nonché da linee politiche che richiamano a una sorta di radicalismo vicino agli ambienti dei coloni. E questi due fattori hanno inciso profondamente nelle tornate elettorali dei mesi scorsi. A ciò aggiungiamo anche le difficoltà interne legate agli storici partiti come il Labour, che oggi ha scarsa rilevanza a livello nazionale, e la scelta di un nuovo partito, quello di Benny Gantz, che benché venga raffigurato come di centrosinistra è in realtà di centrodestra. Quindi, in realtà, è una gara interna alla destra-centrodestra, fra Gantz e il Likud guidato da Netanyahu che, tuttavia, soffre di problemi di varia natura, perlopiù extrapolitici. Questo è il contesto su cui poi fa leva la difficoltà anche di trovare una coalizione di governo perché, soprattutto nelle elezioni di settembre, l'ago della bilancia è risultato essere quel Libermann che è sicuramente un uomo di destra e che ha idee molto chiare su diversi temi, tra cui anche quello che riguarda Israele-Palestina ma anche l'elettorato laico, secolare, non prettamente religioso".

- In relazione al partito di Gantz, la poca chiarezza sull'effettivo schieramento politico sta creando qualche condizionamento sul piano interno?
  "Se andiamo a guardare bene i contenuti, i programmi di Gantz e Netanyahu non sono poi così diversi ma leggermente sfumate e, soprattutto, tendenzialmente vicini su temi come l'economia, la politica interna ed estera. La differenza sta nello stile: Gantz è un ex militare e, vicino a lui, ve ne sono altri. Ha quindi posizioni ben chiare su atteggiamenti e profili politici da tenere anche in relazione alle altre cariche dello Stato. Netanyahu sta spostandosi quasi verso una linea populista, abbracciando posizioni trasversali che, in realtà, tendono a compattare il suo elettorato e a svuotare quello radicale di destra. In questo senso, cerca di radunare più elettori possibili per definire una sua maggioranza. La sfida quindi non è fra diversi orientamenti ma fra linee più o meno definite, all'interno delle quali si riscontrano atteggiamenti politici".

- Se la dicotomia è interna a un unico blocco, il rischio concreto è che le nuove elezioni abbiano lo stesso effetto delle precedenti…
  "Più che una dicotomia in sé, la vera problematica risiede in ciò che vuole essere Israele e su quello che i candidati punteranno a dimostrare. Netanyahu sta inseguendo un certo tipo di destra vicina agli ambienti delle colonie ebraiche per un puro calcolo elettorale. Gantz cerca di proporsi come un qualcosa di diverso ma guarda a un elettorato di destra che punti a svuotare il Likud e quell'ala liberale che ancora vi fa riferimento. Questo è il vero nodo ma si tratta, allo stesso tempo, di tradurre quelle intenzioni politiche in un'azione di governo che, a oggi, rischia di rimanere sempre in fase di stallo: anche se si va al voto per la terza volta in meno di un anno, è difficile ipotizzare un risultato molto difforme dai precedenti. Si tornerà a un pareggio tecnico".

- In caso che cosa accadrebbe? Verrebbe formato un governo provvisorio o si procederà con votazioni a oltranza?
  "Anche tre elezioni in un anno sono una novità, perché non era mai successo in Israele. La ragionevolezza vuole che si trovi un accordo di governo ma, poi, questa si scontra con le volontà politiche dei leader. Possiamo solo azzardare un ragionamento: Gantz e il suo partito non sarebbero contrari a fare un governo con il Likud, tuttavia l'unica prerogativa che pongono è che all'interno non ci sia Netanyahu. Il quale continua però a ribadire la sua leadership. Quindi è più una questione politica, o meglio, di leadership politica più che di contenuti. Bisognerà vedere poi quale sarà l'atteggiamento del Presidente che, in questi mesi, è stato decisamente conciliante, provando in tutti i modi a far dialogare le parti nel tentativo di uscire dallo stallo. È difficile ipotizzare uno scenario più o meno plausibile. Il rischio è che si ritorni nuovamente alle elezioni ma credo che tre voti siano già abbastanza anche per l'elettorato. Sarà intenzione dell'intero corpo istituzionale israeliano di trovare un accordo più o meno plausibile".

- Esiste il rischio di un'esasperazione popolare che vada a complicare ulteriormente il quadro?
  "I riflessi maggiori si avrebbero sull'economia, che è peraltro sana. Ma è chiaro che in un periodo di prolungata instabilità e debolezza politica, questa incida nel definire il contesto. È un po' una novità per Israele questa estrema frammentarietà. Questo non significa che anche in passato non abbia conosciuto una mutevolezza nei governi ma una condizione come quella attuale di certo non è cosa da tutti i giorni".

(In Terris, 14 dicembre 2019)


Ecco l'alta velocità. Solo 34 minuti per andare a Gerusalemme

di Giordano Stabile

Con undici anni di ritardo, salvo ulteriori intoppi, il treno da Tel Aviv arriverà alla stazione Yutzhak Navon di Gerusalemme alle 10 e 30 di sabato prossimo. Un bel regalo di fine anno agli abitanti delle due città più grandi Israele, tre milioni di abitanti la prima, 850 mila la seconda, abituati a ingorghi estenuanti negli spostamenti di lavoro o di piacere. Dal 21 dicembre basteranno 34 minuti per spostarsi da un centro all'altro, quando invece in macchina occorre un'ora, a volte anche di più se il traffico è molto intenso. La prima linea ad alta velocità proietta lo Stato ebraico nel club dei Paesi con i mezzi di trasporto più avanzati, e anche più ecologici perché le ferrovie elettrificate hanno emissioni molto più basse per passeggero rispetto alle automobili o ai pullman. Il primo convoglio partirà alle 9 e 36 dalla stazione Hahagana di Tel Aviv. Poco dopo il secondo lascerà Gerusalemme in direzione opposta. Nelle ore di punta, dalla domenica al giovedì, cioè i giorni lavorativi in Israele, ci sarà un treno ogni trenta minuti, dalle sei del mattino alle nove e mezza di sera, una navetta destinata a trasportare milioni di passeggeri all'anno. Ci saranno anche due coppie di treni il sabato sera, per i gerosolimitani che vanno a godersi la vita notturna di Tel Aviv. I prezzi dei biglietti saranno più che abbordabili, 22 shekel, cioè 5,5 euro, a tratta. In pratica una linea di metropolitana nel cuore più popolato dello Stato ebraico, che permetterà di fare avanti e indietro anche in mezza giornata, a costi molto contenuti.

 II progetto tra rinvii e polemiche
  La linea percorre in tutto soltanto 57 chilometri ma la costruzione è stata faticosa, fra continui rinvii e polemiche. Il progetto è stato approvato nel 2001 dall'allora primo ministro Ariel Sharon e doveva essere terminato nel settembre del 2008. La costruzione di viadotti e gallerie è stata però più complicata del previsto. I costi sono lievitati da 2,8 miliardi di shekel, circa 700 milioni di euro, a 7 miliardi, 1,8 miliardi di euro. Un anno fa il premier uscente Benjamin Netanyahu ha inaugurato il primo tratto, fino all'aeroporto Ben Gurion, a una ventina di chilometri dal centro di Tel Aviv. Ma il primo anno di esercizio è stato costellato da chiusure e malfunzionamenti. Adesso la linea dovrebbe entrare a pieno regime e cambiare le abitudini degli abitanti delle due città. Per i pendolari sarà una manna, per i tassisti, soprattutto quelli dell'aeroporto, fra i più esosi nel Paese, una tragedia.

(La Stampa, 14 dicembre 2019)


Gran Bretagna: quanto ha pesato l'antisemitismo nella sconfitta di Corbyn?

Il fuoco di fila che ha evidenziato come nel partito laburista l'antisemitismo fosse ampiamente diffuso ha contribuito moltissimo, al di la dell'elettorato ebraico, alla pesantissima sconfitta di Jeremy Corbyn

di Bianca M. Bertini

Quanto ha pesato realmente l'antisemitismo di Corbyn nella pesantissima sconfitta del partito laburista alle elezioni in Gran Bretagna? A quanto pare tantissimo nonostante gli elettori ebrei britannici siano solo una esigua minoranza.
  Lo rivelano le analisi post-voto che hanno evidenziato come le idee fortemente antisemite di alcuni leader del partito laburista abbiano condizionato e spaventato non solo gli ebrei britannici ma anche una larga fetta di elettori britannici non ebrei.

 Il voto ebraico
  Nonostante molti ebrei britannici si opponessero alla linea di "hard brexit" annunciata da Boris Johnson, ha prevalso in loro la paura dell'avvento di un partito di estrema sinistra che ha nel suo DNA l'odio verso gli ebrei e verso Israele. Solo il 6% degli ebrei britannici, secondo le analisi, avrebbe votato per il partito di Corbyn.
  Ma questa "paura" è andata ben oltre l'elettorato di fede ebraica. «Gli elettori si sono preoccupati della questione dell'antisemitismo al di là della comunità ebraica», ha affermato la direttrice politica della BBC, Laura Kuenssberg.
  Della stessa idea anche Alistair Campbell, ex segretario stampa di Tony Blair, il quale ha evidenziato come l'antisemitismo insito nel partito di Corbyn avesse avuto un ruolo importante nella disfatta subita dai laburisti nonostante gli elettori di fede ebraica siano solo una esigua minoranza.

 Ampio spazio all'antisemitismo anche sui media britannici
  A differenza di altre volte nelle quali i media britannici si erano interessati poco alla questione dell'antisemitismo tra i laburisti, questa volta ne è stato dato ampio risalto tanto da costringere Jeremy Corbyn sulla difensiva e, prima a smentire (senza successo) che il suo partito fosse pieno di antisemiti, poi capito che era una linea indifendibile, a promettere di fare pulizia senza però farlo realmente come ha svelato The Guardian.
  A contribuire a questa "svolta" dei media britannici è stato un appello lanciato in prima pagina dal Jewish Chronicle nel quale si invitavano gli elettori non ebrei a non votare il partito laburista.
  Un intervento senza precedenti del rabbino capo Ephraim Mirvis, nel quale si ammoniva che in caso di vittoria dei labour molti ebrei sarebbero "fuggiti" dalla Gran Bretagna, ha poi fatto il resto.
  E così il problema dell'antisemitismo all'interno del partito laburista è stato continuamente tirato fuori in ogni dibattito televisivo fino a diventare virale e quindi di fondamentale importanza.
  Lo scorso fine settimana il Sunday Times ha scritto che «per molti, lo scandalo (dell'antisemitismo n.d.r.) ha messo in dubbio la competenza, il carattere morale e l'idoneità di Corbyn per le alte cariche».
  Concludendo, l'antisemitismo evidente all'interno del partito laburista e apertamente mostrato in più occasioni dallo stesso Jeremy Corbyn, ha contribuito non poco alla pesantissima sconfitta dei labour in Gran Bretagna. Un monito che forse dovrebbero raccogliere anche altri Paesi, a partire proprio dall'Italia.

(Rights Reporters, 14 dicembre 2019)


"Sono un cacciatore di ebrei", fornaio in manette dopo il post razzista su Facebook

L'immagine ritraeva il commerciante con una pistola in mano. In casa aveva una piantagione di droga. E' stato denunciato per istigazione all'odio razziale.

di Roberto Salotti

Una foto che lo ritrae, postata sul suo profilo Facebook e resa pubblica, forse per amplificarne l'effetto. In quella immagine Paolo Da Prato, panettiere 53enne di Lucca, con un'attività in un comune della Valle del Serchio, tiene in mano una pistola. Solo in seguito la Digos confermerà che era un giocattolo, una maldestra riproduzione di una Luger. Ma sono soprattutto le parole apparse a chiosa di quell'inquietante post ad aver convinto ad agire: "Cacciatore di ebrei".
   Erano appena cominciati allora i guai del commerciante, ritenuto dagli inquirenti un estremista di destra e simpatizzante di Forza Nuova: gli investigatori diretti dal vice questore Leonardo Leone scavano subito nella sua vita e inviano la segnalazione alla procura. Da Prato viene iscritto nel registro degli indagati. Istigazione all'odio e alla violenza per motivi razziali e religiosi. Un'accusa grave, della quale Da Prato dovrà rispondere di fronte alla magistratura.
   Ma la sorpresa nella sorpresa è arrivata soltanto ieri (12 dicembre) quando all'estremista di destra sono state messe le manette ai polsi. L'arresto è scattato dopo un blitz nella sua villetta, durante il quale la Digos - oltre a trovare la pistola, un coltello e una bandiera con la croce uncinata - ha scoperto quello che nessuno si sarebbe mai aspettato. Una vera e propria serra per la coltivazione e l'essiccazione della marijuana, che è costata a Da Prato un arresto in flagrante.

(Lucca in diretta, 13 dicembre 2019)


Il terzo voto in Israele sarà un referendum su Benjamin Netanyahu

In una campagna elettorale ferocissima si parlerà soltanto del premier, in grado di legare il suo destino a quello del paese

di Micol Flammini

 
ROMA - Lo spettro della terza elezione non ha mai abbandonato la Knesset. Nemmeno ventuno giorni fa, quando il presidente israeliano Reuven Rivlin aveva dato al Parlamento l'incarico di trovare qualcuno, un deputato di qualsiasi partito, in grado di formare una coalizione e ottenere la maggioranza. I partiti più piccoli allora si erano affaccendati a cercare volti somiglianti a quello di un leader, avevano tentato di ripetere nomi nella speranza che potessero diventare un po' più noti. Avevano soprattutto tentato l'impossibile: convincere il Likud di Benjamin Netanyahu e Kahol Lavan di Benny Gantz a formare un governo di unità nazionale. Ma i due partiti sono stati inamovibili, per Gantz non è il Likud il problema, il problema è il suo leader. Dentro al partito del premier ha iniziato a circolare la parola primarie, forse si terranno il 26 dicembre, ma Netanyahu rimane fortissimo e Gideon Sa'ar, il maggior sfidante che mesi fa aveva twittato un coraggioso "sono pronto", sa che una guerra interna farebbe male soprattutto a lui. Il partito è ancora molto legato alla figura del premier, non è tradendolo che si potrà aprire un'era post Bibi.
  Israele va così verso la terza elezione in un anno, si voterà il 2 marzo e la campagna elettorale si preannuncia feroce e rivolta a una nazione che di questo gioco politico inizia a stancarsi. I sondaggi pubblicati dall'emittente Channel 13 subito dopo la notizia del dissolvimento della Knesset mostrano che la situazione non è destinata a migliorare. Likud e Kahol Lavan rimangono lì, vicini e rivali e se Netanyahu resterà a capo del suo partito la possibilità di uscire dalla paralisi della politica israeliana è la stessa dei mesi passati: inesistente. E mentre il fantasma della terza elezione si fa da parte - è già realtà - spunta quello della quarta. Soltanto una coalizione tra i due partiti principali potrebbe dare alla nazione un governo, ma Netanyahu e Gantz non vogliono cedere. Nemmeno la sicurezza è un motivo sufficientemente forte. Il mondo attorno a Israele sta diventando sempre più minaccioso e diversi analisti sono convinti che la mancanza di un governo potrebbe mettere in pericolo la nazione costretta a monitorare i propri confini - via aerea, via terra e sottoterra - e tormentata dall'imminenza di uno scontro con l'Iran. Ma il messaggio che arriva dai due partiti è che la sicurezza dello stato ebraico va avanti da sola, non dipende dalla politica. Intanto però le questioni che il blocco della Knesset ha rimandato sono tante. Ad esempio il budget, il bilancio per il 2020, non è stato approvato, Israele andrà in esercizio provvisorio senza nessun adeguamento per le nuove necessità. Altro problema è il blocco legislativo, da dicembre 2018 gli unici atti legislativi approvati sono due, tutti e due emanati per dissolvere la Knesset.
  La politica israeliana non riesce a togliere gli occhi da Benjamin Netanyahu, il premier è stato incriminato ma potrà rimanere in carica fino a quando l'incriminazione non sarà confermata anche in appello, e più le elezioni si sommano, più il voto si sta trasformando in un referendum sul primo ministro. Anche Kahol Lavan, un partito forte, non riesce a parlare d'altro, le campagne elettorali perdono in contenuti e si concentrano su Bibi. Il premier invece è riuscito a legare il proprio destino politico a quello di Israele, è stato in grado di proiettare l'immagine di un uomo forte indispensabile per il paese che pure, nella sua storia, non ha avuto bisogno di uomini forti al comando per andare avanti. Se cado io, cadete voi, se perdo io, perdiamo tutti. Gli israeliani sanno che gli anni di Netanyahu sono stati importanti, il paese è diventato sempre più sicuro, ma una terza elezione, e chissà una quarta, sono un rischio anche per l'unità del paese. Ogni campagna elettorale diventa più aggressiva della precedente, i toni si alzano, organizzare elezioni costa, e tutto dipende da un nome. Per volere del Likud, ma anche delle opposizioni.

(Il Foglio, 13 dicembre 2019)


Sondaggio: Blu-Bianco in testa

Ma ancora problemi per entrambe le coalizioni

Se si votasse oggi Blu-Bianco di Benny Gantz avrebbe 37 seggi - guadagnandone 4 rispetto ai 33 della consultazione di settembre - contro i 31 del Likud di Benyamin Netanyahu che ne perderebbe 1 a fronte dei 32 delle ultime urne. Lo rivela un sondaggio del quotidiano Israel Ha-Yom, tradizionalmente vicino al premier. La coalizione di centro sinistra guidata da Gantz, tuttavia, riuscirebbe a guadagnare la maggioranza necessaria dei 61 seggi su 120 alla Knesset solo alleandosi con la Lista Araba Unita forte di 14 seggi rispetto ai 13 dell'ultima votazione. Il sondaggio rivela anche che un eventuale cambio nella premiership del Likud tra Netanyahu e Gideon Saar - suo principale avversario - non danneggerebbe la coalizione di destra, anzi la favorirebbe.
Secondo la rilevazione, infatti con Saar alla guida, la destra raggiunge i 56 seggi complessivi, mentre con Netanyahu si ferma a 51.

(ANSAmed, 13 dicembre 2019)


Primo: porre un limite al numero di mandati

Israele ha più volte dimostrato di non essere né troppo orgoglioso né troppo arrogante per correggere fallimenti ed errori.

Editoriale del Jerusalem Post (12.12.2019)

Prima o poi tutto questo sarà alle nostre spalle. Prima o poi lo stato d'Israele avrà un governo con un primo ministro stabile, e non di transizione. Prima o poi il paese avrà un esecutivo che si riunisce regolarmente con l'autorità per prendere decisioni cruciali, una Knesset che approverà effettivamente le leggi e una legge di bilancio a pieno titolo.
   Quando arriverà quel giorno, bisognerà fare il punto della situazione. La nazione dovrà guardare indietro e vedere cosa è andato storto e come ha potuto perdere un anno intero di buon governo: il genere di governo a cui hanno diritto i cittadini e che le sfide di questa regione esigono. Bisognerà fare il punto non per distribuire colpe: la crisi politica che attanaglia questo paese da quando Avigdor Liberman innescò il processo elettorale dimettendosi da ministro della difesa dal 2018, conosce molti padri e molte madri. Fare il punto, piuttosto, per evitare che una situazione come questa abbia a ripetersi.
   Uno dei punti di forza di questo paese è la sua capacità di correggersi. Israele ha spesso dimostrato di non essere né troppo orgoglioso né troppo arrogante per ammettere gli errori. Anzi, quando si verificano fallimenti, soprattutto in campo militare, ha dimostrato più volte di essere capace di indagare a fondo in modo che non accadano più. E quest'anno appena trascorso è stato un vero e deprimente fallimento politico.
   Israele non è l'Italia o la Spagna, paesi che non hanno vicini votati alla loro distruzione e che possono permettersi il lusso di andare ad elezioni a brevi intervalli o di avere governi che durano pochi mesi. Israele, considerando la sua posizione e le sfide esistenziali che deve affrontare, ha bisogno di un governo efficiente e risoluto.
   Bisognerà trarre utili insegnamenti da questa follia politica. Come siamo arrivati a questo punto? Come ne usciamo? E cosa si può fare per garantire di non ritrovarsi presto nella stessa situazione? Nei prossimi mesi verranno sicuramente avanzate svariate proposte: eleggere direttamente il primo ministro, alzare il quorum minimo per l'ingresso dei partiti alla Knesset, creare collegi elettorali anziché votare come ora su un collegio unico nazionale, stabilire per legge che al partito di maggioranza venga automaticamente affidato l'incarico di formare il governo senza che debba preventivamente ottenere il sostegno di 61 parlamentari ecc. Ognuno di questi suggerimenti ha i suoi meriti, anche se va ricordato che un paio di essi - l'elezione diretta del primo ministro e l'innalzamento della soglia di sbarramento - sono già stati sperimentati, qui in Israele, con scarso successo.
   Ma un'altra idea, che è sicuramente giunta l'ora di approvare, è quella di porre un limite di legge alla durata in carica dei primi ministri. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato premier per 13 anni e nove mesi consecutivi. E' un sacco di tempo. Di fatto, quasi il 19% della storia di questa nazione. La cosa non è salutare, né per Netanyahu - o qualsiasi altro leader - né per il paese. Non è salutare per il leader perché crea la sensazione di un'investitura tale da meritare dei privilegi. E crea la percezione che una certa persona sia insostituibile, un fatto che erode la distinzione estremamente importante in democrazia tra il leader e lo stato: in democrazia il leader non è lo stato, il leader è al servizio dello stato. Inoltre, la concentrazione del potere nelle mani della stessa persona per così tanto tempo porta inevitabilmente a un'erosione del sacro equilibrio fra i poteri che caratterizza la democrazia.
   Un limite alla durata della carica è salutare anche per un'altra ragione: favorisce i passaggi di mano, che a loro volta sono una cosa positiva per il buon governo. C'è un elemento positivo e rigenerante nel fatto in sé che a intervalli regolari emergano e si assumano responsabilità nuovi leader, meno legati alla politica dei loro predecessori, anche quando provengono dallo stesso partito. La mancanza di limiti di mandato garantisce, viceversa, che il primo ministro non faccia crescere mai un successore. Se il premier vuole e può governare indefinitamente, perché mai dovrebbe promuovere la crescita all'interno della sua stessa formazione di qualcuno che un giorno potrebbe sfidarlo?
   Certamente non esiste un unico rimedio ai problemi emersi nel sistema politico israeliano. Può anche darsi che un limite di tempo del mandato non avrebbe evitato la collisione politica a cui stiamo assistendo. Ma quando il paese alla fine uscirà dai rottami di questo scontro politico e cercherà di ripartire con un nuovo veicolo, farà bene ad assicurarsi che su di esso sia installata la nuova funzionalità del limite di mandato.

(israele.net, 13 dicembre 2019)


Decreto di Trump per combattere l'antisemitismo nelle università

WASHINGTON, 12 - Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato un ordine esecutivo per combattere l'antisemitismo nelle scuole e nei campus universitari americani.
Nel provvedimento, gli ebrei sono definiti come un gruppo etnico - e non solo come un'identità religiosa - e questo fa sì che l'Amministrazione statunitense consideri le discriminazioni nei loro confronti come una violazione della legge federale sui diritti civili del 1964.
«Questo è il nostro messaggio alle università: se volete accettare gli aiuti federali che ricevete ogni anno allora dovete respingere l'antisemitismo», ha dichiarato il presidente Trump, accompagnato dalla figlia Ivanka e dal genero, Jared Kushner, direttore dell'Office of American Innovation, nel corso della cerimonia per la firma. «Questo è un provvedimento importante», ha aggiunto Trump.
Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha espresso compiacimento. Con la firma dell'ordine esecutivo, ha osservato Katz in un comunicato, «sarà possibile lottare con maggiore efficacia nei campus» statunitensi contro l'antisemitismo.

(L'Osservatore Romano, 13 dicembre 2019)


"Santa Greta"

In Svezia Thunberg si studia come religione, la chiesa la considera un profeta. L'ambientalismo è vangelo? Per la primate della chiesa svedese, "Greta è come i profeti biblici". Rischi della santificazione del catastrofismo

di Giulio Meotti

 
ROMA - "Santa Greta diffonde il Vangelo del clima", scrive l'ex direttore del Wall Street Journal Gerard Baker. "Greta Thunberg, la prima santa della religione ambientalista", secondo Madeline Grant del Telegraph. "Greta icona religiosa dell'anno", prosegue Andrew Bolt sull'Herald Sun australiano di ieri. Ma questi, si sa, sono commentatori reazionari venduti alla lobby del petrolio e negazionisti della crisi climatica. Chi, invece, ha preso sul serio il culto di Greta è proprio la Svezia, il paese della ragazza e attivista nominata mercoledì personaggio dell'anno da Time. Nel giro di un anno da Greta che salta la scuola e invita gli studenti di tutto il mondo a fare altrettanto per salvare il pianeta si è passati a studiare Greta a scuola.
  Thunberg è stata appena inserita in un corso di studio digitale della religione in alcune scuole elementari svedesi, "un corso di conoscenza e filosofia religiosa". Oltre a Gesù, Budda, Maometto e altre figure religiose, gli studenti devono ora farsi una idea più profonda dei pensieri e dei risultati di Greta. Il capitolo si chiama "clima", racconta l'infanzia di Greta in una famiglia dove il concetto di "creazione" è sempre stato al centro dell'educazione e la sua scelta di diventare un'attivista. Si afferma che Greta è una "sveglia" che "ci permette di discutere e riflettere su ciò che sta accadendo al nostro mondo". Il discorso di Greta all'Onu ("come osate?") è paragonato a quello di Martin Luther King "I have a dream". Per l'editore svedese Liber, che ha realizzato il materiale scolastico, "è importante offrire costantemente materiale didattico in grado di riflettere la contemporaneità". "Sì, c'è sicuramente un culto di Greta Thunberg", dice al Foglio il giornalista inglese Brendan O'Neill, direttore del magazine Spiked. "E sta diventando sempre più bizzarro ogni giorno. E' millenaristico. Il movimento verde, in particolare Extinction Rebellion, parla della fine dei giorni. Promettono inondazioni, incendi e altre punizioni naturali se non ci pentiamo dei nostri peccati. Dicono che miliardi di noi moriranno. Miliardi di noi bruceranno. E' qualcosa che ricorda le Rivelazioni. E ora, in Greta, hanno il loro Messia: una bambina innocente in possesso della verità e a cui tutti dobbiamo inchinarci e obbedire. Si presentano come un movimento di protesta, ma si tratta di un movimento irrazionale e antidemocratico che richiede il sacrificio individuale piuttosto che il progresso collettivo, l'obbedienza intellettuale piuttosto che il dibattito aperto e la devozione servile alla bambina-dea piuttosto che il dissenso blasfemo". Cosa significa questa religiosità green per l'occidente? "Il culto verde si differenzia dalle antiche religioni in un modo molto importante: non offre ricompensa o trascendenza per il nostro sacrificio. Le grandi religioni hanno richiesto molto da noi ma hanno promesso ancora di più: una vita eterna di amore e abbondanza. Il miserabile e misantropo movimento verde non promette nulla del genere, ma che viviamo di meno, viaggiamo di meno, discutiamo di meno e che non c'è altra ricompensa della riduzione della 'impronta umana"'.
  Il movimento lanciato da Greta Thunberg "ci riduce a semplici esseri biologici che sono non solo dispendiosi e distruttivi ma che devono sforzarsi di essere più puliti rispetto alle emissioni di carbonio, cioè non lasciare alcun impatto sul pianeta o sulla storia", dice al Foglio Brendan O'Neill, direttore di Spiked. "E' una campagna singolarmente deprimente. E mette Greta in primo piano proprio per prevenire le critiche: chiunque critichi questo movimento ora può essere accusato di 'bullismo nei confronti di una bambina'. Ma dovremmo smettere di adorare Greta e di credere alle spaventose fiabe del culto della morte verde e recuperare la nostra fiducia nello sforzo umano e nella crescita economica".
  La chiesa di Svezia, chiesa di stato luterana, tramite l'arcivescovo e primate Antie Jackelén ha paragonato la sua connazionale e attivista del movimento internazionale per il clima ai profeti dell'Antico Testamento. In una intervista al quotidiano svedese Expressen, l'arcivescovo Jackelén ha detto: "Credo che Greta sia profetica allo stesso modo in cui i profeti dell'Antico Testamento erano persistenti con il loro messaggio". Jackelén ha detto che la propensione di Greta ad "azioni simboliche" è simile a quella dei profeti biblici. "E' iniziato con lo sciopero della scuola ed è continuato con il suo viaggio attraverso l'Atlantico". Aveva già fatto scalpore, due mesi fa, il tweet della chiesa Limhamn di Malmo, la terza città svedese: "Ascoltate! Gesù di Nazareth ha nominato uno dei suoi successori, il suo nome è Greta Thunberg". Ha commentato la teologa Ann Heberlein: "Una congregazione di chiese celebra l'Avvento nominando Greta successore di Gesù. Se la chiesa non prende sul serio il proprio messaggio, chi dovrebbe farlo?". La Bbc ha appena offerto a Greta la conduzione di un programma durante le feste di Natale. E' il lieto annuncio: una bambina è nata per noi!

(Il Foglio, 13 dicembre 2019)


Tra gli elettori in coda ai seggi. "Ora davvero, addio Bruxelles"

Sul voto ha pesato il divario in aumento tra i benestanti e i più poveri

di Alberto Smonl

LONDRA - Milena e Mathias hanno un nuovo passaporto, rosso, non blu come lo vorrebbero i nostalgici dell'impero britannico. Sono diventati cittadini del Regno Unito da meno di un anno perché il tiramolla della Brexit li ha spinti a fare il grande passo. Lei ora è suddita di Sua Maestà oltre che un'italianissima in trasferta da 25 anni a Londra. Ieri si è presentata puntuale, come milioni di persone, alle urne, «le più importanti elezioni di una generazione», dice una signora sui 60 anni avvolta in un cappotto color senape. L'italiana diventata inglese e l'inglese mai uscita dal Paese, almeno così afferma, sono in coda dinanzi a un seggio nel distretto di Richmond Park. Milena è emozionata, è la prima volta che può dire la sua. Avrebbe voluto votare al referendum del giugno del 2016, ma «a noi europei hanno impedito di esprimersi». La signora dissente e ostenta il suo spirito di «leaver».
   A Richmond Park, Ovest di Londra, il deputato in carica è Zac Goldsmith, conservatore brexiteer. Fuori dalla polling station, laburisti e lib-dem, coccarde rosse i primi, arancioni i secondi, inseguono - gentilmente - i potenziali elettori. «Il tuo voto conta, salviamo la sanità e combattiamo questa Brexit», dice Arthur a un distratto signore che con garbo sorride e tira dritto. Gli attivisti pro-Zac sono sconsolati, dal partito arrivano segnali foschi. Nel 2017 Goldsmith tenne il seggio per appena 54 voti, ma Richmond Park, come quasi tutti i distretti-bene di Londra, votò nel 2016 al 70% per la permanenza nella Ue, e ora stare di qui o dall'altra parte della barricata conta. Soprattutto se devi difendere 54 voti, meno dell'O,1%. Una biondissima attivista, Stephanie, sussurra: «Zac è spacciato». Ma la Brexit no, sembra voler aggiungere perché i vertici Tory fanno girare qualche sondaggio interno. «Leggi qui - esulta noncurante di margini di errori e imprevisti schiaffandoci sotto gli occhi lo schermo dello smartphone - dice che vinciamo, c'è la maggioranza, addio Bruxelles».
   Londra ieri si è svegliata sotto una costante e appuntita pioggerella, non c'è nessuna novità in questo. I conservatori temevano che il maltempo avrebbe rovinato i loro piani, «i nostri elettori, beh sono un po' più anziani», spiega Thomas fuori dalla metropolitana di South Kensington, altro distretto ballerino. I sondaggisti liquidano le preoccupazioni meteorologiche come un nonsense, tant'è che alle 22 c'erano ancora persone in fila ai seggi. L'affluenza fu altissima quando si votò in febbraio; nel 1974, 79%, nel 1950, 84% record assoluto.
   A Finchley, casette eleganti nel Nord di Londra, verde e una sequenza di scuole private sulla East End Road, cattolica, cristiana, ebraica, la gente si è messa in fila prestissimo, documento in mano e cane al guinzaglio. C'è pure un concorso lanciato da un giornale: invia la foto del tuo cane al seggio. Qui riverberano ancora le polemiche su Corbyn, reo di non aver messo freno a frasi e comportamenti antisemiti nel Labour. Luciana Berger, ebrea, ha salutato i laburisti in contrasto con il leader e corre con i lib-dem. Ha risvegliato una sfida, nel nome dell'Europa e dell'antirazzismo, che sembrava decisa in partenza.
   Ritorna spesso la parola Europa fra gli elettori in attesa di marcare la scheda: 35 minuti a Tooting, 20 minuti a Chipping Barret al mattino presto. «Votiamo per fermare la Brexit e poi andiamo a lavorare», dice George, contabile in uno studio del centro. A Brixton, Sud di Londra, feudo Labour senza se e senza ma, zona un tempo difficile, immigrazione e gang nere, ma oggi trendy e vivacissima, i seggi sembrano meno frequentati. C'è chi come Andrew si occupa di cercare fondi per i «bimbi sordi, il governo spende solo in infrastrutture, ma servono quattrini per servizi sociali e sanità.» Un rapporto attesta che l'aspettativa di vita ha rallentato ed è aumentato il gap fra chi vive in zone povere e chi in quelle benestanti. Si vive di meno, ci si ammala prima se sei povero.
   Il leader laburista, cappotto blu e sciarpa scozzese, ha votato nella sua Islington: «Non possiamo sopportare altri 5 anni di Tory», Boris Johnson, cane Dilyn della compagna al guinzaglio, a Westminster. «Get Brexit done». Fuori i secondi.

(La Stampa, 13 dicembre 2019)


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Tonfo di Corbyn, il marxista che non voleva governare

Ha parlato sempre di Stato sociale ma mai di Brexit e non ha fermato l'antisemitismo Labour

di Paola De Carolls

 
LONDRA - Tutto da rifare per la sinistra britannica. Il 31 ottobre Jeremy Corbyn aveva presentato il programma del partito laburista con una promessa, quella di unire il Paese, e una domanda: «Da che parte state? Volete schierarvi con gli evasori fiscali?». Con il ricchissimo duca di Westminster? Con Mike Ashley, il presidente miliardario di Sports Direct? Con Rupert Murdoch? Mercoledì, prima della chiusura della campagna elettorale, ha attraversato il Regno Unito: 750 chilometri di strada che da Glasgow lo hanno condotto all'East End di Londra: «Vi porto un messaggio di speranza». I suoi avversari lo hanno attaccato in modo personale. Lui no. «Le fogne non fanno per me». Negli ultimi comizi ha ricordato le priorità del Labour: il sistema sanitario, l'assistenza sociale, i senzatetto, la nazionalizzazione dei trasporti, la scuola pubblica, togliere ai ricchi per dare ai poveri. E la Brexit? Neanche un accenno.
   È qui il controsenso di un politico che da una parte è stato capace di mobilitare i giovani-lo «youthquake», il terremoto dei ragazzi nel 2017 - e dall'altra non ha saputo cogliere un'opportunità d'oro.
   Di più: l'ha clamorosamente mancata. Di fronte a un premier populista, disposto a uscire dall'Ue senza accordo, privilegiato, con pochi consensi personali, odiato da tanti conservatori, non ha raccolto gli elettori alla ricerca di un'alternativa accettabile.
   I suoi più stretti collaboratori lo descrivono come un uomo ostile ai compromessi. L'ideologia di Corbyn è rimasta cristallizzata al marxismo del suo periodo formativo, dopo il liceo: i tre anni in Giamaica a tu per tu con gli scritti e i discorsi di Walter Rodney, storico, politico e attivista guyanese, contrario al colonialismo e al capitalismo. Se da una parte ha istinti da leader - ha compreso subito la necessità di far visita alle vittime dell'incendio Grenfell -, dall'altra non vede priorità che sembrano lampanti, come quella di sanare l'antisemitismo all'interno del partito.
   «Sono pronto a diventare primo ministro», aveva promesso. Ma c'è chi, tra i fedelissimi, dubita che Corbyn abbia mai avuto fame di potere e ricorda un incontro per stabilire, in caso di vittoria, le modalità del trasferimento a Downing Street. «Non posso restare a Islington?» avrebbe chiesto. Da oggi, questa strategia perdente e la sua stessa leadership del Labour saranno necessariamente messi in discussione.

(Corriere della Sera, 13 dicembre 2019)


L'antisemitismo spiegato a un avvocato negazionista

di Raul Wittenberg

Non solo negli ambienti ebraici si manifesta un certo allarme per il risorgere in Europa di un antisemitismo che a partire dal secondo dopoguerra era piuttosto sopito. Nelle popolazioni troppo vivo era l'orrore per la sua conseguenza estrema, il tentativo in parte riuscito di eliminare un intero popolo nel civilissimo vecchio continente.

 Porto la mia testimonianza
  Questo freno inibitorio, dopo un paio di generazioni, appare allentato. Nel recente articolo sul Corriere di Paolo Mieli si documenta quanto sia infarcito di antisemitismo un partito progressista storico come il Labour britannico. Dove la legittima critica alla politica del governo israeliano si colora con una forte tinta antiebraica.
  Si è già scritto in materia, non intendo farne un resoconto. Voglio solo portare una testimonianza personale, che mi è tornata in mente imperiosamente queste settimane, dopo l'affronto di alcune istituzioni comunali a Liliana Segre.
  Tempo fa per motivi di lavoro ho frequentato in quanto giornalista uno stimato professionista di cui celo l'identità, diciamo per esemplificare: un avvocato milanese. Insomma una persona che svolge un lavoro intellettuale, con un curriculum di tutto rispetto a partire dal liceo in un istituto molto prestigioso, con buone letture eccetera. Una persona di sicuro non militante dell'estrema destra. Delusa dalla politica.

 Se gli ebrei diventano"corresponsabili"
  Ebbene, si parlava della giornata della memoria e con mia sorpresa ebbe parole di disprezzo, come parlasse dell'ultima trovata degli ebrei per far quattrini. "Non ha senso rievocare una cosa di settant'anni fa sepolta in un angolo della storia".
  "Del resto - aggiunse - gli ebrei sono corresponsabili di quanto a loro è accaduto, perché vivono in comunità chiuse e controllano la finanza mondiale". Ovvero, chi vive in clausura come certi ordini religiosi, oppure è alla testa di una grossa banca, deve aspettarsi conseguenze simili allo sterminio di massa.
  Esterrefatto, gli proposi di leggere un recente libro di Siegmund Ginsberg, "Sindrome 1933", in cui lo studioso conduce una meticolosa ricostruzione della scalata al potere del nazismo in Germania. "Ma l'autore è ebreo?" Alla risposta affermativa disse testualmente: "Allora non mi interessa, non lo leggerò mai perché è di parte. Leggerei solo l'analisi di un soggetto terzo, che non sia né a favore né contro gli ebrei". In termini logici c'è un retro pensiero in questa sedicente equidistanza: certamente i nazifascisti avevano qualche buona ragione per sterminare gli ebrei, e solo un osservatore terzo, "oggettivo" potrebbe coglierla. Inciso: con la censura allo scrittore ebreo "di parte" sull'olocausto, si spazza via una buona parte della letteratura mondiale, da Primo Levi ad Anna Frank, Hannah Arendt, Isaac Singer e via leggendo.

 La spia di un clima pericoloso
  Che nella Repubblica italiana gli istinti antisemiti alberghino ancora in persone poco attrezzate culturalmente c'è da aspettarselo. Qui la vera notizia è che se ne facciano vanto fino all'assurdo persone istruite, espressione di quel tessuto di classe media acculturata che si colloca tra il popolo e il potere politico. Quello descritto, veramente accaduto, potrebbe essere un caso isolato, ma è comunque una spia rossa, un micro ictus della ragione.
  Ecco, questa "banalità del male" che ritorna affacciandosi anche nelle classi superiori deve preoccupare tutti, non solo gli ebrei. Certo, è improbabile che in Europa qualcuno stia progettando forni crematori per gli odiati juden, il cui contesto di allora era una sanguinosa guerra generale.
  Ma con il razzismo nel cuore si uccidono gli anticorpi democratici, si diventa succubi del potere al quale si dà via libera per qualunque operazione. I miei genitori ebrei tedeschi conservavano un ritaglio di giornale con l'immagine della tipica famiglia borghese nella Germania degli anni Venti: il padre al pianoforte, la mamma al violoncello e i figli alla viola e al violino dopo cena si dilettavano con un quartetto di Beethoven. Ebbene, diceva mio padre, qualche anno dopo nessuno di questi avrebbe mosso un dito mentre i nazisti trascinavano su di un camion militare tutta la famiglia del professore di matematica dei loro figli, un ebreo che abitava nello stesso pianerottolo.

(Striscia Rossa, 13 dicembre 2019)


Nessun accordo. Israele rivota: è la terza volta in un anno

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Gli israeliani potrebbero votare per la prima volta nella loro Storia il lunedì. Gli avversari Bibi Netanyahu e Benny Gantz sembrano essere riusciti a mettersi d'accordo solo su questo: fissare la data delle elezioni al 2 marzo, invece di scegliere un martedì come avrebbero imposto tradizione e legge. I deputati alla Knesset hanno votato fino a mezzanotte di ieri per far passare il nuovo appuntamento, una delle poche decisioni prese in tre mesi dall'ultimo voto. Qualunque sia il giorno, è la terza volta in meno di un anno che il Paese torna alle urne. E gli analisti prevedono che il risultato non sarà molto diverso: i due partiti principali non avrebbero i numeri per formare la coalizione, anche se i sondaggi già danno Blu Bianco di Gantz con qualche vantaggio in più. Il calendario politico si incrocia con quello giudiziario: Netanyahu resta premier ad interim, il 22 novembre è stato incriminato per corruzione ed è in attesa del processo. Dentro al suo Likud almeno un contendente - Gideon Sa'ar- sta cercando di spodestarlo: tra due settimane il partito sceglierà il nuovo leader o incoronerà ancora una volta il vecchio.

(Corriere della Sera, 12 dicembre 2019)


Netanyahu lascerà i suoi incarichi ministeriali entro il primo gennaio

GERUSALEMME - Il premier uscente israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato che lascerà entro il primo gennaio i portafogli ministeriali attualmente detenuti: Sanità, Diaspora, Welfare e Agricoltura, ma continuerà a ricoprire il ruolo di primo ministro. Le pressioni su Netanyahu per rimettere gli incarichi ministeriali sono aumentate dopo che il procuratore generale Avichai Mandelblit ha annunciato l'incriminazione contro il premier il 21 novembre. Poco dopo, il Movimento per la qualità del governo in Israele ha presentato una petizione all'Alta Corte sia per far licenziare Netanyahu come primo ministro sia spingerlo a dimettersi dagli altri ruoli ministeriali. Il 25 novembre, Mandelblit ha difeso la possibilità di Netanyahu di mantenere la carica di primo ministro, ma ha rinviato la sua opinione sul mantenimento degli altri portafogli ministeriali. Dopo l'annuncio di oggi, Mandelblit ha dichiarato in una nota che l'Alta corte non dovrà più esprimere la sua opinione in merito.

(Agenzia Nova, 12 dicembre 2019)


New Jersey, attacco al supermarket kosher. Trump: nuove norme contro l'antisemitismo

Gli attentatori spinti dall'avversione per Israele. La Casa Bianca: "L'ebraismo una nazionalità, va protetta"

di Francesco Semprini

NEW YORK - Il presidente Trump ha firmato un decreto esecutivo in cui definisce l'ebraismo una nazionalità e non solo una religione, al fine di incentivare il contrasto e la prevenzione di atti di antisemitismo. Secondo quanto riferito da funzionari della Casa Bianca il provvedimento avrebbe lo scopo di contrastare i movimenti anti-israeliani. Secondo il Titolo VI del Civil Rights Act del 1964, il dipartimento dell'Istruzione può sospendere o revocare finanziamenti destinati a qualsiasi istituzione educativa in cui avvengono pratiche sistematiche di discriminazione «per motivi di razza, colore o nazione di origine». La religione non è inclusa tuttavia tra le categorie «protette» e pertanto Trump vuole aggirare questa lacuna, che espone a rischi discriminatori le persone di religione ebraica, equiparando l'ebraismo a una identità nazionale del Medio Oriente, al pari degli italoamericani o degli americani-polacchi. La decisione di Trump arriva meno di 24 ore dopo la strage che ha sconvolto il New Jersey. Dopo che erano state escluse inizialmente matrici terroristiche, comincia a prendere corpo l'ipotesi di un attacco antisemita.

 La strage
  Sarebbero un uomo e una donna i due killer uccisi ieri a Jersey City nella sparatoria che ha provocato 6 vittime, tra cui un poliziotto, e tre feriti, tra cui due agenti. Uno dei due killer aveva pubblicato sulla rete messaggi antisemiti e contro la polizia. Da quello che si vede nelle immagini delle telecamere di sicurezza, i due avrebbero preso di mira volutamente il supermarket JC Kosher, punto di riferimento della comunità ultra-ortodossa di questa città, che si estende di fronte a Manhattan, sulla sponda opposta del fiume Hudson.
  «Gli assalitori hanno preso di mira deliberatamente un negozio kosher», ha dichiarato il sindaco della città, Steven Fulop, denunciando l'antisemitismo e chiedendo al sindaco di New York di rafforzare la protezione della comunità ebraica. Durante l'assalto a colpi di fucile è rimasto a terra un poliziotto, Joe Seals, padre di cinque figli, ed altre tre persone, un cliente e i due proprietari del supermercato kosher, Leah Minda Ferencz e il marito Moshe Deutsch, membri della comunità chassidica. Sembra che il killer fosse legato al movimento «Black Hebrew Israelites», designato come gruppo d'odio dal Southern Poverty Law Center, che monitora tali gruppi. Si tratta di David Anderson, 47 anni, rimasto ucciso nel conflitto a fuoco con la polizia insieme alla sua complice Francine Graham. Gli investigatori hanno trovato una bomba artigianale e un messaggio nel van dei killer; il testo conterrebbe un messaggio «religioso». Secondo le ricostruzioni, alcuni agenti avrebbero avvistato gli assalitori all'interno di un furgone U-Haul, azienda specializzata in traslochi. È lì che è iniziato il primo conflitto a fuoco proseguito in una zona residenziale della città. Successivamente i due killer si sono asserragliati all'interno del negozio kosher sparando all'impazzata in strada dalle finestre. Lo scontro è andato avanti diverse ore prima che gli autori della mattanza venissero uccisi.

LA DINAMICA DELL'ATTACCO DI MARTEDÌ
1 - Martedì a Jersey City, cittadina di 300 mila abitanti che si affaccia sulla Baia di New York, ma appartiene allo stato del New Jersey, si scatena una sparatoria. L'obiettivo è un supermercato kosher
2 - David Anderson e Francine Graham, i killer, vengono neutralizzati. Nel conflitto muoiono un poliziotto, Joe Seals, padre di 5 figli, e altre tre persone, due proprietari e un cliente del supermercato
3 - Sulle pagine social di David Anderson si leggono dichiarazioni antisemite e contro la polizia. L'uomo, afroamericano di 47 anni con precedenti penali, era collegato alla setta Black Hebrew Israelites.

(La Stampa, 12 dicembre 2019)


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Messaggi d'odio contro ebrei e bianchi. Il risveglio della setta dei suprematisti afro

Il killer era legato ai Black Hebrew lsraelites. ''Siamo noi i veri eredi delle Sacre Scritture''

di Paolo Mastroulli

NEW YORK - Ogni persona bianca che non verrà uccisa da Cristo quando tornerà, sarà ridotta in schiavitù». Così parlava General Mayakaahla Ka, predicatore della Israelite School of Universal Practical Knowledge, secondo un rapporto pubblicato il 29 agosto del 2009 dal Southem Poverty Law Center. Poi aggiungeva: «Io sto parlando di 99 milioni di negri! E tu parli di 6 milioni di morti di fame?» E ancora: «L'Olocausto è uno scherzo. Heil Hitler».
   Quel documento aveva lanciato l'allarme sul fenomeno dei «Black Hebrew Israelites», cioè i neri che si ritengono i veri discendenti degli ebrei delle Sacre Scritture, perché stava prendendo una piega speculare a quella dei suprematisti bianchi. Martedì sera a Jersey City, se le prime informazioni raccolte dagli investigatori sono corrette, questa minaccia si è trasformata in realtà. Almeno uno dei due assalitori del mercato kosher, David Anderson, era infatti legato ai «Black Hebrew lsraelites», e ciò potrebbe aprire una nuova pagina raggelante per il terrorismo domestico americano.
   Questa storia affonda le radici addirittura nel Diciannovesimo secolo, quando Frank Cherry aveva costituito la «Church of the Living God» a Chattanooga, nel Tennessee, e William Crowdy aveva creato la «Church of God and Saints of Christi» a Lawrence, in Kansas. Il punto di partenza era comune, ossia la persecuzione subita durante il lungo periodo della schiavitù. Allora tra gli afro-americani si era diffusa la convinzione che loro fossero i veri discendenti culturali, ma anche biologici, degli ebrei descritti nelle Sacre scritture. Ciò consentiva una rivalsa morale e una giustificazione della ribellione contro i bianchi cristiani, che erano gli usurpatori della religione, appartenenti in realtà ad una razza inferiore.
   Il movimento da allora in poi si è allargato, prendendo molte direzioni diverse e contraddittorie. Gli studiosi distinguono i suoi appartenenti in almeno tre categorie: gli ebrei neri che restano legati al cristianesimo ma adottano i rituali ebraici; quelli che si uniformano di più alla tradizione ebraica; e quelli che invece intendono la definizione di israeliti soprattutto con un connotato nazionalistico.
   Nessuno di questi gruppi viene riconosciuto nell'ambito dell'ebraismo autentico, e in passato ci sono state anche frizioni quando alcuni membri sono emigrati verso Israele, chiedendo di ottenere la cittadinanza sulla base di una presunta discendenza diretta dal popolo delle Scritture.
   Lo studio del Southern Poverty Law Center sosteneva che la maggioranza dei gruppi dei «Black Hebrew Israelites» «non sono né esplicitamente razzisti, né antisemiti, e non promuovono la violenza». Allo stesso tempo però avvertiva che «c'è un settore estremistico emergente, i cui adepti credono che gli ebrei siano impostori diabolici, e condannano apertamente i bianchi come la personificazione del maligno, meritevoli solo della morte e della schiavitù».
   Negli ultimi anni questi gruppi hanno seguito un percorso speculare a quello dei suprematisti bianchi, diventati più attivi durante l'amministrazione Trump, a partire dagli scontri di Charlottesville del 2017. La protesta nera si era stranamente calmata, dopo l'esplosione di Black Lives Matter all'epoca di Obama, ma questo potrebbe essere il primo segnale di un ritorno più violento.

(La Stampa, 12 dicembre 2019)


Regno Unito, si vota. «Se Corbyn vince, ebrei pronti a lasciare il paese»

Per gli ebrei il problema non è la Brexit; Corbyn ha sdoganato l'antisemitismo e il 47 per cento se ne andrà in caso di vittoria dei laburisti.

di Leone Grotti

Oggi è il grande giorno in Gran Bretagna: stamattina si sono aperte le urne che decideranno la composizione del nuovo Parlamento e, di conseguenza, il destino della Brexit. Il Partito conservatore di Boris Johnson è avanti sui laburisti di Jeremy Corbyn, anche se secondo i sondaggi il vantaggio si è assottigliato negli ultimi giorni. Il risultato è incerto, ma una cosa è sicura: se vinceranno i laburisti, il 47 per cento degli ebrei inglesi è pronto a lasciare per sempre l'Inghilterra.

 «Corbyn è un pericolo per gli ebrei»
  Già l'anno scorso l'ex capo rabbino Jonathan Sacks aveva posto il problema in una intervista bomba alla Bbc: «Gli ebrei vivono in Gran Bretagna dal 1656 e non mi è mai capitato di sentire negli ultimi 362 anni la maggioranza della comunità ebraica porsi questa domanda: "È questo un paese sicuro dove crescere i nostri figli?"», ha dichiarato. «La situazione è davvero preoccupante. Corbyn è un pericolo».
  Gli ebrei rappresentano appena lo 0,5 per cento della popolazione nel Regno Unito e da anni accusano il leader laburista di aver normalizzato l'antisemitismo in Inghilterra. Secondo un sondaggio del Jewish Chronicle, il quotidiano ebraico più influente del paese, la metà della popolazione ebraica è intenzionata ad andarsene se vincerà Corbyn temendo per il proprio futuro. Un altro sondaggio ha invece attestato che l'86 per cento degli ebrei considera Corbyn un antisemita.

 Scandali antisemiti nel partito laburista
  Gli scandali antisemiti di cui si è reso protagonista il partito laburista non sono una novità. Solo per citarne alcuni: nell'aprile 2016 la parlamentare Naz Shah ha pubblicato sui social media commenti antisemiti. Dopo essersi scusata, è stata difesa pubblicamente dal politico Ken Livingstone, secondo cui Hitler sosteneva in realtà il sionismo. Nel marzo 2018, Corbyn è stato investito da uno scandalo per aver difeso un artista che aveva realizzato un murale antisemita. Il leader si è poi scusato, dicendo di non averlo guardato bene.
  Nel mese di aprile Marc Wadsworth è stato espulso dal Partito laburista con accuse di antisemitismo mentre i parlamentari laburisti di religione ebraica hanno denunciato gli abusi subiti all'interno del partito. A luglio la formazione di centrosinistra si è rifiutata di approvare una nuova definizione di antisemitismo coniata dall'International Holocaust Remembrance Alliance. Peter Willsman, alleato di Corbyn, ha dichiarato: «Non ho alcuna intenzione di farmi fare la morale da un gruppo di fanatici trumpiani». Infine, ad agosto, il Daily Mail ha pubblicato alcuni scatti risalenti al 2014 che mostrano Corbyn nell'atto di adagiare una corona di fiori in Tunisia davanti a un sito commemorativo dei palestinesi responsabili del massacro di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972.
  Andando più indietro nel tempo, nel 2011 Corbyn disse alla televisione di Stato iraniana che la Bbc aveva «sbagliato a sostenere che Israele ha il diritto di esistere». Nel 2013 disse che «i sionisti in Inghilterra non hanno il senso dell'umorismo». «Alla fine ti considerano sempre un dannato ebreo. È bello sapere che in qualunque paese tu vada verrai sempre considerato uno straniero», ha commentato al Washington Post Joseph Deutsch, londinese ebraico di 75 anni.

 Il nodo della brexit
  Altri ebrei sarebbero anche disposti a votare Labour, se solo non fosse guidato da Corbyn: «Se ci fosse chiunque altro alla testa del partito, li voterei. Ma non Corbyn. È estremamente antisemita. E anche quando se ne andrà, ci vorranno generazioni prima che gli ebrei si fidino di nuovo dei laburisti», ha dichiarato Marie van der Zyl, presidente dei deputati ebraici britannici.
  Le urne si chiuderanno oggi alle 22 (23 in Italia) e tutto, neanche a dirlo, ruota attorno alla Brexit. La vittoria dei Tories non è in discussione, ma il leader conservatore Boris Johnson ha scelto la strada delle elezioni anticipate perché mira a ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento. Solo così potrà essere sicuro di ottenere l'approvazione delle Camere all'accordo sulla Brexit e portare il Regno Unito fuori dall'Unione Europea il 31 gennaio. Se invece non otterrà la maggioranza assoluta, tutto potrebbe essere messo ancora una volta in discussione.

(Tempi, 12 dicembre 2019)


Uccisi per il «Lodo Moro»

Si torna a indagare su Gabriella De Palo e Italo Toni; scomparsi a Beirut nel settembre 1980. Il loro rapimento sarebbe collegato a un sequestro di missili e all'arresto del capo di un gruppo terroristico palestinese.

Il patto segreto
Prevedeva la libertà di muoversi senza problemi in Italia in cambio di una «moratoria» sugli attentati nel nostro Paese
I due cronisti
Erano sulle tracce di un traffico di armi e rifiuti. L'ordine di eliminarli giunse «da un'entità italiana»

di Andrea Ossino

 
Italo Toni e Graziella De Palo
I fatti accaduti nel settembre del 1980 a Beirut non possono essere ridotti alle classiche dinamiche di un rapimento. Per oltre 39 anni depistaggi e segreti di Stato hanno mortificato le indagini sulla scomparsa di Graziella De Palo e Italo Toni. Per questo ancora oggi, nonostante quattro decenni di indagini, processi e archiviazioni, la Procura di Roma continua a lavorare sul caso che ha travolto i due giornalisti. Il procuratore aggiunto Francesco Caporale e il sostituto Francesco Dall'Olio hanno aperto un nuovo fascicolo, nato su input dall'avvocato Carlo Palermo: ha depositato ai pm documenti e testimonianze inedite capaci di collegare la scomparsa dei due giornalisti al rinomato "Lodo Moro". E ancora, secondo il legale della famiglia De Palo, la vicenda troverebbe connessioni con l'arresto, nel novembre 1979, di Abu Azeh Saleh, responsabile del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Gli inquirenti romani dovranno ricostruire quanto accaduto a partire dal 22 agosto 1980, quando Graziella De Palo e Italo Toni iniziano il loro viaggio verso il Libano. Graziella, riconosciuta successivamente come vittima di terrorismo, nel 1980 ha appena compiuto 24 anni e insieme al collega ha scritto diversi articoli «sul traffico di armi tra Italia e vicino Libano, interessandosi alla figura del colonnello Stefano Giovannone, allora capocentro del Sismi a Beirut».
   I due giornalisti il 24 agosto «arrivano a Beirut dove Al Fatah, la principale organizzazione dell'OLP guidata da Yasser Arafat, offre loro una stanza presso l'Hotel Triumph». Il 2 settembre, di mattina, «sarebbero dovuti partire per il sud del Libano su una jeep del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina». Ma da quel momento non si «hanno più tracce». I due sono giovani, ma non sprovveduti. Avvisano l'ambasciata italiana: «Se entro tre giorni non dovessero fare ritorno all'hotel Triumph dovranno provvedere a cercarli». L'ambasciata però si attiverà solo dopo tredici giorni, il 15 settembre.
   Vengono aperti due fascicoli. Il primo viene affidato dal ministero degli Esteri «al capo centro del Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone». Il secondo, nel 1982, al pm Giancarlo Armati, della Procura di Roma. Emergono realtà inquietanti: la scomparsa «venne messa in relazione - scrive l' avvocato - con il sequestro dei missili ad Ortona nella notte tra il 7 e l'8 novembre 1979, un sequestro che portò all'arresto di Abu Anzeh Saleh, palestinese con passaporto giordano, responsabile della struttura militare clandestina del FPLP in Italia ed anche contro George Habbash, leader del FPLP. In quell'occasione il FPLP accusò l'Italia di non aver rispettato i patti, riferendosi al lodo Moro ( ovvero un presunto patto di neutralizzazione per i palestinesi del territorio italiano in cambio di una promessa mancata esecuzione di attentati terroristici contro cittadini italiani) annunciando pesanti ritorsioni». Durante l'istruttoria però, Giovannone «oppose il segreto di Stato sui rapporti tra Olp e Governo italiano». L'allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi avallò la decisione.
   La Procura di Roma si dovette arrendere: «Il procuratore Armati chiese il rinvio a giudizio del colonnello Stefano Giovannone e del generale Sanvitto, direttore del Sismi, per favoreggiamento, ma a causa della morte di questi ultimi l'inchiesta si concluse con un nulla di fatto. Nel 1986 George Habbash fu assolto in tutti i gradi di giudizio per insufficienza di prove».
   Ma adesso, dopo trentatré anni, il caso viene riaperto. L'avvocato Palermo infatti sottolinea l'esistenza di atti che «confermano l'esistenza del citato accordo denominato 'Lodo Moro' all'epoca del sequestro dei due giornalisti, ma di tale documenti non è stata rilasciata copia perché di nuovo sottoposti a segretezza da parte dell'Aise nell'agosto del 2016». Altri documenti sono stati desecretati di recente: «contengono la prova indiziaria circa un collegamento tra il caso del sequestro dei due giornalisti e quello del detenuto Abu Anzeh Saleh», si legge. E poi c'è una persona che si autodefinisce come un «teste scomodo». Questa persona avrebbe detto di aver lavorato a Beirut alle dipendenze del suddetto colonnello Stefano Giovannone. E che i due giornalisti italiani in Libano erano sulle tracce di un «grosso esponente politico» italiano che si «sarebbe dovuto incontrare con Arafat, con Gemayel, che era il presidente del Libano, e con altri del governo libanese ... in particolare su vicende di commerci di armi nonché di smaltimento dei rifiuti ( ... ) I due giornalisti sono stati quindi portati a vedere questo personaggio e da lì loro non potevano più sopravvivere». La rivelazione del testimone è da brividi: «L'ordine è stato dato da un'entità italiana». Ai pm adesso spetta verificarne l'attendibilità.

(Il Tempo, 12 dicembre 2019)


Israele firma a Dubai un accordo per partecipare a Expo 2020

GERUSALEMME - Il ministero degli Esteri israeliano ha annunciato in una dichiarazione che lo Stato ebraico ha firmato l'accordo ufficiale per la partecipazione di Israele a Expo 2020, che si tiene a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. La firma è avvenuta negli Emirati Arabi Uniti, secondo la dichiarazione rilasciata martedì. Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha affermato che la partecipazione di Israele alla mostra a Dubai "riflette un aumento della posizione di Israele nella regione", sottolineando che l'esposizione di Dubai offrirà "una straordinaria opportunità" per lo Stato ebraico "di mostrare le sue capacità e i suoi risultati". A tal riguardo, il direttore generale del ministero degli Affari esteri israeliano, Yuval Rotem, ha visitato questa settimana Dubai per discutere proprio della partecipazione dello Stato ebraico all'Expo 2020 che per la prima volta si terrà in un paese arabo. Secondo l'emittente televisiva "I24", la costruzione del padiglione israeliano inizierà la prossima settimana. È interessante notare che Israele e gli Emirati Arabi Uniti non hanno relazioni diplomatiche e che i cittadini israeliani possono entrare negli Emirati Arabi Uniti solo con un passaporto straniero. I funzionari del ministero degli Esteri israeliano hanno spiegato che durante i colloqui è stata discussa la questione del rilascio dei visti ai cittadini israeliani che entrano a Dubai durante l'Expo. In questa fase non ci sono informazioni su questo problema, ma i contatti sono ancora in corso.

(Agenzia Nova, 11 dicembre 2019)


Sicurezza informatica e intelligenza artificiale: l'esperienza israeliana

di Luca Spizzichino

 
"From Cyber Security to Artificial Intelligence and back" è il titolo dell'incontro organizzato da Maker Faire Rome, l'Ambasciata d'Israele in Italia, Cyber 4.0 e dall'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", e promossa da Punto Impresa Digitale e la Camera di Commercio di Roma, che ha ospitato l'incontro con il Professor Isaac Ben Israel, Chairman della Israel Space Agency, grande esperto di Cyber Security, presso la Sala del Tempio di Adriano.
   A fare gli onori di casa, Pietro Abate, Segretario Generale della Camera di Commercio, che ha ricordato come quest'ultima sia "grande amica del popolo israeliano" e introdurre una figura di spessore come quella del Professor Ben Israel sia per lui un onore.
   A prendere la parola anche altri due organizzatori, tra cui Luigi Vincenzo Mancini e l'Ambasciatore di Israele in Italia Dror Eydar. Quest'ultimo è intervenuto ricordando gli stretti rapporti che legano Italia e Israele, che "sono in un periodo fiorente delle loro relazioni e della lunga serie di cooperazioni nei settori di scienza, commercio, industria, difesa e Intelligence, e anche di Space e Cyber Security. Le possibilità di espandere e approfondire queste relazioni sono ancora molteplici e non ci resta che coglierle". Anticipando la lezione di Ben Israel, l'Ambasciatore ha spiegato come "il campo del cyber e dello spazio stiano diventando sempre più centrali nelle nostre vite. Nell'era dei computer, i confini si sono dissolti - espone l'Ambasciatore - pertanto, Israele ha dovuto perfezionare il suo vantaggio tecnologico. Oltre alla sfida intellettuale e alla motivazione economica, questa è anche e soprattutto una necessità per la sopravvivenza".
   A prendere la parola, dopo i discorsi di benvenuto è stato l'ospite d'onore della serata, Isaac Ben Israel, che per spiegare come si è arrivati alle tecnologie più recenti, ha fatto un excursus storico dell'era dell'informazione, quella che stiamo vivendo ancora oggi, che comincia negli anni Sessanta, con la nascita del primo computer fatto da John von Neumann. Parlando del suo paese, Israele, spiega come quest'ultimo, abbia cominciato a utilizzare i primi sistemi informatici a partire dagli anni Ottanta con i suoi servizi di intelligence col fine di hackerare i computer nemici e raccogliere più informazioni sensibili possibile, non più raccolte in formato cartaceo. Nei primi anni Novanta sono nate invece le prime piattaforme militari, lo Stato d'Israele aveva capito che la guerra si stava evolvendo, raggiungendo nuovi confini, quelli informatici.
   Continuando nel suo excursus storico, Ben Israel, ricorda come solo a partire dallo storico sabotaggio delle centrifughe per l'arricchimento dell'uranio in Iran tramite il virus Stuxnet, il tema come quello della cyber sicurezza sarebbe stato vitale. Qualche mese prima dell'attacco, Ben Israel anticipò al premier israeliano Netanyahu la necessità di istituire una task force sul tema, poiché "un giorno la gente si renderà conto della necessita di difendere i propri sistemi informatici".
   Il tema della Cyber Security in Israele ormai da anni è diventato importantissimo, non solo in ambito militare, ma anche accademico, con centri di ricerca sparsi su tutto il territorio, e industriale, dove le aziende israeliane sono cresciute del 600% negli ultimi sei anni, occupando il 10% del mercato mondiale, con un valore di circa 70 miliardi di dollari.
   Il mondo della sicurezza informatica è in costante evoluzione e Israele da questo punto di vista può considerarsi una delle prime della classe, grazie all'utilizzo delle intelligenze artificiali.
   "Abbiamo iniziato a utilizzare l'intelligenza artificiale nel 2014, e da allora diversi grandi attacchi informatici in Israele sono stati sventati da questa tecnologia" racconta il professore ricordando però anche le IA, sono ancora imperfette e non bisogna affidarsi completamente ad esse, poiché anch'esse, che sono nate per prevenire gli attacchi informatici, sono esse stesse oggetti di diversi attacchi.
   Prima di concludere la sua lecture, Ben Israel ha sottolineato come "le IA diventeranno fondamentali nei prossimi dieci anni e Israele si sta muovendo in tal senso" infatti il governo nel giugno 2018 ha formato una task force di cui il professore fa parte.
   A chiudere il convegno, Paola Pisano, Ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, che considera l'ecosistema economico e l'innovazione israeliana un esempio, e guardando a questo modello, "si spera di dire un giorno che In Italia si può rimanere perché in Italia si fa innovazione", sperando di muoversi in tal senso grazie alla nuova strategia di innovazione che sta portando avanti il governo.

(Shalom, 11 dicembre 2019)


Insurtech (Air Doctor): "Vogliamo rendere l'assistenza medica più semplice e conveniente"

di Andrea Turco

I
 
I fondatori di Air Doctor: (da sin.) Yegor Kurbachov, Yam Derfler, Efrat Sagi-Ofir, Jenny Cohen Derfler
sraele si conferma fucina di startup innovative in ambito insurtech. Tra queste spicca nel settore health Air Doctor, realtà nata nel 2016 per offrire servizi sanitari personalizzati ai viaggiatori all'estero in modo economico e conveniente. Il servizio è molto semplice, spiega ad Insurzine Yuval Zimerman, direttore marketing e global partnership di Air Doctor. "Consentiamo ai viaggiatori che necessitano di cure mediche all'estero di prenotare una visita in ufficio con un medico locale tramite la nostra app mobile. Il sistema completamente cashless consente di archiviare le richieste virtualmente, consentendo ai viaggiatori di tornare alle proprie vacanze o riunioni senza doversi addentrare nel sistema sanitario locale".
   Ma come si applica questo servizio al settore assicurativo? "Gli emittenti di polizze assicurative per i viaggiatori hanno sempre fatto affidamento sugli ospedali locali per curare tutti i disturbi - racconta Zimerman - Dal mal di testa all'avvelenamento da cibo, chiunque avesse bisogno di attenzione è stato costretto a trascorrere la giornata in un pronto soccorso confuso e non familiare, poiché quello era il posto più affidabile per inviare gli assicurati a cure di fiducia". Per questo motivo, "abbiamo iniziato a collaborare con medici e specialisti di tutto il mondo per creare una rete di professionisti sanitari affidabili pronti a prendersi cura della clientela globale al 25% del costo di una visita in ospedale. Offriamo quindi questa rete e una serie di servizi alle compagnie assicurative che possono offrire questo servizio personalizzato ai loro assicurati senza costi aggiuntivi".
   Attualmente il servizio è operativo in Israele dove AirDoctor ha stretto una partnership con l'assicuratore israeliano Phoenix. "Collaboriamo anche con diverse aziende europee e serviamo decine di migliaia di viaggiatori distribuiti in 35 paesi tra cui l'Italia. Il nostro servizio di telemedicina - conclude Zimerman - sarà presto disponibile in inglese e spagnolo".

(Insurzine, 11 dicembre 2019)


Scatta l'ora X per Israele

Senza un governo entro la mezzanotte si voterà ancora (per la terza volta)

di Alice Mattei

Ancora fumata nera a Israele dove, dopo mesi di stallo politico, nel quale né il premier uscente Benjamin Netanyahu né il suo aspirante successore Benny Gantz, sono riusciti a trovare un accordo per un nuovo governo di coalizione tra i loro due partiti. Al momento, per avere la maggioranza alla Knesset, il parlamento israeliano, non c'è altra via che non sia un accordo di maggioranza tra il Likud (conservatore) di Netanyahu e il partito centrista Blu e Bianco di Gantz. Il tempo a disposizione dei due leader e dei due partiti scadrà alla mezzanotte di oggi. Dopo di allora il presidente israeliano Reuven Rivlin non avrà altra scelta che dichiarare falliti i negoziati e convocare nuove elezioni. Sarebbe la terza volta in meno di un anno in Israele.

(Business Insider, 11 dicembre 2019)


Un giorno al confine di Gaza

SDEROT - Sderot, nel sud di Israele, si trova a circa un chilometro e mezzo dalla striscia di Gaza. TPI è andato sul posto per documentare la situazione in un momento molto delicato per la politica israeliana: scade infatti il termine per una formazione del governo. In alternativa, il parlamento sarà sciolto e saranno indette nuove elezioni.

 I missili Kassam
  Oggi sono circa 20 le organizzazioni e para-organizzazioni che operano nella striscia. Dal 2001 a oggi, in 18 anni, sono stati lanciati 12mila missili da Gaza solo a Sderot. Circa 26mila in tutto sud Israele.
Un missile Kassam da Gaza costa da un minimo di 150 euro in su. Un missile israeliano Iron Dome per intercettare i Kassam da Gaza ne costa almeno 64mila.

(The Post International, 11 dicembre 2019)


Israele, approvato in prima lettura un disegno legge per nuove elezioni

GERUSALEMME - Il parlamentari israeliani hanno approvato in prima lettura un disegno di legge per sciogliere il Parlamento e fissare nuove elezioni il 2 marzo, il terzo voto in un anno. Il disegno di legge dovrebbe essere oggetto di altre due letture in giornata, mentre è fissata a mezzanotte la scadenza per la formazione di una nuova coalizione di governo per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo rivale Benny Gantz.

(LaPresse, 11 dicembre 2019)


L’Ambasciatore Eydar: ancora molte possibilità di espandere la cooperazione Italia-Israele

ROMA - Israele e Italia "sono in un periodo fiorente delle loro relazioni e della lunga serie di cooperazioni nei settori di scienza, commercio, industria, difesa e intelligence, e anche di space e cyber security. Le possibilità di espandere e approfondire queste relazioni sono ancora molteplici e non ci resta che coglierle. Lo ha dichiarato l'ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, all'evento "From Cyber Security to Artificial Intelligence and back" che si è svolto al Tempio di Adriano a Roma. "Il campo del cyber e dello spazio sta diventando sempre più centrale nelle nostre vite. Nell'era dei computer, i confini si sono dissolti - ha affermato il diplomatico -. Pertanto, Israele ha dovuto perfezionare il suo vantaggio tecnologico. Oltre alla sfida intellettuale e alla motivazione economica, questa è anche e soprattutto una necessità per la sopravvivenza". Israele è la "nazione dell'innovazione grazie alla mentalità che genera le start-up, e in virtù della quale, noi, come nazione che si rinnova, possiamo far fronte alle sfide del domani", ha concluso Eydar.

(Agenzia Nova, 11 dicembre 2019)



Innovazione. Graded selezionata per il programma israeliano 'Disrupt me'

 
Graded a Tel Aviv
Mettere in connessione aziende europee con tecnologie e soluzioni all'avanguardia dell'ecosistema innovativo israeliano: è l'obiettivo di "Disrupt Me", programma di open innovation progettato e gestito dall'Hub EIT (European Institute of Innovation & Technology), con il supporto di Deloitte Catalyst. Graded, Spa partenopea attiva da più di 60 anni nel mercato della progettazione, realizzazione e gestione di impianti di produzione di energia ad alta efficienza da fonti tradizionali e rinnovabili, è una delle sei società selezionate tramite una Call (le altre sono Colruyt Group, Eoly, Kelyon, Grupo AN e Pepsico) per partecipare all'iniziativa pilota che consente ad aziende europee di incontrare e attrarre startup hi-tech israeliane per collaborare a progetti comuni, favorendo una più rapida adozione di nuove tecnologie pronte per essere immesse sul mercato.
  Prima tappa del programma a novembre scorso, poco dopo la selezione, con la visita in azienda di rappresentanti di Deloitte Catalyst e Deloitte. Da domenica 8 fino a giovedì prossimo, 12 dicembre, la seconda fase: la società di Vito Grassi è a Tel Aviv per una missione di matchmaking che prevede incontri one to one con start-up locali preselezionate, seminari sulle best practices di adozione e trasferimento tecnologico, workshop e incontri con attori chiave dell'ecosistema innovativo come venture capital e multinazionali, rappresentanti del Governo e Università.
  Alla quattro giorni israeliana seguirà, infine, un processo di follow-up e implementazione finalizzato a supportare lo sviluppo congiunto di aziende europee e start-up israeliane nei mercati del Vecchio Continente. L'obiettivo, nel medio termine, è fare in modo che le sei società europee partecipanti a "Disrupt Me" possano sviluppare nuovi prodotti o servizi, utilizzando tecnologie e servizi israeliani.
  "Negli ultimi decenni, Israele è diventata la patria di migliaia di start-up hi-tech focalizzate sull'innovazione e sullo sviluppo tecnologico globale - dice l'amministratore delegato Vito Grassi -. Rappresenta, dunque, una grande opportunità per società che come Graded stanno investendo in R&S e guardano con interesse ai nuovi mercati per rafforzarsi ed essere più competitive in un'ottica di internazionalizzazione".
  A rappresentare Graded nell'intero programma "Disrupt Me" sono Davide Capuano, R&D Specialist dell'azienda, coinvolto nella fase di matchmaking a Tel Aviv, Ludovica Landi, responsabile organizzativa e operativa di Graded, e i due ex studenti della Digita Academy, Pasquale Sagnella e Gennaro Ardolino, che nella seconda fase di incontri one to one con le start up israeliane saranno presenti in "modalità digitale".

(Adnkronos, 10 dicembre 2019)


L'accordo sul nucleare iraniano è sul punto di crollare

di Andrea Walton

L'accordo sul programma nucleare iraniano, malgrado l'abbandono americano deciso da Donald Trump nel 2018, è ancora vivo. I partner europei hanno infatti avuto modo di ammonire Teheran, durante un incontro svoltosi a Vienna, dall'intraprendere ulteriori mosse che la possano allontanare dai termini concordati nel patto ma, al tempo stesso, hanno evitato il ricorso ad un meccanismo che potrebbe scatenare nuove sanzioni al Paese da parte delle Nazioni Unite. La fiducia tra le parti e gli equilibri interni hanno cominciato a venir meno con l'uscita degli Stati Uniti e con la decisione, presa da Washington, di imporre sanzioni nei confronti di Teheran. Sanzioni che si sono rivelate particolarmente dure e sono andate a colpire quel settore petrolifero che è vitale per l'economia iraniana. Alle misure punitive hanno fatto seguito una serie di violazioni da parte di Teheran, tra cui la ripresa dell'arricchimento dell'uranio nel sito di Fordow.

 Accuse pesanti
  L'incontro di Vienna ha visto la partecipazione di Francia, Germania, Regno Unito, Iran, Cina e Russia ed è il primo a svolgersi in questo formato dal mese di luglio. Le nazioni europee hanno inoltre accusato Teheran di sviluppare missili balistici con capacità nucleare, in piena contraddizione con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2015. Un'accusa, quest'ultima, rispedita al mittente dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif che l'ha definita una falsità.
  Gli analisti ritengono, come riferito da France24, che qualora vengano imposte nuove sanzioni da parte delle Nazioni Unite al Paese islamico e l'accordo collassasse allora, a quel punto, l'Iran potrebbe anche abbandonare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Npt). Ali Larijani, lo speaker del Parlamento iraniano, ha aggiunto che qualora le nazioni europee attivino il contestato meccanismo l'Iran potrebbe rivedere i suoi obblighi nei confronti dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea). La situazione è dunque sempre più precaria e sembra probabile che gli impegni concordati possano collassare sotto il peso delle mutate circostanze internazionali.

 Le prospettive
  Il fallimento dell'accordo sul nucleare iraniano rischierebbe di aprire una grave frattura all'interno del Medio Oriente e di favorire un aumento delle tensioni tra Teheran ed i suoi rivali, in primis Israele che, senza dubbio, si sentirebbe minacciato dal progresso delle capacità nucleari della nazione sciita. Anche i rapporti tra Iran ed Arabia Saudita potrebbero far registrare un peggioramento significativo e ciò potrebbe dare il via ad una pericolosa escalation tra le parti. La decisione presa dagli Stati Uniti di abbandonare l'accordo, in ogni caso, ne ha probabilmente segnato la fine precoce ed è solo una questione di tempo prima che le dinamiche ed il contesto locale possano spingere l'impalcatura verso un crollo che potrebbe essere rovinoso. La fiducia tra le parti è fondamentale in questo genere di patti e quando essa viene meno c'è ben poco che si possa fare per raddrizzare la situazione e riportarla sui binari migliori. Il prossimo futuro del Medio Oriente, dunque, rischia di essere segnato da nuove conflittualità e ci vorrà una grande abilità da parte delle nazioni europee, della Cina e della Russia per persuadere l'Iran a non abbandonare gli accordi.

(Inside Over, 11 dicembre 2019)


Israel Cycling Academy al Tour: "Pronti per un grande 2020"

 
"Quattro israeliani, sedici stranieri. Ebrei, cristiani e musulmani in un solo team. La diversità è nel nostro Dna ed è un punto di forza dell'Israel- Start Up Nation. Siamo pronti per nuove sfide e parteciperemo per la prima volta anche al Tour de France". È un Sylvan Adams carico di entusiasmo quello che in queste ore a Tel Aviv ha presentato il nuovo team dell'Israel- Start Up Nation - nuovo nome della Israel Cycling Academy -, la prima squadra professionistica israeliana di ciclismo che dopo aver partecipato al Giro d'Italia annuncia in grande stile la sua presenza al Tour e al UCI World Tour. "Ci siamo guadagnati la possibilità di calcare i palcoscenici più importanti", ha spiegato Adams - filantropo israelocanadese con la passione per il ciclismo e principale artefice della Grande Partenza del Giro d'Italia da Gerusalemme - davanti a giornalisti provenienti da tutto il mondo. "Con orgoglio questi atleti (30 in totale) porteranno in tutto il mondo i colori blu e bianco. Ci faremo sentire e vinceremo", ha affermato Adams, sottolineando poi la nuova partnership con Start-Up Nation Central, no profit che si occupa di promuovere rapporti tra le diverse realtà dell'innovazione israeliana e non. Da qui il nuovo nome del team che, afferma Adams, "rappresenta bene il Dna di questo paese, proiettato all'innovazione e al cambiamento". Tra i corridori su cui punta il team israeliano anche un volto noto del ciclismo italiano, il friulano Davide Cimolai, che ha rinnovato in estate per un altro anno con l'Israel Cycling Academy.
In conferenza stampa, grande attenzione ai due atleti israeliani in cui il team ripone molte speranze:
Guy Sagiv e Guy Niv. "Dobbiamo essere pronti non solo mentalmente ma anche fisicamente al Tour e alle altre competizioni", ha dichiarato Sagiv.

(moked, 11 dicembre 2019)


Paranoia Lannutti

Antisemitismo, complottismo e diffamazioni. Ecco chi il M5s vuole a capo della Commissione banche.

di Luciano Capone

Elio Lannutti
ROMA - Dopo qualche giornata di indignazione per i tweet filonazisti e antisemiti del professore dell'Università di Siena Emanuele Castrucci, il M5s candida alla presidenza della Commissione bicamerale d'inchiesta sulle banche uno che fa tweet antisemiti: Elio Lannutti. Il senatore del M5s, che gode di grande stima nel suo partito ed è per questo risultato il più votato nei gruppi parlamentari, è infatti indagato dalla Procura di Roma per diffamazione aggravata dall'odio razziale. L'inchiesta è partita su denuncia della Comunità ebraica di Roma dopo che Lannutti aveva pubblicato su Twitter e su Facebook contenuti analoghi a quelli di Castrucci sui "Protocolli dei Savi di Sion", il famigerato falso storico alla base dell'antisemitismo moderno: "Gruppo dei 'Savi di Sion' e Mayer Amschel Rothschild, l'abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale, portò alla creazione di un manifesto: 'I Protocolli dei Savi di Sion'. Suddiviso in 24 paragrafi, viene descritto come soggiogare e dominare il mondo con l'aiuto del sistema economico, oggi del globalismo, dei banchieri di affari e finanza criminale", scriveva Lannutti allegando un articolo di un sito complottista (saper-linknews.com). Ai parlamentari del M5s, mettere al vertice della Commissione sulle banche uno che ritiene-sulla base di un falso antisemita - che gli ebrei controllino la finanza mondiale, deve essere parsa una buona idea.
  E non si può dire, come ha cercato di fare Lannutti, che si sia trattato di un "errore". Perché in quel tweet sui Savi di Sion sono presenti due caratteristiche essenziali e ricorrenti del Lannutti-pensiero: il complottismo (spesso antisemita) e la diffamazione. Il giorno prima di quel tweet, Lannutti rilanciava una falsa intervista a George Soros - il prototipo del moderno "banchiere ebreo" - presa da un altro sito complottista in cui il finanziere ungherese affermerebbe: "lo sono un Dio, ho creato tutto, controllo tutto". Il giorno dopo il tweet su Savi di Sion, Lannutti presentava in Senato un libro scritto insieme a un altro complottista, Franco Fracassi, autore di un documentario cospirazionista sull'8 settembre con Giulietto Chiesa e sostenitore di tesi deliranti sul terrorismo islamico (la mafia e la 'ndrangheta sarebbero in affari con i terroristi islamici, trasportando eroina dall'Afghanistan in accordo con la Nato). Alla presentazione del libro di Lannutti e Fracassi c'era lo stato maggiore del M5s: la presidente della commissione Finanze Carla Ruocco ("Elio è immenso"), il presidente commissione Bilancio Daniele Pesco (che lo voleva al Quirinale) e il sottosegretario al Mef Alessio Villarosa, che in quell'occasione affermò di aver iniziato a capire i problemi del sistema bancario dopo aver visto documentari sui "rettiliani" (i rettiliani sarebbero per i complottisti una specie aliena a cui apparterrebbero politici e banchieri che controllano il potere mondiale).
  Sempre tra complottismo e diffamazione, uno degli obiettivi di Lannutti è sempre stato l'ex presidente della Bce Mario Draghi: "Draghi-Goldman Sachs, setta degli Illuminati che decide sui destini del mondo. Ribellarsi a questi cleptocrati", twittava il 6 febbraio 2016. L'ossessione per Goldman Sachs colpisce anche Papa Francesco: "Il suggeritore di Bergoglio sui migranti è un Bilderberg di Goldman Sachs", twitta il 28 giugno 2018 rilanciando il sito del cospirazionista Blondet. Il 14 settembre 2018, Draghi veniva descritto come un boss criminale: "La lezione di Lehman Brothers non è servita, con Herr Draghi, il boss dei boss dei Bankster, che fa acquistare a Bee partite di titoli tossici ed obbligazioni bancarie avariate, per finanziare le banche strozzi ne e dare coperture all'azzardo morale dei banchieri". Pochi giorni dopo, il7 ottobre, Draghi diventa "un vile affarista, che ha svenduto l'Italia ai suoi comparuzzi di Goldman Sachs". Se Draghi è un cleptocrate, il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco è un malfattore: "Visco dovrà rispondere prima delle sue gravi malefatte, davanti ad un Tribunale", ha twittato. E se Draghi è un "boss dei boss", Lannutti ha accostato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla mafia. Ma non come vittima, lui che ha avuto un fratello ucciso da Cosa nostra, ma come mafioso: "Padrino dell'anno Mattarella?", twittava il senatore grillino il 31 dicembre 2018 alle ore 20:21, e cioè dieci minuti prima del tradizionale discorso di fine anno del Capo dello stato.
  Che Lannutti sia un diffamatore è stato stabilito anche da una sentenza della Cassazione, che nel 2016 lo ha condannato a 15 mila euro di risarcimento nei confronti della Consob per aver usato espressioni "gratuitamente offensive e denigratorie". E più recentemente, a marzo del 2018, il tribunale di Terni lo ha condannato a risarcire 20 mila euro alla Banca d'Italia sempre per dichiarazioni diffamatorie (il grillino ha fatto ricorso). E' facile immaginare che Lannutti sia uno degli esponenti più autorevoli del M5s, ma davvero questo paese si merita come presidente della Commissione d'inchiesta sulle banche a un diffamatore seriale, che fa tweet antisemiti, che dà del mafioso al Capo dello stato e del malfattore ai governatori della Bce e della Banca d'Italia? Non ce n'è nel M5s uno un po' più normale?

(Il Foglio, 11 dicembre 2019)


Antagonisti che hanno insultato Brigata ebraica: "È stato odio razziale"

 
Se questi sono uomini… Parafrasando Primo Levi (che attribuiva la definizione ai disperati di un lager che erano uomini eroi), questi sedicenti manifestanti, l'odio rabbioso nelle parole e nei gesti contro la Brigata Ebraica, sono uomini o …? (Ciascuno concluda come vuole) Sono gli irriducibili antagonisti, eredi delle BR, odiatori di professione degli ebrei, violenti verbalmente e non, forti per l'appartenenza a gruppi militarmente organizzati. E, finalmente, la Procura di Milano chiude l'indagine a carico di quattro antagonisti identificati tra quelli che in occasione della manifestazione antifascista per celebrare la Liberazione, come succede ogni anno, si scagliarono contro gli uomini e i simboli del gruppo ebraico. Relaziona Il Giornale "Il capo del pool anti terrorismo Alberto Nobili e il pm Leonardo Lesti hanno chiesto il rinvio a giudizio per quattro degli indagati e hanno contestato loro l'aggravante dell'odio razziale. È la prima volta che accade per un episodio legato agli attacchi ripetuti e violenti al corteo del 25 Aprile.
   C'è poi un quinto indagato, ma senza l'aggravante. Tra i quattro, anche Claudio Latino che anni fa è stato condannato nell'ambito dell'operazione anti terrorismo «Tramonto» del 2007. Latino, 62 anni, venne arrestato nell'inchiesta sulle cosiddette nuove Br del Partito comunista politico-militare, di cui era considerato capo della cellula milanese" I "fascistelli" odiatori di estrema sinistra, riconosciuti portatori di odio razziale, tollerati e a volte agevolati dai cugini di sinistra, dove vedono l'odio degli ebrei e di chi ha idee cosiddette di destra? Come si conciliano la giustamente professata ammirazione per la sen. Segre e ciò che rappresenta e l'odio razziale contro gli ebrei? Eppure le sinistre, anche se di sfumature diverse, si abbracciano, si sostengono. Hanno inventato un fascismo strisciante perché hanno la necessità di avere un nemico da insultare, deridere, minacciare? Sinistra antifascista con idee spesso fasciste. Sala tace, anzi giustifica i Centri sociali, l'humus in cui prosperano i cosiddetti antagonisti.

(Milano Post, 10 dicembre 2019)


Antisemitismo, letture riduttive

di David Sorani

L'ormai noto articolo che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato sul Corriere della Sera del 26 novembre scorso a una interpretazione del riemergente antisemitismo ha certo avuto un ruolo importante: l'attenzione di molti lettori e commentatori si è concentrata su un tema focale e lacerante che è però spesso, forse anche per timore di sviluppi pericolosi, messo in sordina nell'attuale dibattito sociopolitico. Una sottovalutazione che, lungi da aiutare il superamento del problema, ne accentua la portata man mano che i fatti e i contenuti antisemiti si succedono e i loro pesanti effetti si accumulano. A mio giudizio la radice delle considerazioni di Galli della Loggia è fondata, ma lo sviluppo che ne emerge, per quanto in parte valido, appare incompleto e talvolta riduttivo. La sua lettura dell'attuale crescente diffusione dell'antisemitismo non riesce a dar conto in modo adeguato di una realtà sfuggente, interiorizzata, infida.
   Tra le risposte e le precisazioni che si sono lette in questi giorni, quelle sviluppate da Rav Della Rocca il 4 dicembre sul Corriere mi paiono essenziali: è spesso la basilare ignoranza sugli ebrei e l'ebraismo a provocare nei loro riguardi la prevalenza degli stereotipi semplificanti del legalismo, della malintesa "legge del taglione", dell'assenza di spiritualità rispetto all'amore consolatorio retaggio presunto del cristianesimo; stereotipi che tendono a produrre pregiudizio e "antipatia" diffusa e a provocare talvolta un disprezzo superficialmente legato anche alla scarsa incidenza numerica dell'ebraismo. A questi aspetti Rav Della Rocca aggiunge giustamente quelli derivanti da una distorta interpretazione del legame tra Israele e la Shoah, che vede lo Stato quale "compensazione" dello sterminio mentre esso in realtà - figlio di una antica identità etnica e nazionale ritrovata dal sionismo - è nato "nonostante" lo sterminio; e come ben sappiamo, anche dal versante mediorientale vengono appigli a un risorgente antisemitismo che non ama la vitalità e la decisione con cui Israele difende la propria integrità.
   Ma, tornando alla fonte del dibattito, perché il giudizio di Galli della Loggia appare nell'insieme inadeguato?
   È vero e indiscutibile quanto egli pone a base del suo discorso: l'ebraismo si trova all'inizio e alla fine del percorso della civiltà occidentale, all'origine dei suoi valori etico-religiosi attraverso la mediazione del cristianesimo e come oggetto della loro stessa distruzione per mezzo della Shoah. Ma già a questo livello, quanti sono oggi coscienti delle radici ebraiche della visione cristiana? Molti in realtà non le riconoscono, cogliendo anzi nell'ebraismo un precedente negativo rispetto al "nuovo patto" del Vangelo. Sottacendo tale aspetto, si nasconde una delle matrici storiche dell'antisemitismo, ancora oggi attiva. E' vero anche che il peso del senso di colpa collettivo legato allo sterminio e la pressione esercitata dalla testimonianza incessante dei superstiti possono generare un difficile rapporto o addirittura una "antipatia" nei confronti degli ebrei di oggi, sentimenti pronti a sconfinare nell'animosità. Questo però appare più un epifenomeno o se vogliamo la punta dell'iceberg rispetto agli elementi di fondo, che a mio parere sono altri, sia come vere cause sia soprattutto come essenza dell'antisemitismo.
   La causa prevalente della crescita e della circolazione di sentimenti antiebraici risiede oggi nella crescente rabbia popolare (e populistica) contro fantomatiche "caste", contro presunti e non ben identificati "poteri forti" che godrebbero di vantaggi esclusivi di natura prevalentemente finanziaria a beneficio di pochi. Gli ebrei rappresentano da secoli nell'immaginario collettivo il prototipo della casta organizzata e autoreferenziale, e per questo sono da secoli polo di attrazione di rabbie sorde e di esplosioni violente di collera collettiva in cui si coagulano risentimenti economici, sociali, culturali e religiosi. Il privilegio dell'avversione popolare tocca proprio agli ebrei perché la massa tende a percepirli come gruppo culturalmente e intellettualmente superiore, e ciò provoca un senso di inferiorità diffusa, pronto a tramutarsi in aggressività alla presenza di un elemento catalizzatore o organizzatore. Tali fattori persistono oggi, in presenza di movimenti populisti-sovranisti che tendono ad alimentare la collera generale sul terreno socio-economico e ad usarla come strumento di consenso e di potere.
   Quanto all'essenza dell'antisemitismo, anche ai nostri giorni essa mi pare consistere nel rifiuto, nella paura del "diverso", percepito come un alieno, uno "straniero" avvantaggiato e in posizione di dominio. Gli ebrei sono un archetipo di diversità invisibile e interiore/etica, per questo sono avvertiti quali "estranei" al mondo comune; l'etica convergente o l'origine ebraica del cristianesimo appaiono ai più riflessi lontani, pallide tracce di situazioni che affondano nella notte dei tempi. L'estraneità, confermata dalla netta diversità tra le due religioni, tende a prevalere e si trasforma in diffidenza - paura - distanza - odio. Certo, non è questa l'unica matrice dell'attuale antisemitismo: permane e significativamente si rafforza in un periodo di crescenti nazionalismi e parafascismi l'odio neonazista e neofascista, alimentato dall'idolatria nostalgica di alcuni gruppi; permane l'odio pan-arabista, legato all'islamismo integralista.
   Interpretare in chiave interna l'antiebraismo connettendolo a un presunto eccesso di memoria inflitta al mondo comporta il rischio di non cogliere il rifiuto ideologico e l'isolamento sociale dell'altro che lo caratterizzano, percependo invece solo un generico "fastidio" verso gli ebrei e ciò che è ebraico. Così facendo, però, si sminuisce e si sottovaluta l'impatto nefasto della tendenza antisemita, con conseguenze inevitabili: se non si articola una lettura sociologica del fenomeno non si riesce davvero ad affrontarlo. Al limite, l'idea che questo sentimento emergente sia solo una diffusa (e forse persino comprensibile) "antipatia" potrebbe portare alcuni a giustificarlo almeno parzialmente, altri addirittura a condividerlo.
   Last but not least, ciò che è forse la base di ogni considerazione, e il cui fraintendimento finisce per rendere impossibile una corretta analisi: l'antisemitismo non ha origine negli ebrei e nella loro esistenza, la sua matrice e il suo carattere non vanno ricercati nell'ebraismo o nella storia ebraica; risiedono invece in uno stato patologico della società non ebraica. Lì è la malattia, lì va praticata la cura.

(moked, 10 dicembre 2019)


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Il "problema Israele"

Il "problema Israele" in realtà è stato sempre il "problema dell'esistenza di Israele". La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno; la gente non li odia perché li considera strozzini, imbroglioni, superbi, ladri o peggio ancora: il problema sta nel fatto che gli ebrei ci sono.
Da una parte questo può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c'è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c'è. E questo non fa che aumentare l'avversione di chi è infastidito dal semplice fatto che gli ebrei ci sono.
D'altra parte proprio questa amara constatazione può liberare l'ebreo, e oggi anche quell'ultimissimo ebreo che è lo Stato d'Israele, da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri - può pensare - ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia. Perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il "problema Israele" in realtà è un problema dei gentili. Anzi, una malattia dei gentili. M.C.

(Notizie su Israele, 10 dicembre 2019)


Shoah: morto Piero Terracina, i funerali nel ghetto ebraico

Con un lungo e commosso applauso Roma ha salutato Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz deceduto ieri all'età di 91 anni. Modiano, terrò viva la Memoria finché potrò. Di Segni, sarà istituito premio a sua memoria.

Il carro funebre, prima di ripartire verso il reparto israelitico del cimitero Verano, dove si svolge la cerimonia funebre, è stato accolto in una piazza gremita di gente al Portico d'Ottavia, nello slargo adiacente alla Sinagoga.
  Tra i presenti il rabbino Riccardo Shemuel Di Segni, che davanti al feretro ha recitato i salmi di rito; il presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello; il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti; la sindaca di Roma, Virginia Raggi; l'eurodeputato Massimiliano Smeriglio; la presidente del I Municipio di Roma, Sabrina Alfonsi; gli ultimi sopravvissuti della Shoah.
  "Non bisogna solo salutare Piero oggi. Da oggi inizia il tempo della coerenza con quello che Piero ha rappresentato - ha detto Zingaretti - C'e' un uomo che non ha mai smesso di raccontare, lottare e sognare. Un uomo molto rigoroso e molto attivo, infastidito dalle ambiguità e dai silenzi che di questi tempi tornano quando i mostri dell'antisemitismo e dell'odio rialzano la testa. Oggi siamo chiamati tutti alla coerenza affinché la sua vita venga onorata. Da parte nostra faremo di tutto per essere degni di quest'uomo straordinario, dal carattere schietto che viveva senza mai fare sconti a nessuno e pretendendo quindi da tutti una grande coerenza". Per Dureghello "Piero è stato un grande uomo, un ebreo, un romano che ha subito la persecuzione e il dolore del campo di sterminio. Quando è tornato ha deciso di raccontare quella terribile esperienza e oggi lascia in tutti noi un vuoto che dovremo colmare ricordando la sua testimonianza di fronte a chi vuole ancora trasmettere odio, divisione e discriminazioni".
  Il feretro ha silenziosamente sfilato lungo le vie del quartiere ebraico nei pressi del Tempio Maggiore e poi ha raggiunto il cimitero israelitico al Verano dove si è svolta la cerimonia e la sepoltura.
  Terracina fu arrestato insieme alla famiglia il 7 aprile 1944 a Roma, appena 15enne. Dopo una breve detenzione a Regina Coeli, fu trasferito ad Auschwitz, in Polonia, dove furono uccisi gli altri 7 membri della sua famiglia.Ha sfilato al Portico di Ottavia, nel cuore del ghetto ebraico di Roma, il feretro con la salma di Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti ad Auschwitz morto ieri a 91 anni nella Capitale.
  Diversi esponenti della comunità ebraica gli hanno reso omaggio, ma tra loro c'era anche tanta gente comune.
  Visibilmente commosso, tra i presenti, Sami Modiano, ebreo romano ex deportato e grande amico di Piero.

 Modiano: terrò viva Memoria finché potrò
  "Io e Piero ci siamo conosciuti nel campo di Birkenau e da allora siamo andati avanti facendoci forza a vicenda. Gli avevo promesso che sarei andato avanti nel tenere viva la Memoria e così farò finché potrò". Sono le parole di Sami Modiano, ex deportato ebreo romano, intervenuto durante la cerimonia funebre per Piero Terracina, nel cimitero israelitico del Verano a Roma.

 Di Segni: sarà istituito un premio alla sua memoria
  Un aneddoto su di lui è stato raccontato durante la cerimonia al Verano dal rabbino capo della comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni: "Alcuni anni fa mi sono trovato nell'edificio Valdese a Piazza Cavour per un concerto strumentale di musica ebraica. C'era un vasto pubblico e membri della comunità ebraica. Alla fine è partito l'inno alla speranza dello Stato di Israele e in fondo alla sala una persona si è alzata in piedi. Quella persona era Piero e ha fatto alzare tutti quanti. E' in questa maniera che lui ha testimoniato, sia per il presente che per il futuro. Vorrei che fosse ricordato come il testimone che ha portato la memoria ma anche come una persona che ha creduto nella speranza". Di Segni poi ha annunciato che sarà istituito "un premio alla sua memoria che sara' dato a un bambino e a una bambina che sara' in grado di dimostrare la sua migliore preparazione in occasione del Bar Mitzvah". Infatti Terracina "è appartenuto a una generazione che non ha potuto celebrare il Bar Mitzvah", ha concluso Di Segni.

(RaiNews, 9 dicembre 2019)


L'uomo che rese voce e carne la memoria viva della Shoah

Ricordo di Piero Terracina e di un memorabile incontro alla Città dei Ragazzi

di Eraldo Affinati

Sento forte l'emozione nello scrivere di Piero Terracina, scomparso domenica scorsa a Roma a 91 anni, uno degli ultimi deportati di Auschwitz, ma credo sia necessario farlo, specie pensando alla recrudescenza razzista a cui assistiamo in Europa e purtroppo anche nel nostro Paese. La sua morte assomiglia alla caduta a schianto di un calcinaccio del Novecento, forse il secolo più sanguinario della storia. L'incontro che ebbi con lui resta per me indelebile. È come se adesso risentissi la sua voce profonda, quasi tonante, al tempo in cui, sette anni fa, lo invitai a parlare ai miei studenti della Città dei Ragazzi, la comunità educativa capitolina fondata da monsignor John Patrick Carroll Abbing all'indomani della Seconda guerra mondiale per accogliere i bambini abbandonati, dove insegnavo lettere presso la succursale dell'Istituto Professionale "Carlo Cattaneo".
   Erano adolescenti terribili, come li avrebbe definiti Jean Cocteau, quelli a cui io e miei spericolati colleghi ci rivolgevamo. Sedici, diciassettenni di borgata, tutti maschi, poco scolarizzati, spesso bocciati, con famiglie frantumate, esperienze a volte estreme, incapaci di stare fermi in aula. Bestemmiatori seriali. La loro attenzione poteva durare al massimo dieci minuti, dopodiché tu docente ti dovevi inventare qualcosa, altrimenti non saresti riuscito a contenerli. Io avevo spiegato la Shoah, un argomento distante dai miei allievi quanto potevano esserlo le guerre puniche. Tuttavia alcuni mostrarono un'inconsueta attenzione, forse perché avevo raccontato del viaggio compiuto da Venezia a Birkenau, nel 1995, quando molti di loro non erano ancora nati, sulla tracce di mia madre sfuggita alla deportazione. Insomma, se lasciavi da parte il libro di testo e aprivi quello della vita, non dico tutti, ma qualcuno ti seguiva. Così, per tener vivo l'incantesimo, mi venne in mente di chiamare Piero Terracina. Sapevo quanto lui fosse impegnato in queste conferenze nelle scuole, ma non immaginavo ciò che sarebbe accaduto. Insomma decisi di rischiare superando timori, ritrosie e beghe burocratiche. L'anziano reduce si presentò nella grande Assemblea, pensata dal fondatore come un Parlamento dei Ragazzi, secondo il sistema pedagogico rivoluzionario dell'autogoverno, con la stessa solerzia che avrebbe potuto mostrare se avesse dovuto esprimersi nell'aula di Palazzo Madama. Si notava che a quell'incontro teneva tantissimo, al telefono mi aveva rivolto molte domande, conosceva di fama la comunità, ma voleva sapere chi erano i giovani che lo avrebbero ascoltato. «Hanno più o meno la stessa età che avevi tu quando stavi nel lager», gli dissi, guidandolo verso l'ingresso. Vidi i suoi occhi brillare di una luce speciale. Quasi prima ancora di declinare le generalità, si tolse la giacca scoprendo la manica della camicia per farci vedere il numero tatuato: inchiostro nero fra i peli bianchi. La classe restò catalizzata.
   Parlò a braccio per un'ora e mezza nel silenzio assoluto: una performance clamorosa pensando agli scolari che aveva di fronte. Il suo, più che un discorso, sembrò la secrezione di una ferita ancora aperta. In alcuni punti la tensione si tagliava con l'accetta: quando, rievocando le leggi razziali del 1938, Piero aveva dieci anni, raccontò il momento in cui il maestro lo invitò a uscire dalla classe perché in quanto ebreo non poteva più seguire le lezioni, vidi Romoletto, il mio alunno solitamente distratto, concentrato come uno studente oxfordiano. Ma l'istante supremo fu il ricordo della madre, costretta a separarsi dai figli sulla banchina del lager all'arrivo del treno: «Il suo sguardo diceva che non ci saremmo più rivisti», dichiarò Piero con le lacrime agli occhi. E noi, professori e studenti, ci alzammo in piedi di scatto ad applaudire per alcuni interminabili minuti.
   Ci fu un secondo tempo, dopo il memorabile incontro. Nel giugno del 2012 Piero Terracina diventò, grazie alla sensibilità di Porfirio Grazioli, a quell'epoca presidente della comunità, cittadino onorario della Città dei Ragazzi. Lo andai a prendere in macchina alla Portuense, dove abitava. Cenammo all'aperto, insieme ai minorenni non accompagnati provenienti da ogni parte del mondo, fuggiti dalle nuove barbarie proprio allo stesso modo di quanto accaduto al vecchio deportato. E io, come un bambino, gli chiesi: perché gli uomini non imparano dal loro passato? Piero si girò con un mesto sorriso verso il volto fresco di Abdi, piccolo somalo scampato alla guerra che ci stava servendo il dolce e non aggiunse altro: era la sola risposta che mi potevo aspettare.

(Avvenire, 10 dicembre 2019)


Zizek, riverito Corbyn della filosofia, ha un grosso "problema con gli ebrei"

L'hegeliano della sinistra protestataria nei guai per una column

di Giulio Meotti

Slavoj Zizek
ROMA - E' il filosofo più chiacchierato da qualche anno. Il marxista sloveno che ha riverniciato la lotta di classe comunista con una patina pop, diventando l'idolo di tutti gli Occupy, da Washington a Londra. E' Slavoj Zizek, che collabora con le maggiori testate del globo, New York Times compreso, commentando su tutto, dai mass media ai cartoni animati, e che vanta persino un Giornale internazionale di studi zizekiani. Il filosofo di Lubiana non poteva che schierarsi al fianco di Jeremy Corbyn nella contesa elettorale inglese (i due si assomigliano anche, per la barba veteromarxista, certi abiti ideologici desueti, il verbiage materialista novecentesco). E Zizek lo ha fatto con un articolo sul quotidiano inglese Independent, che gli ha attirato, come il suo beniamino politico laburista, l'accusa di antisemitismo. In una column dal titolo già incendiario ("Non c'è conflitto fra la lotta contro l'antisemitismo e la lotta contro l'occupazione israeliana"), Zizek scrive che "il problema con gli ebrei oggi è che stanno provando a radicarsi in un luogo che è stato per migliaia di anni abitato da altre persone". Il filosofo sloveno è molto corbyniano in questo.
   L'avvocato inglese Anthony Julius, che difese la storica Deborah Lipstadt da David Irving, ha detto che il portavoce di Corbyn, il giornalista Seumas Milne, ritiene che la principale questione politica in medio oriente sia il "1947", l'anno prima della fondazione di Israele. Zizek continua definendo "eticamente disgustoso" l'intervento sul Times del rabbino capo inglese Ephraim Mirvis, che ha appena definito pericolosa una premiership corbyniana. "L'accusa di antisemitismo è sempre più rivolta a chiunque si discosti dall'establishment liberal di sinistra verso una sinistra più radicale", scrive Zizek.
   "Può essere in grado di mascherare il suo bigottismo in un linguaggio filosofico complicato, ma in definitiva è chiaro che, nonostante le sue stesse affermazioni contrarie, il suo pezzo contiene chiari esempi di antisemitismo", ha affermato l'organizzazione Honest Reporting in una nota. Dopo le polemiche, l'Independent ha sostituito la frase "the trouble with Jews today" con quella "the trouble with the settlement project today".
   Già in passato, Zizek ha flirtato con l'antisemitismo: "Nazisti e sionisti radicali condividevano un interesse comune, una sorta di 'pulizia etnica"'. Su Russia Today, Zizek ha scritto lo scorso 25 maggio: "La sacra memoria dell'Olocausto è mobilitata per legittimare l'apartheid contro i palestinesi". Nel libro di 440 pagine "The Parallax View", Zizek dedica un'intera sezione al "vicolo cieco dell'anti-antisemitismo". L'antiantisemitismo, scrive Zizek, è uno dei pericoli più gravi che incombono sulla libertà di pensiero perché non consente di criticare duramente Israele senza essere accusato di antisemitismo.
   In "Defense of Lost Cause", Zizek scrive: "Per dirla in modo succinto, l'unica vera soluzione alla 'questione ebraica' è la 'soluzione finale', perché gli ebrei ... sono l'ultimo ostacolo alla 'soluzione finale' della storia stessa, al superamento delle divisioni". E questo si applica anche a Israele.
   In un articolo per la rivista britannica New Statesman, Zizek ha spiegato che "la migliore speranza di Israele risiede in un singolo stato". Smantellare quello ebraico. Buttarlo nel cestino della storia. Qualche settimana fa, la Guida suprema dell'Iran, Ali Khamenei, ha detto di non volere la morte di tutti gli ebrei israeliani, ma "solo" la distruzione della loro "entità". Gli ayatollah hanno gettato solidi ponti nella comunità culturale europea.

(Il Foglio, 10 dicembre 2019)


Città, confini, kibbutz. Così fu costruito lo stato di Israele

di Alfredo De Girolamo

Israele, da sempre uno stato in evoluzione. Un Paese intriso di storia, eppure così giovane. La nascita porta la data del 14 maggio 1948. Appena 71 anni fa. Era uno Stato tutto da costruire. La storia israeliana di questi anni la conosciamo, ma ciò che forse è ancora all'oscuro di molti è che dietro il piano urbanistico di Israele si cela una personalità che con le sue indubbie capacità è stato un protagonista del suo Paese: Arieh Sharon. Nato in Polonia ed emigrato in Palestina negli anni Venti del secolo scorso, fu a capo del Dipartimento d'Urbanistica, guidando di fatto la costruzione dello Stato. Città, confini, kibbutz, un mosaico unico raccontato da Michelangelo Fabbrini in «Da allora siamo qui. Arieh Sharon e il Piano nazionale d'Israele 1948-1953» (Edizioni Clichy, 15 euro). Nel disordine del secondo dopoguerra, uno studente del Bauhaus, fu il protagonista di una pianificazione che, per forza di cose, non poteva essere come tutte le altre. Sharon si ritrovò a progettare un Paese sì piccolo, ma pronto ad espandersi dal punto di vista edilizio e sociale. Guidò la redistribuzione della popolazione, la definizione delle regioni e contribuì alla stesura del piano agricolo e idrico, lasciando intravedere, con 50 anni di anticipo, quelli che sarebbero stati alcuni capisaldi dell'Israele di oggi. Fabbrini ci racconta tutto con occhio attento, competente - è un architetto - e appassionato, frequentando da oltre 20 anni Israele e la Palestina per lavoro. Lo fa raccogliendo anche le analisi degli specialisti che all'epoca approvavano o rigettavano le teorie urbanistiche dì Sharon, raccontando contemporaneamente, in maniera distaccata e acritica, ma puntuale, aspetti fondamentali della storia geopolitica di Israele. Regalandoci un affresco unico e sconosciuto.

(Corriere Fiorentino, 10 dicembre 2019)


L'israeliano Yotam Ben-David vince il premio "Laceno d'oro"

È l'israeliano "Thunder from the sea" di Yotam Ben-Davìd, un'opera sulla velocità del mondo di oggi, il vincitore come "miglior film" della 44esima edizione del "Laceno d'oro", il festival del cinema internazionale di Avellino fondato nel 1959 da Pierpaolo Pasolini con Camillo Marino e Giacomo D'Onofrio. Per la sezione documentari vince "Non è sogno" di Giovanni Cioni, una storia vera tra carcere e teatro. Il primo premio per i corti va a "L'azzurro del cielo" di Enea Zucchetti. Premio del pubblico, ad "America" di Giacomo Abbruzzese. Due i riconoscimenti alla carriera, ai registi Franco Maresco e Pedro Costa.
Il "Laceno d'oro" è organizzato dal Circolo ImmaginAzione con la direzione artistica di Antonio Spagnuolo, in collaborazione con Aldo Spiniello, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri della rivista "Sentieri Selvaggi" e Maria Vittoria Pellecchia, e il contributo di Regione Campania e Mibact.

(la Repubblica - Napoli, 10 dicembre 2019)



La migrazione dei pellicani fa tappa in Israele

Il rimedio degli allevatori per fermarli

Come ogni anno, la riserva israeliana di Mishmar HaSharon si trova a che fare con decine di migliaia di ospiti poco graditi. Pellicani giganti, che possono superare i 150 centimetri di altezza e che nella loro migrazione dall'Europa verso l'Africa. Fanno tappa in Israele durante la loro migrazione annuale dai Balcani all'Africa, dove trascorrono l'inverno, per poi tornare in Europa.
Riposano e si nutrono per settimane, causando il caos negli allevamenti di itticoltura. Dopo avere cercato a lungo di dissuaderli e allontanarli, gli operatori hanno deciso di "arrendersi": offrono agli uccelli pasti gratuiti di pesce.

(Business Insider Italia, 9 dicembre 2019)


Scontri tra Gaza e Israele

Colpite postazioni di Hamas dopo il lancio di razzi dalla Striscia

In risposta ai tre razzi lanciati ieri dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele ( due intercettati e uno caduto in una zona aperta), l'aviazione israeliana ha colpito nella notte una serie di obiettivi di Hamas. Lo ha fatto sapere oggi un portavoce militare secondo il quale tra gli obiettivi c'erano un campo militare di Hamas e alcune strutture a esso collegate. Inoltre, è stata distrutta anche una postazione militare della forza navale del movimento islamico che controlla la Striscia dal giugno del 2006. L'esercito ha sottolineato di ritenere «il gruppo responsabile di ogni evento che origina
dalla Striscia e che subirà le conseguenze di ogni azione contro civili israeliani». «Non ci sarà alcun accordo se continuano i lanci di razzi» ha dichiarato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, riferendosi alle trattative indirette in corso tra Israele ed Egitto, attraverso la mediazione dell'Onu, per raggiungere una tregua di lunga durata tra lo stato ebraico e Gaza. «Ho dato istruzioni al ministero della difesa e all'esercito di prepararsi» ha aggiunto Netanyahu. «Continueremo a garantire la sicurezza di Israele». Dalla Striscia, nessun commento ufficiale da parte di Hamas.

(L'Osservatore Romano, 9 dicembre 2019)


Il 2 marzo Israele tornerà alle urne, salvo un miracolo insperato

 
L'unica cosa su cui si sono messi d'accordo Kachol Lavan e Likud è la data delle prossime - a questo punto quasi inevitabili - elezioni. Si terranno infatti lunedì 2 marzo 2020 e così milioni di israeliani saranno costretti per la terza volta in un anno a votare. Non era mai accaduto prima. Perché questo indesiderato record non accada nelle prossime 48 dovrebbe accadere un miracolo: 61 parlamentari della Knesset, ovvero la maggioranza, dovrebbero firmare il proprio sostegno a uno dei loro colleghi, garantendo così la nascita di un nuovo governo e la fine di uno stallo politico che dura da mesi. Da dicembre infatti il paese è guidato dal Primo ministro Benjamin Netanyahu e dal suo esecutivo provvisorio. Due elezioni non sono bastate a sancire un vincitore e da Kachol Lavan fanno sapere che la strada per l'unità nazionale è possibile solo a una condizione: senza Netanyahu. "Spero ancora che riusciremo ad evitare inutili elezioni", ha dichiarato il leader di Kachol Lavan Benny Gantz, a 48 ore dallo scioglimento definitivo del parlamento. L'ex capo di Stato maggiore israeliano ha poi ribadito il suo no alla proposta di Netanyahu di indire un voto diretto per decidere solamente chi tra loro due debba guidare il prossimo governo. Per Kachol Lavan ogni prospettiva di avere il leader del Likud a capo dell'esecutivo, anche se in rotazione con Gantz, è inammissibile.

(moked, 9 dicembre 2019)


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Nonostante i tentativi in extremis, la terza tornata elettorale in Israele sembra inevitabile

Secondo i sondaggi, il risultato di un voto a marzo non sarebbe molto diverso da quello delle due elezioni del 2019.

Sta per scadere il tempo utile per trovare una soluzione allo stallo politico che paralizza Israele e una terza tornata elettorale nell'arco di dodici mesi sembra ormai quasi inevitabile anche se i sondaggi più recenti mostrano che è assai improbabile che essa produca risultati molto diversi dalle due precedenti elezioni politiche anticipate del 9 aprile e del 17 settembre.
Dal momento che sia il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu sia il leader del partito sfidante Blu&Bianco, Benny Gantz, non sono riusciti a formare una coalizione di almeno 61 parlamentari, la Knesset ha tempo fino alla mezzanotte di mercoledì per candidare uno dei propri membri per la formazione del nuovo esecutivo: in questo caso, il nuovo incaricato (proposto da almeno 61 parlamentari) avrebbe due settimane di tempo per realizzare il compito. Se invece entro la scadenza di mercoledì non verrà proposto nessun nome, la 22esima Knesset sarà sciolta automaticamente, mandando Israele in ginepraio politico senza precedenti....

(israele.net, 9 dicembre 2019)


Addio all'Uomo della Memoria

Piero Terracina, una vita dedicata alla testimonianza dell'Olocausto. Il 27 gennaio del 1945 esce dai cancelli di Auschwitz. Pesa38kg, ed è solo al mondo

di Elena Loewenthal

Piero Terracina
Nel mondo ebraico quando qualcuno non c'è più, evocandone il nome si usa sempre la formula zikhronò leberakhah, che significa «il suo ricordo sia di benedizione». Che questo triste auspicio sia davvero tale per la memoria di Piero Terracina, nato a Roma il 12 novembre del 1928 e mancato ieri nella sua città. Che il suo ricordo sia per tutti noi una benedizione di memoria e la consapevolezza di quel che è stato.
   Piero Terracina era scampato con tutta la famiglia al terribile rastrellamento del ghetto, il 16 ottobre del 1943. Si erano nascosti in una cantina, e avevano vissuto in clandestinità fino al 7 aprile dell'anno successivo, la sera della Pasqua ebraica, quando un delatore li tradì. Padre, madre, fratelli, sorella, zio e nonno furono arrestati insieme a Piero. Il percorso di morte era sempre lo stesso: prima da Regina Coeli a Fossoli. «I prigionieri non lavoravano», raccontava, «ma imparai come dovevo morire: vidi un ufficiale sparare un colpo in testa a un deportato che conoscevo. Fu la prima morte che vidi nella mia vita». Come quel personaggio femminile in un racconto di Amos Oz che racconta che quando le torna in mente la madre morta laggiù vuole soltanto scappare dal mondo perché sa che non esiste altra alternativa che fra una morte e l'altra.
   Piero e la sua famiglia rimangono a Fossoli un mese, il 17 maggio vengono caricati su un vagone piombato e deportati ad Auschwitz. Sono in sessantaquattro, nel vagone. «I lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, e sarebbe bastato uno sguardo di pietà». Le porte del vagone non vengono mai aperte. Mai per tutto il viaggio.
   All'arrivo ad Auschwitz, cani, bastoni, botte, selezioni. Forse sua madre capisce: «Mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse: andate». Quando esce dalla «sauna» - spogliato, rasato, tatuato - Piero chiede a un compagno dove sono i suoi genitori, e lui gli indica il fumo che sale dalla ciminiera dei forni crematori. «Sono già usciti di lì» risponde.
   Il 27 gennaio del 1945 si aprono i cancelli di Auschwitz. Piero Terracina pesa 38 kg, è solo al mondo. Gli ci vorranno anni per riprendersi fisicamente, per riprendere ad avere un poco di fiducia nella vita.
   Torna a Roma, diventa dirigente d'azienda. Comincia a testimoniare molto tempo dopo il suo ritorno, negli anni Ottanta. Lo fa e sempre lo farà con pacatezza e lucidità. Si fa ascoltare nelle scuole, in istituzioni pubbliche private, nei viaggi della memoria ad Auschwitz, in televisione. Senza mai alzare la voce. Raccontando sul filo di un ricordo nitido, come se tutto fosse appena successo. «Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subìto nell'inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l'orrore dei campi di sterminio nazisti. Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l'odio antisemita» ha detto Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica romana.
   Ad Auschwitz Pietro aveva fatto amicizia con Sami Modiano, di due anni più giovane. Entrambi sono diventati voci necessarie, battaglie viventi contro l'incubo che rubava notti insonni a Primo Levi, ancora decenni dopo: quello di raccontare e non essere creduti. Oggigiorno sembra che quell'incubo talvolta si avveri, prenda corpo nelle urla sui social network, in nostalgie scandalose e pericolose approssimazioni storiche. Come se non fosse successo quello che è successo.
   Piero Terracina era rimasto fra gli ultimi testimoni italiani della Shoah. Chissà come faremo, d'ora in poi, senza la sua voce. Forse, per onorare la memoria e farne benedizione, si può cominciare riflettendo sullo slancio di umana generosità che ha significato raccontare, per lui e gli altri testimoni. Su quanto deve essere stato doloroso, difficile, terribile, evocare giorno dopo giorno quel passato, per consegnarlo alle generazioni successive. Che sacrificio dev'essere stato, ogni volta, tornare laggiù, per scacciar via lo spettro che rubava le notti a Primo Levi e con voce pacata, lucida, vera, dire a tutti noi che ascoltavamo e continueremo ad ascoltare: «Questo è stato».

(La Stampa, 9 dicembre 2019)


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Di Segni: "Raccontava con un sorriso l'orrore ai ragazzi"

Nei suoi incontri con le scuole, davvero tanti, metteva passione. Oggi, spiegare l'Olocausto è più difficile, eppure ce n'è sempre bisogno

di Gabriele Isman

ROMA - «Un insieme di sobrietà. serenità, distacco, con una sostanziale durezza e rigidità morale». Così Riccardo Di~. rabbino capo di Roma, ricorda Piero Terracina: stamattina sarà lui a celebrarne i funerali, alle 13.30 al Portico d'Ottavia e un'ora dopo al Verano. Il rabbino figlio di un medico partigiano e il reduce dal campo cli Auschwitz si conoscevano bene, non soltanto per i viaggi della Memoria e le occasioni di testimonianza - «Lui ne viveva davvero tante nelle scuole» -affrontati assieme.

- Chi era Terracina per lei"?
  «Piero ha rappresentato nel panorama sempre più esile dei reduci una personalità particolare. Ognuno di loro ha raccontato la propria esperienza: sono stati tranciati milioni di mondi in quelle baracche, ogni persona è un mondo, e la diversità dei reduci lo testimonia Ma lui ci metteva un'enfasi e una passione particolari, con semplicità, cordialità e anche un sorriso aperto coni ragazzi che incontrava».

- Terracina di difficoltà ne aveva affrontate anche al ritorno a Roma
  «I reduci hanno affrontato tempi difficili al ritorno nelle loro città: le famiglie colpite, ognuno si leccava le sue ferite, e loro non venivano creduti. Li prendevano per matti, li accusavano di vittimismo, c'era chi gli diceva: "Voi vi siete salvati, mio figlio no". Hanno dovuto ricostruire le loro esistenze, ma ci sono voluti decenni perché iniziasse il flusso dei ricordi, e tanti hanno dovuto abbattere i muri che avevano costruito per difendersi. Piero e la sua famiglia, otto persone complessivamente, furono traditi e venduti da un italiano. Italiani non brava gente».

- Questo Paese non ha mai aperto davvero quel capitolo?
  «L'Italia non ha mai fatto davvero i conti con quel periodo. E ci ha messo molto tempo a fare qualcosa per i sopravvissuti. Dopo la guerra accaddero cose incresciose, con le famiglie private dei beni e le sentenze incredibili a dargli torto».

- L'anno scorso è morto Lello Di Segni' l'ultimo romano sopravvissuto al rastrellamento del ghetto del 16 ottobre 1943. Ora Terracina, catturato nell'aprile 1944. Il presidente Mattarella ha definito Auschwitz "il male assoluto". Ricordare quell'orrore diventa più difficile?
  «Eppure ce n'è sempre bisogno».

- Cosa andrebbe fatto per onorare la memoria di Piero Terracina?
  «Bisogna continuare a lottare contro il razzismo e l'antisemitismo. Rispetto ai problemi di intolleranza che ci sono, l'antisemitismo non è forse il principale, ma episodi di razzismo se ne contano, eccome».

- Domani a Milano 600 sindaci di vari partiti scendono in piazza in difesa di Liliana Sagre e la senatrice parlerà dal palco. Che ne pensa?
  «La questione dell'intolleranza è un problema a 360 gradi che va combattuto sostanzialmente e non formalmente. C'è un brutto clima in generale nel Paese».

(la Repubblica, 9 dicembre 2019)


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Il rischio di scordare la Shoah

La conoscenza è l'unica luce di speranza contro troppa ignoranza

di Liliana Segre

La morte di Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz come me, è stata la prima notizia che mi è stata comunicata ieri mattina appena sveglia, ed è stato come se si sgretolasse un altro pezzo della nostra storia.
   Perdonerete se sono così pessimista, mi spiace soprattutto per i giovani che mi scrivono lettere meravigliose e per tutte le persone dolcissime che mi applaudono o mi fermano per strada, ma io credo che si coltivi troppo poco la memoria e che, con la nostra scomparsa, tutto finirà. Senza Piero, io oggi mi sento più sola.
   Ai tempi della nostra deportazione e io e Piero non ci conoscevamo, lui era di Roma, io di Milano e i campi di sterminio erano divisi tra uomini e donne, impossibile incrociarsi. Ci siamo incontrati solo dopo tanti anni, entrambi sulla stessa barricata della testimonianza.
   Così abbiamo iniziato a condividere le assemblee con gli studenti, i convegni ai memoriali, scoprendoci molto affettuosamente vicini. Lui purtroppo non ha avuto come me il conforto nella vita di una famiglia che gli trasmettesse lo stesso calore umano che ho avuto io, ma è stato circondato fino all'ultimo secondo da amici e persone che gli volevano bene, perché Piero era un uomo dolcissimo, dallo sguardo mansueto e sereno. Tutta la sua persona ispirava una calda simpatia, impossibile non volergli bene. Così, quando mi hanno detto che era scomparso, un'ondata di tristezza mi ha pervaso perché mano a mano che i sopravvissuti se ne vanno, per chi resta è sempre più difficile.
   Vedete, io penso che quando saremo morti tutti, intendo sia noi vittime che i nostri carnefici, tutto ciò che è stato rischia di andare perduro. Parlo anche dei carnefici perché so che qualcuno di loro è ancora vivo e ha scritto memorie oscene - uno dei questi libri s'intitola "Bei tempi" e potete ben immaginare a che razza di tempi si riferisse - ma paradossali visto che alla fine confermano ciò che i negazionisti, appunto, negano.
   Ciò nonostante, quando non ci saremo più, nel giro di pochi anni i fatti di quella tragedia del Novecento che fu la Shoah, appariranno sempre più lontani, si ridurranno prima a un capitolo sui libri di storia, poi a una riga, infine neppure quello.
   Lo so, da me forse ci si aspetterebbe una parola di conforto, ma io, con quello che accade in questi anni dopo tutto il tempo che è passato, non riesco a essere ottimista. Si dice che chi non conosce la propria storia è condannato a ripeterla, io preferisco usare le parole di Primo Levi: "Comprendere è impossibile, ma conoscere è necessario". E la conoscenza è l'unica luce che ci può dare speranza in questo mondo di ignoranza sempre più diffusa.

(La Stampa, 9 dicembre 2019)


Da un sondaggio una bella sorpresa dal mondo arabo. No alla religione in politica

Un sondaggio YouGov per Arab News rivela che la maggioranza degli arabi non vuole più sentir parlare di religione in politica. Sorprese anche sulla emancipazione femminile.

di Haamid B. al-Mu'tasim

Arrivano brutte notizie dal mondo arabo per i Fratelli Musulmani, per Hezbollah, Hamas, Al Qaeda, Daesh, per i Talebani ma anche per il sistema iraniano.
Un sondaggio YouGov commissionato da Arab News in collaborazione con the Arab Strategy Forum in tutto il mondo arabo ha rivelato che la maggioranza degli arabi non vuole che la religione si intrometta nella politica anche se la corruzione in politica rimane al primo posto delle cose più detestate dagli arabi.
«Le persone sono consapevoli che c'è stato un qualche tipo di abuso della religione per fini politici» dice il dott. Abdulkhaleq Abdulla, noto esperto di scienze politiche che collabora con i maggiori istituti mondiali.
«Il Medio Oriente ha avuto abbastanza estremismi e gli arabi hanno capito che i gruppi politici basati sulla religione non li portavano da nessuna parte» ha detto ancora Abdulla ad Arab News.
«In effetti, abbiamo visto la brutta faccia dell'estremismo durante i quattro o cinque anni di controllo di Daesh su vaste aree in Siria e Iraq. Quindi è naturale vedere che ci sia un calo della popolarità di questi gruppi che mischiano religione e politica» continua Abdulla. «Ma molto più importanti sono le previsioni che sostengono come i partiti religiosi, moderati o estremisti, siano in forte declino a partire dalla Fratellanza Musulmana, mai così in crisi come ora».

 Emancipazione femminile
  Il sondaggio mostra anche una schiacciante maggioranza di arabi favorevoli alla emancipazione femminile, il che non era per niente un dato scontato, un dato che tuttavia mostra come gli arabi si rendano conto che mentre loro rimanevano a vecchi concetti medioevali il mondo progrediva.

 Il sistema iraniano
  Lo studio firmato da YouGov intitolato "Moschea e stato: come gli arabi vedono il futuro" rivela anche la profonda avversione del mondo arabo a sistemi di governo come quello iraniano basato esclusivamente su un sistema confessionale che controlla tutto e tutti. Solo il 9% degli arabi crede ad un sistema politico di tipo confessionale, mentre lo rifiutano totalmente il 49%.

(Rights Reporters, 9 dicembre 2019)


Trump: amico d'Israele come nessun altro

Il presidente Trump ha detto che Israele non ha mai avuto un amico migliore alla Casa Bianca di lui perché, a differenza dei suoi predecessori, "ho mantenuto le mie promesse". Trump ha galvanizzato il pubblico presente al Vertice nazionale del Consiglio americano israeliano di Florida raccontando le cose fatte per il popolo d'Israele, inclusa la promessa di riconoscere Gerusalemme capitale israeliana e di trasferire l'Ambasciata degli Stati Uniti lì da Tel Aviv. Cosa che nessun presidente "ha mai fatto"

(RaiNews, 8 dicembre 2019)


Israele-Russia: colloquio telefonico fra Netanyahu e Putin, focus su Siria e Iran

GERUSALEMME - Il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno discusso telefonicamente di Iran e Siria. Lo ha riferito l'ufficio stampa del governo israeliano sul suo profilo Twitter. "Netanyahu ha avuto un colloquio con il presidente russo Vladimir Putin. I due hanno discusso dell'Iran, della situazione in Siria, delle esigenze di sicurezza di Israele e della prevenzione di possibili scontri involontari fra le Forze di difesa israeliane e le Forze aerospaziali russe", si legge nel tweet.

(Agenzia Nova, 8 dicembre 2019)


Raid aerei israeliani su Gaza dopo lancio missili. Non si finisce più

Nuovi attacchi dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele. La popolazione allo stremo chiede soluzioni

Nuovo lancio di missili sul sud di Israele e nuovi raid israeliani su Gaza come risposta all'attacco. Non si finisce più e la popolazione chiede una soluzione.
Ieri sera il sistema Iron Dome è entrato in azione quando i terroristi islamici hanno lanciato quattro missili dalla Striscia di Gaza. Tre missili sono stati abbattuti in quanto si dirigevano verso centri abitati.
La risposta israeliana non si è fatta attendere. Aerei ed elicotteri israeliani hanno attaccato diversi obiettivi di Hamas tra i quali un campo di addestramento composto da uffici, magazzini e depositi di armi e un centro militare sul mare appartenente alle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, l'ala militare di Hamas.
Secondo fonti palestinesi gli attacchi israeliani avrebbero provocato almeno due feriti.
Nessun gruppo palestinese ha rivendicato il lancio dei quattro missili, ma Israele ritiene Hamas responsabile di tutto ciò che avviene nella Striscia di Gaza e per questo ha attaccato obiettivi appartenenti al Gruppo che tiene in ostaggio l'enclave araba.

 I residenti del sud chiedono una soluzione
  I residenti del sud di Israele chiedono a gran voce una soluzione per porre fine a questo stillicidio di attacchi che condiziona fortemente le loro vite.
Un residente che non vuol essere nominato ha detto a RR che ormai la misura è colma, che non si può vivere per anni costantemente sotto attacco e che il Governo deve trovare per Gaza una soluzione definitiva.
Nei giorni scorsi alcuni dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica si sono recati al Cairo per discutere con i servizi segreti egiziani di una tregua di lungo periodo (almeno cinque anni secondo fonti egiziane), ma per il momento le richieste arabe non sono accettabili da Israele.
Per porre fine in maniera definitiva e con qualsiasi mezzo alla minaccia proveniente dalla Striscia di Gaza servirebbe che a Gerusalemme ci sia un governo in grado di prendere anche decisioni difficili, ma per ora anche la politica israeliana è in stallo.
"Non ci interessa come fanno il governo, ci interessa che ci sia qualcuno in grado di decidere e di trovare una qualsiasi soluzione" ci dice ancora il residente.

(Rights Reporters, 8 dicembre 2019)


L'antisemitismo? Fa paura in Europa ma l'Italia ha gli anticorpi. Parla Meotti

Conversazione con Giulio Meotti, giornalista de il Foglio, saggista (tra i più recenti 'Il suicidio della cultura occidentale - Lindau e 'Notre Dame brucia. L'autodistruzione dell'Europa - Giubilei & Regnani), profondo conoscitore della cultura ebraica e strenuo difensore dello stato d'Israele.

di Francesco De Palo

Inneggiare a Hitler è una vergogna, ma colpiamo anche chi esalta Stalin. Così Giulio Meotti, giornalista de il Foglio, saggista (tra i più recenti 'Il suicidio della cultura occidentale - Lindau e 'Notre Dame brucia. L'autodistruzione dell'Europa - Giubilei & Regnani), profondo conoscitore della cultura ebraica e strenuo difensore dello stato d'Israele commenta con Formiche.net la vicenda di Emanuele Castrucci, il professore di Filosofia autore di una serie di post filonazisti e antisemiti, e non solo.

- Sul caso del docente dell'università di Siena Emanuele Castrucci che inneggia a Hitler come colui che "difendeva l'intera civiltà europea", che idea si è fatto?
  Sul caso in sé ci sono numerosi elementi: da antifascista e anticomunista, da persona democratica, provo vergogna. Una vergogna intellettuale. Penso che solo uno come Goebbels potesse sostenere che Hitler fosse il salvatore dell'Europa. È una frase talmente grave che muore nel momento in cui la si dice. Il problema però sono i provvedimenti che adesso si vorrebbero applicare al professore. La categoria dei docenti è tutelata dall'aver vinto un concorso pubblico. Dunque non esiste oggi una sanzione reale per punire un docente. Al di là di questo però, a me infastidisce che si faccia gran cassa su questa faccenda (pur grave come detto) ma non si criminalizzi allo stesso modo l'elogio dello stalinismo fatto da tanti professori italiani negli anni. Sul comunismo e sui suoi crimini purtroppo, c'è carta bianca e si può dire di tutto, specie nel mondo accademico.

- A suo giudizio, il fatto di condannare i tweet di Castrucci può essere identificabile come violazione della libertà di espressione?
  Io sono un fanatico della libertà di espressione e, proprio per questo, mi chiedo chi può essere in grado di giudicare le idee altrui. È chiaro che in questo caso parliamo di un'aberrazione. Fa parte del senso comune (o quantomeno dovrebbe esserlo): ci sono cose che è naturale non dire. Nelle università, però, questo tema è affrontato ed è un terreno piuttosto scivoloso. Spesso ci sono tentativi, a mio giudizio fallimentari e dannosi, di istituire i comitati etici. Credo comunque, in definitiva, che il caso Castrucci sia ultra minoritario.

- Qual è lo stato dell'arte dell'antisemitismo in Italia e in Europa?
  L'Italia è uno dei paesi meno antisemiti d'Europa. Il fenomeno è calato dell'11% negli ultimi 2-3 anni (secondo le stime dell'Anti - Defamation League), mentre è enorme in tutta Europa. Si può dire che noi abbiamo ancora gli anticorpi perché siamo un paese meno ideologizzato. Ora, l'antisemitismo in Europa ha sostanzialmente tre matrici: quella islamica (specie in Francia, Inghilterra, Germania e Svezia). La seconda matrice è l'estrema sinistra militante. Questa tipologia la si riscontra soprattutto nella sinistra di Jeremy Corbyn, Quel tipo di sinistra vede Israele come malvagio e per legami storico- morale considera gli ebrei alla stregua di criminali. Il rabbino capo del Regno Unito ha detto peraltro che Corbyn costituisce un pericolo per l'Inghilterra e per gli ebrei. La terza matrice è quella legata ai rigurgiti neo nazisti, in Europa centro orientale in particolare in Polonia, Ungheria e Austria. Questa è la matrice meno pesante a livello politico, sia a livello di numeri, sia a livello di influenza. In Italia la più attiva è quella legata al sistema della sinistra militante. La dimostrazione plastica dell'antisionismo.

- Qual è il confine tra antisemitismo e antisionismo oggi?
  Antisionismo e antisemitismo coincidono: l'antisionismo è la maschera degli antisemiti ripuliti. Dopo Auschwitz fa paura dichiararsi antisemita. Però così, con la maschera dell'antisionismo, molti riescono ad accanirsi contro lo stato ebraico che è l'unica democrazia del Medio Oriente.

- È normale che in un Paese come il nostro si faccia tanta canea sulla costituzione ad esempio della commissione Segre?
  Personalmente sono contrario alla commissione Segre. Ritengo che sia uno strumento politico nato su iniziativa partitica, quando la questione dell'antisemitismo dovrebbe essere bipartisan. Al di là delle opinioni dovrebbe essere una questione che unisce non che divide. Perciò a mio giudizio anche Forza Italia ha fatto bene a votare contro nonostante abbia una storia di antisemitismo importante. In quella commissione c'erano degli importanti passi falsi ideologici: l'antisemitismo in quel caso era diventato un modo per fare politica. Basti pensare che c'era la volontà di assimilare concetti totalmente diversi come antisemitismo, razzismo, islamofobia e intolleranza.

- Spesso, specie per giustificare l'incapacità di gestire il flusso migratorio, i fini gauchisti accostano i migranti agli ebrei vittime dell'Olocausto. È tollerabile un paragone in questo senso?
  No, è una vergogna morale. Vuol dire negare l'Olocausto. È un cattivo servizio alla causa ebraica ed è volto a non voler fare altro che distruggere la continuità storica dell'Europa. È una posizione politica terzomondista e dannosa.

(formiche, 8 dicembre 2019)



Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Dal libro dell'Esodo cap. 20

--> Predicazione
Marcello Cicchese

 


Israele: il 52 per cento dei cittadini vuole le dimissioni di Netanyahu

GERUSALEMME - Il 52 per cento degli israeliani ritiene che Benjamin Netanyahu dovrebbe dimettersi da primo ministro dopo essere stato incriminato per tre casi di corruzione. Lo rivela un sondaggio reso pubblico dall'emittente televisiva "Channel 12". Un altro 38 per cento degli intervistati ritiene invece che Netanyahu possa proseguire alla guida del governo nonostante l'inchiesta, mentre il restante 10 per cento si dice indeciso. A ritenere che il premier debba lasciare l'incarico è anche il 34 per cento tra gli elettori di destra che hanno partecipato al sondaggio. Sempre in base a quest'ultimo, se nuove elezioni si tenessero a stretto giro di posta la coalizione di centro-sinistra Kahol Lavan guidata dal generale in congedo Benny Gantz otterrebbe un seggio in più rispetto al Likud di Netanyahu (rispettivamente 34 e 33). La Lista congiunta dei partiti arabi sarebbe la terza forza della Knesset con 13 seggi, seguita da Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman e dai partiti ultra-ortodossi Shas e Giudaismo unito nella Torah (otto seggi ciascuno).

(Agenzia Nova, 7 dicembre 2019)


Ministro degli Esteri israeliano Katz s Roma

Incontro con leader ebraici

di Giacomo Kahn

Si è conclusa ieri la visita a Roma del ministro degli Esteri israeliano Israel Katz. Giunto in Italia per partecipare al forum Med Dialogues, il capo della diplomazia israeliana ha incontrato il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti e il leader della Lega, Matteo Salvini. E' stato lo stesso Katz a renderlo noto, postando su Twitter le foto degli incontri. "Ho incontrato Matteo Salvini, fra i leader influenti in Italia e grande amico d'Israele. Ho chiesto sostegno per riconoscere Gerusalemme capitale d'Israele, frenare la minaccia iraniana e l'antisemitismo. Abbiamo parlato di collaborazione in iniziative economiche bilaterali e regionali", ha sottolineato Katz sul suo profilo con un messaggio in italiano. In un secondo tweet, in ebraico, il capo della diplomazia israeliana ha aggiunto che Salvini "ha ascoltato con orecchio attento e ha promesso di agire di conseguenza". Alcune ore dopo Katz ha incontrato Zingaretti: "Abbiamo discusso delle minacce iraniane e della necessita' di intensificare la lotta contro l'antisemitismo.... (Zingaretti; ndr) ha chiarito che, nonostante i disaccordi sull'Iran e i palestinesi, lui e i suoi amici sosterranno sempre il diritto di Israele a difendersi".
   Nella fitta agenda Katz ha anche inserito un importante incontro con i vertici dell'ebraismo italiano, insieme all'ambasciatore Dror Eydar, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, il presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.
   Nella sua breve missione Katz ha anche concesso una intervista al Corriere della Sera nella quale ha spiegato che bombardare l'Iran è un'opzione che Israele sta considerando, per impedire che Teheran sviluppi un'arma nucleare. "Sì, è un'opzione. Non permetteremo all'Iran di produrre o ottenere armi atomiche. Se fosse l'ultima cosa possibile per impedirlo, agiremo militarmente", dice il capo della diplomazia israeliana. "Noi riteniamo che le pressioni degli Stati Uniti e le sanzioni siano efficaci, ci aspettiamo che funzionino e riducano i tentativi dell'Iran sia di procurarsi armi atomiche che di sostenere gruppi terroristici, ma questo avverrà più facilmente se c'è il sostegno dei Paesi europei. Finché gli iraniani si illudono di avere l'appoggio dell'Europa, sarà più difficile che si pieghino", aggiunge Katz. Le azioni contro l'Arabia Saudita e le petroliere ci fanno capire che l'Iran si sente ancora forte, le nostre informazioni di intelligence ci dicono che ha intenzione di colpire di nuovo i Paesi del Golfo. La minaccia delle sanzioni non è sufficiente. L'unico deterrente è una minaccia militare diretta contro il regime. Se l'Iran supererà la linea rossa, scoprirà un fronte comune tra sauditi, Emirati, Stati Uniti, e vedrà la potenza americana quando lanceranno mille Tomahawk su Teheran", conclude il ministro degli Esteri israeliano.

(Shalom, 7 dicembre 2019)


"Simonino da Trento, una fake news che ha ancora molto da insegnarci"

Il mondo cattolico e i conti con la storia

di Adam Smulevich

 
Il caso di Simonino da Trento, dichiarato vittima di un omicidio rituale ebraico e venerato per secoli come martire innocente, fu una delle più grandi fake news del passato. È però vicenda che si riverbera in modo tangibile anche nel nostro presente. Intanto perché è di appena pochi decenni fa il riconoscimento da parte ecclesiastica di una verità storica troppo a lungo negata, affermatasi solo grazie ai frutti del Concilio Vaticano II e della Nostra Aetate. E poi perché il caso è un simbolo sempre valido delle drammatiche conseguenze cui portano costruzione di un nemico e propaganda spietata volta a colpirlo.
  Non sorprende quindi che il Museo Diocesano Tridentino abbia scelto "L'invenzione del colpevole" come titolo di un'attesa mostra su questa vicenda che sarà inaugurata a Trento tra una settimana. Una significativa presa di coscienza da parte cattolica dell'urgenza di confrontarsi con responsabilità ancora recenti. Fin quando cioè l'azione di monsignor Iginio Rogger, primo artefice di una revisione storica su Simonino avvenuta anche su spinta di una caparbia insegnante ebrea triestina, Gemma Volli, pose fine a questo culto e a una stagione di antisemitismo istituzionalizzato. Era il 28 ottobre 1965, nelle stesse ore veniva promulgata la Nostra Aetate.
  L'accusa di questa vicenda tardo-medievale, viene affermato nel percorso museale, si fondava sulla convinzione che gli ebrei compissero sacrifici rituali di fanciulli cristiani "con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesù, servendosi del sangue della vittima per scopi magici e religiosi". Incarcerati per ordine del principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, gli ebrei vennero processati, costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati. Simonino divenne da allora oggetto di una venerazione che, si ricorda, fu costruita "utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica". Fu una piccola cerchia di specialisti a dare nel '65 il via alla storica svolta. Un contesto forse però troppo ristretto per una diffusa presa di coscienza di errori e orrori. Di qui, è stato spiegato, "la necessità di riprendere il filo della storia per riannodarlo a un presente segnato dal preoccupante riemergere di pulsioni antisemite e razziste".
  Curata da Domenica Primerano con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru e Valentina Perini e la collaborazione di Emanuele Curzel e Aldo Galli, la mostra si avvale della collaborazione dell'Università degli Studi di Trento, dell'Archivio Diocesano Tridentino e della Fondazione Museo Storico del Trentino. Numerose e autorevoli le voci di studiosi che hanno contribuito con un loro testo nel ricco catalogo realizzato.
  A riassumere il senso di questo impegno è la direttrice Primerano, che in un suo saggio osserva: "L'applicazione di un'imparziale coscienza critica all'ampia documentazione su cui si fondò l'accusa nei confronti degli ebrei portò a cogliere la reale configurazione dei fatti, facendo riemergere la verità storica. Una 'verità' che impone a tutti noi una responsabile riflessione circa le terribili conseguenze che pregiudizi, stereotipi, meccanismi di esclusione del 'diverso' comportarono e comportano tuttora. La storia, questa storia, ci consegna un severo monito che sarebbe colpevole ignorare".
  Scrive invece Anna Foa: "Nel 1475, quando gli ebrei di Trento vengono accusati di aver ucciso ritualmente il piccolo Simone, l'accusa del sangue era una conoscenza diffusa nel mondo cattolico, un sospetto che aleggiava con grande facilità sugli ebrei alla prima scomparsa di un bambino e nelle circostanze della Pasqua ebraica, i giorni in cui secondo questa accusa gli ebrei erano soliti uccidere bambini cristiani allo scopo di utilizzarne ritualmente il sangue e in odio al mondo cristiano". Nell'area tedesca, prosegue Foa, "le accuse si erano moltiplicate nel corso del Quattrocento, in alcuni casi portando sangue e morte agli ebrei, in altri sancendo assoluzioni e onerosi riscatti". Era una credenza che circolava frequente fra i cristiani, "una voce popolare che riecheggiava la paura della diversità e le ansie derivate da usanze e ritualità inconsuete e quindi di per sé sospette".
  Massimo Giuliani propone uno sguardo letterario attraverso un capolavoro del Novecento che ha riproposto questo tema in chiave moderna: L'uomo di Kiev, di Bernard Malamud. Un'opera che, sottolinea, "dà voce agli incubi di tutti gli ebrei e le ebree che nel corso dei secoli sono stati accusati di assurdi omicidi rituali che non si sarebbero mai sognati di compiere; ma dà voce anche a tutte le ingiustizie e le oppressioni di innocenti cui capita di essere investiti dalle sempre più sofisticate macchine mitologiche delle ideologie e dei sistemi totalitari, teocratici o atei che siano". L'uomo di Kiev è un romanzo storico sull'accusa di omicidio rituale ma può o forse deve essere letto anche, scrive Giuliani, "come un commento ebraico, quasi cinque secoli dopo, a quel che avvenne, loro malgrado, agli ebrei di Trento nel 1475 sotto il governo del vescovo-principe Johannes Hinderbach".
  Diego Quaglioni illustra come i processi contro gli ebrei di Trento siano decisivi, nella transizione alla prima modernità, "per la fissazione degli stereotipi antigiudaici in un nuovo paradigma, miscela efficacissima di parole e immagini, di testi di propaganda e di scritti di dottrina". A questo proposito, ricorda Quaglioni, "si è parlato di una 'giudeofobia' nascente da una tipica combinazione di odio teologico e di odio sociologico, fenomeno soggiacente, imponente e vario come l'antigiudaismo premoderno, radicato nella mentalità e nella cultura europee, nel quale ad un tempo bisogna ricercare le origini del processo di emancipazione e le radici dell'antisemitismo moderno, del sinistro miscuglio di semi-verità e di superstizioni, che dopo il 1914 fece degli ebrei europei il bersaglio di tutti coloro che la società respingeva".
  Gaia Bolpagni sviluppa un altro tema di notevole interesse, passando in rassegna il registro dei "miracoli del beato Simonino" conservato presso l'Archivio di Stato di Trento. Racconta la studiosa: "Le opere letterarie dedicate al presunto martirio di Simone, in funzione della campagna per la sua canonizzazione, contribuirono in modo fortissimo a promuoverne e diffonderne il culto, ancora prima che si fosse concluso il processo di beatificazione del bambino, che da quel momento e per secoli verrà venerato come San Simone da Trento". Tanto grande era stato il risalto dato alla vicenda e così forte il suo impatto sull'opinione pubblica, che intorno ad essa, prosegue Bolpagni, "si materializzò sin dai primi momenti un'aura salvifica e taumaturgica, al punto che all'immagine e all'intercessione del piccolo santo furono attribuiti diversi avvenimenti prodigiosi".
  La svolta del '65 ha chiuso un capitolo lacerante. Restano però da rafforzare consapevolezza e anticorpi. Questa mostra, grazie a quel che è stato possibile vedere in anteprima, si candida ad essere uno strumento più che valido.

(moked, 7 dicembre 2019)


Ebrei, una storia tra speranza e tragedia

Arriva in Italia il secondo volume della monumentale "Storia" di Simon Schama che copre il periodo dal 1492 al 1900 Centrale è quell'alba del 5 gennaio 1895, quando andò in scena il "rito" di umiliazione dell'innocente capitano Alfred Dreyfus, in realtà ebreo e buon francese.

di Franco Cardini

Il periodico affiorare, per fortuna sporadico e limitato, di un antisemitismo che ha come sua unica origine l'idiozia non è degno nemmeno di commento: lo si nobilita perfino inserendolo in un di per sé già condannabile razzismo antisemita. L'insulto e lapidi tombali non è nemmeno barbarie terroristica: è pura bestialità. Lo si nobiliterebbe perfino attribuendole un sia pur sinistro movente ideologico-politico. Ciò non toglie che riguardo ad esso ci si debbano porre dei problemi: dalla profondità dell'incultura degli autori di certi atti, all'indifferenza e al sostanzialmente scarso rigore con il quale essi sono perseguiti, fino al pericolo che essi alimentino un circolo vizioso tra infami pulsioni di qualche maniaco e tentazioni strumentalizzatrici.
   Anche per questo giunge davvero opportuna la pubblicazione dell'edizione italiana del secondo volume della monumentale La storia degli ebrei di Simon Schama. L'editrice Mondadori va sul serio ringraziata per la generosità e il coraggio con i quali ha sostenuto questo impegno. Il primo volume, dal sottotitolo In cerca delle parole (2014), ha affrontato il problema delle origini dell'ebraismo e dell'identità religioso-nazionale ebraica, della problematicità costituita dal suo sempre difficile convivere con altri popoli e altre culture, della difficoltà perfino di poter concepire e definire un "popolo ebraico", una "nazione ebraica'' (non parliamo di una "razza ebraica'', scellerata invenzione settenovecentesca), al di là di una lingua, di una cultura e quindi in ultima analisi di una tradizione e di una identità ebraiche (sostantivi, gli ultimi due, già di per sé ambigui ed ardui a gestirsi).
   Ed ecco che ora giunge il secondo volume della fatica di Schama, dal titolo L'appartenenza. Dal 1492 al 1900 (pagine 808, euro 40,00). Già le coordinate cronologiche scelte dicono di per sé tutto: dal fatidico e forse fatale 1492, al punto d'arrivo formale dell'indagine, lo splendido 1900 del culmine della Belle Époque e dei fasti spensieratamente osceni del "Ballo Excelsior". Ma il momento clou della sua erudita e drammatica ricerca è il 5 gennaio del 1895: un' «alba tragica» dell'incipiente Novecento, il punto d'arrivo dei pogrom russi, della lucida e pacata follia del signor de Gobineau, dell'erudita e implacabile sapienza del Maurras. Ora, quel giorno e il suo contesto sono mirabilmente narrati nell'ultimo, avvincente capolavoro di Roman Polanski.
   Quel 5 gennaio del 1895, nella gelida spianata dell'École Militaire di Parigi, uno spietato rito cavalleresco mise fine alla carriera del capitano Alfred Dreyfus, ebreo e buon francese, ingiustamente condannato all'espulsione dall'esercito, alla prigione e all'infamia in quanto ritenuto (a torto) reo di alto tradimento. Il cerimoniale di degradazione, una vera e propria morte civile, prevedeva che gli fossero strappate dalla giubba le spalline e le insegne di grado, mentre un suo collega spezzava sul ginocchio la sua spada. Il livello raggiunto dalle polemiche relative a quel personaggio e a quell'episodio chiarisce come quel che di lì a una trentina circa di anni dopo avrebbe detto e scritto Adolf Hitler non fosse il frutto solitario e inatteso di un genio malvagio, bensì la feroce farfalla nata da un'infame crisalide: l'antisemitismo in parte generato purtroppo senza dubbio dall'antigiudaismo cristiano e quindi peggiorato, degenerando, in razzismo antisemitico.
   Vorremmo poter affermare che tra l' atteggiamento puramente religioso e culturale dell'antigiudaismo e la pesante volgarità dell'antisemitismo materialistico e deterministico non c'è alcun rapporto. Ma purtroppo i fatti già abbondantemente rilevati da altri autori (da Norman Cohn a Ruggero Calimani) parlano un linguaggio differente. Già nella Spagna dei Re Cattolici si era parlato della limpieza de sangre, del "sangue puro" dei cristianos viejos, devoti da generazioni alla vera fede, e della corruzione del sangue dei cristianos nuevos convertiti di fresco e magari per forza, che erano rimasti - come moriscos o marranos - ostinati nel loro vecchio credo musulmano o ebraico. Martin Lutero tornava poi sul tema del caratteristico del foetor iudaicus proveniente dalla pelle e dagli abiti del "popolo deicida''. Voltaire dal canto suo rovesciava sugli avidi e sporchi figli d'Israele tutto l'odio e il disprezzo che aveva represso in anni di pareri e di scritti dedicati a sostenere la tolleranza. Da lì attraverso Marx e Wagner si sarebbe sviluppato un antisemitismo intellettuale e perfino "scientifico" che dalla Russia e dalla Polonia, soprattutto a causa del crescer del numero dei migranti, si sarebbe di lì a poco radicato soprattutto nella Francia dei Maurras, dei Daudet, dei Drumont e dei Barrès: ben più micidiali delle sfuriate di Céline o del sistematico razzismo filosemita dei collaborazionisti francesi durante la Seconda guerra mondiale, a esaminare i quali il libro di Schama non arriva.
   Ma la tragedia è proprio questa. Per almeno quattro secoli gli ebrei avevano continuato a vivere tra i cristiani affrontandone ora i sarcasmi ora le violenze, cercando a loro volta di mantenersi puri attraverso non solo l'incrocio, bensì anche il contatto. Eppure, a loro volta, nel momento stesso nel quale essi ambivano allo Ha-Makom, un luogo futuro al quale potersi sentire al sicuro e appartenere, una patria che fosse "terra senza popolo" per loro, "popolo senza terra'', lo squallore e la prigionia dei ghetti poteva apparir loro quasi gradita: una cuccia calda nella quale mantenersi al riparo dalla contaminazione dei goim. D' altronde, specie con l'avanzare della Modernità, l'attrazione per un'appartenenza diversa poteva lasciarsi sentire, e molti ne erano conquistati. Lo stesso nascente movimento sionista - un movimento sorto nell'Ottocento, quindi scaturito da un desiderio di patria condiviso in tutta Europa -, quando si profilò la possibilità di un ritorno all'autentico Eretz Israel, non per questo abbandonò l'ammirazione nonostante tutto per l'Europa e per le sue conquiste scientifiche e civili. L'appartenenza divergeva dalla tentazione assimilatrice: eppure, appartenenza e assimilazione potevano sia pur problematicamente convivere, ci si poteva sentir ebrei (Jvri anokhi, "noialtri ebrei") e sinceramente patrioti del Paese ospitante. Come il capitano Dreyfus, ebreo e alsaziano d'origine eppure buon patriota francese; come più tardi Mare Bloch; come i tanti giovani patrioti tedeschi d'appartenenza ebraica che nel 1914 avevano risposto all'appello del Kaiser e della patria accorrendo volontari sotto le armi, e molti dei quali erano caduti e decorati di croce di ferro. È sulla tragedia di quegli anni che Simon Schama, studioso illustre, celebre accademico e giornalista pluripremiato, arresta la sua narrazione.

(Avvenire, 7 dicembre 2019)


Casellati e Segre visitano il memoriale della Shoah

MILANO - La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha visitato questa mattina il Memoriale della Shoah, che si trova sotto i binari della Stazione Centrale, accompagnata dalla senatrice a vita Liliana Segre e da Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano Onlus. Nel corso della visita, durata quasi un'ora, hanno osservato un momento di raccoglimento al binario 21, davanti a uno dei carri bestiame che, nel 1943, deportarono migliaia di ebrei da Milano verso i campi di concentramento e di sterminio nazisti. Tra loro c'era proprio Liliana Segre, che ha raccontato alla presidente del Senato la terribile esperienza vissuta in quei giorni insieme con la sua famiglia.
   "Qui si preserva la memoria di quella che e' stata una delle pagine piu' buie della nostra storia - ha detto al termine della visita la presidente Casellati - e mi auguro che proprio qui dentro si maturi quella consapevolezza di solidarieta' e di fratellanza che puo' nascere soltanto considerando quelle aberrazioni che sono successe e che non dovranno piu' succedere".

(Italpress, 7 dicembre 2019)


«Noi israeliani collaboriamo coi sauditi contro l'Iran»

Il ministro Katz: no al dialogo con Assad «finché la Siria presterà il suo territorio all'Iran». Katz ha visto Di Maio, Salvini e Zingaretti.

di Viviana Mazza

«Il dialogo con Bashar Assad non può essere ripreso finché la Siria consentirà all'Iran di usare il proprio territorio contro Israele e gli Stati arabi moderati», ci dice il ministro degli Esteri e dell'Intelligence israeliano Israel Katz a margine del forum MED, dopo che Di Maio in un'intervista con il Corriere ha suggerito che è tempo che l'Europa dialoghi di più con Damasco.«L'incontro con Di Maio è andato molto bene», assicura Katz, che ha visto anche Salvini e Zingaretti. «Abbiamo parlato della comune lotta all'antisemitismo, della promozione del commercio bilaterali, ed espresso il desiderio che l'Italia si unisca all'iniziativa regionale di connettere attraverso una rete ferroviaria i Paesi del Golfo a Haifa e ai porti del Mediterraneo». Un progetto «strategico» al quale Katz, già ministro dei Trasporti, lavora «da anni»: «Ci libera della necessità di passare da due stretti facilmente attaccabili, Bab El-Mandeb (nel Mar Rosso ndr) e Hormuz, e ci risparmia 6.500 chilometri via mare. In un momento in cui la minaccia iraniana tocca sia Israele che l'Arabia Saudita, ci siamo trovati a collaborare».

- Che tipo di collaborazione, anche militare, vede possibile con i sauditi e i Paesi del Golfo?
  «Non posso scendere in dettagli per quanto riguarda la trasmissione di dati, però abbiamo interessi comuni. Questo ci permette di individuare e di sventare eventuali minacce di cui siamo al corrente. Ma la minaccia dell'Iran non è solo contro l'Arabia Saudita o Israele, parliamo di missili a lunga gittata con testate con potenzialità nucleari. Non per nulla Germania, Francia e Gran Bretagna si sono rivolti all'Onu l'altro ieri dicendo che l'Iran ha contravvenuto agli accordi. Comincia ad esserci un fronte ampio contro la minaccia iraniana».

- Bombardare l'Iran è un'opzione che Israele sta considerando?
  «Sì, è un'opzione. Non permetteremo all'Iran di produrre o ottenere armi atomiche. Se fosse l'ultima cosa possibile per impedirlo, agiremo militarmente. Noi riteniamo che le pressioni degli Stati Uniti e le sanzioni siano efficaci, ci aspettiamo che funzionino e riducano i tentativi dell'Iran sia di procurarsi armi atomiche che di sostenere gruppi terroristici, ma questo avverrà più facilmente se c'è il sostegno dei Paesi europei. Finché gli iraniani si illudono di avere l'appoggio dell'Europa, sarà più difficile che si pieghino. Le azioni contro l'Arabia Saudita e le petroliere ci fanno capire che l'Iran si sente ancora forte, le nostre informazioni di intelligence ci dicono che ha intenzione di colpire di nuovo i Paesi del Golfo. La minaccia delle sanzioni non è sufficiente. L'unico deterrente è una minaccia militare diretta contro il regime. Se l'Iran supererà la linea rossa, scoprirà un fronte comune tra sauditi, Emirati, Stati Uniti, e vedrà la potenza americana quando lanceranno mille Tomahawk su Teheran».

- Netanyahu è stato incriminato per corruzione. Può continuare ad essere il leader del Likud e di Israele?
  «Il processo politico e quello legale sono cose separate. Il procuratore generale Avichai Mandelblit ha determinato che Netanyahu può continuare ad essere il premier».

- Nel 2016 Di Maio visitò Israele: riconobbe che Hamas è un gruppo terroristico, ma vi invitò a «superare la politica dei muri».
  «Anche in Europa mi sembra vogliano costruire muri contro i migranti. Qualche anno fa, insieme a Netanyahu ho incontrato Tsipras che era appena diventato premier greco. Viene dalla sinistra, ma il primo consiglio che chiese fu come costruire un muro contro i rifugiati. E lì si trattava solo di una minaccia civile, non di sicurezza come da noi».

(Corriere della Sera, 7 dicembre 2019)


Di sinistra sì, ma con Corbyn no

Nella redazione del New Statesman che non vota questo Labour e si sente sollevata

di Gregorio Sorgi

LONDRA - Nel giorno in cui la storica rivista della sinistra britannica annuncia ai lettori che non sosterrà il Labour alle elezioni della settimana prossima, la redazione sembra sollevata. I giornalisti del New Statesman sfogliano l'edizione appena uscita in edicola mentre ascoltano in silenzio il discorso del direttore. "Siamo stati criticati e insultati in rete per il nostro ultimo editoriale", annuncia Jason Cowley con un tono solenne ma rassicurante: "Perderemo lettori nel breve termine ma ne guadagneremo nel lungo periodo".
  Non è una giornata come tutte le altre questa, per la redazione del New Statesman. Alcuni vecchi lettori si sono sentiti traditi dal mancato endorsement al Labour - non era mai successo negli ultimi cento anni - e hanno inviato messaggi di indignazione al direttore. "Sono stato insultato personalmente in rete", dice Cowley: "Ma sono contento di avere dato vita a un dibattito acceso, questo è l'obiettivo del New Statesman. Siamo stati tra gli hashtag più popolari su Twitter, vorrei che fosse così ogni settimana". Il direttore ha spiegato in un lungo editoriale che il problema dei laburisti non è il programma economico radicale. Il problema è Jeremy Corbyn. Il leader dell'opposizione "non è adeguato a fare il primo ministro", e lo ha mostrato nella gestione disastrosa dell'antisemitismo nel suo partito. Questo è il principale argomento di discussione nella riunione di redazione. "E' un problema di competenza", dice Stephen Bush, il capo della redazione politica: "Un partito che non riesce a estirpare l'antisemitismo non può governare un paese". "E' stato tutto uno scontro interno al Labour", spiega una giovane redattrice: "Chi critica il comportamento di Corbyn viene visto come un traditore, come un 'blairiano"'.
  Pur essendo un settimanale progressista, il New Statesman ha criticato Corbyn fin dall'inizio della sua leadership. "L'editoriale rispecchia ciò che abbiamo scritto negli ultimi cinque anni", spiega il direttore alla redazione: "Ho l'impressione che molti detrattori non ci leggono nemmeno, sono rimasti indietro". Cowley ha riformato quello che per anni era stato l'organo del Labour. "Prima del mio arrivo il settimanale apparteneva al deputato laburista Geoffrey Robinson - ci spiega - Non avevo alcun interesse a dirigere un giornale di partito, e ho accettato l'incarico quando è cambiato il proprietario. Da tempo sono un critico del Labour e per questo ho voluto rendere la rivista più indipendente e irriverente, sapendo che ci avrebbe portato nuovi lettori. E' stato un percorso lungo, ma stavolta ho pensato che eravamo pronti a togliere il nostro sostegno ai laburisti".
 
  Nella redazione del New Statesman si pensa già al dopo Corbyn. In caso di sconfitta il leader sarà costretto a farsi da parte e inizierà la corsa alla successione. "Corbyn non si dimetterà, resterà in carica il più a lungo possibile - ci spiega Stephen Bush - Cercherà di fare eleggere un successore che porti avanti il suo programma". Si profila una sfida tra diverse sfumature di corbynismo, che ormai rappresentano il pensiero dominante nel Labour. La sinistra controlla gli organi del partito e ha un grande seguito tra i militanti che dovranno scegliere il nuovo leader. "Corbyn ha vinto la battaglia delle idee contro i moderati", ripetono molti redattori. Qualunque sia il risultato delle elezioni, il nuovo leader non si allontanerà dalla linea massimalista. "La speranza della sinistra è avere 'un corbynismo senza Corbyn"', spiega Jason Cowley: "L'attuale leader ha messo in moto il cambiamento nel Labour ma ormai il partito può fare a meno di lui. Le sue idee resteranno e verranno portate avanti dal suo successore. Nelle primarie del 2015 Corbyn ha innescato un meccanismo che era sempre stato represso nel Labour. E' stato il primo a ripudiare il neoliberismo e a parlare una lingua che i giovani non avevano mai sentito. Questo avrà degli effetti irreversibili". Se il Labour dovesse perdere le elezioni i corbynisti se la prenderanno con le debolezze del leader, non con le sue idee. "Non la vedranno come la seconda sconfitta di fila in due anni, ma come un nuovo inizio - dice il direttore - Non dimentichiamoci che sono degli idealisti, non hanno una visione lucida dei fatti". Ma la resilienza del corbynismo è il sintomo di un paradigma che sta cambiando in Gran Bretagna. "La politica inglese segue dei cicli - spiega Cowley - il dominio del neoliberismo negli ultimi quarant'anni è stato spazzato via dalla crisi economica, e oggi ci troviamo in un interregno. Il vecchio sta morendo e stiamo aspettando che nasca qualcosa di nuovo".
  Al New Statesman hanno un'idea chiara di cosa riserva il futuro, e di quale sarà la "posizione vincente" che il Labour dovrà occupare per tornare al governo. "Bisogna andare a sinistra sull'economia e a destra sulla cultura", ripete Cowley. I cittadini chiedono un ritorno dello stato dopo anni di austerity, ma sono diffidenti verso la società multiculturale. Il direttore teme che i conservatori siano i primi a scoprire e a impadronirsi del nuovo consenso. "L'ex premier Theresa May aveva respinto il pensiero unico liberista, e al New Statesman l'abbiamo seguita con grande interesse. Anche Boris Johnson si sta spostando a sinistra perché vuole vincere nelle roccaforti laburiste. E' furbo, opportunista, divertente e viene visto come un uomo del popolo pur essendo un figlio dell'élite. Lo abbiamo tutti sottovalutato".

(Il Foglio, 7 dicembre 2019)


Storia e tradizioni. Essere ebrei oggi

Riccardo Calimani: le parole per capire identità e cultura. Ricordati i tratti storici più violenti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo.

di Francesco Chiamulera

Sottotitolo
«Anche i nostri sono cambiati. Se appena hanno studiato a Oxford o a Cambridge, o guadagnano più di centomila sterline l'anno, non sono più ebrei, ma "di origini ebraiche". Che non è la stessa cosa». Lo fa dire al suo Barney Panofsky il grande Mordecai Richler in La versione di Barney. Caustica presa in giro dei ricchi liberal inglesi da parte di un ebreo conservatore canadese, la battuta di Barney è anche un modo per significare la complessa relazione con l'identità ebraica delle generazioni che si susseguono. Appartenenza o rifiuto, orgoglio oppure vergogna, fino all'odio di sé. Singer ne mette in scena i differenti impulsi con La Famiglia Karnowski, Zweig le dedica pagine dolci e strazianti nelle sue memorie del mondo di ieri, in questi anni ci si è divertito l'inglese Howard Jacobson, in L'enigma di Finkler. Siamo solo sulla soglia di una vastissima letteratura, insomma. E a confermare che «c'è bisogno di raccontare le cose serie con ironia» è lo storico veneziano Riccardo Calimani, con un piccolo, prezioso libro, Non è facile essere ebreo, che esce ora con La Nave di Teseo in versione riveduta e ampliata dopo la prima pubblicazione, nel 2004. Calimani, già presidente della Comunità ebraica di Venezia, si rivolge esplicitamente ai non ebrei.
  «Che cosa è un ebreo? È uno che quando gli racconti una storiella ebraica ti risponde che la sapeva già e te la ripete migliorandola. Non potrei quindi spiegare a un ebreo che cosa significa essere ebreo: non soltanto lo sa benissimo, o crede di saperlo, ma sarebbe capace di spiegarlo molto meglio di me». L'autore, che appartiene a un'antica famiglia passata attraverso la Repubblica di Venezia, lo Stato unitario e poi nel fuoco delle persecuzioni novecentesche (il nome Riccardo gli viene dato in memoria del fratello della madre, deportato e assassinato dai nazifascisti), fa un compendio di nozioni bibliche, storiche, sociali, letterarie, ad uso evidente dei molti lettori italiani che, ancora nel 2019, coltivano grandi lacune. Dalla Torah al Talmud, dalle grandi scomuniche rabbiniche ai profeti, come Shabbatai Zevi, e ai liberi pensatori, come Baruch Spinoza, al gusto intrinsecamente ebraico per la contraddizione: «Dio non esiste, e noi siamo il suo popolo eletto», come ha detto Woody Allen. Calimani ricorda i tratti storici più violenti dell'antigiudaismo cristiano e poi dell'antisemitismo e del razzismo, gli stessi che costrinsero i suoi genitori a scappare insieme da Venezia dopo il 16 settembre 1943, appena sposati, mentre il presidente della comunità ebraica, Giuseppe Jona, si suicidava avvelenandosi per non dover consegnare ai tedeschi la lista con i nomi degli ebrei veneziani. Ma non c'è solo l'ostilità sbandierata e ufficiale.
  Il libro smonta tutti i banali eppure diffusi pregiudizi antiebraici che fanno sì che ancora oggi non sia facile essere ebreo, le domande più o meno innocenti o più o meno maligne che i «gentili» periodicamente rivolgono e che costituiscono forse la vera necessità del libro: il rapporto con il denaro; il tema della doppia lealtà, ti senti più ebreo o più italiano? («è come dire: vuoi più bene a tua madre o a tuo padre? È noto a tutti che la stupidità umana purtroppo è infinita»); gli ebrei come esseri particolarmente intelligenti, anzi furbi («quando volete sarò lieto di presentarvene molti che sono stupidi»); il considerare l'ebreo come «straniero», come maldestramente ha definito Calimani stesso l'organizzatore di un evento veneziano al quale l'autore era stato invitato (la sua risposta alla platea: «Quanti di voi possono dire che la loro famiglia è veneziana da almeno duecento anni? La mia famiglia è qui da cinquecento, perciò io sono veneziano e voi siete gli stranieri»). E infine la stolta eppure perenne idea che l'ebraismo sia un monolite, una totalità indistinta: «se ci sono quattro ebrei, ci sono sette partiti. Domanderete: perché sette e non otto? Perché c'è sempre l'ebreo deficiente che ha un'idea politica sola».

(Corriere del Veneto, 7 dicembre 2019)


Oggi lo Yemen, domani Israele? Dove può spingersi la guerra iraniana

L'influenza dell'Iran cresce in Medio Oriente, e tra deterrenza militare e dimostrazioni di forza, Israele è uno dei Paesi che più teme la crescita regionale dei Pasdaran. Tutte le opzioni sul tavolo a Gerusalemme.

di Emanuele Rossi

A poche ore dall'incontro tra il primo ministro israeliano uscente, Benjamin Netanyahu, e il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, il tema che coinvolge le riflessioni in Israele è tornato a essere l'Iran. La penetrazione in Medio Oriente della Repubblica islamica, che con lo stato ebraico ha un'inimicizia comune, è un fattore di rischio enorme per Gerusalemme - che da tempo combatte con pezzi di quella galassia di proxy con cui i Pasdaran hanno rafforzato negli anni la presenza iraniana nella regione.
  In cima ai nemici israeliani tra le milizie sciite con cui Teheran ha penetrato il tessuto socio-politico, ed economico-militare, di alcuni paesi ci sono la libanese Hezbollah e la palestinese Hamas. Da tempo le intelligence israeliane denunciano il tentativo iraniano di trasformare parti della regione, come per esempio la Siria, in una piattaforma avanzata per attaccare lo stato ebraico. Da anni Israele ha iniziato una campagna di operazioni preventive per impedire ai Pasdaran di sfruttare il contesto caotico siriano, ma anche iracheno, per passare armi alle proprie forze collegate.
  Oggi il Jerusalem Post ha pubblicato un articolo analitico che sembra la sintesi di un seminario militare. La domanda iniziale è piuttosto chiara: cosa succederebbe se Israele venisse colpito da un attacco simile a quello di settembre contro la Saudi Aramco? Flashback: a metà settembre una salva sofisticata di missili e droni kamikaze ha colpito due impianti petroliferi dell'Arabia Saudita, producendo un danno pazzesco che ha dimezzato le produzioni petrolifere di Riad. L'azione è stata rivendicata dai ribelli yemeniti Houthi, contro cui i sauditi sono in guerra da quattro anni.
  Gli Houthi hanno collegamenti con l'Iran. Quanto meno ricevono da Teheran - o meglio: dai Pasdaran - supporto negli armamenti. Due giorni fa un cacciatorpediniere americano ha bloccato un peschereccio nel Mar Arabico, e quando i Marines sono scesi a bordo per un controllo hanno trovato componenti per missili spediti dall'Iran verso lo Yemen. La guerra civile yemenita è di fatto un dossier che l'Iran ha sfruttato per guerreggiare per procura contro l'Arabia Saudita - e viceversa.
  Tornando alla domanda del Jerusalem Post, due le opzioni di risposta. Israele potrebbe agire direttamente contro i responsabili dell'attacco, pur sapendo che dietro c'è la mano iraniana. Per esempio, se subisse un attacco dagli Houthi (eventualità piuttosto remota, ma non del tutto impossibile) potrebbe rispondere attaccando in Yemen. Ma questo lascerebbe spazio all'Iran, che troverebbe una risposta tutto sommato morbida: per un attacco di cui sarebbe responsabile ultimo, o mandante, non subirebbe ritorsioni dirette.
  Da qui la seconda opzione: un attacco diretto contro l'Iran. L'opzione aerea è chiaramente quella preferita - il J-Post riporta anche le possibili rotte di azione dei bombardieri - e si sofferma su quella missilistica. Oggi la forza aerea israeliana ha testato un nuovo vettore dalle aree centrali del paese, e non sfugge che questo genere di prove militari sono anche un messaggio di deterrenza.
  Certamente l'Iran potrebbe rispondere, e quella che si scatenerebbe sarebbe una guerra totale. Israele, i regni del Golfo, e gli Stati Uniti nell'arco degli ultimi sei mesi hanno fortemente implementato la costruzione di un blocco con cui contrastare la diffusione - e conseguente crescita di influenza - iraniana nel Medio Oriente. Gli Usa hanno dispiegato migliaia di militari in più nella regione, andando contro una delle promesse del presidente - ossia il disingaggio dal quadrante. Israele ha costantemente colpito i traffici di armi con cui i Pasdaran finanziano le milizie collegate.
  Ma nonostante questo, Teheran non si ferma. C'è un motivo esistenziale: l'Iran sa che se arretra i suoi nemici possono prevaricarlo. C'è la volontà di giocare influenza geopolitica comunque, per un paese che da sempre ha mire espansionistiche. Poi c'è anche una ragione di carattere economico, sostanzialmente collegata alle prime due. Questa l'ha spiegata uno dei saggi dietro al gruppo militare teocratico (i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, sono direttamente collegati alla Guida suprema).
  Hassan Abbasi ha detto in televisione (non senza spinta propagandistica, ci si arriva. Ndr) che il ritorno di investimenti come quello che il capo delle operazioni estere dei Pasdaran, il generale Qassem Soulimani, ha progettato in Siria è di "uno a mille". E ancora: i 70 milioni di euro investiti per combattere l'IS in Iraq attraverso la creazione di un raggruppamento di quelle milizie, dice Abbasi, hanno portato all'Iran 14 miliardi di contratti commerciali con Baghdad. Se fossero veri i dati sarebbero di certo investimenti proficui - tralasciando il sacrificio di sangue a cui molti iraniani sono stati chiamati.
  Val la pena sottolineare che però queste parole arrivano in un momento delicato. In Iraq come in Iran da settimane migliaia di persone protestano anche contro questo piano di influenza, giocato come una potenza con mire egemoniche, quando in casa la situazione economica stalla. In Iraq chi è sceso in strada ha più volte cantato "fuori l'Iran", esasperazione contro quella presenza pressante nel paese. In Iran si marcia contro il caro del carburante e si finisce per contestare certe scelte del governo.
  In entrambe le situazioni i Pasdaran hanno avuto un ruolo nel reprimere le proteste. Risultato: cecchini delle milizie filo-iraniane avrebbero sparato sulla folla in diverse città irachene (dove il bilancio dei morti durante le manifestazioni ha superato i quattrocento); in Iran la polizia e l'esercito hanno aperto il fuoco contro i manifestanti (e secondo Brian Hook, che per la Casa Bianca gestisce il dossier Iran, i morti sarebbero altri mille). Teheran spinge la propria politica estera velenosa ed è disposto a esporsi con la repressione per difenderla. Anche questa è una forma di deterrenza sul convincimento con cui i Pasdaran difendono questa traiettoria. Una forza che preoccupa Israele e non solo.

(formiche, 6 dicembre 2019)


Repubblica Ceca - L'esercito acquista radar 3d da Israele

L'esercito ceco acquisterà otto radar 3d da Israele per 3,5 miliardi di corone (135,7 milioni di euro). Come riferito dall'emittente radiofonica "Cesky rozhlas", nella giornata di ieri 5 dicembre, è stato firmato un accordo intergovernativo tra Repubblica ceca e Israele alla presenza di rappresentanti israeliani e del ministro della Difesa ceco, Lubomir Metnar. I radar saranno consegnati in tra il 2020 e il 2023. Metnar ha commentato positivamente l'operazione, affermando che aumenterà in modo significativo le capacità difensive della Repubblica Ceca. I radar israeliani sostituiranno tecnologie russe ormai obsolete già in dotazione all'esercito ceco.

(Agenzia Nova, 6 dicembre 2019)


L'Australia mette in allerta Israele sulla Cina

Davide Bartoccini

Andrew Hastie
Un ex delle forze speciali australiane, oggi a capo della commissione d'intelligence del governo di Canberra, avverte Israele: "Guardatevi dalla minaccia cinese". Complice di questa preoccupazione, la vicenda oscura di un uomo di Pechino - una spia - che è misteriosamente morto dopo aver rivelato le intenzioni dell'intelligence cinese che stava "finanziando" la sua ascesa in politica.
  Non è un segreto che la Cina, potenza in ascesa in Oriente come in Occidente, stia usando tutte le strategie possibili, e stia investendo miliardi di dollari per aumentare la sua influenza economica, politica e militare in tutto il globo. Nonostante la prudenza delle democrazie occidentali, e la contrapposizione degli Stati Uniti, Pechino è arrivata, con i suoi programmi economici e i suoi investimenti, a "colonizzare" importanti aree dell'Africa, e vendere o "acquisire" in molte parti dell'Europa, rivolgendo il suo interesse e portando le sue proposte anche in Medio Oriente. Dunque anche in Israele. Secondo quanto riportata dal sito israeliano Haretz , che si è avvalso dell'opinione di Andrew Hastie, ex membro dello Special Air Service australiano (omologo del corpo d'élite britannico), sceso nel campo della politica ed eletto presidente della Commissione per l'intelligence e la sicurezza, Israele dovrebbe "guardarsi le spalle" da avere Pechino così vicina, e nel concederle appalti di rilievo che lambiscono siti d'importanza strategica per l'apparato di Difesa di Tel Aviv.
  Da sempre detrattore di Pechino e antagonista della crescente influenza che la Repubblica popolare cinese vuole imporre nella regione del Pacifico - operando anche attraverso "interferenze nella politica e nell'economia" australiana, come in quelle e di altre nazioni occidentali -, il politico australiano a cui è stato recentemente negato il visto per presenziare nella capitale comunista date le sue critiche sulla politica cinese e sulle violazioni dei diritti umani perpetrate contro gli uiguri nella provincia dello Xinjiang, ha "allertato" Israele ai margini di una conferenza incentrata sulla strategia politica. Quella che viene definita "la minaccia cinese" deve essere necessariamente monitorata; a parer suo, Israele sta concedendo troppo spazio agli investimenti cinesi e nella concessione di appalti che riguardano il porto di Haifa - a pochissima distanza dalle basi che custodiscono i sottomarini con armamenti nucleari (si suppone); quella per la costruzione dei tunnel della metropolitana leggera di Tel Aviv - che si trovano a poche decine di metri dalla sede dello stato maggiore e dell'intelligence militare (l'Anam); e quella appena annunciata della costruzione della prima centrale elettrica privata.

 L'avvertimento australiano
  "Le agenzie di intelligence australiane ci hanno dimostrato come negli ultimi due anni l'Australia sia stata il bersaglio di livelli senza precedenti di spionaggio e interferenze straniere", ha riportato il politico australiano. Motivo per il quale il suo Paese - membro della famosa rete d'intelligence occidentale nota come Five Eyes - ha vietata l'adesione alla tanto discussa rete ad alta velocità 5G, e ha monitorato con la massima attenzione gli investimenti esteri sul suolo patrio. "Si tratta di costruire la resilienza nel nostro sistema; gli stati autoritari usano la coercizione economica, la guerra politica, gli attacchi informatici e lo spionaggio per creare leva", ha detto Andrew Hastie ai suoi interlocutori israeliani, invitandoli a seguire la linea del suo Paese: "I Paesi democratici devono adottare misure interne per proteggersi da queste minacce. L'Australia ha aperto la strada in questo senso."
  Sul fronte israeliano questa "preoccupazione" sembra iniziare a circolare nei corridoi della Knesset solo dopo gli ultimi moniti e dopo le ultime riflessioni: dato che il premier Benjamin Netanyahu ha aperto le porte alla Cina nell'ultimo decennio, permettendole di aumentare la sua presenza nell'economia israeliana, e di accedere come forza lavoro e portatrice di know-how in molte infrastrutture sensibili - apertura che sarebbe stata ripagata, secondo alcune voci, dal lavoro di spie e hacker cinesi che avrebbero sottratto segreti militari ai principali appaltatori della difesa israeliana con cui hanno avuto la possibilità di lavorare. Ora che questo monito è stato raccolto dall'intelligence australiana, ed è stato sommato ad altre "perplessità" riscontrate negli ultimi tempi, Israele sembra essersi accorta del rischio, e alcune settimane fa la Knesset (tutt'ora oggetto dell'impasse politico) ha deciso comunque di istituire "un comitato speciale guidato dal ministero delle finanze per riesaminare la politica di investimento estera". Hastie ha elogiato la decisione commentando: "Meglio tardi che mai".

 La morte della "talpa" australiana
  Intanto nella "Terra dei canguri" le autorità, ben più preoccupate nell'ingerenza cinese a causa della vicinanza regionale, continuato a indagare sulla misteriosa morte di Bo Zhao, un imprenditore rampante di origine cinese che è stato trovato morto nella sua stanza d'albergo di Melbourne. Mr. Zhao aveva mostrato delle forti ambizioni politiche, ma anche dietro questo "interesse" spassionato aleggiava lo spettro di Pechino. Secondo le rivelazioni dello stesso Zhao - che si era rivolto ai servizi segreti australiani - l'intelligence cinese lo aveva abbordato per reclutarlo segretamente e farlo eleggere in parlamento. Nei palazzi del potere di Canberra avrebbe dovuto fare la "spia" e riferire tutto a Pechino; in cambio avrebbe ricevuto un milione di dollari australiani. Dopo essersi rifiutato e aver rivelato tutto all'Asio (servizi segreti interni australiani) Pechino lo avrebbe accusato di tradimento, e nonostante sia ancora un'ipotesi, lo avrebbe in seguito eliminato. Un atteggiamento senza dubbio poco affabile, che se confermato, non farebbe altro che mostrare come i vecchi regimi autoritari agiscano ancora in maniera molto differente rispetto alle nostre "nuove" democrazie occidentali.

(Inside Over, 6 dicembre 2019)


Ecco perché ora nel Labour sono tutti contro Corbyn

di Pasquale Ferraro

Secondo il filosofo francese Francois Félicité-Robert de La Mennais "il passato è come una lampada posta all'ingresso del futuro". Ne sa qualcosa Jeremy Corbyn, leader del partito laburista, trascinato nell'occhio del ciclone proprio dai sospetti derivanti dal suo passato: ciò accade a pochi giorni dal voto più importante per la storia recente del Regno Unito.
   Dopo essere andato nettamente al tappeto nel duello contro il rampante - e sempre più in ascesa - Primo Ministro Boris Johnson, su Corbyn sono ripiombate come una valanga le gravi accuse, secondo le quali sarebbe un "fottuto antisemita", per dirla con le colorite parole utilizzate dalla deputata Laburista Margareth Hodge e riportate, in Italia, dal Corriere della Sera. Il sospetto di antisemitismo ha sempre aleggiato sulla figura di Corbyn, il quale pare essersi sempre impegnato a confermare i sospetti con le proprie azioni, tanto da spingere 67 esponenti del Labour Party ad acquistare una pagina sul The Guardian, per denunciare i comportamenti del leader.
   Tuttavia, a porre di nuovo sotto i riflettori la problematica non sono state le accuse dei colleghi di partito, né le numerose fughe di intellettuali e finanziatori storicamente legati ai laburisti, ma due interventi che vanno ben oltre l'orizzonte tout court del dibattito politico. Infatti, a parlarne, è stato in un editoriale sul The Times il Rabbino Ephraim Mirvis, Capo del Regno Unito e del Commonwealth, rivolgendo ai lettori e a se stesso una domanda netta e devastante per i laburisti, ossia: "che ne sarà degli ebrei e dell'ebraismo britannico se i laburisti formeranno il prossimo governo?". Fatto ancora più sorprendente è l'adesione alla preoccupazione di Mirvis dell'Arcivescovo di Canterbury - Capo spirituale della Chiesa d'Inghilterra - Justin Welby.
   Questo deriva dalle ben note simpatie di Corbyn verso organizzazioni come Hamas o Hezbollah, ampiamente dimostrate anche dalla sua partecipazione ad una cerimonia in onore di uno dei terroristi responsabili del sequestro e dell'uccisione degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, per non parlare di un incontro con il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, poco prima che la stessa organizzazione effettuasse un attentato alla sinagoga di Gerusalemme in cui rimasero uccisi quattro rabbini di cui uno Inglese. Non pago di tutto ciò partecipò anche ad una conferenza al fianco di Khaled Meshaal, leader di Hamas e già sulla "Black list" del Regno Unito. Sempre Corbyn definì "fratello" un certo Abu Azizi Umar condannato a sette ergastoli per aver cercato di realizzare un attentato in un ristorante di Gerusalemme. Tutto ciò deve essere sommato ad una derivante visone della politica internazionale nettamente contraria allo stato ebraico e accondiscendente verso le organizzazioni terroristiche di matrice araba. L'antisemitismo talvolta nascosto sotto la patina di un più sdoganato politically correct "antisionismo", nasconde invece nel profondo un odio verso il popolo ebraico e verso le sue legittime aspirazioni storiche di cui troppo spesso ambienti della sinistra radicale si macchiano nel totale oblio della stampa e del mondo intellettuale. Sicuramente tutto ciò danneggerà - e non poco - la campagna elettorale dei laburisti. A ciò potrebbe aggiungersi anche la palesata ostilità di Corbyn verso la monarchia, essendosi sempre dichiarato repubblicano.
   Questo dà la misura del dramma shakespeariano in cui si è infilata la sinistra britannica. Non rimane che attendere il risultato delle urne, rammentando le parole di W. Shakespeare nel suo "Giulio Cesare": "gli uomini in certi momenti sono padroni del loro destino, la colpa, […], non è delle nostre stelle, ma nei nostri vizi".

(l'Occidentale, 6 dicembre 2019)


«Se la sinistra non è antisemita faccia due cose per Israele»

Il ministro degli Esteri di Netanyahu chiede al governo giallorosso di riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato ebraico e di sostenere le sanzioni Usa all'Iran.

di Andrea Morigi

 
Yisrael Katz
Qualcuno inizia a sfilarsi dalla raffica annuale di risoluzioni anti-Israele approvate dalle Nazioni Unite. Durante le votazioni all' assemblea generale del Palazzo di Vetro, martedì 4 dicembre, una serie di Paesi europei, undici per l'esattezza, nello specifico Germania, Repubblica Ceca, Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, Romania e Slovacchia, oltre a due delegazioni dell'America Latina, il Brasile e la Colombia, invece di astenersi come facevano di solito, hanno espresso il loro voto contrario alla condanna degli insediamenti ebraici nel Golan. È solo un inizio, ma Yisrael Katz, il ministro degli Esteri dello Stato ebraico, si rallegra della «posizione espressa da un gruppo significativo di Paesi contro la discriminazione nei confronti di Israele». Lo giudica un progresso nella lunga lotta contro l'avversione verso Gerusalemme ed esprime la speranza che «gli altri membri dell'Unione Europea adottino presto la stessa posizione».

 Cambio di rotta
  L'Italia, la Francia e il Regno Unito ancora non hanno trovato il coraggio di opporsi, mentre Malta e, inspiegabilmente, Cipro si sono schierati con i Paesi islamici che chiedono di cancellare «l'entità sionista» prima dalla storia e poi dalle cartine geografiche.
  Ci vorrà del tempo prima di ribaltare la politica filo-araba iniziata negli anni '70 del secolo scorso dai governi democristiani in Italia. Ma lo Stato ebraico ha tutta la pazienza necessaria e sa cogliere tutti i segnali positivi.
  In visita a Milano, presso l'associazione culturale Noam, Katz anticipa i contenuti della sua offensiva diplomatica che coinvolgerà Roma. Oggi chiederà innanzitutto al suo omologo Luigi Di Maio di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi anche l'ambasciata italiana, come hanno già fatto gli Stati Uniti per primi. Sarebbe un atto simbolico, sebbene di grande significato politico, per combattere quella forma di razzismo che tenta di negare il legame fra il popolo ebraico e Israele e fra quest'ultimo e la sua capitale. In Francia da pochi giorni è stata approvata dal Parlamento una mozione che condanna l' antisionismo. «È un passo importante nella lotta all'antisemitismo e mi auguro - ha detto Katz - che altri paesi seguano l'esempio della Francia».
  Se esista una maggioranza a Montecitorio e a Palazzo Madama in grado di esprimersi in termini chiari sulle nuove dinamiche politiche e ideologiche dell'odio antiebraico, è tutto da vedere. Magari la Commissione Segre sul razzismo potrebbe provare a verificarlo. Se può servire a sensibilizzare gli animi tiepidi, è rinata in Italia l'Udai, Unione democratica amici di Israele, per combattere l'antisemitismo, soprattutto di matrice fondamentalista islamica, come tengono a sottolineare i promotori dell'iniziativa.

 Stato terrorista
  Intanto Katz incalza l'Italia ad accettare una nuova sfida: sostenere, affinché siano più efficaci, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all'Iran per esercitare la massima pressione contro uno Stato che, oltre a minacciare Israele, spara contro i propri cittadini. I rinnovati tentativi di Teheran di costruire armi atomiche e il sostegno al terrorismo internazionale dovrebbero essere sufficienti a convincere anche i più scettici. Sconfitto lo Stato Islamico, la minaccia non si è estinta: ora occorre anche «un'efficace azione militare di una coalizione arabo-occidentale guidata dagli Stati Uniti che scoraggi l'aggressione iraniana. Questi sono momenti critici», osserva Katz.
  La collaborazione con l'unica democrazia del Medio Oriente, a quel punto potrebbe proseguire con la partecipazione a un progetto per collegare i Paesi del Golfo, e anche la Libia, con una ferrovia fino all'Europa. Katz è stato ministro dei Trasporti in passato e ha reinventato le infrastrutture del Paese. Ci si può affidare alla sua competenza. E si potrebbe continuare a sviluppare la cooperazione bilaterale in settori come l'high tech, la sanità, la sicurezza, l' agricoltura.

 Corbyn
  Infine, un avvertimento ai nemici di Israele: Katz si è augurato inoltre che Jeremy Corbyn perda le prossime elezioni politiche nel Regno Unito e ha invocato come motivo le accuse rivolte al leader laburista inglese di antisemitismo. «Non voglio immischiarmi in elezioni interne - ha detto ieri alla Radio militare, citata dai media - ma personalmente spero che non sia eletto, con tutta questa ondata di antisemitismo ... Spero - ha concluso - che a vincere sia l'altra parte».
  In visita in Italia in occasione dei Med Dialogues, la conferenza internazionale organizzata da Ministero degli Esteri e Ispi, il ministro è in queste ore a Roma dove ha in agenda diversi incontri tra cui quelli odierni con il leader della Lega Matteo Salvini e il leader del Pd Nicola Zingaretti, mentre sempre oggi incontrerà una delegazione formata dalla presidente Ucei Noemi Di Segni, dal rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni e dalla presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello.

(Libero, 6 dicembre 2019)


Angela Merkel ad Auschwitz per la prima volta

Prima visita ad Auschwitz per la cancelliera tedesca Angela Merkel per celebrare il decimo anniversario dell'ente finanziato da Berlino che ha il compito di gestire il sito.

di Roberto Vivaldelli

Il Campo di sterminio nazista di Auschwitz è diventato, per il mondo, il simbolo dell'Olocausto, dello sterminio e del terrore.Venne creato dai tedeschi alla metà del 1940, nei dintorni di O?wi?cim, città polacca annessa dai Tedeschi al Terzo Reich. Il nome della città venne modificato in Auschwitz e questo divenne anche la denominazione del campo. Oggi la cancelliera tedesca Angela Merkel, per la prima volta da quando è in carica, è arrivata per una visita ufficiale all'ex campo di concentramento, in occasione del decimo anniversario dell'ente finanziato da Berlino che ha il compito di gestire il sito, la Fondazione Auschwitz-Birkenau. La cancelliera ha raggiunto Auschwitz in compagnia del presidente polacco Mateusz Morawiecki e osservato un minuto di silenzio davanti la Muro della Morte dopo aver varcato il cancello con la tristemente celebre scritta "Arbeit macht frei". A metà giornata pronuncerà un discorso in memoria delle vittime dell'Olocausto.
   Come spiega l'Agi, Merkel ha annunciato la concessione di 60 milioni di euro alla Fondazione Auschwitz-Birkenau per la manutenzione del sito. Successivamente, la cancelliera visiterà anche Birkenau, a tre chilometri dal campo principale, in particolare la rampa in cui i deportati venivano "selezionati" quando scendevano dai treni trasporto animali. La causa diretta della creazione del campo, ricorda il sito ufficiale della fondazione, fu l'aumento del numero di polacchi arrestati dalla Polizia tedesca e la conseguente saturazione delle carceri. All'inizio doveva trattarsi solo di un altro dei campi di concentramento creati nell'ambito del sistema di terrore nazista fin dall'inizio degli anni Trenta. Infatti, il campo svolse questa funzione per tutto il periodo della sua esistenza, anche quando, dal 1942, divenne gradualmente il principale centro di sterminio di massa degli ebrei. La localizzazione del campo, praticamente al centro dell'Europa occupata dai nazisti, insieme al buon collegamento infrastrutturale fecero sì che le autorità tedesche decidessero di ingrandirlo a dismisura e vi deportassero persone da quasi tutto il continente europeo.
   Per tutto il suo periodo di esistenza, Auschwitz ricoprì la funzione di campo di concentramento, diventando, nel corso degli anni, il più grande dei campi tedeschi. Le forze di occupazione, nel primo periodo di esistenza del campo, vi spedirono soprattutto polacchi e persone ritenute particolarmente pericolose, quindi: membri dell'élite della nazione polacca, i principali esponenti politici, sociali e spirituali, rappresentanti degli intellettuali, della cultura, della scienza, partecipanti ai movimenti di resistenza, ufficiali militari. Col tempo, le autorità tedesche cominciarono ad inviare al Campo anche gruppi di prigionieri provenienti da altri paesi occupati, così come rom e prigionieri di guerra sovietici. Venivano registrati e marchiati con un numero. Dal 1942, all'elenco del campo vennero aggiunti e registrati anche gli ebrei dei trasporti di massa inviati allo sterminio ma che, all'atto della selezione, venivano considerati dai medici delle SS idonei al lavoro oppure scelti per esperimenti medici criminali.

(il Giornale, 6 dicembre 2019)


"Quel gran pericolo di Corbyn"

Dal ministro degli Esteri d'Israele all'ex capo delle spie inglesi. Una rivolta

Il ministro degli esteri israeliano Israel Katz si è augurato che Jeremy Corbyn perda le prossime elezioni politiche e ha invocato come motivo le accuse rivolte al leader laburista inglese di antisemitismo. "Non voglio immischiarmi in elezioni interne - ha detto Katz alla Radio militare - ma personalmente spero che non sia eletto, con tutta questa ondata di antisemitismo... Spero che a vincere sia l'altra parte". Si fatica ormai persino a tenere il conto delle voci ebraiche che scongiurano una elezione del Labour. La scorsa settimana era stato il rabbino capo d'Inghilterra, Ephraim Mirvis, a scendere in campo parlando di un'eventuale elezione di Corbyn come di una sciagura per gli ebrei. Anche l'ex capo dell'MI6 ha definito il leader laburista come un pericolo per la sicurezza nazionale. Sir Richard Dearlove ha spiegato che Corbyn rappresenterebbe un "pericolo per il nostro paese" se avesse accesso a documenti top secret. "Oggi, nella casa della democrazia parlamentare, ci troviamo di fronte alla possibilità che un leader del Partito laburista che una volta preferiva il modello politico ed economico della Germania dell'est possa diventare primo ministro" ha scritto Dearlove. "Non penso nemmeno al rischio di consegnare a questo politico le chiavi del numero 10". E qui le due denunce, di parte ebraica e dell'establishment di sicurezza, convergono. Corbyn, infatti, ha abbracciato organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah, ha prestato il suo volto alla tv del regime iraniano Press Tv e sostiene regimi come il Venezuela di Maduro o, negli anni Novanta, la Serbia di Milosevic. "Corbyn ha le opinioni più radicali sulla sicurezza nazionale di qualsiasi leader nella storia del Partito laburista" scrive l'Economist. Non ha soltanto flirtato con i nemici degli ebrei e di Israele, ma anche della democrazia occidentale.

(Il Foglio, 6 dicembre 2019)


Poveri ma kosher alla mensa ultraortodossa

Gestita dal movimento Chabad Lubavitch, è l'unica a Milano a fornire piatti cucinati secondo la tradizione ebraica. Un presidio aperto a tutti, ovviamente musulmani compresi.

di Luigi Mastrodonato

 
MiLANO. Beteavòn, "buon appetito". È questo il nome che nel 2014 la scuola del Merkos di via delle Forze Armate, a Milano, ha dato a quella che è la prima e al momento unica cucina sociale kosher in città. Un nome che è anche un auspicio per tutte quelle persone bisognose che qui possono trovare dei pasti pronti e gratuiti.
  L'associazione del Merkos è il ramo educativo del movimento ebraico Chabad Lubavitch, dottrina ultra ortodossa nata in Bielorussia e diffusissima nel mondo. Chabad è l'acronimo di Chochmah, Binah, Da'at, cioè saggezza, comprensione e conoscenza, mentre Lubavitch significa "città dell'amore" ed è il nome del villaggio russo dove tutto iniziò a metà del 1700.
  La scuola milanese esiste dal 1959 e quest'anno festeggia i suoi cinquant'anni. Da piccolo asilo nido si è trasformata in un grande istituto che arriva fino al liceo e che conta oltre 200 alunni. Ebrei soprattutto, ma non solo, che studiano le materie scolastiche classiche e dedicano anche qualche ora alla preghiera. All'inizio l'alimentazione dell'istituto era curata da servizi di catering, ma i costi si sono rivelati insostenibili. Da qui la scelta di dotarsi di una mensa interna. Poi , però, si è deciso di andare oltre. «Ci siamo resi conto che con un piccolo sforzo ulteriore potevamo incidere sul territorio: così è nata l'idea di creare una cucina sociale», spiega il rabbino Rav Igal Hazan, direttore dell'iniziativa. «Peraltro mancava un'offerta kosher a Milano e abbiamo voluto colmare questo vuoto». Così i volontari del Merkos hanno preso postazione dietro ai fornelli e si sono messi a cucinare, fedeli alle regole della Kasherut: carne e latticini non possono essere mescolati, carni come il maiale e il coniglio non sono consentite e la macellazione va eseguita da un rabbino. Dalla cucina escono pietanze della tradizione ebraica, come la Challah, tipico pane intrecciato, o lo Shakshuka, una mistura di uova e verdure.

 Cl vorrebbe un amico
  Una parte finisce sui tavoli degli alunni, un'altra entra nel circuito dell'assistenza sociale. Quello della povertà è infatti un problema molto sentito a Milano: nel solo 2018, rivela la Caritas, sono state 18 mila le famiglie che hanno chiesto un qualche tipo di aiuto alimentare. Ogni mese alla Beteavòn vengono cucinati 1.500 pasti, 50 mila nei primi quattro anni di attività. Cinquanta volontari cucinano, impacchettano e distribuiscono casa per casa insieme alla Caritas. La mensa, infatti, sorge nel Municipio 7 di Milano, ma grazie alla donazione di una macchina i volontari hanno ampliato il loro raggio d'azione e portano cibo anche in altre zone della città.
  Spesso il disagio economico non è l'unico criterio di aiuto. «In una metropoli come Milano esiste anche un problema di solitudine» sottolinea il rabbino. «Il pasto è il momento conviviale per eccellenza, a tutti piace arrivare a casa e avere qualcosa di caldo che ci aspetta, ma per molti non è possibile. I volontari parlano e aiutano le persone a sentirsi meno sole». Come i ricoverati in ospedale, i disoccupati, gli anziani. Con una coppia sopravvissuta alla Shoah i volontari hanno creato un legame molto stretto. «La distribuzione del cibo è diventato un modo per conoscerli, gli ha permesso di raccontare la loro storia, di aprirsi e liberare emozioni forti», sottolinea il rabbino. Il pasto può diventare un pretesto per aiutare le persone». Il lavoro dei volontari, poi, non si esaurisce nel servizio a domicilio. Due volte a settimana si spostano in piazza, in collaborazione con la Comunità di Sant'Egidio.
  È una fredda serata autunnale e diverse decine di persone stanno ordinatamente in fila davanti alla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi. Attendono di ricevere il piatto kosher cucinato dai volontari della Beteavòn. Ci sono cinesi, ecuadoregni, magrebini, egiziani, italiani. Nessuna discriminazione religiosa. Molti di coloro che sono in fila sono di fede musulmana. La natura kosher delle pietanze li tutela, perché l'alimentazione ebraica ha tratti comuni con i cibi halal islamici.ad esempio il divieto di mangiare maiale.

 In strada con i City Angels
  In piazza l'aria è rilassata, le persone si conoscono, scambiano battute. «Vengono più o meno sempre gli stessi, in maggioranza senza dimora», spiega Marco, uno dei volontari della mensa. «Si passano la voce e si ritrovano qui. Non ci sono liste: vieni, ti metti in coda e ritiri il piatto». Terminata la distribuzione del cibo, i volontari tirano fuori i vestiti. Una signora chiede se c'è una taglia più grande di un impermeabile, un ragazzo tunisino prova un paio di scarpe. «È gente che ha bisogno di aiuto e noi cerchiamo di dargli una mano sotto tutti i punti di vista», racconta Marco.
  Presto la cucina sociale Beteavòn si arricchirà di un ulteriore progetto. Si chiama "Una mano per …" e riguarderà la distribuzione di cento pasti al giorno ai migranti che si trovano a Milano. Verranno coinvolti i City Angels e le istituzioni, ma il centro di tutto sarà ancora una volta la scuola del Merkos, dove i volontari prepareranno i pasti. «Vogliamo essere un modello per altre realtà pubbliche e private affinché mettano le loro strutture al servizio della società, come è per la nostra cucina», conclude il rabbino. «Siamo una briciola nel contesto sociale milanese, nel nostro piccolo sentiamo però di stare facendo qualcosa di importante».

(Venerdì di Repubblica, 6 dicembre 2019)


«In Cisgiordania giovani imprenditori che hanno voglia di fare. Oltre la politica»

La vice-ministra agli Esteri Marina Sereni: «C'è pessimismo sul percorso negoziale, ma una nuova generazione vuole tirarsi fuori». L'incontro con l'omologa israeliana Tzipi Hotove]y: «Un dialogo franco, come si fa tra amici».

di Barbara Uglietti

 
Marina Sereni
E' appena rientrata da una missione in Medio Oriente, la vice-ministra degli Esteri Marina Sereni, e, con (rara) franchezza, prova a fare spazio tra i problemi che da anni bloccano la regione per spostare il ragionamento su quello che «intanto» si può fare. Il suo viaggio è iniziato da Ramallah in Cisgiordania - dove ha aperto il Joint Business Forum: summit italo-palestinese che punta a rafforzare la partnership economica tra i due Paesi - e si è concluso a Gerusalemme.

- Voi siete andati a parlare di business e sviluppo e il premier palestinese Mohammed Shtayyeh ha chiesto che l'Italia riconosca la Palestina come Stato.
  Sì. E noi abbiamo ribadito la nostra posizione: non siamo contrari al riconoscimento dello Stato palestinese, ma pensiamo che questa carta vada giocata sul tavolo del negoziato. Shtayyeh ha però impostato il suo discorso soprattutto sulle prospettive economiche. Mi è sembrato particolarmente ricettivo su un punto: creare ricchezza e lavoro può essere la chiave per far ripartire il processo di pace, dentro l'orizzonte dei "Due Stati".

- Una prospettiva cui i palestinesi per primi sembrano non credere più.Perché non c'è continuità territoriale in Cisgiordania. E perché gli interlocutori non sono due ma tre, visto ci sono di mezzo pure gli estremisti di Gaza, non esattamente in sintonia con l' Anp.
  È nostro preciso dovere sostenere la soluzione dei "Due Stati", che ha una sua logica sotto il profilo della legalità internazionale. Detto questo, è vero: sul territorio l'idea sta perdendo concretezza, soprattutto tra i ragazzi palestinesi, che sembrano più tentati da una "One State Solution" realizzata con pari diritti per tutti. Obiettivo interessante sulla carta, ma irrealistico. Al netto di un pessimismo diffuso sul percorso negoziale, c'è però molta voglia di fare, in Cisgiordania. C'è molta determinazione. C'è una generazione di giovani imprenditori che vuole tirarsi fuori. E che ci chiede collaborazione.

- In quali settori?
  I tradizionali: agricoltura, turismo e infrastrutture. Ma cresce molto l'hi-tech. Il premier Shtayyeh si è detto pronto a predisporre regole amministrative per facilitare le aziende straniere. Sappiamo che qui si viene a fare un "business unusual", ma è un'opportunità. Soprattutto adesso che stiamo assistendo alla nascita di una "nuova" Europa, più flessibile.

- Poche settimane fa la "vecchia'' Europa ha fatto infuriare Gerusalemme sul tema delle etichettature dei prodotti provenienti dai Territori (non dovranno più recare la dicitura «Made in lsrael»). Tanta solerzia è stata letta come una presa di posizione politica contro un Paese peraltro già costretto a confrontarsi con inaccettabili operazioni di boicottaggio internazionale. Lei ha incontrato la sua omologa israeliana, Tzipi Hotovely (Likud). Ne avete parlato?
  Certo. Ho ribadito che non è stata una decisione contro Israele ma a tutela dei consumatori europei. E ha manifestato con limpidezza il suo dissenso. Ricollocando al centro dell'attenzione i gravi problemi di sicurezza che Israele deve affrontare ogni giorno, a cominciare dalla minaccia iraniana. Ma è chiaro che non si può andare d'accordo su tutto. Una divergenza di opinioni è inevitabile in un dialogo sincero tra amici. E Israele, su questo non ci sono dubbi, è nostro amico.

(Avvenire, 6 dicembre 2019)


Gli israeliani senza burro, lo yogurt rende di più

Se ne produce meno perché i prezzi sono bloccati

di Marta 0liveri

 
In Israele il blocco dei prezzi del burro ha determinato il calo della produzione e gli israeliani ripiegano sugli yogurt. I panetti latitano sugli scaffali dei negozi. Oggi è diventato davvero difficile trovare un panetto di burro al supermercato o in un negozio di alimentari a Gerusalemme come a Tel Aviv. Chi riesce a comprarlo è come se avesse vinto la lotteria. I rifornimenti sono lasciati in balia della sorte e i panetti spariscono appena vengono esposti. Alcuni negozi preferiscono razionarli, limitando l'acquisto a 200 grammi di burro per cliente. La carenza di burro da temporanea, com'era inizialmente, è diventata poi, nel corso dei mesi, ormai cronica oggi, secondo quanto ha riportato Le Figaro.
   Il fenomeno è collegato a una pluralità di fattori: il calo della produzione locale, la diminuzione delle importazioni e l'aumento dei consumi a scapito della margarina, prodotto considerato di bassa qualità. Alcuni specialisti vi vedono una conseguenza del controllo dei prezzi e della posizione dominante sul mercato dello storico gruppo Tnuva, cooperativa che raggruppa persone dei kibbutzim e dei mochavim di Israele (villaggi formati da aziende familiari riunite in cooperativa). Pretendono che i fornitori di prodotti lattieri ignorino la richiesta di burro con l'obiettivo di protestare contro il controllo dei prezzi dal momento che è proprio a causa di questo blocco dei prezzi che, dicono, subiscono perdite finanziarie. Questi produttori preferiscono utilizzare il latte per produrre yogurt perché i prezzi di questo alimento non sono bloccati dal governo.
   Sebbene Tnuva, che controlla il 50% del mercato lattiero-caseario, abbia aumentato la propria produzione di burro del 28%, non ha risposto alla domanda complessiva. Il gruppo agroalimentare dovrà fare un altro sforzo supplementare in una terra, che secondo la Bibbia, va avanti con latte e miele.

(ItaliaOggi, 6 dicembre 2019)


Tikkun Olam, dalla tradizione alla contemporaneità

Storia e complessità di un valore ebraico, attualmente di moda

di Silvia Gambino

Un ebreo americano va in vacanza in Israele, sale su un taxi e tra una chiacchiera e l'altra domanda al conducente: "Com'è che si dice tikkun olam in ebraico?". Questa barzelletta fa il verso alla popolarità - o meglio, a un presunto abuso - dell'espressione tikkun olam negli ambienti ebraici progressisti. Di tikkun olam si sente effettivamente parlare spesso, e in un modo che alle volte suggerisce quasi un suo appartenere ai must have dell'ultima stagione: dove vai oggi senza lo zenzero, lo spazzolino di bambù e il tikkun olam? Naturalmente, chi utilizza questa espressione nel contesto contemporaneo non lo fa certo con l'intenzione di inflazionare il suo valore. Ma rimane vero che le parole, quando diventano molto popolari, corrono il rischio di essere impiegate a sproposito, o comunque di dover rinunciare a una parte della loro storia e complessità. Perché ciò non accada, può essere utile fare un piccolo viaggio alla scoperta delle origini del concetto e della sua evoluzione.

 Tikkun Olam: le origini dell'espressione
  Nella Bibbia e nel Talmud di tikkun olam non si parla. L'espressione mipnei tikkun ha-olam (dove mipnei si tradurrebbe con "a favore, per la giusta causa di") compare per la prima volta nella Mishnah (200 e.v. circa) e, come spiega My Jewish Learning, "si riferisce a norme di politica sociale volte a garantire una protezione supplementare alle categorie potenzialmente più deboli: sono norme di tikkun olam quelle, ad esempio, che stabiliscono le condizioni per la stesura dei documenti di divorzio e per l'affrancamento degli schiavi".
  L'espressione tikkun olam si traduce letteralmente come "riparazione del mondo", ma - precisa Tzvi Freeman su Chabad.org - le due parole che la compongono includono una molteplicità di significati: "Tikkun è spesso tradotto come riparazione. Ma nella Bibbia ebraica e nell'antico codice normativo della Mishnah può significare anche "migliorare, aggiustare, preparare, o semplicemente, "fare qualcosa con". Tikkun poteva essere usato per descrivere il raddrizzamento di un bastone storto, la manutenzione di una strada, il taglio delle unghie, l'apparecchiatura di una tavola, o l'atto di escogitare una parabola per spiegare un concetto complicato. Olam in ebraico biblico significa "di tutti i tempi, di sempre". Nell'ebraico più tardo, ha assunto il significato di "mondo". Tikkun olam perciò letteralmente significa fare qualcosa al mondo che non solo ripari i suoi danni ma anche che lo migliori, preparando il suo accesso allo stato ultimo per il quale esso fu creato".
  Rabbi Jeremy Schwartz su Reconstructing Judaism aggiunge: "Talvolta i primi rabbini utilizzavano l'espressione più in generale col significato di "rendere il mondo un luogo abitabile e abitato". Così descrivevano il dono divino della pioggia come un atto di tikkun olam e una femmina di uccello che covava nel suo nido come un'agente di tikkun olam. Il primo uso attestato dell'espressione si trova nella preghiera di Aleinu e in particolare nel verso che riflette la speranza di l'taken olam b'malhut Shaddai, "riparare il mondo con la maestà dell'Onnipotente". Considerati gli altri usi che i rabbini del tempo facevano dell'espressione, l'intento originale della preghiera sembrerebbe quello di sperare nella venuta di un tempo in cui il mondo sarà ordinato, abitabile e abitato, grazie all'accettazione e alla fedeltà universale al governo divino".

 Il Tikkun Olam nella Cabala luriana
  Il concetto di tikkun olam viene ad assumere una valenza centrale nel pensiero della Cabala luriana, secondo la quale Dio, quando creò il mondo, "contrasse" il suo essere divino (tzimtzum) per potergli permettere di esistere. La luce divina arrivò nel mondo all'interno di speciali contenitori chiamati kelim (nel prosaico ebraico moderno la stessa parola indica le stoviglie dei pasti, o un insieme generico di utensili), che in parte andarono in frantumi e si dispersero. Parte della luce riuscì a far ritorno alla fonte divina, ma un'altra parte rimase impigliata ai frammenti dei kelim. Le scintille divine incapaci di liberarsi dai frammenti rappresentano il bene e il male che nel mondo si mescolano. "Secondo la tesi luriana", continua l'articolo di My Jewish Learning, "il primo uomo, Adamo, era destinato a liberare queste scintille divine attraverso la pratica mistica, ma il suo peccato si mise di mezzo. Il risultato fu che il bene e il male rimasero accuratamente mischiati nel creato e che anche le anime umane (prima contenute in quella di Adamo) caddero prigioniere dei frammenti".
  Tikkun olam indicherebbe perciò il compito di liberazione doppia a cui ognuno è chiamato: liberazione delle scintille divine e delle anime dai frammenti in cui sono imprigionate (il mondo materiale), attraverso un'azione di birur, ossia di separazione del bene dal male. Le scintille possono trovarsi ovunque e saperle riconoscere richiede un vero e proprio allenamento dello spirito. "Il racconto lurianico delle scintille ci insegna che il tikkun olam non è solo un'attività comunitaria, sociale o politica; riguarda anche un lavoro interiore e spirituale. Coinvolge la capacità di riconoscere la "luce" in noi stessi e negli altri e imparare come farla splendere", continua Rabbi Schwartz. A ciò è legato il racconto della creazione del mondo in cui si dice a più riprese che Dio, osservando il completamento di ogni opera, conclude che essa è "cosa buona": "Penso che il messaggio più importante del racconto ebraico della creazione, in riferimento ai nostri tentativi di migliorare il mondo, è che ci insegna a guardare a esso come intrinsecamente o potenzialmente buono. La nostra tradizione non incoraggia il pensiero ingenuo che nessuno voglia fare del male a nessuno, ma allo stesso tempo considera che le cose possano essere buone. Lo stato di natura non è la "legge della giungla" o "ci odiano tutti" o "loro (chiunque questi "loro" siano) capiscono solo le maniere forti". Siamo tutti creati a immagine divina e lo stato di natura è buono. Il nostro compito è muoverci verso quella buona direzione".

 Il tikkun olam nella contemporaneità
  L'uso dell'espressione tikkun olam nel contesto dell'impegno per la giustizia sociale prende piede durante gli anni Cinquanta. Come per i rabbini del tempo della Mishnah, si tratta sempre di rendere il mondo "più abitabile e abitato", ma non più (o non più solo) attraverso le mitzvot e lo studio della Torah, ma portando avanti battaglie a favore dell'uguaglianza, dell'ambiente, dell'aiuto ai più deboli. Il legame con la tradizione, lungi dall'essere stato dimenticato, è ben presente. Scrive Andrés Spokoiny su Jewish Funders Network: "Tikkun olam [nel suo significato contemporaneo] è collegato a un'idea fondamentale e intramontabile della teologia ebraica: che gli esseri umani abbiano la responsabilità di completare la creazione di Dio e migliorare il mondo. Il concetto attinge anche abbondantemente dalla Torah e dalle visioni profetiche di giustizia e pace che evidenziano la capacità umana di farle divenire realtà".
  Nel processo di trasposizione dalla tradizione alla modernità, tuttavia, secondo alcuni è avvenuto che il concetto finisse banalizzato, inflazionato, usato a sproposito. Soprattutto, che diventasse la bandiera di un'unica corrente ideologico-politica, quella progressiva e liberale. Secondo David Bernstein su Jewish Journal, molti movimenti ebraici che si dicono ispirati al tikkun olam tendono a escludere o scoraggiare la partecipazione di voci diverse (nel caso americano, dei conservatori), e questo è controproducente per l'unità delle comunità ebraiche e il raggiungimento del tikkun olam stesso.
  Bernstein cita alcuni esempi di tentativi di tikkun olam inclusivo. Tra questi, quello portato avanti da Rabbi David Stern della sinagoga reform Emanu-El di Dallas, che ha creato nella comunità un gruppo formato da liberali e conservatori che ha il compito di discutere e prendere decisioni su materie di impegno sociale. Rabbi Stern dichiara: "Nel momento in cui limitiamo l'idea di tikkun olam a una particolare visione politica, non solo diventiamo meno effettivi, ma soprattutto non siamo ciò che dovremmo essere in quanto comunità".
  Secondo Spokoiny, il segreto per non svuotare di significato il tikkun olam è fuggire l'approccio riduzionistico: "Il tikkun olam è un aspetto importante dell'ebraismo, ma non è l'ebraismo. Ogni tentativo di ridurre l'ebraismo a una delle sue componenti è problematico e in ultima analisi controproducente. (…) Oggi, quelli che credono nell'importanza del tikkun olam devono portarlo avanti nella ricchezza e complessità della tradizione ebraica. Ciò richiede anche il coraggio di affrontare quegli aspetti dell'ebraismo che per la modernità sono problematici".
  E, conclude, è importante capire che tikkun olam è un valore ebraico che trascende gli schieramenti ideologici e politici della società laica: "Conservatori e liberali devono guardare alla fonti ebraiche con onestà intellettuale. I valori ebraici non sono né conservatori né liberali: sono ebraici e basta. Sono evoluti attraverso i millenni e portano un carico di contraddizioni e tensioni intrinseche. In effetti, l'ebraismo riguarda in gran parte la ricerca dell'equilibrio tra valori confliggenti, ma egualmente importanti. La ricchezza dell'ebraismo è che offre "una casa con molte stanze" nella quale persone con convinzioni diverse possono trovare ispirazione e saggezza".

(JoiMag, 5 dicembre 2019)



Israele: probabili elezioni per la terza volta

In seguito all'annuncio del capo del partito di destra Yisrael Beytenu, Avigdor Lieberman, diventa sempre più probabile per Israele l'opzione di indire nuove elezioni entro due o tre mesi.
In particolare, il 5 dicembre, Lieberman ha affermato che non è disposto a creare alleanze volte a formare un governo ristretto di destra né un governo di unità nazionale, che vedrebbe eventualmente a capo il primo ministro Benjamin Netanyahu, del partito Likud. Allo stesso modo, Lieberman ha rifiutato qualsiasi coalizione anche con i partiti religiosi e di opposizione, tra cui Blue and White di Benny Gantz, il secondo vincitore alle ultime elezioni del 17 settembre scorso.
   Yisrael Beytenu detiene otto seggi parlamentari e risulta svolgere un ruolo rilevante per la formazione del prossimo esecutivo di Israele, in quanto sue eventuali alleanze determinerebbero equilibri e giochi di potere. Precedentemente, il 3 dicembre, Lieberman aveva affermato che sarebbe stato disposto a partecipare ad un governo ristretto di destra guidato da Netanyahu, nel caso in cui Blue And White non avrebbe lasciato spazio al premier per continuare ad esercitare il mandato per primo anche nel futuro esecutivo.
   Di fronte al fallimento sia di Netanyahu sia di Gantz nel raggiungere un'alleanza volta a presentare un nuovo governo per Israele, si era inizialmente deciso di creare un'alleanza tra i partiti delle due parti, in cui la carica di primo ministro sarebbe stata assunta a rotazione per un determinato periodo di tempo. Netanyahu ha fin da subito insistito per essere il primo. Tuttavia, un incontro tenutosi tra i due contendenti, il 3 dicembre, nel tentativo di raggiungere un'intesa, ha messo nuovamente in luce le numerose e ampie divergenze tra le parti.
   Alla luce della situazione di stallo creatasi, Lieberman ha altresì dichiarato che le prossime elezioni potrebbero creare un clima altrettanto difficile da affrontare, in cui la società israeliana potrebbe assistere a fratture pericolose. Anche nell'eventualità in cui Netanyahu si tiri indietro, il panorama politico non cambierebbe e qualsiasi futuro premier, a detta di Lieberman, avrà numerosi ostacoli davanti a sé.
   Il capo di Stato, Reuven Rivlin, ha commentato il quadro attuale, evidenziando come Israele si ritrovi in una situazione strana ed imbarazzante, a causa di una persistente crisi politica. Inoltre, il presidente si è altresì detto pronto a concedere l'assoluzione a Netanyahu, nel caso in cui dovesse essere definitivamente incriminato a causa delle accuse precedentemente presentate di frode, corruzione e abuso d'ufficio.
   È del 20 novembre scorso la notizia con cui Benny Gantz aveva annunciato di non essere stato in grado di formare coalizioni in vista di un nuovo governo. Lo stesso, era accaduto per Netanyahu, il quale aveva ricevuto l'incarico il 21 ottobre scorso. Il partito di Gantz, di centro-destra, è risultato il maggiore vincitore nelle elezioni di settembre, con 33 seggi, rispetto ai 31 di Likud. Tuttavia, anche Blue and White era lontano dai 61 seggi necessari per ottenere la maggioranza parlamentare e, di conseguenza, dall'incarico di formare un governo da solo.
   Nel caso in cui dovessero essere confermate nuove elezioni, queste sarebbero le terze da aprile 2019. Prima di ritornare alle urne, vi è, però, un'altra strada da poter intraprendere. Nello specifico, uno dei 120 membri della Knesset dovrebbe raggiungere 61 firme da parte degli altri deputati, dopodiché avrebbe 14 giorni per formare un nuovo esecutivo.
   Anche precedentemente, in seguito alle elezioni del 9 aprile 2019, Netanyahu non era stato in grado di formare una coalizione da porre alla guida di Israele, nonostante il suo partito, Likud, insieme agli alleati di destra, avesse ottenuto la maggioranza dei seggi. Ciò aveva portato il parlamento, il 30 maggio, a indire nuove elezioni.
   In tale quadro, Netanyahu, è stato formalmente incriminato, il 21 novembre, con le accuse di frode, corruzione e abuso d'ufficio. Si tratta del primo caso nella storia di Israele in cui un premier è accusato di reati penali. La decisione potrebbe porre fine alla carriera di Netanyahu, il cui governo è considerato il più longevo del Paese.

(Sicurezza Internazionale, 5 dicembre 2019)


L'Europa si sveglia e critica (finalmente) il programma balistico iraniano

Gran Bretagna, Francia e Germania scrivono al Segretario Generale dell'ONU per denunciare il programma balistico iraniano e come tale programma violi una risoluzione ONU del 2015

di Sarah G. Frankl

 
L'Europa ha finalmente scoperto che gli iraniani stanno lavorando a un programma balistico direttamente legato al suo programma nucleare.
  Francia, Germania e Regno Unito hanno denunciato il fatto che "lo sviluppo iraniano di missili balistici a capacità nucleare" va contro una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invita Teheran a non intraprendere alcuna attività relativa a tali missili.
  Gli ambasciatori delle tre nazioni europee hanno scritto una lettera al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nella quale denunciano che il programma balistico iraniano è "incoerente" con una risoluzione delle Nazioni Unite del 2015 sul programma nucleare iraniano nella quale si vieta esplicitamente all'Iran di produrre missili in grado di trasportare armi nucleari.
  La lettera cita un test iraniano dello scorso 22 aprile 2019 nel quale Teheran ha usato una variante dei missili Shahab-3 equipaggiata con componentistica indicata per il trasporto di armi nucleari e chiede al Segretario Generale dell'ONU di riferire al Consiglio di Sicurezza.
  La lettera cita anche un rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) del 2015 nel quale si esprimono dubbi su test condotti con missili Shahab-3 giudicati "potenzialmente in grado di trasportare testate atomiche".
  Lo stesso rapporto della AIEA cita testualmente "prove estese" che indicano come l'Iran tra il 2002 e il 2003 abbia condotto test balistici sullo Shahab-3 mirati a configurare il missile al trasporto di armi nucleari.
  Ora viene da chiedersi dov'era l'Europa quando il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, denunciava (anche alle Nazioni Unite) che l'Iran stava eseguendo test missilistici volti ad implementare vettori in grado di trasportare armi nucleari.
  Dov'era l'Europa quando l'AIEA produceva i suoi allarmanti rapporti sui test svolti sui missili Shahab-3?
  Ma soprattutto, cosa vuol dire questa lettera di Gran Bretagna, Francia e Germania? Che l'Unione Europea intende cambiare il suo atteggiamento servile verso Teheran, oppure è solo un contentino giusto per far vedere che sono attenti a quello che fa l'Iran? Attenti per modo di dire visto che ci sono voluti mesi da quel 22 aprile 2019 per arrivare a una denuncia che non riguarda nemmeno tutta la UE.
  Per esempio, perché il nuovo "ministro degli esteri europeo" Josep Borrell non ha controfirmato la lettera inviata ad Antonio Guterres? Significa che comunque, nonostante le evidenze, l'Unione Europea intende continuare con la linea genuflessa verso Teheran impostata da Federica Mogherini? Di certo Borrel è un amico degli Ayatollah iraniani e questo non lascia ben sperare.
  Rimane il fatto che ormai è chiaro a tutti che il programma balistico iraniano è volto essenzialmente a produrre vettori in grado di trasportare armi atomiche ed è strettamente legato al programma nucleare iraniano. Solo chi è in malafede continua a negarlo.

(Rights Reporters, 5 dicembre 2019)


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Medio Oriente: Iran vs Israele, con la complicità dell'Ue

di Davide Racca

L'acuirsi delle tensioni tra Iran e Israele sembra non interessare i banchieri di Bruxelles, sempre più impegnati nella condanna delle politiche "espansionistiche" del governo di Tel Aviv e nel tentare in più modi di opporsi a un irrigidimento delle sanzioni contro Teheran.
In questo senso vanno le dichiarazioni dell'ex Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, rese il 19 novembre scorso. Lady Pesc ha tenuto a sottolineare, casomai ce ne fosse bisogno, che la posizione dell'Unione europea sulla politica degli insediamenti israeliana "è chiara e rimane invariata: tutte le attività di insediamento sono illegali ai sensi del diritto internazionale ed erodono la fattibilità della soluzione a due Stati e le prospettive di una pace duratura, come ribadito dalle Nazioni Unite nella risoluzione del Consiglio di sicurezza 2334".
   Per la Mogherini, il cui ruolo di sostegno a qualunque fazione sia impegnata in funzione anti-israeliana non sembra venire meno, l'Ue continuerà a sostenere una ripresa dei negoziati a due Stati che, a suo dire, rappresenterebbe l'unico soluzione "realistica e praticabile" improntata a soddisfare le legittime aspirazioni di entrambe le parti.
   Tutto questo mentre a Bruxelles, in apparenza, si persiste nel tentativo di mediazione che porti alla stabilizzazione dell'area mediorientale che coinvolga innanzitutto l'Iran. Secondo la Mogherini, "siamo pronti a supportare qualsiasi iniziativa che consideri la regione stessa come attore chiave per l'avvio di un percorso pacifico di sviluppo e cooperazione".
   Ma i buoni propositi palesati dall'ex Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera e di sicurezza sembrano non interessare la leadership di Teheran che, secondo quanto annunciato dal presidente Hassan Rouhani, avrebbe ripreso il processo di arricchimento dell'uranio per consentire la prosecuzione del piano di sviluppo del nucleare ufficialmente a scopo civile. Appare banale sottolineare che tale decisione si scontri con l'Accordo sul nucleare iraniano in cui l'Unione Europea si impegnò con Russia, Cina e Nazioni Unite allo scopo di ammorbidire il regime sciita di Teheran sul programma di proliferazione nucleare del Paese che si registra, comunque, in costante evoluzione. L'atteggiamento intransigente degli iraniani non ha comunque smosso la Mogherini dalle sue posizioni, peraltro incomprensibili, spingendola a dichiarare: "Sappiamo perfettamente come comportarci nei momenti di tensione come questo. Sono convinta che la regione abbia acquisito sufficiente consapevolezza per aprirsi verso ogni iniziativa di cooperazione".
   Sarà anche come dice lei, ma dal Medio Oriente le notizie non sembrano percorrere la stessa linea di pensiero seguita da Bruxelles.
   Solo nelle ultime ore, infatti, l'aviazione israeliana ha dovuto rintuzzare l'ennesimo tentativo di aggressione da parte delle milizie sciite nel nord del Paese condotta con il lancio, ormai quasi quotidiano, di missili dalle basi in territorio siriano. L'attacco dei cacciabombardieri con la Stella di David è stato condotto nei pressi dell'aeroporto militare di Al Bochmal, nella Siria orientale con circa 20 obiettivi colpiti, tra i quali il quartier generale e i depositi di munizioni della forza Quds .
   Nel mese scorso, a seguito delle varie aggressioni perpetrate nel territorio israeliano, sono stati numerosi i raid compiuti dall'aviazione di Gerusalemme che hanno preso di mira le aree circostanti l'aeroporto di Damasco dove sono ospitate le basi di Hezbollah e delle Guardie rivoluzionarie iraniane e le rampe di lancio dei missili puntati su Israele.
   A seguito delle continue provocazioni iraniane, verrà probabilmente esaudita la formale richiesta del generale americano Frank McKenzie, supportata dalle autorità di Israele, avanzata al Dipartimento di Stato Usa in relazione all'invio di ulteriori navi, piattaforme di difesa antimissile e truppe. La decisione rispetto al possibile dispiegamento di circa 14,000 soldati, in aggiunta ai circa 15,000 già operanti nell'area, sarà presa entro i prossimi giorni dall'amministrazione Trump, venendo incontro alle pressanti richieste di Israele relative a un più deciso contrasto alla politica aggressiva dell'Iran rivolta allo Stato ebraico. Ma di tutto questo la Mogherini non si è accorta.

(ofcs.report, 5 dicembre 2019)


In Francia l'antisemitismo ora divide il Parlamento

Varata, ma senza la maggioranza dell'Aula, una risoluzione che vuole includere nel fenomeno sempre più diffuso le critiche al sionismo e alla politica del governo israeliano Gerusalemme: «Passo importante».

541
sono gli atti antisemiti recensiti in Francia nel 2018 dal Ministero dell'Interno
74%
è l'aumento rispetto al 2017 degli attacchi a esponenti di fede ebraica in Francia
107
il numero di tombe profanate, martedì, nel cimitero ebraico di Westhoffen, in Alsazia

di Daniele Zappalà

PARIGI - Le ricerche recenti lo attestano: il virus dell'antisemitismo continua a propagarsi nelle contrade francesi, obbligando le autorità transalpine a correre ai ripari con nuovi mezzi di lotta. Ma persino gli esiti di questa doverosa azione pubblica possono talora suscitare controversie, come si è visto nelle ultime ore a proposito dell'aspro dibattito, non solo politico, suscitato dal varo di una risoluzione della maggioranza presidenziale di Macron (La République en marche) che vuole includere le critiche delle teorie sioniste e della politica del governo israeliano nel novero dell'antisemitismo. La risoluzione integra la definizione di antisemitismo proposta dall'Alleanza internazionale per la memoria della Shoah (Ihra), criticata però dal mondo universitario che contesta una presunta "confusione" fra gli atti d'antisemitismo e le opinioni contrarie al sionismo.
   Promossa dal deputato macroniano Sylvain Maillard, la risoluzione è stata alla fine approvata senza la maggioranza assoluta dei parlamentari all'Assemblée Nationale: 154 deputati favorevoli e 72 contrari, a fronte di 577 poltrone. In primis, del resto, solo un terzo dei deputati della maggioranza aveva firmato la bozza, sullo sfondo di critiche piovute dal mondo intellettuale e associativo, oltre che dall'opposizione. La mozione ha ricevuto ieri il plauso di Israel Katz, capo della diplomazia israeliana: «Questa decisione conferma la dichiarazione del presidente Macron che l'antisionismo è una formula reinventata dell'antisemitismo». Definendo il testo come «un passo importante nella lotta all'antisemitismo», il ministro israeliano ha pure auspicato «che altri Paesi seguano l'esempio della Francia». In occasione dell'ultima cena annuale del Crif (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia), Macron aveva promesso «atti incisivi», sullo sfondo pure di un'accelerazione negli ultimi anni delle partenze di cittadini ebrei francesi verso Israele (Aliyah). Un fenomeno spesso associato dagli studiosi alla recrudescenza dell'antisemitismo in Francia. Ieri, recandosi presso il cimitero ebraico alsaziano di Westhoffen appena profanato, il ministro dell'Interno Christophe Castaner ha inoltre annunciato la creazione di un «Ufficio nazionale di lotta contro l'odio» per coordinare «l'insieme delle inchieste sugli atti antisemiti, antimusulmani, anticristiani» commessi nel Paese. Secondo gli esperti, l'odio antireligioso può avere moventi sociali e ideologici molto diversi. Ma nel caso dell'antisemitismo, le preoccupazioni si concentrano in Francia su due tronconi: un antisemitismo di matrice storica, più o meno intriso d'ultranazionalismo, accanto a un'avversione verso la politica recente d'Israele che in casi non marginali può tramutarsi in aperta ostilità verso la cultura ebraica nel suo insieme.
   E se distinguere tra antisemitismo e antisionismo può essere per qualcuno un "esercizio intellettuale", è nei fatti che il calderone dell'odio sperimentato sul campo tende a mescolare le due dimensioni. Nasce da qui la scelta dell'Eliseo, fortemente criticata anche da chi riesce a vederla come lesiva della libertà d'espressione.

(Avvenire, 5 dicembre 2019)


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Undici paesi UE hanno votato per la prima volta contro l'automatismo anti-israeliano dell'Onu

Israele: "Un passo importante nella lunga lotta contro il pregiudizio verso Israele alle Nazioni Unite". Oltre all'Ungheria, che lo aveva già fatto l'anno scorso, quest'anno anche Germania, Repubblica Ceca, Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, Romania e Slovacchia hanno votato contro una risoluzione faziosa anti-Israele.

da Jerusalem Post, Israel HaYom, 4.12.19

Undici paesi dell'Unione Europea e due latinoamericani (Brasile e Colombia) hanno votato per la prima volta, martedì scorso, contro una risoluzione Onu che viene automaticamente approvata ogni anno dal 1977 per imporre l'esistenza di una speciale "Divisione per i diritti dei palestinesi" all'interno del Segretariato delle Nazioni Unite dedicata a promuovere la narrativa palestinese contro Israele.
   La risoluzione è stata comunque approvata con 87 voti a favore, 23 contrari (tra cui Stati Uniti, Canada, Australia, Guatemala, Honduras, Micronesia, Isole Marshall e Nauru) e 54 astensioni. Ma ciò che è significativo è che undici paesi dell'Unione Europea che in passato si erano astenuti (Germania, Repubblica Ceca, Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, Romania e Slovacchia) quest'anno hanno votato contro, cosa che l'anno scorso aveva fatto solo l'Ungheria tra tutti i membri UE. Solo due paesi UE hanno votato a favore della risoluzione (Malta e, sorprendentemente, Cipro), mentre i restanti 14 (tra cui Francia, Regno Unito e Italia ) si sono astenuti.
   "Sono lieto che un significativo gruppo di paesi abbia deciso di dare voce con chiarezza a una posizione morale contro la discriminazione nei confronti di Israele alle Nazioni Unite - ha dichiarato il ministro degli esteri israeliano Yisrael Katz - Si tratta di un passo importante nella lunga lotta contro il pregiudizio anti-Israele alle Nazioni Unite. Ciò che spicca in particolare è il cambiamento di posizione di diversi stati dell'Unione Europea, e spero che anche gli altri membri dell'UE adottino presto questa posizione".
   Ogni anno le risoluzioni anti-israeliane proposte da palestinesi e paesi arabi vengono sottoposte all'Unione Europea prima d'essere presentate all'Assemblea Generale. Di solito l'Unione Europea modifica un paio di frasi e finisce per votarle. Ciò vale per tutte e 20 le risoluzioni del pacchetto che viene approvato automaticamente dall'Assemblea Generale (si consideri che, a fronte delle 20 risoluzioni anti-israeliane, c'è n'è una sola che tratta della Siria, una sola del Venezuela e due della situazione russo-ucraina). Di queste 20 risoluzioni, 17 sono dichiarative ma le altre tre non sono semplicemente declamatorie, bensì istituiscono organismi effettivi che dispongono di personale e budget. Uno di questi organi è la Divisione speciale dei palestinesi all'interno del Segretariato Generale, ben nota agli addetti ai lavori per le posizioni pregiudizialmente faziose contro Israele che promuove utilizzando staff e risorse di bilancio delle Nazioni Unite. Secondo i funzionari israeliani, da tempo l'Unione Europea riconosce l'esistenza di un grave pregiudizio anti-israeliano nell'esistenza stessa di questi organismi. Tuttavia, ad eccezione dell'Ungheria, finora i paesi europei non avevano mai votato contro, limitandosi all'astensione. Il voto di martedì è il primo segnale di un vero cambiamento in questo meccanismo che si auto-perpetua in modo sclerotico.
   Anche se il pacchetto annuale di risoluzioni anti-israeliane all'Onu sostanzialmente non ha mai cambiato nulla sul terreno, esse esercitano un impatto cumulativo in quanto determinano la percezione di Israele all'interno delle Nazioni Unite come di un paese che non viene trattato allo stesso degli altri 193 membri, bensì come una sorta di stato-paria. Il che costringe sulla difensiva i suoi rappresentanti, che devono impiegare tempo ed energie a difendersi dalle risoluzioni faziose anziché promuovere programmi positivi.

(israele.net, 5 dicembre 2019)


Amici d'Israele: rinasce l'Udai già promossa da Aldo Aniasi

Rinasce l'Udai. Il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz, con l'ambasciatore Dror Eydar, ha partecipato ieri a Milano a una cena - circa 400 i presenti nella sede di Noam - in cui è stata presentata la nuova Unione Democratica Amici di Israele. L'associazione, a suo tempo nata su spinta socialista (tra i promotori, il sindaco Aldo Aniasi) oggi intende riprendere la sua attività di promozione delle relazioni tra Italia e Israele. Tra gli altri hanno preso la parola il rabbino capo Alfonso Arbib, il presidente della Comunità ebraica Milo Hasbani, il suo predecessore Raffaele Besso, il presidente della Nuova Udai Enrico Mairov, quello di Noam David Nassimiha e Marcello Di Capua, tra i promotori dell'Udai: «I nemici della democrazia, così come quelli di Israele, sono gli stessi di un'Italia matura». Nemici che sanno «crescere in ambienti culturali e politici molto eterogenei, talvolta apparentemente in antitesi». Oggi il ministro Katz incontrerà a Roma Luigi Di Maio e Matteo Salvini in rappresentanza dell'opposizione. M.Cre.

(Corriere della Sera - Milano, 5 dicembre 2019)


L'antisemitismo secondo Jeremy Corbyn e le polemiche sul Labour Party

di Ilaria Ester Ramazzotti

A pochi giorni dalle prossime elezioni politiche, il 12 dicembre, non si placano in Gran Bretagna le accuse di antisemitismo rivolte contro appartenenti al Labour Party e il suo leader Jeremy Corbyn. L'antisemitismo incuneatosi fra alcuni membri del partito laburista britannico suscita da tempo discussioni e polemiche, che risuonano dal mondo della politica alle testate giornalistiche.
   Dalla politica estera a quella interna, gli orientamenti di Corbyn hanno di recente fatto sì che il rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth Ephraim Mirvis si chiedesse che cosa sarà degli ebrei e dell'ebraismo britannico se il Labour Party formerà il prossimo governo del Regno Unito. A fargli da eco, ci ha pensato persino l'arcivescovo di Canterbury Justin Welby.
   La contrarierà alle politiche dello Stato di Israele e il sottile sostegno a organizzazioni come Hamas e Hezbollah hanno portato molti interni ed esterni al suo partito a sospettare che dietro le opinioni di Corbyn ci possa essere un chiaro sentimento antisemita.
   Del tema ha parlato anche il Corriere della Sera in un commento dello scorso 1 dicembre. Paolo Mieli elenca una serie di fatti che hanno alimentato le riflessioni e le accuse contro Corbyn: la sua "partecipazione, nel 2014 a Tunisi a una cerimonia in onore di uno dei terroristi che nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco avevano sequestrato e ucciso atleti israeliani; l'amichevole incontro con il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina alla vigilia di un attentato a una sinagoga di Gerusalemme in cui sarebbero rimasti uccisi quattro rabbini (uno dei quali inglese: Avraham Shmuel Goldberg); la conferenza con Khaled Meshaal, il leader di Hamas già sulla «lista nera» del Regno Unito; la protesta contro il sindaco di Londra reo di aver fatto cancellare un dipinto murale di Mear One - un nome d'arte - da lui, non a torto, ritenuto antisemita; la prefazione a sua firma alla ristampa di un libro del 1902 in cui John Atkinson Hobson sosteneva essere il capitalismo internazionale «controllato da uomini di una singola razza particolare» (analisi «corretta e lungimirante» l'ha definita Corbyn); il capo laburista ha altresì chiamato «fratello» Abdud Aziz Umar condannato a sette ergastoli per aver fatto esplodere a Gerusalemme un ristorante, provocando la morte di sette persone. E si potrebbe continuare… Intendiamoci presi uno per uno tutti questi casi (alcuni più, alcuni meno) potrebbero trovare delle giustificazioni. Ma nel loro insieme non possono non suscitare perplessità".
   Perplessità che si riflettono e vengono rilanciate da episodi come quelli capitati alla deputata laburista Luciana Berger, che in febbraio ha denunciato di aver subito minacce e aggressioni fisiche. Un documentario della BBC dello scorso luglio ha poi messo drasticamente in luce l'antisemitismo esistente nel partito laburista, partendo da alcune testimonianze di discriminazioni rivolte a militanti ebrei. Lo scorso luglio, ben 67 membri del Labour hanno pubblicamente accusato Jeremy Corbyn da una pagina di The Guardian di "aver permesso all'antisemitismo di crescere all'interno del partito". Tutt'oggi gli animi non sembrano placarsi, mentre nel mondo ebraico crescono le preoccupazioni per le pieghe che stanno prendendo certe pagine della storia. E l'antisemitismo guadagna terreno nel Regno Unito come in molti altri paesi europei.

(Bet Magazine Mosaico, 5 dicembre 2019)


Israele chiede all'ONU di riconoscere profughi ebrei cacciati dai paesi arabi e dall'Iran

In occasione della sessione dell'Assemblea Generale dedicata ai 72 anni dal voto del 29 novembre 1947 sulla spartizione in due stati della Palestina Mandataria, l'ambasciatore d'Israele all'Onu Danny Danon ha annunciato che intende promuovere una risoluzione volta a riconoscere gli 800mila profughi ebrei cacciati dai paesi arabi e dall'Iran. Ogni anno, nella ricorrenza del voto sulla spartizione, arabi e palestinesi promuovono una serie di risoluzioni anti-israeliane. "Israele accolse i profughi ebrei che vennero integrati nella nostra società - ha detto martedì Danon - La comunità internazionale invece li ha ignorati e ha creato istituzioni corrotte che servono solo i cosiddetti profughi palestinesi.Al fine di correggere l'ingiustizia storica che è stata fatta ai profughi ebrei di questo conflitto proporrò all'Assemblea una risoluzione che riconosca il torto fatto ai profughi ebrei dimenticati, e corregga l'ingiustizia che hanno subito. Si stima che nel XX secolo, 850.000 ebrei furono costretti a lasciare paesi arabi e Iran divenendo profughi - ha continuato l'ambasciatore - Quegli ebrei furono soggetti a brutali aggressioni e molestie e furono costretti a fuggire da Iraq, Egitto, Marocco, Iran e altri paesi lasciandosi tutto alle spalle. Eppure non si sente mai la comunità internazionale parlare di loro quando si discute dei profughi del conflitto, forse perché non fanno comodo alla narrazione palestinese".

(Osservatorio Sicilia, 5 dicembre 2019)



Netanyahu-Gantz, l'intesa non c'è Israele verso nuove elezioni

Israele sembra destinato a dover tornare ancora una volta alle urne. Ieri sera si è concluso con un nulla di fatto l'incontro tra Benny Gantz e Benjamin Netanyahu, ultimo tentativo di formare un governo di unità nazionale per evitare un ennesimo ricorso al voto. Dopo la riunione però, il Likud di Netanyahu ha attaccato Blu-Bianco il partito del rivale accusandolo di non aver accettato «concessioni importanti». «Il partito di Gantz ha detto il Likud continua a rifiutare di formare un governo di unità nazionale per il veto imposto da Yair Lapid (numero 2 del partito, ndr)».
   Tra otto giorni scade il termine che la legge assegna alla Knesset - dopo il doppio fallimento di Netanyahu e Gantz nel formare un esecutivo - per indicare un parlamentare qualsiasi che goda dell'appoggio di almeno 61 deputati su 120. Le elezioni potrebbero svolgersi o il 25 febbraio o il 3 marzo.
«Netanyahu - ha detto il partito di Gantz - non ha portato nessuna proposta che prenda atto della sua situazione legale o riconosca che ha perso le elezioni e si è rifiutato di impegnarsi nelle linee di fondo del governo e di non cercare la sua immunità (dall'incriminazione, ndr). In breve, Netanyahu ha scelto le elezioni».

(Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2019)


Svastiche sulle tombe del cimitero ebraico di Westhoffen

di Leonardo Martinelli

Tombe profanate nel cimitero ebraico di Westhoffen
Ancora tombe ebraiche profanate in un cimitero. Ancora svastiche su quelle steli o un numero tracciato a ripetizione, il 14, che fa riferimento a uno slogan suprematista bianco, in inglese, composto di quattordici parole. Quelle scritte sono state scoperte ieri nel cimitero ebraico di Westhoffen, villaggio di appena 1700 anime, non lontano da Strasburgo. Si tratta di una delle comunità di ebrei più antiche di tutta l'Alsazia. 107 in tutto le tombe profanate, anche quella della famiglia di Jean-Louis Debré, che oggi ha 75 anni, noto politico francese, che fu molto vicino a Jacques Chirac. Ma in quel cimitero riposano pure gli antenati di Léon Blum, socialista, uno dei miti della «gauche»: fu tra i principali leader del Fronte popolare negli anni Trenta.

 Fenomeno dilagante
  Ad avvertire la polizia, all'inizio del pomeriggio, è stato il sindaco di Westhoffen, Pierre Geist. «Quando ho visto quelle tombe profanate —ha sottolineato -, ho avuto un tonfo al cuore. Sono deluso che esistano persone così miserabili da poter sporcare la memoria degli uomini in quel modo: è una vergogna». Nella mattina scritte a carattere antisemita erano già apparse a Schaffhouse-sur-Zorn, a una ventina di km da Westhoffen, e in particolare sui muri della sinagoga. Si tratta di un fenomeno ormai dilagante negli ultimi mesi nel Basso-Reno, il dipartimento alsaziano che ha Strasburgo come capoluogo. Si associa all'aumento di atti di antisemitismo in tutta la Francia.
  Pochi giorni fa, il 26 novembre, nel villaggio di Rohr, a una quindicina di km da Westhoffen, un misto di svastiche, scritte antisemite, altre di tipo razzista, contro i profughi, e simboli del suprematismo bianco erano stati trovati sui muri esterni di una scuola elementare. Lì era riportato anche a più riprese il nome del paesino di Westhoffen, associato alla siglia Ewk (che sta per «European white Knights of the Ku Klux Klan): preludio all'oltraggio successivo. Ma sono mesi che atti del genere si ripetono in un'area assai ristretta, compresa la profanazione di 96 tombe nel quartiere ebraico di Quatzenheim, lo scorso 19 febbraio (l'11 dicembre 2018 era stata invece la volta di quello di Herrlisheim). Chi c'è dietro quest'ondata di odio? Le forze dell'ordine indagano da tempo, ma non sono ancora riuscite a scoprirlo.

(La Stampa, 4 dicembre 2019)


Nuovo antisemitismo

La Francia discute di antisionismo. Corbyn dubita del "diritto di Israele di esistere".

di Giulio Meotti

ROMA - Lo scorso 16 febbraio, a margine di una manifestazione dei gilet gialli, il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut venne aggredito per strada: "Merda sionista" gli dissero, e lo minacciarono di morte. Pochi giorni dopo l'aggressione a Finkielkraut, Emmanuel Macron dichiarò che l'antisionismo rappresenta "una delle forme moderne dell'antisemitismo". L'episodio ha spinto il deputato macroniano Sylvain Maillard a convincere i colleghi parlamentari a votare una proposta di risoluzione sull'antisemitismo. Il test intende affermare che "gli atti antisionisti possono talvolta nascondere realtà antisemite".
   Il deputato di Parigi propone di adottare la definizione di antisemitismo dell'Alleanza internazionale per il ricordo dell'Olocausto (Ihra). Non ostante il sostegno del presidente, l'iniziativa divide la maggioranza in Assemblea. Maillard ha così riscritto la risoluzione attenuandola: l'antisionismo ora è "a volte" e non "spesso" la maschera dell'antisemitismo. La proposta è firmata da un terzo del gruppo della République en marche, pochi considerando che il presidente del gruppo, Gilles Le Gendre, e il capo del partito, Stanislas Guerini, ne sono i firmatari. Contraria alla risoluzione la leader del Rassemblement national Marine Le Pen. "Questa definizione dovrebbe consentire di stabilire un quadro per insegnanti, magistrati e polizia", ha detto Francis Kalifat, presidente del Consiglio delle comunità ebraiche di Francia, per il quale la negazione dell'esistenza di Israele è "uno dei fattori essenziali dell'antisemitismo nel nostro paese". In un appello sul Monde, 127 esponenti della sinistra ebraica chiedono ai parlamentari di non votare la risoluzione, perché inibirebbe la critica a Israele, sebbene sia stata adottata nel 2017 dal Parlamento europeo, nel 2018 dal Consiglio della Ue e sia considerata la carta fondamentale contro il nuovo antisemitismo contemporaneo.
   "La risoluzione non proibisce le critiche a Israele", dice Frédéric Potier, delegato interministeriale per la lotta al razzismo e all'antisemitismo. La discussione arriva a poche settimane dalla visita di Macron in Israele e un voto positivo da parte della Francia verrebbe accolto favorevolmente a Gerusalemme, dove il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva già assicurato al presidente francese la sua "stima" quando quest'ultimo lo aveva informato del suo desiderio che la Francia adottasse la definizione di antisemitismo.
   "Possiamo criticare il confine, le colonie, ma non possiamo mettere in discussione lo stato di Israele, per noi questo è antisemita", continua il parlamentare parigino Maillard, promotore della risoluzione. Che è proprio quello di cui, in Inghilterra, viene accusato il leader del Labour, Jeremy Corbyn.
   Ieri è uscita la clip di un'intervista rilasciata da Corbyn alla tv del regime iraniano Press Tv. In un documentario che esaminava le accuse di pregiudizio della Bbc nei confronti di Israele, Corbyn, allora deputato laburista, si domandava se Israele avesse il "diritto di esistere". "Penso che ci sia un pregiudizio nel dire che Israele è una democrazia in medio oriente, che Israele ha il diritto di esistere e che Israele ha i suoi problemi di sicurezza" ha detto Corbyn, che non a caso si era duramente opposto alla risoluzione dibattuta a Parigi.
   Intanto, dall'Ihra, ci si aspetta che anche l'Italia adotti la risoluzione contro l'antisemitismo dopo che è stata già approvata da quindici paesi europei. "In data 4 ottobre 2018, la Camera dei deputati della Repubblica italiana, mediante apposite risoluzioni, ha impegnato il governo ad adottare la definizione Ihra di antisemitismo. Malgrado la convergenza di tutti i partiti su tale impegno, il governo non ha ritenuto di dargli alcun seguito".
   La volontà delle democrazie europee di combattere l'antisemitismo si misura anche dalle famose "tre D" indicate da Nathan Sharansky nel test per distinguere la critica legittima a Israele dall'attacco antisemita: la delegittimazione, ovvero negare agli ebrei il diritto all'autodeterminazione; il doppio standard, cioè applicare a Israele una morale differente rispetto ad altri paesi, e la demonizzazione, dove si fa dello stato ebraico l'oggetto di un complotto malvagio. Quante delle critiche a Israele oggi supererebbero questo test?

(Il Foglio, 4 dicembre 2019)


L'Europa e i cortocircuiti del nuovo antisemitismo

La speranza sta nei pochi «Giusti» che richiamano la fiammella accesa di fronte al buio della coscienza.

di Roberto Della Rocca*

Rav Roberto Della Rocca
Caro direttore, in un recente articolo, Ernesto Galli della Loggia ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell'odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l'antisemitismo contemporaneo. Ne scaturisce che per liberarsi da quel senso di colpa, una certa parte dell'Europa ha bisogno adesso di liberarsi dei suoi ebrei. Il prezzo più dannoso derivante dalla Shoah è costituito dalla centralità che essa finisce per acquisire nella stessa identità ebraica che per molti ebrei rischia di essere un modo per non assumersi la responsabilità di costruirsi un'identità proattiva e consapevole. Se, il compito della società civile è quello di riconoscere le proprie responsabilità, quello del popolo ebraico consiste nel saper uscire dalla contingenza del dolore canalizzando il proprio trauma nella dimensione della memoria storica. Secondo della Loggia questa centralità della Shoah offrirebbe altresì una sorta di sponda alle tendenze devianti che albergano in Occidente. Tendenze che attribuiscono all'ebraismo, secondo l'autore, una «straordinaria valenza simbolica agli occhi degli europei». In Europa l'ebraismo è sempre stato relegato a un ruolo subalterno rispetto alla cultura dominante cristiana in base a una logica di banale, quanto antropologicamente pericolosa, gerarchia identitaria: la cultura di minoranza deve assoggettarsi a quella di maggioranza. E l'equazione è bella e fatta: l'ebraismo va identificato «solo» con un Vecchio Testamento (o con un Testamento ormai vecchio).
   Ancora oggi e in molti ambienti, l'identità Torah uguale Antico Testamento e Antico Testamento uguale Legge, porta a vedere nel Vecchio Testamento - cioè nella nostra Torah - solo legalismo e vendicatività. Nulla a che fare con una nuova Alleanza dispensatrice di amore, perdono e universalismo di cui la Tradizione ebraica sarebbe priva. Tesi diffuse, e spesso rispolverate anche da maìtre à penser del nostro còté intellettuale in molti dei luoghi comuni che nutrono teorie antisemite. Basti vedere i libri scolastici su cui si formano le nostre nuove generazioni, testi nei quali gli ebrei compaiono con le civiltà antiche per poi ricomparire soltanto nella Shoah come vittime disincarnate. O reliquie archeologiche o vittime da santificare.
   Una sorta di celebrazione mistica del popolo ebraico come vittima della Shoah procede spesso parallelamente al misconoscimento dell'ebreo come attore e protagonista nella storia contemporanea. Un'immagine semplice e alla portata di tutti, destinata ad altri scopi, strumentalizzata per sostenere quelle tesi negazioniste e antisemite, e, in alcuni casi, contrarie alla legittimità dello Stato di Israele. Congetture e sillogismi che in alcuni casi si moltiplicano al fine di alleggerire i sensi di colpa per un passato con cui si continua a non voler fare i conti. Ma la Shoah, pur avendo decimato un terzo del popolo ebraico ed eliminato la parte più propulsiva dell'ebraismo in Europa, non costituisce il «Golgota» della storia e della cultura ebraica. Per gli ebrei resta infatti una «Shoah», letteralmente «una catastrofe», e non un «Olocausto» (un sacrificio cruento e che si consuma totalmente) concetto che non ha diritto di cittadinanza nella nostra cultura. La Shoah non è neppure il martirio, semmai l'apice di un antigiudaismo con radici cristiane ben piantate che ha visto spesso assassini e delatori di ebrei che erano appena usciti dalla Chiesa per la Messa mattutina o carnefici che nella stessa Auschwitz piantavano l'albero di Natale. Nonostante la Shoah, l'ebraismo ha tuttavia continuato a esprimere una resilienza culturale e identitaria che ha visto gli ebrei continuare a esercitare quel ruolo di minoranza che vive e che lotta affinché ci siano sempre culture di minoranza. Gli ebrei oggi si esimerebbero ben volentieri dal ruolo scomodo di «sentinelle» della società civile se il tessuto sociale non fosse silente qual è e se non si assistesse a una demolizione progressiva di tutti quei tabù e di quegli argini che hanno retto, pur con sfumature ambigue, per tanti anni.
   Oggi, lo Stato di Israele costituisce in effetti il punto nodale dell'insofferenza degli antisemiti, come segnala Galli della Loggia, il quale scrive che Israele mortificherebbe l'Europa «contrapponendo alla nostra pavida debolezza una rude fiducia e familiarità con la forza per noi inconcepibili», mettendo in luce un concetto che, nell'ottica di uno Stato minuscolo accerchiato da nemici numerosi e potenti, fa la differenza fra vita e morte. Ma la forza di Israele continua a essere più interiore che militare, sulla base di quei principi etici e democratici, del pluralismo, del garantismo giuridico che lo caratterizzano fin dalla sua nascita. La vecchia Europa della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità, che di fraternità ne offre in realtà sempre meno, fatica a reggere il confronto con un Paese minuscolo che è riuscito a canalizzare la rabbia e il dolore nel costituirsi come un laboratorio politico, sociale e culturale pressoché unico al mondo e come tale, ancora una volta, osteggiato proprio per ciò che è riuscito a divenire. E' l'ambiguità di un approccio di comodo a far sì che l'Europa voglia credere che lo Stato d'Israele sorga per via della Shoah anziché, come invece sarebbe palese, suo malgrado; come dire che, se la catastrofe dell'ebraismo europeo non ne è la premessa, Israele non saprebbe esserne la conseguenza. Israele non costituisce, peraltro, un risarcimento per una tragedia che è tale proprio perché non risarcibile, ma è uno Stato plurietnico, che ha raccolto, nel corso di più di cento anni di evoluzione, persone, storie, culture e identità accomunate dal richiamo a un ebraismo plurale e diversificato quanto a origini e prospettive. Quale democrazia moderna, Israele vive le frizioni, le difficoltà, le tensioni, le speranze come anche le delusione di una società pluralista in costante trasformazione e si confronta con gli effetti della globalizzazione, dove la crisi dei vecchi ordinamenti geopolitici ma anche l'erosione delle sovranità nazionali, costituiscono elementi dell'agenda politica quotidiana, che al primo posto reca l'esigenza della sua legittimazione internazionale. L'esilio della coscienza che sembra sempre più pervadere la nostra Europa va riempito di coscienza presente. La speranza sta nei pochi «Giusti» (secondo una Tradizione, ve ne sono 36 in ogni generazione) che, seppure «antipatici» come scrive della Loggia, richiamano alla mente la fiammella accesa di fronte al buio e all'oscurità della coscienza e della barbarie.

* Rabbino, direttore del Dipartimento Cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(Corriere della Sera, 4 dicembre 2019)


E’ senz’altro vero che la Shoah non è un Olocausto, ma dire che l’Olocausto, cioè un sacrificio cruento che si consuma totalmente, è un concetto “che non ha diritto di cittadinanza” nella cultura ebraica appare abbastanza strano a chi legge la Bibbia, al punto di chiedersi che rapporto c’è tra questo tipo di cultura e il testo a cui fa riferimento: la Torah scritta. Il libro del Levitico è pieno di esempi di “olocausti”, cioè di sacrifici interamente bruciati dal fuoco. Per dirne solo uno: Levitico 1:13 “... il sacerdote presenterà tutto e lo brucerà sull’altare: è un olocausto (sacrificio mediante fuoco, עלה הוא אשה)". M.C.


«C'è l'ossessione del nazismo e sfuggono nuovi antisemiti»

Il monito del coordinatore del tribunale rabbinico: «Lo Shoahismo non ci fa capire islamismo e sinistra».

Anti-Israele
Le accuse antisioniste ricalcano e aggiornano i vecchi stereotipi
L'allarme
Nei laburisti e in Francia gravi focolai. Commissione Segre strumentalizzata

di Alberto Giannoni

- Vittorio Robiati Bendaud, coordinatore del tribunale rabbinico del Centro-Nord-Italia, cosa pensa del caso di Siena e delle deliranti esternazioni antisemite del professor Castrucci?
  «Intanto mi chiedo come sia possibile che nelle sedi accademiche non vi sia stato un vaglio critico, che non siano stati mai segnalati né verificati questi deliri. Nessuno si è mai reso conto di nulla? Non è mai venuto fuori nulla? Mi sembra molto strano».

- Come valuta questo caso?
  «È inquietante che in un' accademia accada una cosa del genere, così come inquietante che nelle università vi siano trend intellettuali di un antisemitismo che si esprime come antisionismo. Questo signore ha espresso un antisemitismo filonazista. In una misura più diffusa e spesso più difficile da indagare e contrastare si trova un antisemitismo che si esprime nell'anti-Stato di Israele e nel suo boicottaggio. C'è una recrudescenza e serve una presa di coscienza della comunità accademica. Se non si interviene su entrambi i fenomeni, l'intervento è monco».

- Martin Luther King scrisse che «quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei». E il rabbino Giuseppe Laras considerava l'antisionismo una «ambigua forma» di antisemitismo. Ma c'è chi sostiene che debbano essere considerate due cose diverse.
  «Oggi Alain Finkielkraut e Georges Bensoussan, con altri, pongono il problema di questo antisemitismo che cova anche grazie al terzomondismo e al globalismo di certi ambienti. È un problema serio che vediamo in Francia nella sinistra soprattutto radicale e in Inghilterra nei laburisti. Cose distinte? Le accuse antisioniste ricalcano e aggiornano vecchi stereotipi: il crimine rituale si ritrova nella narrazione degli israeliani che uccidono i bimbi palestinesi; l'ebreo che succhia il sangue nell'idea di sfruttamento del mondo arabo; l'ebreo che sotto-sotto è il peggiore razzista si ritrova nell'accusa di apartheid. Ci sono vignettisti che ripropongono orrori antigiudaici. L'antisemitismo è anche un problema degli intellettuali».

- Cosa intende?
  «Quando si è strutturata la teoria della sostituzione si è proposto il mito dell'ebreo errante. Oggi si vede l'Ue, con Paesi che hanno avuto connivenze e gravi corresponsabilità passate, non riconoscere il nome ebraico del Muro occidentale e del Monte del tempio, e utilizzare esclusivamente quello islamico. Significa negare l'ebraicità dei luoghi più santi dell'ebraismo, è negazione del passato, del presente e del futuro ebraico, cancella la storia ebraica. Se non è antisemitismo questo ... È istituzionale, culturale, ma resta antisemitismo che si traduce anche nella negazione della radice biblica, e quindi anche cristiana, dell'Europa».

- Sono però vicende diverse da quelle deliranti di Siena
  «Certo, non siamo sullo stesso livello. Sono cose diverse, sofisticate. Ma c'è un'ossessione per alcuni aspetti e una sottovalutazione di altri. Faccio un esempio. Un professore, Alessandro Barbero, scrive che non sa se sia corretto considerare genocidio quello armeno. Non entro nella questione ma la parola genocidio è stata inventata da un ebreo pensando proprio agli armeni. Mi chiedo: e se fosse stato detto della Shoah?»

- Il genocidio armeno è considerato la vicenda più tragicamente prossima alla Shoah.
  «Certo, e ispirò i nazisti, questo è documentato. Se qualcuno lo avessero fatto con la Shoah sarebbe stato sommerso dalle accuse. Allora la Memoria e la giusta e capillare attenzione per Shoah rischiano di avere questo effetto imprevisto. Si condanna solo il nazismo e non l'antiebraismo. Con lo "Shoahismo" non si comprende l'antisemitismo islamista e quello di sinistra. Gli ebrei sono stati fatti oggetto d'odio con pretesti anche opposti fra loro».

- La tragedia degli ebrei nei Paesi islamici. Ne ha scritto
  «Parte della mia famiglia viene dalla Libia. Gli ebrei c'erano da prima degli arabi. Di questa presenza là oggi non è rimasto niente, solo silenzio riempito raramente di nostalgia, più spesso dalla propaganda e dall'odio, alimentato anche dai classici del nazismo tradotti col favore prima dei nazisti e poi dei comunisti. Non è tutto l'islam, ma è tanta parte, sia nei Paesi islamici sia ora in Europa, con ammiccamenti a sinistra. In Italia il fenomeno è attenuato».

- In Europa la situazione è diventata preoccupante
  «L'aggressione dei gilet gialli a Finkielkraut, e la deriva del Labour inglese, dicono che c'è il rischio che a sinistra si formino covi di antisemitismo. Diversamente in Italia, ma qualcosa nel tessuto europeo si è già rotto. Il rabbino capo d'Inghilterra ha invitato a non votare Corbyn. Le destre serie, i liberali e le sinistre laiche, compreso il Pd e Renzi, devono affrontare ciò in modo efficace e magari in sinergia».

- La commissione Segre?
  «Se si fosse evitato di strumentalizzare una questione così importante per andare contro Salvini si sarebbe rispettata la biografia di Liliana Segre, che arricchisce il nostro universo democratico e civile. Poi ci sono anche persone che, pur rispettando Liliana come persona e come senatrice, possono legittimamente dissentire. Speriamo che produca strumenti utili, ma la possibilità di intervenire esiste già, anche in casi come quello di Siena».

(il Giornale, 4 dicembre 2019)


Israel Cycling Academy, assemblate 30 bici in 36 ore

Il mese di dicembre è davvero molto frenetico per le squadre professionistiche, che si stanno preparando per affrontare al meglio una stagione che è quasi alle porte. Per le formazioni World Tour, ad esempio, la stagione inizierà già tra un mese e mezzo, con il Tour Down Under che darà il via alla stagione in Australia.
In questo mese di lavoro così intenso non sono coinvolti solo i corridori, ma anche lo staff delle squadre. Non sappiamo se è un record, ma possiamo di certo testimoniare che il lavoro svolto dalla Israel Cycling Academy è stato davvero febbrile: i 6 meccanici che sono al seguito del team hanno assemblato 30 bici in 36 ore, in quanto tutto il materiale è stato consegnato solo due giorni fa, ed oggi era prevista la prima uscita di gruppo con i nuovi mezzi.
La Israel Cycling Academy sta aspettando l'ufficialità dell'UCI per entrare nel World Tour nel 2020: la commissione licenze dovrebbe esprimersi l'11 dicembre. Nel frattempo, la squadra ha già ufficializzato il cambio di fornitore di biciclette, che dal 2020 non sarà più De Rosa ma Factor.
La squadra sta svolgendo tre giorni di ritiro in Croazia, al Valamar Diamant Hotel di Porec, prima di andare in Israele per la presentazione ufficiale e per svolgere il ritiro invernale.

(InBici, 4 dicembre 2019)


Anniversario delibera spartizione Onu

Le parole di un leader della sinistra israeliana a Ramallah

di Ugo Volli

Giovedì scorso, nel palazzo della Mukata a Ramallah, si è svolto un evento rievocativo della votazione dell'Assemblea Generale dell'Onu che ne 1947 stabilì la partizione del mandato britannico (già suddiviso nel '21 dalla Gran Bretagna).
   Come è noto Israele accettò la divisione, anche se era tracciata in maniera da rendere difficilissima la sopravvivenza della parte ebraica, gli arabi la rifiutarono, il giorno stesso con la complicità britannica iniziarono attacchi terroristici agli insediamenti ebraici e ad aprile del '48, quando Israele proclamò finalmente il suo stato alla vigilia della partenza degli inglesi, le armate di tutti gli stati arabi circostanti tentarono di invadere e distruggere il neonato stato di Israele; ma con grandi sacrifici furono sconfitte dall'esercito israeliano e nel '49 dovettero ritirarsi dietro una linea armistiziale ben più arretrata, la cosiddetta linea verde.
   Da questa storia l'evento della Mukata, amministrato dal noto filoterrorista Jibril Rajoub, non ha tratto motivi di riflessione sulla necessità di un accordo, ma al contrario ha voluto rilanciare la narrativa palestinista sull'«occupazione israeliana». L'aspetto più curioso di questa riunione è la presenza di circa 300 ebrei israeliani. Erano i soliti ultraortodossi antisionisti di Naturei Karta, che hanno usato l'occasione per dichiarare che l'"entità sionista" non rappresenterebbe il popolo ebraico, sarebbe odiata da "Allah" (questo è il nome con cui il loro leader Meir Hirsh ha scelto per l'occasione di chiamare la Divinità) e costituirebbe la violazione di tutte le leggi internazionali: un piccolo gruppo di estremisti che frequenta con piacere tutti gli antisemiti da Corbyn a Achamadinedjad, e la cui presenza non poteva meravigliare.
   Dall'altro lato, però, c'era una folta rappresentanza di militanti di sinistra: alcuni cani sciolti, ma soprattutto Mosi Ratz l'ex leader e ancora influente dirigente del partito israeliano di sinistra Meretz, l'unico che abbia ufficialmente abiurato il sionismo, alla guida di una delegazione di alto livello.
   Raz ha parlato avendo alle spalle una foto di Yasser Arafat e ha detto: "Siamo venuti qui per esprimere la nostra solidarietà con il popolo palestinese nei territori occupati, in esilio nella speranza che i ministri palestinesi entrino presto nel prossimo governo. Sostengo uno stato palestinese entro i confini del 67 con uno scambio di territori concordato a fianco dello Stato di Israele, la cui capitale dev'essere Gerusalemme est. Questo marzo andremo alle elezioni in cui Netanyahu sarà sconfitto e Gantz sarà eletto."
   E' una dichiarazione molto significativa, non solo per il luogo e l'occasione, ma anche per il contenuto. Meretz, pur avendo pochi seggi, è un pezzo centrale della coalizione di Gantz che certamente non può farne a meno. Si è molto parlato del pericolo di un accordo fra il partito bianco-azzurro e gli arabi filoterroristi, ma non abbastanza dell'influenza dell'estrema sinistra ebraica.
   La dichiarazione di Raz spiega molto sulle ragioni reali del braccio di ferro che è in corso nella politica israeliana da un anno. Non è detto che Ganz sia d'accordo, ma è chiaro che il progetto di alcune forze che lo appoggiano e di cui egli avrà certamente bisogno consiste nel cancellare o minimizzare la natura ebraica dello stato di Israele, rovesciando le scelte di settant'anni fa.

(Progetto Dreyfus, 4 dicembre 2019)


I tweet deliranti del professore: ''Hitler difendeva la nostra civiltà''

Il docente insegna Filosofia del Diritto a Siena. Il rettore: via dall'Ateneo. Lui: libertà di pensiero.

di Flavia Amabile

ROMA - Ha rifiutato di incontrare il suo capodipartimento e ha rivendicato la libertà di pensare e dire quello che vuole. «Il re è nudo, ma da sempre guai a chi lo dice», è la sua unica reazione ufficiale affidata a Twitter dopo ore di polemiche e attacchi.
   Sono le parole di Emanuele Castrucci 67 anni, l'ultimo di una ormai troppo lunga serie di nostalgici revisionisti, sostenitori di tesi tra apologia del fascismo, antisemitismo e neonazismo. A differenza di chi lo ha preceduto in questa inquietante galleria, è un professore universitario: ordinario di filosofia del diritto all'Università di Siena. Qualcuno potrebbe ricordare che, oltre a insegnare, come molti professori di università, scrive libri e collabora con riviste, e che ha firmato anche un articolo su Primato Nazionale di Casapound. Oppure che è vero che ha scritto su Twitter: «Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo», accompagnato da una foto di Hitler. Ma è anche vero che il suo profilo è zeppo di frasi del genere e che finora nessuno sembrava essersene accorso, nemmeno i suoi studenti, i colleghi di università o il rettore.
   Al termine di una riunione del Senato accademico convocata d'urgenza, il rettore dell'Università di Siena, Francesco Frati, annuncia che presenterà denuncia alla procura per apologia di fascismo nei confronti del prof e che sarà avviato «un procedimento disciplinare interno» e sarà richiesta la sua destituzione dalla cattedra.
   «Siamo intervenuti subito con tutti i mezzi a nostra disposizione», rivendica il rettore. Impossibile farlo prima, spiega: «Si conoscevano i suoi orientamenti politici ma non era mai arrivato a esternazioni come quella che ha scatenato la polemica». Quando si fa notare al rettore che i post che strizzavano l'occhio al nazismo sono stati invece molti, il rettore si difende: «Per gli obblighi che ho nei confronti dell'ateneo devo intervenire quando sono sicuro che quello che oppongo al docente abbia un fondamento giuridico sia da un punto di vista di regolamento dell'ateneo sia sotto il profilo penale».
   Emanuele Castrucci insegna da circa venti anni a Siena, possibile che non ci siano stati altri episodi simili? Il rettore ne è sicuro: «Ho chiesto sia ai docenti sia agli studenti: non hanno mai sentito nulla di simile durante le lezioni».
   Il ministro dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti, è intervenuto, anche se sulla vicenda non ha potere: «Ho sentito il rettore Frati, mi ha comunicato la sua intenzione di prendere provvedimenti. Bene. Su queste cose non si scherza. Mai». Il governatore Enrico Rossi ha dato mandato all'avvocatura regionale di «denunciare per apologia di fascismo il signor Emanuele Castrucci» e la comunità ebraica di Firenze, competente anche per Siena, ha annunciato un esposto alla procura.

(La Stampa, 3 dicembre 2019)


Ma gli ebrei hanno paura della sinistra

L'allarme lanciato dal presidente dei rabbini europei. Pinchas Goldschmidt: l'antisemitismo oggi emerge in chi appoggia l'immigrazione.

di Giovanni Sallusti

Rav Pinchas Goldschmidt
Le castronerie del professor Castrucci (quasi un caso di nomen omen) vanno prese sul serio e sbugiardate, ovviamente. Operazione del resto di una facilità rara: Hitler non fu il il "difensore della civiltà europea", come vaneggia l'oscuro prof su Twitter, ma piuttosto colui che provò a distruggerla in tutto ciò che la contraddistingueva per rifondarla ex-novo, su basi totalitarie. In ogni caso: non sminuire, agire, adottare provvedimenti, come oggi diranno tutti. Quel che ( scommettiamo") non dirà quasi nessuno, è che bisognerebbe prendere altrettanto sul serio l'allarme lanciato da Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza dei rabbini europei, non un accademico sciroccato di provincia. In un'intervista al network israeliano Arutz Sheva, ha messo in fila alcune verità che sono altrettanti ceffoni al politicamente corretto, quell'ideologia pigra strumentalmente imbalsamata nel culto degli ebrei morti, ma indifferente o nemica esplicita degli ebrei vivi. Stando sull'antisemitismo contemporaneo, dice il capo dei rabbini continentali, occorre partire dalla presa d'atto che «siamo davanti ad un fenomeno completamente nuovo». Ce lo racconta la quotidiana cronaca nera: «Negli ultimi anni nessun ebreo è stato ucciso dai neonazisti in Europa», scandisce Goldschmidt, e figuratevi quanta simpatia possa provare costui per gli esaltati rottami della Storia in svastica e braccio teso. L'uomo però è anche assai affezionato al principio di realtà: «Questa è la verità ed il dato da cui partire». E la prima conclusione a cui porta è già un colpo da Ko per tutti gli antifa di professione, per tutti gli integralisti della Commissione Segre, per tutti i Piano e i Lerner, per tutte le Sardine e le specie ittico-mediatiche allevate negli acquari radical: «Oggi i maggiori problemi li abbiamo dalle sinistre, questa è la grande novità sul fronte dell'antisemitismo». Gioco, partita, incontro.
   Agli occhi di un importante leader ebraico europeo, uno come Jeremy Corbyn, che si candida a premier di un Paese decisivo per la civiltà occidentale quale il Regno Unito, e che nel suo curriculum ha la presenza a una cerimonia in onore di due membri del commando che fece strage di atleti israeliani a Monaco, è assai più inquietante della nostrana Miss Hitler, che al massimo va bene per una pellicola nazi-pecoreccia di serie C. Ma anche i personaggi(ni) di casa nostra confermano il teorema-Goldschmidt, basti pensare al ministro dell'Istruzione pentagretino Lorenzo Fioramonti, che nel 2016, quando era docente in Sudafrica all'Università di Pretoria, partecipò attivamente al «boicottaggio accademico internazionale contro gli ufficiali israeliani», rivendicando anche la scelta in un'intervista a Daily Vox. O alla piddina Federica Mogherini, che nella veste di Alto rappresentante per la politica estera Ue è stata la migliore amica e protettrice del regime nazislamico iraniano, una "collaborazionista", si sarebbe detto ai vecchi tempi.
Ma non è finita: di fronte alla domanda precisa «Cosa è successo per questo cambio di scenario?», il rabbino nomina l'innominabile, spezza il dogma fondamentale del multiculturalismo acefalo del Vecchio Continente. «La causa è l'immigrazione di milioni e milioni di persone dal Medio Oriente. È molto semplice».
   Semplice e tragico, nella sua ineluttabilità: l'Europa ospita dissennatamente frotte di fedeli in Allah (lasciando circolare perfino gentiluomini già condannati per terrorismo come l'attentatore del London Bridge). La sinistra nella sua versione millennial, iperimmigrazionista e antioccidentale, diventa il loro partito di riferimento. Il virus antisemita prende sempre più possesso del corpaccione della sinistra, il che significa che viene anche sempre più sdoganato dentro tutto i suoi megafoni mediatici, accademici, intellettuali, quel sistema che Gramsci chiamava le «casematte» del potere.
Capite che se per le orride boutade di un Castrucci dobbiamo preoccuparci, di fronte all'antisemitismo montante dei compagni siamo, appunto, in pieno allarme rosso.

(Libero, 3 dicembre 2019)


Amazon choc. Vendeva oggetti del Natale con foto di Auschwitz

di Letizia Tortello

Un apribottiglie colorato, un tappetino per il mouse, c'erano perfino le formelle da appendere all'albero di Natale. Tutto in versione gadget colorato con vischio e fiocchettini, souvenir di viaggio in finta ceramica con la scritta «Krakow, Poland»
. L'immagine stampata sugli oggetti tranquillamente messi in vendita su Amazon raffigurava il paesaggio della morte e dell'orrore del Novecento, le baracche e i caseggiati di Auschwitz
.

 Ritirati dopo la denuncia del museo
  È la scoperta denunciata domenica dal memoriale del lager nazista, che con un tweet ha invitato il colosso dell'e-commerce a rimuovere immediatamente gli ornamenti dalle pagine dei prodotti acquistabili. «Commercializzare oggetti del Natale con le foto di Auschwitz è inappropriato - hanno detto i vertici del museo-. Auschwitz su un apribottiglie è inquietante e irrispettoso». Nel giro di poche ore, il post è stato condiviso migliaia di volte, e ha radunato commenti indignati e pieni di rabbia contro Amazon e contro i mancati controlli dei prodotti venduti attraverso la sua piattaforma. Alle 13,30, in un altro tweet, sempre il memoriale ha fatto sapere che le pagine erano state rimosse. Di quelle foto agghiaccianti, provocazioni di pessimo gusto, che non fanno che infiammare i pericolosi rigurgiti neonazisti diffusi qua e là in Europa, per fortuna non v'era più traccia. «Tutti i venditori devono seguire le nostre linee guida e coloro che non lo faranno saranno sottoposti ad azioni da parte nostra, inclusa la potenziale rimozione del loro account», ha reagito Amazon. Ma non è ancora chiaro per quanto tempo la merce sia stata pubblicizzata online. Su questo punto, il colosso dell'e-commerce non risponde. Un ex dipendente dell'azienda, Chris McCabe, ha tenuto a spiegare ai media internazionali che «il portale è solitamente molto reattivo, prima con algoritmi che filtrano i prodotti non conformi alle policy, poi con la valutazione umana, nel cancellare gli annunci inopportuni», ma non sempre gli è possibile controllare tutto, soprattutto sotto Black Friday, quando il traffico della compravendita aumenta. Purtroppo, i casi come quello accaduto domenica non sono isolati. Non è infrequente trovare cimeli nostalgici del nazismo sulle pagine dello shopping online. A inizio anno scorso, aveva fatto scandalo la Lidl, che in Polonia aveva messo in vendita camicie della sua linea di moda Esmara, somiglianti in modo inquietante alle casacche dei detenuti dei lager.

(La Stampa, 3 dicembre 2019)


Scoperti frammenti di un mosaico dell'antica comunità di Majdolia

E' stata annunciata, lunedì, la scoperta di frammenti di un mosaico negli scavi di una sinagoga dell'antica comunità di Majdolia, sulle alture del Golan. Secondo i ricercatori la sinagoga, attiva dal I secolo e.v. (dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme) sino alla fine del III secolo, rappresenta la più antica testimonianza nella zona di un mosaico a colori relativamente ricercato.
La scoperta getta nuova luce su una comunità ebraica poco conosciuta, ma fiorente, nell'estremo nord della Terra d'Israele. Alcuni anni fa gli archeologi hanno scoperto nel sito i resti di una sinagoga rettangolare di 13 metri per 23: un rinvenimento assai rilevante poiché la maggior parte degli esperti ipotizzava che la presenza ebraica sulle alture del Golan fosse venuta meno dopo la prima guerra ebraico-romana e la distruzione nel 67 e.v. di Gamla, importante centro commerciale della zona in quell'epoca.
I mosaici appena scoperti, nonostante il cattivo stato di conservazione, sembrano indicare che non solo la presenza ebraica era continuata, ma era abbastanza fiorente da arricchire di decorazioni lo spazio pubblico. Gli scavi a Majdulia, vicino all'odierna Natur, sono iniziati nel 2014 sotto la guida di Mechael Osband, membro del Dipartimento Studi in Terra d'Israele dell'Ohalo College e dello Zinman Institute of Archaeology dell'Università di Haifa. Negli ultimi anni è stato affiancato da Benjamin Arubas, dell'Università di Gerusalemme.

(israele.net, 3 dicembre 2019)


Cartelli per strada

In Ungheria c'è una campagna antisemita da parte dei sostenitori di Orbàn contro due giornalisti

ROMA - Sono apparsi dei cartelli per le strade di Budapest che mostrano i volti di due giornalisti, Gàbor Miklós e Andràs Dezsö, dietro di loro la bandiera di Israele e, sotto, la scritta: "Anche noi venivamo dall'altra parte del confine". I due giornalisti sono bersaglio della propaganda di estrema destra, orbaniana e antisemita che dopo la sconfitta elettorale dello scorso ottobre ha ricominciato a farsi sentire nel partito del primo ministro. Incastrato tra un problema interno più piccolo ma bruciante e da uno più grande ed europeo, Fidesz ha deciso di attaccare. Di riprendere il ritmo, senza sosta, e l'aggressività, senza tentennamenti, che mesi fa aveva utilizzato contro gli alleati europei e che aveva portato alla sua sospensione all'interno del Partito popolare europeo, dove ancora oggi vive da sorvegliato speciale. Andràs Dezsö viene attaccato ormai da tempo dai media vicini a Viktor Orbàn, circa quattrocento testate, ma Gàbor Miklósi è un nuovo bersaglio e la sua esperienza è iniziata allo stadio, nella congiuntura, sempre più stretta, tra tifoserie, estrema destra e una passione sconfinata da parte del primo ministro per il calcio e i suoi templi. Agli stadi Orbàn ha dedicato molta cura, una recente inchiesta del New York Times aveva anche dimostrato che il governo ungherese destina più fondi agli stadi che agli ospedali, e per l'apertura del Puskàs Aréna, un simbolo del passato, demolito e ricostruito in modo che desse lustro al calcio ungherese, il primo ministro ha voluto una grande festa, una acclamazione sontuosa, degna del denaro e delle energie impiegate. Durante la celebrazione Miklósi assisteva dalla tribuna vip, impressionato dalla bellezza dello stadio, un po' arrabbiato per la sua ricchezza, è rimasto seduto nel momento in cui veniva intonata una canzone, "l'inno non ufficiale" della FC DAC, una squadra di una città slovacca in cui il 75 per cento della popolazione è ungherese. I versi, che il giorno dell'inaugurazione venivano eseguiti da un coro di bambini, sono dedicati alla purezza del sangue ungherese, che va ben oltre i confini del trattato di Trianon, ben oltre Budapest, ma si estende a tutta la popolazione ungherese che vive al di fuori dell'Ungheria. I versi sono stati scritti da un gruppo rock che ha preso ispirazione da Albert Wass, uno scrittore controverso, considerato in Romania colpevole di crimini di guerra.
   Non è un caso se spesso le canzoni della band vengono cantate da gruppi di estrema destra, dai quali Fidesz non si è dissociato negli ultimi tempi, e se i testi delle canzoni non fanno altro che parlare dell'importanza di avere "lo stesso sangue", della grandezza dell'Ungheria, e se rievocano concetti pericolosi legati a regimi del passato come la Germania nazista. Mentre il coro intonava la canzone, dagli spalti gli spettatori sono scattati in piedi, hanno iniziato a cantare e a evocare la purezza del sangue che scorre nelle vene degli ungheresi e Miklósi di fronte a un tale spettacolo e cogliendo la gravità delle parole ha deciso di rimanere a sedere. Il suo atteggiamento è stato notato da tutta la stampa, da televisioni e giornali che hanno detto che non si poteva di certo parlare di un comportamento patriottico: quale patriota si rifiuterebbe di alzarsi in piedi durante l'esecuzione "dell'inno della coesione ungherese?". Il giornalista ha risposto ai commenti dicendo che lui si alza in piedi soltanto per l'inno, ma quello vero, non certo per la canzone di un gruppo rock che trae ispirazione dagli scritti di un criminale di guerra. Sulla questione giornali e televisioni si sono infervorati e la discussione tra commentatori, politici, tutti del mondo di Orbàn, si è conclusa con una constatazione: se Miklósi non si è alzato evidentemente era perché "non è dei nostri", è altro. E ancora: "E' un miserabile signor nessuno, un vero ungherese si sarebbe alzato", è "un mostro". Ovviamente il tema dell'altro, del diverso ha iniziato a diventare sempre più specifico, fino a quando alcuni giornalisti non hanno parlato del problema degli "ebrei galiziani" che hanno invaso l'Ungheria. Racconta il sito Hungarian Spectrum che in pochi hanno preso le difese di Miklósi, soltanto un giornale vicino al partito Jobbik, così Gàbor Miklósi ha ritrovato il suo volto accanto a quello di Andràs Dezsö per le strade di Budapest.
   La scorsa settimana l'Anti Defamation League riportava un sondaggio in cui si registrava un ritorno degli atteggiamenti antisemiti nell'Europa orientale sempre più prominente, vecchi e nuovi stereotipi si fondono e aumentano a causa di una politica che non soltanto non fa nulla per punire il fenomeno, ma ne è parte. Un esempio è arrivato proprio dal vicepresidente del partito Fidesz che ha accusato "gli ebrei" del risultato elettorale in una contea in cui Fidesz ha perso. Come fa notare su Twitter la giornalista di Politico Lily Bayer, in quella contea non esiste più nessuna comunità ebraica, sono stati deportati tutti nei campi di sterminio 75 anni fa. Da parte di Orbàn nessun commento, nessuna presa di posizione. Micol Flammini

(Il Foglio, 3 dicembre 2019)


L'ambigua sinistra inglese

Tra i laburisti casi dii minacce e aggressioni. Corbyn sotto accusa, denuncia pubblica di 67 esponenti del partito

Indignazione
Critiche severe sono arrivate dal rabbino capo Mirvis ma anche dall'arcivescovo di Canterbury Justin Welby
Abbandoni
John le Carré e Frederick Forsyth, tra gli altri, hanno annunciato che non voteranno più per il Labour

di Paolo Mieli

 
Justin Welby e Ephraim Mirvis
Impossìbìle valutare quanto influirà sulle imminenti elezioni inglesi l'atto terroristico compiuto da Usman Khan venerdì scorso sul London Bridge. Poco, secondo la maggior parte degli osservatori e per quel poco a vantaggio di Boris Johnson che i sondaggi danno in ogni caso come vincitore. Del resto il partito di Nigel Farage ha deciso di facilitare il partito di Johnson non presentando propri candidati nei seggi in cui i conservatori prevalsero nel giugno 2017. Ma è vero altresì che proprio nel giugno 2017 Theresa May, data per iperfavorita dalle rilevazioni demoscopiche, perse inaspettatamente tredici seggi e con essi la maggioranza assoluta nel Parlamento inglese. Un identico passo falso - quello di provocare le elezioni sicuro di vincerle - lo aveva fatto nel 197 4 il conservatore Edward Heath a tutto vantaggio del laburista Harold Wilson. La Gran Bretagna ci ha abituato a questo genere di sorprese. Anche grandi.
   Il laburista Jeremy Corbyn si mostra perciò ottimista anche in virtù di un programma davvero ambizioso: tassazione super per le imprese - a cominciare dalle multinazionali come Amazon, Google e Facebook - e per coloro che guadagnano più di ottantamila sterline l'anno (il 5% degli inglesi); nazionalizzazione di ferrovie, acqua, energia e poste (rimborsando le società mediante titoli di Stato, come fece tra il 1946 e il 1948 Clement Attlee. E non solo.
   Jeremy Corbyn prevede anche un aumento della spesa pubblica di 83 miliardi, settimana lavorativa accorciata a 32 ore, aumento del 5% dei salari, controlli odontoiatrici gratuiti una volta l'anno, abolizione delle tasse universitarie, 150 mila nuove case popolari, banda larga per tutti entro il 2030.
   L'insieme in una visione della politica internazionale dai forti connotati antiatlantici corroborati da una più che decisa simpatia per organizzazioni come Hamas e Hezbollah ( definite «amiche») e di spiccata antipatia nei confronti «delle politiche dello Stato di Israele». A tal punto evidente che in molti, anche dall'interno del Partito laburista, hanno identificato in essa i caratteri di un'ostilità a Israele tout court, sconfinante per di più in un (magari involontario) sentimento antisemita.
   Ne ha parlato in un editoriale sul Times (in termini assai più decisi di quelli che ho testé usato), il rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth Ephraim Mirvis domandandosi e domandando ai lettori: «Che ne sarà degli ebrei e dell'ebraismo britannico se il Labour formerà il prossimo governo?». Ma ancor più clamoroso è che l'appello di Mirvis sia stato fatto proprio e rilanciato - con parole ugualmente impegnative - dall'arcivescovo di Canterbury Justin Welby.
   Corbyn, alla guida dei laburisti inglesi dal 2015, non è nuovo a questo genere di rilievi. Non si contano, nella sua biografia, episodi che anche in Italia avrebbero sollevato (immaginiamo) commenti aspri non soltanto da parte ebraica: la partecipazione, nel 2012 a Tunisi, a una cerimonia in onore di uno dei terroristi che nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco avevano sequestrato e ucciso atleti israeliani; l'amichevole incontro con il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina alla vigilia di un attentato a una sinagoga di Gerusalemme in cui sarebbero rimasti uccisi quattro rabbini (uno dei quali inglese: Avraharn Shmuel Goldberg); la conferenza con Khaled Meshaal, il leader di Hamas già sulla «lista nera» del Regno Unito; la protesta contro il sindaco di Londra reo cli aver fatto cancellare un dipinto murale di Mear One - un nome d'arte - da lui, non a torto, ritenuto antisemita; la prefazione a sua firma alla ristampa di un libro del 1902 in cui John Atkinson Hohson sosteneva essere il capitalismo internazionale «controllato da uomini di una singola razza particolare» (analisi «corretta e lungimirante» l'ha definita Corbyn); il capo laburista ha altresì chiamato «fratello» Abdud Aziz Umar condannato a sette ergastoli per aver fatto esplodere a Gerusalemme un ristorante, provocando la morte di sette persone. E si potrebbe continuare ...
   Intendiamoci, presi uno per uno tutti questi casi (alcuni più, alcuni meno) potrebbero trovare delle giustificazioni. Ma nel loro insieme non possono non suscitare perplessità. Del resto Corbyn non è stato certo il primo nel mondo laburista a manifestare sentimenti del genere. L'ex sindaco di Londra Ken Livingstone provocò un grande trambusto allorché sostenne l'ardita tesi secondo cui; «quando Hitler vinse le elezioni, la sua politica era che gli ebrei dovessero spostarsi in Israele ... Hitler era di fatto un sostenitore del sionismo prima che perdesse la testa e finisse per uccidere sei milioni di ebrei». Un candidato alle amministrative di Peterborough, Alao Bull, aveva poi più sbrigativamente sostenuto essere l'Olocausto «una bufala».
   Recentemente l'atmosfera si è fatta ancora più calda. In febbraio la deputata Luciana Berger ha strappato la tessera dopo che a un congresso del Labour aveva subito minacce e aggressioni fisiche a seguìto delle quali le era stata assegnata una scorta. Joshua Garfield ha lamentato di essere stato qualificato come «sporco sionista». La deputata laburista Margaret Hodge si è ribellata e ha accusato il leader del suo partito di essere un «fottuto antisemita». Dopo di lei 67 esponenti del Labour hanno acquistato una pagina sul Guardian per rilanciarne le denunce.
   In maggio la Commissione per l'eguaglianza e i diritti umani ha aperto un'inchiesta sul Labour Party per «aver illecitamente discriminato, importunato e perseguitato persone appartenenti alla comunità ebraica». Appresa questa notizia, il celebre autore britannico di spy story John le Carré (nome d'arte di David John Moore Comwell) ha annunciato che non voterà più per i laburisti: una sorpresa dal momento che le Carré è un convinto anti-Brexit, anti-Trump e un protagonista del suo ultimo libro, «La spia corre sul campo», definisce Boris Johnson un «maiale ignorante». In molti si sono uniti a le Carré, tra i quali un altro grande scrittore, Frederick Forsyth, nonché l'attrice Ioanna Lumley. Alan Sugar, tradìzìonale finanziatore del partito della sinistra britannica, ha annunciato che non darà più un soldo.
   In luglio un documentario della Bbc ha reso pubbliche otto testimonianze che dall'interno del Labour denunciavano in modo circostanziato alcuni casi di cui si è detto. Corbyn ha replicato sostenendo che gli episodi accertati vedevano coinvolti lo 0,06 degli iscritti, che lui stesso aveva ordinato l'inchiesta interna per esaminare trecento denunce in merito a episodi di ostilità nei confronti degli ebrei, provvedendo all'espulsione dei colpevoli (la metà degli indagati). L'indagine era stata condotta dall'avvocatessa Shami Chakrabartì, secondo la quale il partito soffriva soltanto di una «occasionale atmosfera tossica». Gideon Levy, un celebre giornalista della sinistra israeliana, ha poi difeso su Haaretz il leader laburista. Ma Corbyn è rimasto sotto tiro.
   L'Anti-Defamation League, in una rilevazione quinquennale sull'antisemitismo compiuta in diciotto Paesi, ha denunciato l'aumento vertiginoso del fenomeno in Europa orientale - con punte record in Russia, Polonia e Ucraina - e la consistente diminuzione in Italia (-11 punti) ma anche, sia pure meno vistosa, nel Regno Unito in cui hanno fin qui dominato i conservatori (-1 punto),
   Stupisce che la sinistra politica e culturale del nostro Paese (con alcune - purtroppo poche - lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell'arcivescovo di Canterbury.

(Corriere della Sera, 2 dicembre 2019)


Ricordare per preservare la convivenza da rigurgiti e violenze

La sintesi delle vicende umane e dei soprusi e delle violenze subite dagli ebrei nel nostro Piemonte deve servirci non solo per ricordare, ma per riflettere..

di Sergio Favretto

Momento difficile, fatti inattesi, troppi motivati allarmi: la senatrice Liliana Segre bersaglio di offese e scortata per necessità, sfilate e raduni con svastiche e saluti romani, richiami ideologici sollecitanti razzismo o antisemitismo, un revisionismo storico anticamera per sdoganare l'esperienza fascista.
E' necessario riflettere.
Anche se è vero che al momento della emanazione delle leggi razziali del 1938, ben pochi furono coloro che presero le distanze dal regime, è poi altrettanto vero che, viceversa, allorché si attuò, a partire dal 1943, la "caccia" vera e propria agli ebrei, non pochi furono gli esempi di aiuto, soccorso e protezione che vennero messi in atto da molti cittadini, a prescindere dal ceto, dall'impiego e dal credo religioso.
Un esempio luminoso di ciò è rappresentato da Bartali, il più famoso corridore ciclista dell'epoca, che contribuì, per quanto possibile, a salvare dalla deportazione e dallo sterminio centinaia di ebrei, che avevano trovato rifugio in strutture di religiosi cattolici in Umbria.
I casi analoghi, in tutta l'Italia allora occupata dai nazisti che, con l'aiuto succube dei repubblichini, premiavano addirittura i delatori e comminavano pene severissime a chi aiutava, in qualunque modo, gli ebrei, sono stati in effetti molti e molti sono e saranno forse per sempre coperti dal segreto.
Altri casi dei quali sono venuto a conoscenza meritano invece di essere conosciuti dal pubblico dell'Incontro.
Nella città di Casale Monferrato e nell'intero Monferrato, in una sola notte, a febbraio 1944, vennero catturati 15 ebrei e portati a Fossoli di Carpi, alle Nuove di Torino e poi nei campi di concentramento in Germania.
Ad inizio '44, il commissario di PS Maiocco, con la collaborazione del segretario politico fascista Bacco e del console Imerico, con l'inganno, aveva raccolto l'elenco completo dei pochi ebrei ancora residenti, anziani, ammalati, ai quali venne promessa l'eesclusione dalla deportazione.
Il prezioso aiuto di semplici casalesi, coordinati dal Vescovo Angrisani, da Francesco Triglia del CLN di Casale, e la generosità di alcuni parroci, diedero vita ad un'alleanza operativa, discreta, ad un'efficiente rete di sensibilizzazione antifascista e di sostegno agli ebrei, anche per le necessità economiche ed assistenziali, con ospitalità in canoniche e cascine isolate in campagna.
Un altro caso emblematico di correlazione e solidale aiuto fra cattolici ed ebrei si ebbe a Moransengo, piccolo paese collinare in provincia di Asti e diocesi di Casale Monferrato.
Don Martino Michelone, nato a Morano e parroco a Moransengo nel '43-'45, nascose nella propria canonica la famiglia degli ebrei Segre di Casale Monferrato.
La famiglia di Segre Riccardo, composta dalla moglie Angela, il figlio Luciano e la zia Elvira, gestiva a Casale, in via Roma, un negozio di tessuti. I tedeschi diedero la caccia, i fascisti sequestrarono beni e negozio. Don Michelone conobbe i Segre acquistando tessuti. Offerse subito ospitalità, coinvolgendo in modo riservato la popolazione. Per mesi sottrasse la famiglia Segre alla cattura ed alla deportazione. Luciano (nato a Casale nel 1933) fungeva anche da chierichetto a Don Michelone.
Ed ancora, significativa ed emblematica del contributo, anche di sangue, che diedero alla Resistenza molti ebrei, sia sotto un profilo operativo, sia di collegamento ed assistenza, fu la vicenda di Sergio Morello, ebreo casalese, nato il 18 giugno 1922 ed ucciso dai nazifascisti a Castellamonte Canavese, il 1o maggio 1945.
Tutta la famiglia Morello, con i fratelli Sergio ed Armando, lasciò Casale dopo l'8 settembre, in quanto erano stati informati dei prossimi arresti dal capitano e dal tenente dei carabinieri, un certo Marino. Essi si stabilirono nel Canavese, a Muriaglio.
Armando era medico e, grazie ad alcuni documenti falsi, poté esercitare la professione, coperto dal medico di Castellamonte, De Rossi Nigra, pronipote di Costantino Nigra, ambasciatore di Cavour. Venne ospitato da un prete locale, antifascista, don Cossavella.
Sergio Morello, viceversa, s'inserì nella formazione partigiana Matteotti, comandata da Davito Giorgio. Nella zona, operavano a Cuorgnè la brigata partigiana comandata da Rossi e la brigata Giustizia e Libertà di Bellandi, il pittore Viano.
Le formazioni della zona condussero alcune azioni di disturbo ed attacco ai tedeschi e il medico Armando Morello dovette intervenire più volte a curare feriti, fino in Valchiusella.
Nei giorni della Liberazione, Sergio Morello venne incaricato dai leader locali di gestire la fase di transizione, verso la nuova democrazia. Dal 20 aprile 1945, il CLN gli affidò l'incarico del Comando della SAP di Castellamonte. Rimase a Castellamonte, mentre gli altri partigiani andarono a Torino.
Il 1o maggio, un gruppo consistente di nazifascisti tornava da Grugliasco; si muoveva verso Milano, in fuga. Attaccarono Castellamonte. Il tenente Sergio Morello, ebreo casalese e partigiano, venne catturato e fucilato dai nazi-fascisti.
La sintesi delle vicende umane sopraesposte e dei soprusi e delle violenze subite dagli ebrei nel nostro Piemonte deve servirci non solo per ricordare, ma per riflettere.
Non sono stati solo fatti drammatici, accaduti in un clima di regime e di arroganza del potere e nell'ignoranza, ma sono stati eventi che hanno, di contro, dato linfa ad una nuova coscienza civile. La popolazione del Monferrato, così come in tutto il resto del paese occupato dai nazifascisti non poté reagire, perché inerme e succube per decenni; ma grazie all'osservazione di questi fatti, si decise poi ad organizzare la lotta partigiana e motivare l'antifascismo.
Le violenze contro gli ebrei, contro le persone, contro l'uomo, diedero sostanza argomentativa ed emozionale alle scelte della nuova democrazia e della Costituzione.
Anche oggi, le violenze e i torti ai quali assistiamo possono venire letti, a converso, come nuovi argomenti per confermare la giustezza delle opzioni democratiche e di grande tolleranza.
Il sostegno che tutta la società civile riconosce a Liliana Segre non è affatto costruzione mediatica o simbolismo eccessivo, è solo un dovere dell'intelligenza e della storia.
Ricordare ciò che avvenne 75 anni fa, non è consuetudine, è chiara volontà di preservare la nostra convivenza da rigurgiti superati e impedire che altre e nuove violenze si affaccino.
Doppia attenzione: il nuovo fascismo è l'attuale volgarizzazione della politica, la diffusione sistematica delle false news sui media e sui social, la semina di odio e di contrasto a prescindere, le condotte aggressive verbali e comportamentali, le inefficienze volute che negano ad anziani e malati il corretto servizio pubblico, la massificazione dei messaggi pubblicitari che condizionano adolescenti e deboli, la privazione dei sogni per i giovani, le piazze agitate per mere illusioni ottiche ingannatrici.
Per tutti, c'è l'obbligo di rappropriarsi della libertà di scelta, c'è il diritto alla corretta informazione, c'è il dovere di ricercare una dimensione etica collettiva, di ragionare e non di seguire i miraggi grotteschi. La storia e la Costituzione ci aiutano.

(L’Incontro, 2 dicembre 2019)


La morte del cristianesimo negli Stati Uniti è altamente esagerata

Hoss Douthu: sostiene che la vera eccezione è la secolarizzazione europea. In America il cristianesimo mostra segni di resilienza.

Scrive il New York Times (29/1)

Cinquanta anni fa molti osservatori religiosi americani assumevano che la secolarizzazione avrebbe spazzato via il cristianesimo tradizionale", scrive Ross Douthat sul New York Times: "Venti anni fa il cristianesimo ha mostrato una resistenza sorprendente, e quindi il modo di pensare è cambiato: forse esiste un'eccezione americana alle tendenze antireligiose o forse il secolarismo dell'Europa è la vera eccezione alla regola. Oggi è girata la ruota, e il nuovo consenso è che la secolarizzazione in America è stata solamente ritardata e quindi la destinazione finale è la deriva antireligiosa che vediamo in Europa da molti anni. Questa linea di pensiero viene condivisa da conservatori religiosi, anticlericali ferventi e giornalisti miscredenti che però sospettano di sentire la mancanza della religione organizzata quando non ci sarà più. Le tendenze che hanno dato vita a questo punto di vista sono reali, ma il cambiamento repentino nella sostanza del pensiero dominante dovrebbe consigliare maggiore cautela. Bisogna specificare innanzitutto che il declino delle istituzioni cristiane e l'indebolimento della religione può dare vita a spiritualità post cristiane - panteiste, agnostiche, pagane - anziché degenerare in una cultura atea e senza Dio. Ma il possibile avvento di una cultura post cristiana non è l'unica ragione per dubitare della narrazione laicista. Ecco tre ragioni specifiche al cristianesimo americano che andrebbero considerate a fianco dei dati catastrofisti sulla fine della religione.
  Il declino dei cristiani tiepidi è molto più marcato rispetto al calo dei religiosi ferventi. I dati del sondaggio Pew mostrano un netto declino nei tassi di partecipazione alla messa domenicale, oltre a un crescente allontanamento da parte di coloro che un tempo sarebbero stati legati alle denominazioni. I numeri di un altro sondaggio Gallup indicano che i tassi di partecipazione alla messa sono calati di recente, passando dal 42 per cento del 2008 al 38 per cento del 2017. Lo stesso sondaggio mostra che il calo recente è stato molto più tenue rispetto al netto declino degli anni Sessanta - e i dati di oggi non sono molto diversi da quelli degli anni Trenta e Quaranta, prima del boom religioso del dopoguerra. Anche i sociologi Landon Schnabel e Sean Bock hanno sostenuto in uno studio del 2017 che il declino delle istituzioni religiose è stato causato dall'allontanamento dei cristiani tiepidi. Il numero di cristiani ferventi invece è rimasto stabile negli ultimi trent'anni. Questa tendenza non è molto rassicurante per la Chiesa, la cui influenza culturale dipende dall'abilità di coinvolgere il maggior numero di persone e di suscitare simpatia e interesse anche da coloro che non vanno a messa ogni giorno.
  Invece il combinato disposto tra uno zoccolo duro di credenti che resta costante e una minore influenza sociale potrebbe rendere la posizione dei cristiani sempre più problematica. Ma per ora la resistenza del cristianesimo gli consente di esercitare un importante ruolo politico all'interno della coalizione conservatrice, e di agire da argine alla secolarizzazione completa della coalizione liberal.
  Inoltre, la perdita di influenza del cristianesimo potrebbe essere un fenomeno causato dalla generazione dei baby boomer e non dai millennial. Stando ai dati, i giovani sono meno credenti rispetto agli adulti. Ma il fervore religioso cambia nel corso della vita, tende a calare quando lasci casa e ad aumentare nel momento in cui nascono i figli o invecchi. E l'analisi del politologo Ryan Burge ha rilevato che la partecipazione religiosa dei ventenni di oggi è maggiore rispetto ai ventenni degli anni Novanta. Il calo più marcato era stato tra gli adulti e gli anziani. Quindi le attuali tendenze sarebbero state causate dalla generazione dei sessantenni e settantenni piuttosto che dai millennial. Adesso il terzo fattore. Ci sono buoni motivi per credere che la crisi a cui si trovano di fronte le istituzioni cristiane sia più una crisi cattolica che protestante. Solitamente la storia religiosa dell'America non viene raccontata in questi termini dato che, guardando solamente al numero di adesioni, il più grande calo dopo gli anni Sessanta coinvolge i protestanti, con i cristiani evangelici e i cattolici piuttosto stabili. Ma tuttavia i numeri della coalizione protestante sono rimasti costanti, dato che l'aumento degli evangelici ha compensato le perdite degli altri gruppi protestanti. Invece il cattolicesimo ha subito un declino molto maggiore, ed è stato salvato dall'immigrazione ispanica. Il calo nei tassi di partecipazione alla messa dopo il Secondo concilio vaticano è stato superiore a ogni altro fenomeno sul versante dei protestanti. Dopo un lungo periodo di stabilità causato dall'immigrazione, il numero dei fedeli cattolici è in caduta mentre quello dei protestanti è in leggero aumento. Se dovessimo fare delle previsioni basate sulla situazione attuale del cristianesimo americano, potremmo dire che il futuro della scristianizzazione, il suo progresso o l'inversione, verrà definito in base al tipo di cattolico che emergerà dalle attuale controversie nella Chiesa: dall'agonia per lo scandalo degli abusi sessuali, dalla rinascita di un programma liberal con Papa Francesco, dalla battaglia dei cattolici conservatori, dalla polarizzazione teologica e generazionale nella Chiesa. Gli osservatori cattolici alle prese con la deriva post cristiana del liberalismo occidentale amano citare la profezia di Alexis de Tocqueville secondo cui 'i nostri discendenti tenderanno a dividersi in due campi, alcuni abbandoneranno il cristianesimo e altri entreranno nella Chiesa romana'. Questa previsione non descrive l'America del 2019, dove il protestantesimo evangelico appare un'alternativa più forte rispetto alla Chiesa di Joe Biden, Papa Francesco e me stesso. Ma se volessimo aggiungere una piccola modifica la frase di Tocqueville avrebbe più senso. Quel che succederà a Roma determinerà la misura in cui i nostri discendenti si divideranno, e il numero di americani che lasceranno il cristianesimo".

(Il Foglio, 2 dicembre 2019 - trad. Gregorio Sorgi)


Accademici palestinesi negano le prove archeologiche della presenza degli ebrei in Israele

La tv di Abu Mazen bombarda i suoi ascoltatori con la menzogna secondo cui gli ebrei non sono altro che "colonialisti" e "occupanti" arrivati solo nel 1948.

L'Autorità Palestinese insiste con la sua propaganda volta a negare qualunque legame storico fra ebrei e Terra d'Israele, mandando in onda sulla sua televisione accademici e politici che contestano persino le più evidenti prove archeologiche.
La ong Palestinian Media Watch ha segnalato tre nuovi casi di accademici palestinesi apparsi in ottobre e novembre sulla tv ufficiale dell'Autorità Palestinese per negare le evidenze archeologiche che collegano gli ebrei al paese. In tutti e tre i casi, gli accademici hanno spudoratamente negato l'esistenza di qualunque testimonianza di vita ebraica in Terra d'Israele prima del 1948, descrivendo l'attuale popolazione ebraica come fatta di occupanti e usurpatori.
"Gli ebrei affermano di essere stati in Palestina 2000 anni fa" ha affermato lo scorso 6 novembre Riyad al-Aileh, docente palestinese di scienze politiche dell'Università Al-Azhar, in un programma tv intitolato "L'autorità suprema". "Se guardiamo alla storia - ha continuato al-Aileh - vediamo che non ce n'erano in Palestina in passato, ma solo come invasori meno di 70 anni fa. In questi 70 anni sono stati degli invasori come gli hyksos, i bizantini, i persiani e il colonialismo [britannico]. Il popolo palestinese cananeo è riuscito da allora a sconfiggere gli invasori e a persistere su questa terra"....

(israele.net, 2 dicembre 2019)


Netanyahu esorta l'Europa ad unirsi alle sanzioni degli USA contro l'Iran

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha richiamato i paesi europei ad incrementare la pressione sull'Iran ed unirsi alle sanzioni degli USA nei confronti di Teheran.

"I paesi europei lavorano sui modi di aggirare le sanzioni americane all'Iran. E' giunto il momento di invertire la rotta. E' giunto il momento di incrementare la pressione e non di ridurla. E' giunto il momento di unirsi agli USA ed accentuare le pressioni nei confronti dell'Iran", riferisce il comunicato di Netanyahu diffuso oggi dal suo ufficio stampa.
Secondo il premier israeliano, "mentre l'Iran si sbriga ad arricchire l'uranio per la produzione delle arme atomiche, i paesi europei cercano di favorire l'Iran, facendo ulteriori concessioni".
"Questi paesi europei dovrebbero vergognarsi. Non hanno imparato nulla dalla storia? A quanto pare, no. Essi autorizzano il regime terroristico di sviluppare i propri armamenti atomici e i missili balistici, il che porterà a conseguenze terribili sia per loro, che per il resto del mondo", ha aggiunto Netanyahu.
Ieri è stato reso noto che sei paesi europei, tra cui Belgio, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia, hanno aderito allo Strumento a sostegno degli scambi commerciali, ovvero Instex (Instrument in support of trade exchanges). Instex è un meccanismo instaurato da Francia, Germania e Gran Bretagna che facilita le transazioni commerciali legali tra gli operatori economici europei e l'Iran. Secondo i paesi fondatori di tale meccanismo, questa iniziativa aiuterà a preservare il Piano d'azione congiunto globale sul nucleare iraniano (JCPOA), dopo l'abbandono di esso da parte degli USA.

 Accordo sul nucleare iraniano del 2015
  Il JCPOA è stato firmato nel 2015 da Iran, Cina, Francia, Germania, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, insieme all'Unione Europea. L'Iran avrebbe dovuto ridimensionare il suo programma nucleare e ridurre drasticamente le sue riserve di uranio in cambio dell'annullamento delle sanzioni. Tuttavia, nel 2018 il presidente americano Donald Trump ha annunciato la fuoriuscita unilaterale dall'accordo, proclamando la strategia di sanzioni rigide nei confronti dell'Iran.

(Sputnik Italia, 1 dicembre 2019)


Israele. 11 dicembre 2019, dieci giorni per un regolamento di conti

di Luciano Assin

ISRAELE - Mancano esattamente 10 giorni prima che l'elettorato israeliano venga richiamato alle urne per la terza volta consecutiva. Dopo che sia l'attuale premier israeliano Benjamin Netanyahu che il suo rivale politico Benny Gantz non sono riusciti a formare una coalizione di governo, il regolamento politico del paese prevede la possibilità che qualsiasi deputato che riesca a raccogliere almeno 61 firme, su un totale di 120 componenti la Knesset, abbia l'opportunità di ricevere una deroga di 14 giorni dal Presidente dello stato per formare un governo.
   Ma il teatro dell'assurdo che si sta svolgendo in questo momento nel mondo politico israeliano è al di là di qualsiasi aspettativa e soluzione. Lo stesso Ionesco non ne potrebbe venire a capo. Non è soltanto una questione di potere o di Ego, ci sono dei veri e propri dilemmi procedurali che nessun legislatore aveva mai pensato di dover affrontare che stanno portando il paese in una situazione intricata e a prima vista irrisolvibile.
   Il primo scoglio da affrontare sono le firme, secondo un'interpretazione diciamo così "elastica", nulla vieta ad un deputato a firmare a favore di più candidati. Secondo dilemma, a chi andrebbe dato l'incarico? Al primo che raccoglie le firme necessarie o a chi ne raccoglie il maggior numero? E non siamo ancora entrati nel vivo del discorso, vale a dire: può un primo ministro in carica continuare a governare dopo essere stato accusato di corruzione e abuso di potere?
   Secondo i sostenitori di Netanyahu, Bibi è innocente fino ad una sentenza definitiva. Secondo l'opposizione, e probabilmente anche un numero non indifferente dei votanti il partito likud, un'accusa tale è più che sufficiente per esigere le dimissioni o perlomeno la sospensione dall'incarico dell'attuale premier.
In definitiva chi dovrà togliere le castagne dal fuoco sarà il tanto odiato potere giudiziario. Le richieste di impedire a Netanyahu di continuare a governare il paese nella sua personale situazione sono numerose, e sono molti i deputati dell'attuale partito al potere, sperduti e confusi passeggeri sulla diligenza di "Ombre rosse", che aspettano l'arrivo del decimo cavalleria.
Il problema che ancora non è chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi.

(alganews.it, 1 dicembre 2019)


Le preoccupazioni di noi israeliani laici

di Mady Moriel medico

Quarant'anni fa ho cominciato il mio viaggio professionale alla facoltà di medicina dell'Università La Sapienza a Roma, mi sono poi laureata alla scuola di medicina dell'Università di Tel Aviv e ora sono cardiologa all'ospedale Shaare Zcdek, a Gerusalemme. Roma e l'Italia sono rimaste nel mio cuore per sempre, nel ventricolo in cui si trova l'amore. Recentemente mi sono imbattuta nella pagina web di Moked, dove trovo l' opportunità di ravvivare la mia dormiente lingua Italiana, e dove scopro il significato di essere ebrei in Italia nel ventunesimo secolo, e leggo i vostri pensieri sull'ebraismo, sulla politica italiana e su quella israeliana. Ho letto con grande interesse l'articolo di rav Michael Ascoli 'Israele e l'identità dei laici' (26/9/2019).
  Nel suo articolo rav Ascoli tratta due argomenti diversi e, a mio parere, non necessariamente correlati. Il primo è il processo di 'Hadatà ', il processo di irreligiosimento della società e dello spazio pubblico in Israele, il secondo è invece l'identità dei laici israeliani. Rav Ascoli afferma che non esiste Hadatà, e tuttavia credo che i fatti contraddicano la sua conclusione. Darò solo alcuni esempi.
Il 'Potenziamento della cultura e dell'identità ebraica', un programma del Misrad haHinukh (Ministero dell'Istruzione) per l'espansione degli studi religiosi che è stato imposto alle scuole pubbliche non religiose, a spese degli studi generali. Negli esami PISA (Programma per la valutazione internazionale degli studenti) di lettura, matematica e scienze previsti dalla OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) gli allievi israeliani hanno riportato punteggi bassi, inferiori alla media mondiale, e inferiori alla maggioranza degli stati occidentali e dell'Asia. Questo mette il futuro d'Israele a grave rischio. Nell'esercito è stata proibita la partecipazione di cantanti donne nelle cerimonie e nelle celebrazioni, per non offendere i sentimenti dei soldati religiosi maschi. I sentimenti delle soldatesse non hanno evidentemente la stessa importanza.
  In certe città, i volti di bambine e donne nei tabelloni pubblicitari vengono con frequenza deturpati, mentre quelli dei maschi rimangono intatti. Ci sono linee di autobus pubblici sovvenzionati dal governo in cui le donne sono costrette, anche con violenze verbali, a prendere posto nella parte posteriore dell'autobus, mentre gli uomini prendono posto nella parte anteriore. Questi sono solo alcuni esempi di come avviene il processo di Hadatà che si sta verificando in Israele, un processo che si aggiunge a uno status quo, in atto da settant'anni, per il quale non sono ammessi matrimoni civili e sepolture civili, non funziona il trasporto pubblico di sabato e gli ortodossi sono esenti dal servizio militare.
  Nella seconda parte del suo articolo rav Ascoli si chiede chi sia l'ebreo laico israeliano: "ora che non è più pioniere dello stato e che non è neanche laico-ma-studioso-del-Tanakh alla Ben Gurion, chi è? E cosa ne fa degli "ideali dei profeti di Israele" sanciti nella Dichiarazione di Indipendenza?' Allora, chi siamo noi laici israeliani? La maggioranza di noi è fatta di 'sabra', nati in Israele e cresciuti nel sionismo di Ben Gurion. la minoranza nel revisionismo di Jabotinski. Noi e i nostri genitori, spesso sopravvissuti alla Shoah, siamo considerati da una parte degli ortodossi "L'asino del Messia". Siamo umanisti, liberali e pluralisti. Vorremmo vivere e lasciar vivere, e ci preoccupa il benessere di tutti coloro che vivono in Israele, inclusi gli arabi che sono il 21% dei cittadini israeliani e anche qualche dozzina di migliaia di immigranti che non hanno nessun effetto sulla demografia ebraica in Israele. La nostra etica è basata sul pensiero razionale, non dipende dalla paura di ricompense o punizioni di Dio. Abbiamo una ricca cultura rappresentata da pensatori, scrittori, poeti, drammaturghi, pittori, scultori e musicisti. La nostra cultura ha meno di cento anni, ma è sorprendente. Siamo aperti alla cultura dei 'goim', si può imparare anche da loro. La nostra identità è israeliana, basata sulla nostra storia e sulla nostra tradizione ebraica, ma non deve essere necessariamente religiosa. Nel suo libro "The Philosophic Roots of the Secular-Religious Devide" Micah Goodman scrive che "come il modernismo sfida la tradizione e le dà equilibrio, così la tradizione deve sfidare il modernismo e dargli equilibrio."
  I laici credono che l'emunà, la fede, in Dio non regga alla prova della scienza. Forse, allora, perdono il loro ebraismo? Io credo di no, perché per me essere ebrea significa appartenere a un popolo che condivide una lunga storia, cultura e tradizione.

(Pagine Ebraiche, novembre 2019)


Israele vuole ampliare la presenza ebraica a Hebron

Il ministro della difesa israeliano Naftali Bennett ha ordinato oggi la progettazione di un nuovo rione ebraico nella zona del mercato all'ingrosso di Hebron (Cisgiordania), i cui edifici saranno distrutti per far posto ad altri nuovi con negozi.
I diritti dei commercianti arabi saranno garantiti, assicura il ministero della difesa: essi riceveranno locali nuovi al piano terra del nuovo progetto edile.
L'obiettivo - spiega il ministero - è di creare continuità territoriale fra la Tomba dei Patriarchi (un luogo di culto sacro ai musulmani e agli ebrei) e il vicino rione ebraico Avraham Avinu. In questo modo, secondo il ministro, sarà possibile raddoppiare il numero degli israeliani residenti in città.
Hebron è suddivisa in due settori: H1, sotto controllo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), con oltre 200'000 abitanti; e H2, sotto controllo israeliano, dove abitano 750 ebrei e alcune migliaia di palestinesi. I progetti in questione riguardano il settore H2.

(swissinfo.ch, 1 dicembre 2019)


Il Mediterraneo e l'identità ebraica, storia di un incontro in musica

di Gisèle Lévy

Esemplare di oud
Le biblioteche si muovono, non sono più uno statico punto di riferimento per l'educazione formale.
Come centro di formazione di cultura devono anche promuovere iniziative di aggregazione e spunto per diversificare le proprie conoscenze, soprattutto oggi che i social diffondono notizie sparse senza dare la possibilità di collocarle in contesti spazio-temporali corretti.
La biblioteca deve quindi avvicinarsi al cittadino, promuovere iniziative per approfondire temi, stimolare tramite spunti la curiosità che altrimenti resterebbe inascoltata.
La prossima settimana offrirà quindi un evento culturale sul format già sperimentato: "Guida all'ascolto musicale".
La tradizione musicale mediterranea sta prendendo via via uno spazio che fino a qualche decennio fa era impensabile. L'apertura di orizzonti più vasti ha permesso di conoscere vari aspetti di antiche culture, e di apprezzare tradizioni, filosofia, poesia e sonorità.
Per quanto riguarda le civiltà mediterranee, quella ebraica è sicuramente una tra quelle che hanno lasciato più il segno.
Dall'espulsione degli ebrei dalla Spagna, per volontà di Isabella La Cattolica, alla successiva dispersione nei territori balcanici sottoposti all'Impero Ottomano, alla Turchia stessa, al Nord Africa, vi è stato tutto un fiorire di canti e cantillazioni, spesso accompagnate dall'uso di strumentazioni costruite con materiali semplici provenienti da parti di animali già utilizzati per il nutrimento.
E così pare ovvio che il drum degli ebrei e la darabukka fossero provvisti di una membrana tesa proveniente da pecora o capra, così come le corde di un kanun potevano essere le budella di un ovino.
Nel Nord Africa, terra d'elezione per molti ebrei sefarditi che avevano lasciato la Spagna per essere accolti in Marocco, uno strumento d'elezione era l'oud, sorta di liuto ad 11 corde.
Gli ebrei fecero loro molte tra le usanze delle popolazioni con cui convissero.
Oggi, sono maestre della musica popolare varie cantanti israeliane (es. Mor Karbasi, Yasmin Levy) note a livello internazionale, che hanno perfezionato i propri studi in prestigiose Accademie statunitensi, britanniche e in Israele. Il loro merito è quello di aver riportato attraverso la loro vocalizzazione, ululazione, canti di gola piyutim e canti antichi, facendo rivivere - e scongiurando l'estinzione della lingua ladina o del judeo-arabe - poesie nostalgiche di una terra amata e perduta per sempre.
È quello che si potrà ascoltare in un unico evento, giovedì 5 dicembre presso il Centro Bibliografico UCEI.

(moked, 1 dicembre 2019)


Gaza: polemiche per un nuovo ospedale da campo americano

GAZA - Personale americano è impegnato nelle ultime settimane nella costruzione a nord di Gaza di un ospedale da campo che servirà i palestinesi nella zona in casi di complicazioni mediche che non possano essere superate negli altri ospedali della Striscia. Lo riferiscono fonti locali secondo cui questo ospedale proviene dalla Siria, dove pure è stato gestito da personale americano. Gli addetti ai lavori entrano da Israele a Gaza da un cancello messo a loro disposizione, a lato del valico di Erez. Secondo le fonti "una cortina di mistero" circonda il progetto. Sul web si sono diffuse perplessità sul fatto che i macchinari dell'ospedale da campo avrebbero potuto essere installati in altri nosocomi di Gaza. Aspre critiche sono giunte anche dalla ministra per la sanità dell'Anp, Mai al-Kaila, che afferma di essere stata tenuta all'oscuro del progetto. L'Anp sospetta che l'iniziativa rientri nel cosiddetto 'Accordo del secolo' elaborato dall'amministrazione Trump e in quel caso, si opporrebbe.

(ANSAmed, 1 dicembre 2019)


F-16, il Falco da guerra prediletto da Israele

di Davide Bartoccini

 
F-16 dell'aviazione israeliana
L'F-16, soprannominato "Fighting Falcon", o "Sufa" (Tempesta) come lo chiamano gli israeliani che lo impiegano assiduamente nelle loro ultime missioni, è un velivolo multiruolo in configurazione monoposto/biposto monomotore sviluppato nei distanti anni '70 per l'aeronautica degli Stati Uniti, che allora cercava un velivolo da combattimento di nuova concezione. E il Falco, come capostipite di una nuova generazione di aerei da guerra, ha saputo dimostrare sono solo il suo valore come mezzo tattico, ma la sua indiscutibile longevità: consegnato nella sua prima versione all'Usaf nel 1978, sfiorerà le nuvole almeno fino al 2025. Oltre sessantacinque anni trascorsi nei cieli dei più differenti teatri di combattimento, in forza a 25 aeronautiche di altrettanti paesi, anche in lotta tra loro.
  Quando lo Stato Maggiore dell'Aeronautica giunse alla conclusione che la "guerra aerea" era cambiata, e che non era più tempo di duelli e manovre quando già nei cieli del Vietnam tutto veniva deciso dai missili aria-aria e dalla velocità dei velivoli che li trasportavano, il Pentagono si rivolte alla General Dynamics Corporation (poi acquisita da quella che oggi è la Lockheed Martin) per sviluppare il nuovo aereo da combattimento che avrebbe dovuto servire l'Usaf e altre 12 forze aeree della Nato e di quel blocco di nazioni sparse per il mondo che erano alleate di Washington. L'F-16 venne perciò formalmente ordinato nel distante 1972, quando il velivolo più simile in linea nell'Us Air Force era l'F-4 Phantom II: un velivolo che rappresentava appieno la cosiddetta "terza generazione" di aerei da guerra.
  L'F-16, lungo 15 metri con un'apertura alare di 9,45 metri, fu sviluppato per alloggiare singolo motore turbofan Pratt & Whitney, capace di generare una spinta da 102 a 130 kilonewton, e raggiungere un'accelerazione che lo avrebbe portato a doppiare la velocità del suono. L'abitacolo avrebbe accolto tutte le più sofisticare strumentazioni sviluppate a quel tempo, e sui suoi piloni alari e quelli posti sotto la fusoliera, avrebbe trasportato già nell'anno del suo battesimo dell'aria una vasta gamma di bombe e missili. Dal comune munizionamento a caduta libera ai missili guidati tramite un innovativo telemetro laser per la soppressione delle difese antiaeree/radar e, per i dog-fight che aveva proprio spinto l'intelligence a commissionare all'industria bellica il falco, missili aria-aria di lungo, corto e medio raggio. Era stato mantenuto, per ogni evenienza, un cannone da 20 mm M61 Vulcan. L'F-16 è configurato per trasportare e lanciare munizionamento nucleare.
  Appena pronto al combattimento, il Falcon entrò in forza negli Stati Uniti nei primi anni '80 e a seguire nelle forze aeree di Egitto e Giordania - come in quelle di Israele - e poi in Pakistan, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Turchia e Corea del Sud, a Singapore. L'Italia, ma solo del 2003, ne ricevette 34 velivoli da impiegare come intercettori. Il Giappone ne fece la base per sviluppare una sua propria versione: il Mitsubishi F-2. Attualmente si considerano 4.500 velivoli sviluppati nei vari "block" (da 1 a 70) su base e licenza del Falcon. Come velivolo da combattimento mostrò subito la sua efficacia, sia nel combattimento aereo e che nell'attacco al suolo, durante il conflitto israelo-siriano del 1982, e poi fu ampiamente impiegato nella Golfo Persico del 1990-1991. Proprio una formazione di F-16 "Sufa" dell'Aviazione israeliana fu protagonista nel 1981 dell'Operazione "Babilonia": il raid sul reattore nucleare siriano di Osiraq.
  Nel 1995 il primo F-16 dell'Usaf venne abbattuto nei cieli della Bosnia da un missile Sam. Un secondo F-16 americano venne abbattuta nei cieli della Serbia nel 1999, durante l'operazione "Allied Force". Nonostante l'aereo fosse stato letteralmente tranciato in due dalle schegge, il pilota riuscì a lanciarsi e venne recuperato. Più recentemente invece, un F-16 della forza aerea israeliana è stato abbattuto da un missile S-200 sparato dai sistemi di difesa siriani. Il velivolo biposto era stato impiegato in uno dei raid che Israele continua a condurre imperterrito su obiettivi sciiti in tutto il Medio Oriente. L'aereo cadde in territorio israeliano e l'equipaggio riuscì a lanciarsi. L'F-16 fu anche protagonista, questa volta come velivolo abbattitore, del duello aereo che vide contrapposte Turchia e Russia durante la crisi siriana, quando un Sukhoi Su-24 russo cadde preda di un missile aria-aria per via di uno "sconfinamento".
  Secondo i piani dell'Usaf, il Falcon servirà l'aeronautica americana per un altro quinquennio. Dopo di allora i 941 velivoli verranno radiati. Ad eccezione, forse, di quelli che vengono impiegati come "aggressori" nelle esercitazioni di duello aereo che addestrano i piloti al combattimento, e quella nella loro ultima versione a pilotaggio remoto. Una serie di velivoli "falcon", i Qf-16, è stata infatti modificata per essere pilotata a distanza, come droni, e per essere impiegati come sofisticato "bersaglio" in diversi tipi d'esercitazione. Gli altri paesi, come Israele e Giordania, e come tutte le forze aeree orientali che spesso schierano questo velivolo come punta di diamante delle loro forze aeree, potrebbero concedere ancora molto carriera a questo longevo velivolo da combattimento che ha fatto senza dubbio epoca.

(Inside Over, 1 dicembre 2019)


«Hitler uno di noi, odiava gli ebrei». I deliri di Khan, l'aspirante martire

Indottrinato da un imam radicale vicino ad al Qaeda, sognava attentati su vasta scala Faceva parte del gruppo di Stoke-on-Trent dal quale in passato sono arrivati altri killer

di Cristina Marconi

LONDRA - Ai giudici che lo condannarono nel 2012, la pericolosità di Usman Khan era apparsa in modo evidente. Non solo all'epoca il ragazzo, appena ventunenne, era già parte di una cellula di nove persone, i «nove leoni», con una lista di obiettivi lunga e variegata, dalla creazione di una madrassa in Kashmir per addestrare terroristi da finanziarsi con \i sussidi di disoccupazione britannici all'uccisione dell'allora sindaco di Londra Boris Johnson, di cui avevano l'indirizzo personale, ma in questa distinta comitiva Khan era subito apparso come uno degli elementi più aggressivi e ambiziosi. Tanto che il giudice non vedeva di buon occhio una sua possibile uscita dal carcere.

 Il pericolo
  «A mio giudizio, questi criminali rimarrebbero, anche dopo un periodo lungo di detenzione, un tale pericolo che il pubblico non può essere adeguatamente protetto qualora gli dovesse essere data una licenza nella comunità, soggetta a condizioni, con riferimento a una data prestabilita di rilascio», aveva scritto, aggiungendo che «la sicurezza del pubblico rispetto a questi criminali può essere protetta adeguatamente solo se la loro uscita su licenza è decisa, al massimo, alla fine del periodo minimo che stabilisco oggi». Ossia otto dei sedici anni di condanna. E invece nel dicembre del 2018 è uscito, grazie a un appello del 2013 in cui l'avvocato cercò di insistere sulla natura velleitaria e giovanilistica delle attività di Khan.

 A piede libero
  E quindi l'attentatore di London Bridge, uno che aveva progettato di far saltare in aria il London Stock Exchange mettendo una bomba nei bagni e che sognava attentati su larga scala sul modello di quelli a Mumbai, poteva girare a piede libero, ma con l'obbligo di portare una cavigliera elettronica per essere controllato. Sebbene anche un altro dei «nove leoni», appena uscito dal carcere fosse stato subito ripescato a ordire trame terroristiche, a riprova che il programma di deradicalizzazione non aveva funzionato. Quello seguito da Usman Khan si intitolava «desistenza e disimpegno» - in una lettera alle autorità chiedeva aiuto per diventare «un buon cittadino britannico» - ma poco aveva potuto contro l'influenza del noto imam radicale Anjem Choudary, a cui il ventottenne era vicino da anni tanto da avere il suo numero di cellulare ai tempi dell'arresto.

 Il proselitismo
  A Stoke-on-Trent, dove era nato, faceva proselitismo per al-Muhajiroun, il gruppo ispirato ad al Qaeda e vicino a Choudary da cui, negli anni, sono arrivate varie persone che hanno compiuto attacchi nel Regno Unito, tra cui gli attentatori del 7 luglio del 2005. Nel 2008, in un'intervista alla BBC, il giovanissimo Usman, con una kefiah in testa, rassicurava il pubblico: «Sono nato e cresciuto in Inghilterra», «la comunità mi conosce», «non sono un terrorista». *** Dalle intercettazioni nella casa di Usman erano emersi elogi a Adolf Hitler, considerato dalla stessa parte dei musulmani per il suo odio antisemita.

 L'ideologia radicale
  I «nove leoni» non volevano però fermarsi agli insegnamenti del loro maestro, che nel frattempo nell'ottobre scorso è uscito dal carcere dopo una condanna a cinque anni e sei mesi per aver incoraggiato musulmani a unirsi ai ranghi di Isis. Ritenevano al-Muhajiroun poco radicale, non abbastanza estremista. E avevano scelto la strada della violenza rispetto a quella dell'ideologia radicale. Dopo il fallimento dei grandi piani del decennio passato - assassinii mirati, bombe, progetti all'estero - la parabola nera di Usman è finita con un piano omicida di piccolo cabotaggio e facile organizzazione: due coltelli e una cintura esplosiva finta indossata, forse, per assicurarsi il martirio per mano degli agenti britannici.

(Il Messaggero, 1 dicembre 2019)



Il giorno della prosperità e il giorno dell'avversità
    Vale più la fine di una cosa, che il suo principio;
    e lo spirito paziente vale più dello spirito altero.
    Non ti affrettare ad irritarti nello spirito tuo,
    perché l'irritazione riposa in seno agli stolti.
    Non dire: «Come mai i giorni di prima erano migliori di questi?»,
    poiché non è da saggio domandarsi questo.
    Considera l'opera di Dio;
    chi potrà raddrizzare ciò che egli ha reso curvo?
    Nel giorno della prosperità godi del bene,
    e nel giorno dell'avversità rifletti.
    Dio ha fatto l'uno come l'altro,
    affinché l'uomo non scopra nulla
    di ciò che sarà dopo di lui

    (Ecclesiaste 7:8-10,13-14)



    "Vale più la fine di una cosa che il suo principio."
Ogni inizio è accompagnato da speranza. Chi comincia qualcosa ha in mente un obiettivo che spera di raggiungere. Spesso l'inizio è promettente, sia perché chi ha cominciato l'impresa è sorretto dal forte desiderio di ottenere quello che ha in mente, sia perché i veri grossi ostacoli non si sono ancora presentati.
   E quando le cose vanno bene lo "spirito altero" è portato a inorgoglirsi. I successi ottenuti nel recente passato lo spingono a mostrare sicurezza anche per il futuro. "Oggi o domani andremo nella tale città, vi staremo un anno, trafficheremo e guadagneremo" (Giacomo 4:13). L'uomo sicuro di sé è convinto di riuscire a raddrizzare molte cose che prima erano storte (Ecclesiaste 1:15); è convinto di poter riuscire là dove altri hanno fallito. E pensa così perché paragona i suoi successi dell'inizio con i fallimenti di tanti che si trovano alla fine delle loro imprese. Se altri hanno fallito, nel matrimonio o nel lavoro, lui è convinto di riuscire. E il suo promettente inizio sembra dargli ragione.
   Ma l'Ecclesiaste avverte che il valore autentico di un'opera si riconosce alla fine, e non all'inizio. Anche il valore di una vita, che in gioventù non si può ancora capire, risalta molto meglio al tempo della vecchiaia, quando tutti i nodi vengono al pettine e la trama dei fili con cui è stata intessuta la vita è molto più facilmente riconoscibile.
    "...e lo spirito paziente vale più dello spirito altero"
   Prima o poi chi è partito con l'orgogliosa sicurezza di riuscire a raddrizzare ciò che è storto deve prendere atto che anche a lui le cose possono "andare storte". E a questo punto lo "spirito altero" si "irrita". Si irrita perché è convinto che se le cose vanno male, non dipende da lui: la colpa è della moglie, del marito, dei figli, dei genitori, dei fratelli, dei colleghi, del padrone, dei dipendenti, dei politici, del governo. E se proprio non può attribuire a nessuno la causa delle sue disgrazie, allora la colpa è del destino, della sfortuna, e quindi, in ultima analisi, di Dio.
   Lo spirito altero si irrita perché gli sembra che la sua saggezza si scontri con l'insipienza degli altri e la cecità del destino. Si ricorda che all'inizio, quando tutto girava come voleva lui, le cose andavano bene, ma poi gli altri hanno smesso di starlo a sentire, fatti imprevisti e spiacevoli sono accaduti, e adesso si trova nei guai. Come si fa a non essere irritati?
   L'Ecclesiaste risponde:
    "Non ti affrettare ad irritarti nello spirito tuo, perché l'irritazione riposa in seno agli stolti".
La tua irritazione - sembra dire l'Ecclesiaste - non è dovuta alla tua sapienza, ma alla tua stoltezza. Quindi:
    "Non dire: 'Come mai i giorni di prima erano migliori di questo?' poiché non è da saggio domandare questo".
Ti lamenti dei giorni di adesso e rimpiangi i giorni di prima, ma si può capire come hai vissuto i giorni di prima dal modo in cui vivi i giorni di adesso. Se adesso dici che prima era meglio, vuol dire che prima non vivevi con saggezza e adesso devi prenderne atto. Se vedi nero nel presente e nel futuro, e vedi rosa solo nel passato, vuol dire che hai vissuto il passato con uno spirito altero e non con uno spirito paziente, perché la pazienza produce speranza (Romani 5:4), e non disperazione. Tu pensi di star male perché ti sembra che le persone e le cose ti resistano, e invece è Dio che ti resiste, perché "Dio resiste ai superbi, e dà grazia agli umili" (Giacomo 4:6).
   La pazienza biblica non è ottusa rassegnazione davanti a un destino cieco e crudele, ma è la capacità di sopportare patendo, nell'umile e fiduciosa attesa del compimento dell'opera di Dio. Per questo l'Ecclesiaste invita chi si trova nel giorno dell'avversità ad essere saggio adesso, se non lo è stato prima, dicendogli:
    "Considera l'opera di Dio".
Qual è l'oggetto delle nostre considerazioni quando siamo nei guai? A che cosa pensiamo? "Ai miei problemi", risponderà subito qualcuno. Certo, è naturale e comprensibile che nel momento della difficoltà la nostra mente sia spinta a considerare tutti gli aspetti del problema che ci turba: ne cerchiamo le cause nel passato, ne valutiamo gli effetti nel presente, tentiamo di prevedere le conseguenze nel futuro, distribuiamo responsabilità e colpe a chi si deve, cerchiamo possibili vie d'uscita. E' comprensibile, come già detto, ma la Scrittura ha qualcosa di diverso da dirci. Nel giorno dell'avversità l'Ecclesiaste ci invita come prima cosa a considerare l'opera di Dio. Questo significa che quando le cose "mi vanno storte", il mio primo pensiero non deve essere: "Che cosa devo fare io per raddrizzarle?", ma: "Che cosa si propone di fare Dio attraverso quello che mi accade?" Devo pensare all'opera che Dio vuol fare ricordando le parole dell'Ecclesiaste:
    "chi potrà raddrizzare ciò che egli ha reso curvo?
Se nel Suo piano di grazia e di misericordia Dio ha deciso di "rendere curve" certe cose che a me piacerebbe tanto fossero diritte, sarebbe da stolti insistere nel tentativo di raddrizzarle. Dio mi invita a riflettere, e a occupare il posto (forse a me non molto gradito) in cui è già pronta per me la Sua particolare benedizione.
   Ma allora, penserà qualcuno, è proprio vero che il responsabile dei miei guai è Dio: se le cose vanno male è colpa sua. Quando attribuiamo a Dio la colpa del male, non facciamo che proseguire la velata accusa di Adamo a Dio: "La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell'albero, e io ne ho mangiato" (Genesi 3:12). Si parla di colpa là dove c'è trasgressione, reato: colpevole, quindi, è soltanto l'uomo, che con il suo peccato ha volontariamente interrotto la comunione d'amore e di vita con il suo Creatore. Naturalmente Dio non vuole il peccato, ma vuole che il peccato abbia certe conseguenze. Dio aveva avvertito Adamo che il peccato avrebbe prodotto la morte, e così è stato, con tutto il seguito di corruzione, disordine, sofferenze. Ma queste conseguenze, nonostante il loro aspetto sgradevole, rientrano nel piano misericordioso predisposto da Dio per la salvezza degli uomini, e il loro significato salvifico si esprime nel modo più completo nelle sofferenze e nella morte del Signore Gesù. L'"opera di Dio" che l'uomo deve dunque considerare è, innanzitutto, l'opera di redenzione che Egli ha fatto in Cristo, con la quale ha veramente "raddrizzato" ciò che era stato "reso curvo" dal peccato dell'uomo.
   Ma fino a che il piano di redenzione non sarà stato portato a termine, fino a che durerà il tempo della grazia, gli uomini non devono illudersi di riuscire a "raddrizzare ciò che è curvo" con i soli loro sforzi.
   Per questo Dio ha stabilito che sulla terra ci sia un giusto equilibrio di gioia e dolore, di riso e pianto, di luce e tenebre, di vita e morte. Dio concede all'uomo la prosperità, affinché arrivi a conoscerlo come un Dio d'amore e a confidare in Lui; e permette l'avversità, affinché non si adagi nella fiducia in sé stesso e nelle sue capacità.
    "Nel giorno della prosperità godi del bene".
Quando tutto fila liscio e le cose vanno bene, ricordati che tutto questo è dono di Dio. Ringrazialo dunque, e godi del bene che ti viene concesso, senza morbosi complessi di colpa, perché "Dio ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo" (1 Timoteo 6:17). Se dunque Dio vuole farti conoscere la Sua bontà permettendoti di godere dei Suoi doni, sarebbe colpevole ingratitudine disprezzare la gioia che ti viene offerta rimanendo triste e preoccupato.
    "... e nel giorno dell'avversità rifletti".
Quando tutto gira storto e le cose vanno male, rifletti. C'è un tempo per godere e un tempo per pensare, un tempo per cantare e un tempo per pregare (Ecclesiaste 5:13). Ricordati che se nel giorno della prosperità la bontà di Dio è manifesta, nel giorno dell'avversità la bontà di Dio è nascosta, ma è sempre lì, a tua disposizione. Rifletti dunque, e non dire che il giorno della prosperità l'ha fatto Dio e il giorno dell'avversità l'ha fatto il diavolo, perché
    "Dio ha fatto l'uno come l'altro".
Se oggi ti viene tolto un bene che possiedi e conosci, certamente Dio te ne vuol dare uno maggiore che ancora non possiedi e non conosci. Rifletti dunque, e prega, affinché tu sappia riconoscere il bene che Dio ha in serbo per te, e tu possa goderne e ringraziarlo.
   Rifletti anche sul peccato degli uomini e sul tuo peccato, per non dimenticare mai che la causa originaria di ogni male, la sua radice profonda, sta proprio nella ribellione della creatura contro il suo Creatore. Medita sulla persona di Cristo, considera la Sua opera e le Sue sofferenze, e ricordati che Gesù ha sofferto prima di noi e più di noi, anche Lui a causa del peccato, ma del peccato nostro, non del Suo.
   Ricordati infine che Dio ha fatto il giorno della prosperità e il giorno dell'avversità
    "affinché l'uomo non scopra nulla di ciò che sarà dopo di lui".
Questo significa che devi smettere di voler uscire dai tuoi guai cercando affannosamente di prevedere, programmare, assicurare il tuo futuro. Così facendo, ti assumi responsabilità che non ti competono e ti carichi di pesi che Dio vorrebbe risparmiarti. Dio ti promette la forza per sopportare il peso dell'avversità di oggi, ma non ti promette nulla per quanto riguarda il peso della preoccupazione del domani. La tua preoccupazione deve essere l'ubbidienza a Dio oggi: il domani è un problema Suo.
   Gesù ha detto: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia" (Matteo 6:33). Questo si può fare ogni giorno, sia esso bello o brutto ai nostri occhi. Se ubbidiremo a questa parola, ogni giorno sarà per noi un giorno benedetto, perché riconosceremo la fedeltà di Dio anche nella conclusione delle sue parole: "... e tutte le altre cose vi saranno sopraggiunte". M.C.

(Notizie su Israele, 1 dicembre 2019)


 


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