Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno degli stranieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città.
Deuteronomio 24:14

Attualità



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Predicazioni
Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Filippesi 3:17-21
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Romani 12:1-2
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico: Non siate ansiosi per la vita vostra di quello che mangerete o di quello che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non siete voi assai più di loro? E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito? E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio riveste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque ansiosi dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo? Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

Matteo 6:24-34

Marcello Cicchese
dicembre 2015


Parashat Vezot Haberachà

L'incompletezza della vita di Mosè ci ricorda che l'ebraismo è l'espressione suprema della fede come tempo futuro

di Rabbi J. Sacks
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Che modo straordinario di concludere un libro: non un libro qualsiasi ma il Libro dei libri - con Mosè che vede la Terra Promessa dal Monte Nebo, allettantemente vicino, eppure così lontano che sa che non lo raggiungerà mai nella sua vita. Questo è un finale per sfidare tutte le aspettative narrative. La storia di un viaggio dovrebbe terminare alla fine del viaggio, con l'arrivo a destinazione. Ma la Torah termina prima del capolinea. Finisce a metà. È costruito come una sinfonia incompiuta.
  Noi, lettori e ascoltatori, sentiamo il personale senso di incompletezza di Mosè. Aveva dedicato una vita a condurre il popolo fuori dall'Egitto verso la Terra Promessa. Eppure non gli è stata concessa la sua richiesta di completare il compito e raggiungere il luogo in cui aveva trascorso la sua vita come leader alla guida del popolo. Quando pregò: "Fammi … attraversare e vedere la buona terra dall'altra parte del Giordano", Dio rispose: "Basta! Non parlarmi mai più di questo argomento "(Deut. 3: 25-26).
  Mosè - l'uomo che stava davanti al Faraone chiedendo la libertà del suo popolo, che non aveva paura nemmeno di sfidare Dio Stesso, che quando scese dalla montagna e vide le persone danzare intorno al Vitello d'Oro, fracassò le tavole divinamente tagliate, l'oggetto più sacro mai visto essere tenuto da mani umane - implorato per l'unica piccola misericordia che avrebbe completato l'opera della sua vita, ma non doveva esserlo. Quando pregava per gli altri, ci riusciva. Quando pregava per se stesso, falliva. Questo di per sé è strano.
  Eppure il senso di incompletezza non è solo personale, non è solo un dettaglio nella vita di Mosè. Si applica all'intero racconto così come si è svolto dall'inizio del libro dell'Esodo. Gli israeliti sono in esilio. Dio incarica Mosè del compito di condurre il popolo fuori dall'Egitto e di portarlo nella terra dove scorre latte e miele, il paese che aveva promesso ad Avraam, Isacco e Giacobbe. Sembra abbastanza semplice. Già in Esodo 13 il popolo è partito, mandato da un faraone e da un Egitto devastato dalle pestilenze. In pochi giorni, hanno incontrato un ostacolo. Davanti a loro c'era il Mar Rosso. Dietro di loro c'erano i carri che si avvicinano rapidamente dell'esercito del Faraone. Succede un miracolo. Il mare si divide. Passano sulla terraferma. Le truppe del faraone, le ruote dei loro carri intrappolate nel fango, annegano. Ora tutto ciò che si frappone tra loro e la loro destinazione è il deserto. Ogni problema che devono affrontare - mancanza di cibo, acqua, direzione, protezione - è risolto dall'intervento divino mediato da Mosè. Cosa resta da dire, se non il loro arrivo?
  Eppure non succede. Le spie vengono inviate per determinare il modo migliore per entrare e conquistare la terra, un compito relativamente semplice. Tornano, inaspettatamente, con un rapporto demoralizzante. La gente si perde d'animo e dice di voler tornare in Egitto. Il risultato è che Dio decreta che dovranno aspettare un'intera generazione, quarant'anni, prima di entrare nel paese. Non è solo Mosè a non attraversare il Giordano. L'intero popolo non l'ha ancora fatto quando la Torah finisce. Ciò deve attendere il libro di Giosuè, non stesso parte della Torah, ma piuttosto dei Nevi'im, i successivi testi profetici e storici.
  Questo, da un punto di vista letterario, è strano. Ma non è casuale. Nella Torah, lo stile rispecchia la sostanza. Il testo ci sta dicendo qualcosa di profondo. La storia ebraica finisce senza una fine. Si chiude senza chiusura. Nel giudaismo non c'è l'equivalente di "e vissero tutti felici e contenti" (la Bibbia più vicina a questo è il libro di Ester). Il racconto biblico manca di quello che Frank Kermode chiamava "il senso di una fine". Il tempo ebraico è tempo aperto - aperto a un epilogo non ancora realizzato, una destinazione non ancora raggiunta.
  Questo non è semplicemente perché la Torah registra la storia e la storia non ha fine. La Torah ci sta dicendo qualcosa di molto diverso dalla storia nel modo in cui i Greci, Erodoto e Tucidide, l'hanno scritta. La storia secolare non ha significato. Ci dice semplicemente cosa è successo. La storia biblica, al contrario, è satura di significato. Niente accade semplicemente bemikreh, per caso.
  Nel giudaismo il tempo diventa l'arena della crescita umana. Il futuro non è come il passato. Ne si può prevedere, prevedere il modo in cui si può prevedere la fine di qualsiasi mito. Giacobbe, alla fine della sua vita, disse ai suoi figli: "Radunatevi e vi dirò cosa vi accadrà alla fine dei giorni" (Gen. 49: 1). Rashi, citando il Talmud, dice: "Giacobbe cercò di rivelare la fine, ma la Presenza Divina si allontanò da lui". Non possiamo predire il futuro, perché dipende da noi: come agiamo, come scegliamo, come rispondiamo. Il futuro non può essere previsto, perché abbiamo il libero arbitrio. Anche noi stessi non sappiamo come risponderemo alla crisi finché non si verificherà. Solo in retrospettiva scopriamo noi stessi. Affrontiamo un futuro aperto. Solo Dio, che è al di là del tempo, può trascendere il tempo. La narrazione biblica non ha alcun senso di fine perché cerca costantemente di dirci che non abbiamo ancora completato il compito. Ciò resta da ottenere in un futuro in cui crediamo ma che non vivremo per vedere. Lo intravediamo da lontano, come Mosè vide la terra santa dall'altra parte del Giordano, ma come lui sappiamo di non essere ancora arrivati. Il giudaismo è l'espressione suprema della fede come tempo futuro.
  Il filosofo ebreo del diciannovesimo secolo Hermann Cohen lo espresse in questo modo:
  Ciò che l'intellettualismo greco non poteva creare, il monoteismo profetico è riuscito a creare…. Per i greci, la storia è orientata esclusivamente al passato. Il profeta, tuttavia, è un veggente, non uno studioso…. I profeti sono gli idealisti della storia. La loro veggenza ha creato il concetto di storia come l'essere del futuro. (Enfasi aggiunta.)
  Harold Fisch, lo studioso di letteratura, ha riassunto questo in una frase incredibilmente bella: "il ricordo inappagato di un futuro ancora da soddisfare".
  Il giudaismo è l'unica civiltà ad aver stabilito la sua età dell'oro non nel passato ma nel futuro. Lo sentiamo all'inizio della storia di Mosè, anche se non fino alla fine ci rendiamo conto del suo significato. Mosè chiede a Dio: Qual è il tuo nome? Dio risponde: Ehyeh asher Ehyeh, letteralmente, "sarò quello che sarò" (Es. 3:14). Partiamo dal presupposto che questo significhi qualcosa come "Io sono quello che sono: illimitato, indescrivibile, al di là della portata di un nome". Questo potrebbe essere parte del significato. Ma il punto fondamentale è: il mio nome è il futuro. "Io sono ciò che sarà." Dio è nella chiamata dal futuro al presente, dalla destinazione a noi che siamo ancora in viaggio. Ciò che distingue l'ebraismo dal cristianesimo è che in risposta alla domanda "è venuto il Messia?" la risposta ebraica è sempre: non ancora. La morte di Mosè, la sua vita incompiuta, il suo sguardo sulla terra del futuro, è il simbolo supremo del non ancora.
  "Non sta a te completare il compito, ma non sei nemmeno libero di desistere" (Mishnah Avot 2:16). Le sfide che affrontiamo come esseri umani non vengono mai risolte in modo semplice, rapido, completo. Il compito richiede molte vite. È oltre la portata di un singolo individuo, anche il più grande; è oltre lo scopo di una singola generazione, anche la più epica. Il Deuteronomio termina dicendo: "Non è mai più sorto in Israele un profeta come Mosè" (Deut. 34:10). Ma anche la sua vita era, necessariamente, incompleta.
  Quando lo vediamo, sul monte Nebo, guardando oltre il Giordano fino a Israele in lontananza, percepiamo la vasta e provocatoria verità che tutti noi dobbiamo affrontare. Ogni persona ha una terra promessa che non raggiungerà, un orizzonte oltre i limiti della sua visione. Ciò che rende questo sopportabile è il nostro intenso legame esistenziale tra le generazioni - tra genitore e figlio, insegnante e discepolo, leader e seguace. Il compito è più grande di noi, ma continuerà a vivere dopo di noi, poiché qualcosa di noi vivrà in coloro che abbiamo influenzato.
  L'errore più grande che possiamo fare è non fare nulla perché non possiamo fare tutto. Persino Mosè scoprì che non spettava a lui completare il compito. Ciò sarebbe stato raggiunto solo da Giosuè, e anche allora la storia degli israeliti era solo all'inizio. La morte di Mosè ci dice qualcosa di fondamentale sulla mortalità. La vita non è privata di significato perché un giorno finirà. Perché in verità, anche in questo mondo, prima di rivolgere i nostri pensieri alla vita eterna nel mondo a venire, diventiamo parte dell'eternità quando scriviamo il nostro capitolo nel libro della storia del nostro popolo e lo trasmettiamo a coloro che lo faranno. Il compito - costruire una società di giustizia e compassione, un'oasi in un deserto di violenza e corruzione - è più grande di qualsiasi vita. Il popolo ebraico è tornato nella terra, ma la visione non è ancora completa. Questo è ancora un mondo violento e aggressivo. La pace ci sfugge ancora, così come molto altro. Non abbiamo ancora raggiunto la meta, anche se la vediamo in lontananza, come Mosè. La Torah finisce senza una fine per dirci che anche noi siamo parte della storia; anche noi siamo ancora in viaggio.

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2020)


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Parashat Vezot Haberachà

Alla riflessione di Rabbi J. Sacks sulla Parashà "Vezot Haberachà" (Deuteronomio 33:1-34:12) ne affianchiamo un'altra già presente sulle nostre pagine nella rubrica Parashot.

di Marcello Cicchese

Prima di morire Mosè lascia una benedizione al popolo. Ma che autorità ha Mosè per fare questo? In circostanze come questa, benedire significa trasmettere un bene proveniente da Dio. Per un padre, benedire i figli in punto di morte è come fare testamento a loro beneficio. Ne ha l'autorità, perché è attraverso i genitori che Il Signore fa arrivare ai figli la vita, e quindi anche precisi beni ad essa collegati.
Mosè però non è padre in questo senso, perché Israele non è figlio suo, ma di Dio (Esodo 4:22). Mosè non ha neppure l'autorità di benedire come sacerdote, perché tale non è. Per questo qualcuno potrebbe pensare che la persona più adatta a benedire il popolo in punto di morte sarebbe stata Aaronne, non Mosè. Ma così non è avvenuto.
Quasi a rispondere a questa obiezione, prima che si compia questa solenne benedizione, la Scrittura indica qual è titolo che Mosè riceve per avere l'autorità di compiere quell'atto:
    "Questa è la benedizione con la quale Mosè, uomo di Dio, benedisse i figli d'Israele, prima di morire" (Deuteronomio 33:1).
E' la prima volta che nella Scrittura compare l'espressione "uomo di Dio"; nessun patriarca prima di lui aveva ricevuto questo titolo. Senza dubbio questo ha la sua importanza, perché l'introduzione di un nuovo termine nella Bibbia ha sempre un significato che deve essere ricercato. Nel seguito, l'espressione serve sempre a indicare un profeta o, in un paio di casi, il re Davide (2 Cronache 8:14, Neemia 12:24,36), mai un sacerdote.
Mosè, che certamente è stato il primo profeta che ha portato la Parola di Dio al popolo, ha svolto anche funzioni simili a quelle di un re, com'è detto in questo passo: "... ed egli è stato re in Ieshurun" (Deuteronomio 33:5).
A questo si può aggiungere che Mosè ha svolto anche la funzione di mediatore. E' a lui il che popolo deve di essere rimasto in vita, protetto dall'ira del Signore; e adesso è a lui che deve non solo la sopravvivenza, ma anche la pienezza delle benedizioni di Dio.
Senza esaminare da vicino i beni promessi a ciascuna tribù, si può subito notare la differenza di tono tra le benedizioni di Giacobbe e quelle di Mosè. Se là non mancavano rimproveri, condanne e minacce, qui tutto è positivo, tutto è aperto alla speranza, tutto invita a rallegrarsi del futuro glorioso riservato al popolo.
    «Rallègrati, Zabulon, nel tuo uscire, e tu, Issacar, nelle tue tende! Essi chiameranno i popoli al monte, e là offriranno sacrifici di giustizia; poiché succhieranno l'abbondanza del mare e i tesori nascosti nella sabbia» (Deuteronomio 33:18-19).
Eppure, nel cantico precedente Mosè aveva denunciato la durezza di cuore e l'infedeltà che il popolo aveva mostrato verso il Signore. Come si spiegano questi repentini cambiamenti di tono nella Scrittura? Non si spiegano, se si rimane "sotto il sole", dove non c'è mai "nulla di nuovo"; si spiegano soltanto se ci si lascia trasportare "sopra il sole" dalla Parola di Dio che annuncia il "nuovo" portato dall'opera di Dio, e non da quella degli uomini.
Le ultimissime parole di Mosè, quelle che stanno tra i versetti 26 e 29 del capitolo 33, sono uno sguardo profetico su un futuro che Dio ha preparato, e che un giorno certamente arriverà. Prima di proseguire, si consiglia di rileggere questi versetti o di averli davanti agli occhi.
"Nessuno è pari al Dio di Ieshurun", si dice per prima cosa, e questo già si scontra con quell'Allahu Akbar (Allah è il più grande) che oggi sentiamo risuonare nelle nostre orecchie.
Poco più avanti si dice un'altra cosa di enorme importanza:
    "Te beato, o Israele! Chi è pari a te, popolo salvato dall'Eterno?"
E' significativo il collegamento fra i due "pari": come non c'è nessun dio pari al Dio di Israele, così non c'è nessun popolo pari al popolo di Israele. Dunque, l'unicità di Dio è espressa sul piano storico-politico dall'unicità di Israele.
Si spiega allora l'accanimento contro la "pretesa" del popolo ebraico di distinguersi dagli altri: non si accetta la scelta di Dio perché non si accetta che ci sia un Dio che sceglie. Ma poiché Dio sceglie per salvare, chi non accetta un Dio che sceglie non può essere salvato. Questo è vero sia per i singoli, sia per le nazioni.
Israele è "un popolo salvato dall'Eterno", ma affinché questo destino di salvezza diventi una realtà storica dovrà arrivare il giorno in cui Israele userà parole simili a quelle di Maria di Nazaret, che all'annuncio dell'angelo Gabriele: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio", rispose umilmente: "Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola" (Vangelo di Luca, cap. 1).
E la parola dell'angelo Gabriele a Maria è questa:
    "Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre".
Gli altri popoli invece dovranno dire se vogliono accettare il fatto che Dio ha scelto il popolo d'Israele, e non solo il Messia d'Israele. Da questo dipenderà la loro entrata nel regno messianico o la definitiva sparizione dalla scena.
L'accanimento contro il popolo ebraico, oggi rappresentato dallo Stato d'Israele, è una costante storica umanamente inspiegabile. Non c'è accanimento pari a quello contro Israele, e anche questo conferma che non c'è un popolo pari a Israele, proprio come la Scrittura attesta.
Attenzione però, perché mettersi contro Israele in opposizione alle scelte di Dio non è privo di conseguenze, perché Israele è un popolo salvato dall'Eterno che ha in Dio uno scudo di difesa e una spada di offesa contro i suoi nemici.
    "Te beato, Israele! Chi è pari a te, popolo salvato dall'Eterno? Egli è lo scudo della tua difesa e la spada del tuo trionfo. I tuoi nemici verranno ad adularti, e tu calpesterai le loro alture».
(Notizie su Israele, 20 ottobre 2016)


Coronavirus: Israele, segni di arresto della pandemia

Preoccupazione per i contagi fra gli ebrei ortodossi

Dopo oltre due settimane di lockdown, il ministero della sanità israeliano ha oggi riferito di aver rilevato "segni apparenti di un arresto" nella diffusione della pandemia coronavirus. Ciò nonostante, ha avvertito, Israele resta uno dei Paesi col più elevato tasso di contagi. Ieri sono stati rilevati 3.692 casi positivi, l'8 per cento dei tamponi condotti (circa 46 mila). Si tratta di un calo ulteriore, dopo il picco del 15 per cento registrato alla fine di settembre. Stabile il numero dei malati gravi (852) e quello dei malati in rianimazione (241). I decessi sono saliti a 1.864.
Particolare preoccupazione desta la situazione sanitaria nelle località ortodosse, dove malgrado il lockdown in occasione di successive ricorrenze religiose ebraiche si sono avuti ripetuti assembramenti di massa. Migliora sensibilmente invece la situazione nelle località arabe, dove il mese scorso si erano registrati alti tassi di contagio imputati a matrimoni affollati. Secondo dati raccolti dall'Istituto Weizman fra i nuovi casi positivi della settimana scorsa l'8 per cento erano arabi, il 47 per cento ortodossi ed il 45 per cento il resto degli israeliani.

(ANSA, 9 ottobre 2020)


Covid-19, Israele da "Paese modello" al più colpito dalla pandemia

Israele e Covid-19. Cosa è successo tra il primo e il secondo lockdown? E la nuova chiusura totale sta funzionando? Ecco i primi dati.

di Daniele Particelli

Israele è stato per mesi, insieme all'Italia, uno dei Paesi da prendere come esempio per il modo in cui è riuscito ad affrontare la prima fase della pandemia di Covid-19, ma da qualche settimana a questa parte qualcosa è cambiato: i casi non soltanto hanno ripreso a salire, ma hanno toccato vette mai raggiunte dalla prima ondata al punto da costringere il Paese ad un nuovo e duro lockdown di almeno tre settimane e l'introduzione di un sistema a semafori che punta a regolare al vita dei cittadini, a seconda dei contagi nelle varie aree del Paese, per molte settimane a venire.
Cosa è successo in questi mesi? Sono stati commessi degli errori che rischiano di venir compiuti anche da Paesi come l'Italia, che ad oggi sembra uno dei Paesi che meglio sta gestendo la cosiddetta seconda ondata della pandemia di Covid-19?

(Blogo.it, 9 ottobre 2020)


Non solo Emirati Arabi. Perché (anche) il Qatar vuole l'F-35

di Emanuele Rossi

Anche il Qatar vuole l'F-35. Per gli Usa, l'eventuale vendita permetterebbe di rafforzare il sistema di pressione sull'Iran. Per Doha vorrebbe dire dare vigore alle ambizioni crescenti su varie questioni mediorientali. Prevedibili però le resistenze di Israele e Arabia Saudita. Ecco perché.

Dopo gli Emirati Arabi anche il Qatar vuole l'F-35, il velivolo americano di quinta generazione. Doha avrebbe già presentato richiesta formale a Washington, almeno stando alle indiscrezioni di Reuters che riporta tre diverse fonti vicine al dossier tra dipartimento di Stato e diplomazia Usa. La fornitura non si preannuncia facile, vista la necessaria approvazione del Congresso americano e le prevedibili resistenze di Arabia Saudita e Israele, che comunque presenta al momento diversi interessi convergenti con Doha. Intanto il Joint Strike Fighter si conferma strumento prediletto di Washington per il rafforzamento delle alleanze, nonché sistema ambito dai Paesi che vogliono essere più protagonisti sullo scenario internazionale.

 Interessi incrociati
  E infatti, se per gli Stati Uniti vendere l'F-35 al Qatar significherebbe rafforzare il sistema di pressione sull'Iran, per Doha vorrebbe dire dare vigore alle ambizioni crescenti su varie questioni mediorientali. Poche settimane fa, ricevendo a Washington il ministro degli Esteri Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, il segretario di Stato Mike Pompeo aveva spiegato l'intenzione di rafforzare i rapporti per rendere il Qatar uno dei maggiori alleati non-Nato degli Stati Uniti. A complicare tale obiettivo potrebbe però essere il necessario passaggio al Congresso per una vendita militare corposa che richiede tempi lunghi e su cui interverrà comunque anche l'esito del voto del prossimo 3 novembre. Tra l'altro, dal mondo politico americano sono in tanti a non fidarsi del Qatar per i legami con Hamas e Iran.

 Tra Israele…
  Ma le resistenze arriveranno probabilmente anche dai principali alleati di Washington nell'area: Israele e Arabia Saudita. Per Tel Aviv è prevedibile un'opposizione simile a quella che ha riguardato l'ipotesi di vendita di F-35 agli Emirati Arabi, smussata e ammorbidita solo dagli Accordi di Abramo e, soprattutto, dalle importanti garanzie americane sulla preservazione del "qualitative military edge" israeliano, cioè del vantaggio tecnologico militare che il Paese vanta nella regione. Garanzie che sono arrivate a Benjamin Netanyahu direttamente da Mike Pompeo, e al ministro della Difesa e vice primo ministro Benny Gantz dal capo del Pentagono Mark Esper, chiamati ora allo stesso lavoro di rassicurazione dell'alleato. Parallelamente, non è da escludere un riavvicinamento tra Tel Aviv e Doha. Formiche.net ha raccontato dei diversi piani di contatto (compresa la tregua tra Israele e Hamas) e di una convergenza di interessi che pone il Qatar tra i Paesi in lizza per possibile adesione agli Accordi di Abramo.

 … e Arabia Saudita
  A ostacolare la vendita potrebbe però essere anche l'Arabia Saudita. Riad non ha problemi sulla fornitura emiratina, ma potrebbe opporsi a quella qatariota. Da almeno quattro anni la frattura tra i Paesi del Golfo si è tradotta in un sostanziale isolamento regionale del Qatar, accusato dalle altre monarchie (insieme all'Egitto) di sostenere le ambizioni iraniane nella regione mediorientale e di offrire supporto ai Fratelli Musulmani e a gruppi integralisti come Hamas. Come notava su queste colonne l'ambasciatore Giampiero Massolo (presidente dell'Ispi e di Fincantieri), Doha è tra i protagonisti del confronto interno all'Islam sunnita, che "riguarda essenzialmente il futuro dell'Islam politico di cui la Turchia, sostenuta dal Qatar, si vuole rendere protagonista (e protettrice) e a cui invece si oppongono con determinazione Arabia Saudita ed Emirati Arabi".

 Il ruolo di Doha
  L'eventuale intesa per gli F-35 permetterebbe al Qatar di dare spinta all'uscita dall'isolamento, già evidente nelle relazioni con i Paesi europei (Italia compresa), e da Washington potrebbe essere letta come un distacco di Doha da Teheran. L'Emirato gioca un ruolo importante in Libia (insieme alla Turchia è il principale sponsor del Governo di accordo nazionale di Fayez al Serraj) e in altre partite che interessano gli Usa. Doha è il centro dei negoziati per la pacificazione dell'Afghanistan, un tema caro all'amministrazione targata Donald Trump anche nel contesto dell'attuale campagna elettorale.

(Formiche.net, 8 ottobre 2020)


Louise Glück ha vinto il Nobel per la letteratura

La poetessa statunitense è stata premiata "per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l'esistenza individuale universale".

 
Louise Gluck alla cerimonia dei National Book Awards a New York, 2014
Il Premio Nobel per la letteratura 2020 è stato assegnato alla poetessa statunitense Louise Glück, "per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l'esistenza individuale universale".
   Glück ha 77 anni ed è una stimatissima poetessa negli Stati Uniti, già vincitrice di vari premi prestigiosi. Nata a New York, ha origini ebraico-ungheresi e insegna letteratura inglese all'Università di Yale. Nel 1993 vinse il premio Pulitzer della poesia con la raccolta di poesie L'iris selvatico; nel 2014 il National Book Award, un altro importante premio letterario americano. Ha scritto 12 raccolte di poesie, oltre a varie raccolte di saggi di critica letteraria. In italiano è stata pubblicata all'inizio dell'anno la sua decima raccolta di poesie, Averno, che era uscita negli Stati Uniti nel 2006: contiene una riscrittura del mito greco di Persefone. A pubblicarla è stata la Libreria Dante & Descartes di Napoli, che ha anche una piccola attività come casa editrice.
   La mitologia greca in generale è uno dei temi ricorrenti delle sue opere (altri personaggi che vi sono citati sono Didone ed Euridice, come Persefone donne tradite), oltre all'infanzia, e ai rapporti familiari, in particolare con genitori e fratelli e sorelle, e al rapporto con la natura: in L'iris selvatico le poesie sono "ambientate" in giardini dove a parlare sono i fiori.
   In uno dei suoi saggi, contenuto in Proofs & Theories: Essays on Poetry, del 1994, ha raccontato della sua esperienza con l'anoressia da giovane. Come ha spiegato Anders Olsson, presidente del comitato che le ha assegnato il Nobel, «non negherebbe mai l'importanza del contesto autobiografico nelle sue opere, ma non deve essere considerata una poetessa confessionale», come ad esempio sono Sylvia Plath e Anne Sexton, anche se proprio un poeta confessionale, Robert Lowell, è considerato dai critici tra quelli che più l'hanno influenzata.
   Un'altra caratteristica di Glück è che nelle sue opere spesso non c'è nulla che indichi il genere o altri caratteri identitari che descrivono il soggetto della poesia; è una di quegli autori a cui non piace essere identificati all'interno di una specifica categoria - come donna, o di origine ebraica.
   Il Nobel per la letteratura è uno dei più prestigiosi riconoscimenti in ambito letterario e viene assegnato dal 1901. Glück è la sedicesima donna a riceverlo, dopo la scrittrice polacca Olga Tokarczuk, vincitrice del premio per il 2018. Era invece dal 2011 che il premio Nobel per la letteratura non veniva assegnato non veniva assegnato a un autore che si occupa principalmente di poesia: quell'anno lo vinse lo svedese Tomas Tranströmer. L'ultimo statunitense a vincere il premio prima di Glück invece è stato Bob Dylan, nel 2016: anche lui è un poeta, anche se non è la prima parola che si userebbe per descriverlo. Un'ultima statistica: negli ultimi dieci anni, con Glück, sono stati quattro i vincitori del premio Nobel per la letteratura che scrivono in inglese.

(il Post, 8 ottobre 2020)


Netanyahu: "Presto in arrivo duemila immigrati dall'Etiopia"

Il premier Benyamin Netanyahu ha annunciato oggi l'arrivo in Israele di duemila nuovi immigrati dall'Etiopia, membri della comunità dei Falashmura: "Sei mesi fa - ha detto - mi sono impegnato a portare da noi quanto resta delle comunità ebraiche in Etiopia. Alla prossima seduta di governo voteremo il trasferimento di duemila membri del nostro popolo, per poi portare anche tutti gli altri". I Falashmura sono una comunità di origine ebraica che per un periodo ha praticato il cristianesimo per poi tornare, di recente, all'ebraismo. Secondo dati dell'Agenzia Ebraica almeno ottomila di loro, che attualmente si trovano in campi di raccolta ad Addis Abeba, hanno parenti stretti nella comunità Falasha (Beita Israel) in Israele, e sono dunque qualificati per la immigrazione. Gli israeliani di origine etiopica sono circa 100 mila.

(Politica News, 8 ottobre 2020)


Mossad, una notte a Teheran

Come fu organizzata l'operazione che permise agli 007 israeliani di mettere le mani sui documenti nucleari iraniani.

di Matteo Carnieletto

A volte, per descrivere la realtà, è necessario ricorrere alla finzione. Bisogna nascondere nelle pieghe di un romanzo quello che normalmente si può solo intuire o, peggio ancora, immaginare. Ma se davvero fosse così? Se davvero quanto immaginato dalla mente di un autore fosse più vero del vero?
   Partiamo dalla realtà. Dai fatti. Il 30 aprile del 2018, il premier israeliano Benjamin Netanyahu lancia una durissima accusa nei confronti dell'Iran: "Teheran mente sfacciatamente sulle sue armi nucleari" e "punta a dotarsi di almeno cinque ordigni nucleari analoghi a quelli utilizzati su Hiroshima". Alle spalle del primo ministro appaiono diverse immagini. Ai più dicono poco o nulla, ma sono il frutto di anni di lavoro dei servizi segreti israeliani. Si tratta, prosegue Netanayhu, di 55mila documenti e altri 55mila file su cd, "copia esatta degli originali provenienti dagli archivi segreti di Teheran". Prove che confermerebbero l'esistenza del piano di riarmo nucleare dell'Iran, chiamato "Amad".
   "Si tratta - conclude Neatanyahu - di uno dei maggiori successi di intelligence che Israele abbia mai conseguito". Difficile ribattere. Questi documenti, infatti, contribuiranno a far saltare l'accordo che gli Stati Uniti, insieme a Francia, Russia, Regno Unito e Germania, avevano siglato con l'Iran. Ma cosa accadde in quella notte di tanti anni fa?
   Il New York Times, in un articolo del 15 luglio 2018, poco più di due mesi dopo le parole di Netanyahu, ha cercato di fare un po' di chiarezza: "Gli agenti del Mossad che si sono trasferiti in un magazzino in uno squallido quartiere commerciale di Teheran sapevano esattamente quanto tempo avevano per disattivare gli allarmi, sfondare due porte, tagliare dozzine di casseforti giganti e uscire dalla città con la metà del materiale segreto: sei ore e 29 minuti". Tutto si gioca in una manciata di secondi: quella notte, il 31 gennaio, gli agenti del Mossad aprono 32 cassaforti, dalle quali riescono a trafugare parecchio materiale. Il tempo scorre veloce. Troppo, forse. Tre, due, uno. Finito. Bisogna partire. La squadra israeliana si dirige verso il confine, "trasportando circa 50mila pagine e 163 compact disc di promemoria, video e progetti".
   Qui finisce la storia e siamo costretti a entrare nella finzione, grazie a Mossad, una notte a Teheran, l'ultimo romanzo di Michael Sfaradi per La nave di Teseo (impreziosito dalla copertina e dai disegni, realizzati con matita, carboncino e penna biro, da Rosj Domini).
   Tutto ruota intorno a quel giorno, quel 31 gennaio che avrebbe cambiato la storia del Medio Oriente. Anzi, tutto ruota alla preparazione di quel giorno perché certe operazioni, per essere davvero efficaci, devono essere preparate anni prima. Tutto può iniziare per caso, per esempio assistendo a una strana lite in un pub tedesco, per arrivare infine all'operazione. E in mezzo? C'è la storia di un protagonista - Ilan - un po' James Bond, un po' Eli Cohen (la spia israeliana che riuscì a raggiungere il vertice dell'arcinemica Siria) che pensa e agisce come un perfetto 007: "Ragionare velocemente come era stato addestrato, fino ad arrivare ai limiti e, se fosse stato necessario, superarli per scopire la linea estrema e poi spingersi oltre".
   Ilan (Emad, una volta che viene infiltrato, Ndr) sa che ogni sua azione determinerà una reazione. Da una parte o dall'altra: "Ragionando (...) con il pragmatismo più estremo, cosa era meglio: l'Iran con in mano la bomba e il potenziale per non far più dormire una notte tranquilla a Israele per l'eternità o un gran casino che avrebbe ridisegnato il Medio Oriente con le lacrime e il sangue? La scelta doveva essere politica, lui era solo un agente che proponeva, e poi, quando le decisioni erano prese. obbediva agli ordini".
   Impossibile non pensare a queste parole rileggedo quanto successo in Iran in tre densissime settimane delle scorso luglio: strane esplosioni si sono registrate a Khojir, dove è situata la più importante struttura iraniana per la produzione di missili; nella base nucleare di Natanz, dove vengono fabbricate centrifughe per arricchire l'uranio; a ovest di Teheran dove, per ore, è stato registrato un blackout. È stato il Mossad? Nessuno può dirlo. Questo servizio segreto, infatti, è "famoso più per quello che non si sapeva di lui, che per ciò che negli anni era venuto alla luce, ma quello che impressionava i più, e intimoriva i nemici, era quell'aura di imbattibilità e mito che, nel corso degli anni, si era creato intorno a quella parola, Mossad, che in Israele è di uso comune, ma che nel resto del mondo fa tremare le vene ai polsi".
   Suggestioni, certo. Che però fanno riflettere...

(il Giornale, 8 ottobre 2020)


Ghez, un Nobel dalle radici ebraiche a cavallo tra Roma, Pisa e Livorno

Andrea Ghez
Radici ebraico-italiane per Andrea Ghez, la 55enne astronoma newyorkese vincitrice in queste ore del Premio Nobel per la Fisica. La quarta donna in assoluto a ottenere questo riconoscimento, tributatole insieme a Reinhard Genzel per le sue ricerche sulla Via Lattea. Laureatasi al Massachusettes Institute of Technology, dal 2004 è tra i membri dell'National Academy of Sciences e, sempre in coppia con Genzel, nel 2012 ha ricevuto il Premio Crafoord nel campo dell'astronomia. "Spero - il suo primo commento, dopo la telefonata ricevuta da Stoccolma - di ispirare altre giovani donne a dedicarsi a questo campo del sapere. La fisica è uno studio che può regalare così tante soddisfazioni e se si è appassionati di scienza, c'è veramente molto da fare".
   Il padre della scienziata, Gilbert, era nato a Roma nel 1938, secondo figlio del romano Henri e della tedesca Elsie Marx. Salvifica la scelta di emigrare nel giro di breve tempo a New York, dove la famiglia Ghez trascorre il periodo bellico. Finita la guerra, il ritorno in Europa. Con Gilbert che si forma alla scuola internazionale di Ginevra e poi, trasferitosi definitivamente negli Stati Uniti, completa il suo percorso di studi in economia in prestigiosi atenei tra cui Yale e Columbia University. Diventato economista di successo, nei primi Anni Novanta, poco dopo il crollo del Muro di Berlino, è l'artefice di un programma rivolto a studenti cecoslovacchi che, grazie al suo impegno, hanno l'opportunità di formarsi in America. Alcuni anni dopo, nel 2007, avrebbe invece ideato un'altra pregevole iniziativa: un'occasione d'incontro aperta ai discendenti della famiglia Ghez. L'appuntamento era stato tra Pisa e Livorno. Nei luoghi quindi di un avo illustre: l'ebreo livornese Giacomo di Castelnuovo (1819-1886), che fu protagonista del Risorgimento e medico di riferimento di casa Savoia. "Livorno dove Giacomo è nato, Pisa dove ha abitato ed è sepolto, con partecipazione di centoventi discendenti" racconta Bruno Di Porto, direttore del periodico "Hazman Veharaion - Il Tempo e L'Idea" e bisnipote del celebre medico.
   Henri, assieme al fratello Oscar, aveva fondato a Roma una fabbrica di prodotti del caucciù. "A seguito delle leggi antiebraiche - racconta Di Porto - la scambiarono con un'impresa di Pirelli nei pressi di Lione, trasferendosi in Francia". Alla sconfitta francese, Oscar riparò dapprima in Svizzera, dove nacque il figlio Claude, poi in Spagna, in Portogallo, negli Stati Uniti "dove fu consultato dal governo, come esperto di cose italiane". Nel dopoguerra si trasferì in Svizzera, realizzandovi un museo d'arte moderna, il Petit Palais. Sorelle di Oscar e Henri furono Ketty e Odette, che a Roma si salvò dalle persecuzioni in clandestinità assieme al marito Gino Terzago. Proprio a Odette fu affidato, per un breve periodo, lo stesso Bruno.
   Origini ebraiche anche per l'altro vincitore del Nobel per la Fisica, il più noto del terzetto: il matematico, fisico e cosmologo britannico Roger Penrose, laureato all'Università di Cambridge, professore emerito all'Istituto di matematica dell'Università di Oxford e nel 1988 vincitore, assieme a Stephen Hawking, del Premio Wolf per la fisica.

(moked, 7 ottobre 2020)


In Israele condotte sconsiderate dietro la nuova ondata di contagi

Intervista a Sergio Della Pergola.

- È ormai da alcuni mesi che la seconda ondata di coronavirus preoccupa le autorità. Vi è sempre il mancato rispetto delle norme di prevenzione a origine del crescente numero di contagi?
  «Sì, e con il tempo questa mancanza di disciplina si è molto acuita. Una parte della popolazione non rispetta le disposizioni sanitarie, non mantenendo le distanze di sicurezza, rifiutando l'uso della mascherina e via dicendo. A ciò va aggiunto il fatto che il 1° settembre sono state riaperte le scuole, decisione da molti ritenuta discutibile, e ciò ha portato ad un'impennata dei contagi. Israele è così diventato il primo Paese al mondo come numero di contagi rispetto al numero di abitanti. Mentre nella fase iniziale della pandemia avevamo dei dati molto bassi di infetti. Il numero totale dei decessi, circa 1.700, è relativamente basso, però è più che quintuplicato negli ultimi mesi».

- Quali effetti ha avuto l'esplosione del numero di infetti?
  «Tale crescita esponenziale dei contagiati comporta grosse tensioni interne, in quanto in Israele la popolazione è composta da vari gruppi con comportamenti culturali molto diversi gli uni dagli altri. La popolazione araba, circa un quinto del totale, registrava punte alte di contagi che negli ultimi giorni si sono un po' ridotti. Tra queste persone il fattore scatenante dell'epidemia sono i grandi matrimoni, le grandi manifestazioni di gioia collettiva nella comunità, senza alcuna precauzione. Comportamenti con gravi conseguenze in ambito sanitario».

- Preoccupa anche l'atteggiamento degli ortodossi?
  «Sì, oggi il problema principale è il comportamento della parte ortodossa della maggioranza ebraica. Si tratta del 10-12% della popolazione israeliana, ma negli ultimi giorni la percentuale di contagi in questo gruppo rappresenta circa il 40% di tutti i nuovi casi. Ci sono dei rabbini che dicono di ignorare le direttive dello Stato in quanto ritengono che quello che conta è la protezione divina».

- In cosa consiste il nuovo giro dl vite per contenere l'epidemia?
  «Un paio di settimane fa sono state adottate nuove restrizioni. E' ad esempio vietato muoversi oltre un chilometro dal proprio domicilio, anche se poi non tutti rispettano le norme. Molte attività produttive sono state chiuse, sia nel settore privato sia in quello pubblico. Dal mondo dell'economia, che stava riprendendosi dopo la prima ondata, è partita una nuova ondata di licenziamenti o di messa a riposo per ferie o malattia. Si calcola che circa un milione di persone sia rimasto senza lavoro».

- Vi sono aiuti per i disoccupati?
  «La situazione economica è grave, anche se lo stato sociale dà dei sussidi a chi resta disoccupato. Gli aiuti non possono andare avanti a lungo».

- Vi è il rischio che si arrivi a una situazione analoga a quella vissuta dall'ltalia lo scorso inverno?
  «Siamo ancora lontani da quella tragica situazione, però l'evolversi della pandemia dipende anche dalla forte incoscienza di alcuni gruppi della nostra società che organizzano riunioni di massa. In Israele abbiamo il Capodanno ebraico che è stato celebrato un paio di settimane fa. Poi vi è la celebrazione ebraica dell'espiazione, il giorno del Kippur. Anche le persone più lontane dalla religione finiscono per andare almeno una volta all'anno alla sinagoga a pregare e quindi si creano dei grandi assembramenti. Poi comincia la festa delle capanne, in ebraico Sukkot, che dura fino a sabato prossimo. Festività ricche di incontri, vedremo che impatto avranno sulla diffusione del virus. Poi si spera che l'ondata di contagi inizi a decrescere anche perché le scuole sono state chiuse e si procede con l'insegnamento a distanza».

(Corriere del Ticino, 7 ottobre 2020)


Israele-Emirati, primo incontro a museo Shoah di Berlino

di Fulvio Miele

 
 
In una scelta altamente evocativa, i ministri degli esteri di Israele ed Emirati Arabi Uniti hanno deciso di incontrarsi per la loro prima volta al Museo della Shoah di Berlino. Una riunione "storica" - dopo l'Accordo di Abramo firmato il mese scorso alla Casa Bianca - di grande impatto per i rapporti tra mondo ebraico ed arabo. "Mai piu'", ha scritto in arabo e in inglese sul libro del Museo il ministro Abdullah bin Zayed Al Nahyan commemorando cosi' "le vittime europee dell'Olocausto".
  "Una riunione che simboleggia l'inizio di una nuova era di pace tra i popoli", ha incalzato Gabi Ashkenazi, figlio di un sopravvissuto alla Shoah ed ex capo di stato maggiore di un esercito che piu' volte ha combattuto contro nazioni arabe. Ed Heiko Maas, ministro degli esteri tedesco, ha definito un "grande onore" il fatto che i due rappresentanti di paesi senza relazioni per decenni "abbiano scelto" proprio Berlino "come luogo del loro primo storico incontro".
  Visitando le sale di un luogo che racconta lo sterminio degli ebrei perpetrato dalla Germania nazista, Zayed Al Nahyan ha commentato che "un intero gruppo di esseri umani e' caduto vittima di quelli che parlano di estremismo e odio" sottolineando invece "l'importanza dei valori umani come la coesistenza, la tolleranza e l'accettazione dell'altro ed anche il rispetto per tutti i credi e le fedi". "Questi - ha affermato - sono i valori sui quali la mia patria e' stata fondata".
  I due ministri - accompagnati da Maas - si sono poi inoltrati nel labirinto di piu' di 2.700 blocchi di cemento disseminati in un'area equivalente a tre campi di calcio: un mausoleo del ricordo. Maas ha sottolineato che la volonta' dei due ministri di incontrarsi i quel luogo mostra "quanto sia serio il loro sforzo per buone relazioni bilaterali". Rapporti sanciti dall'Accordo di Abramo che per il ministro tedesco e' "la prima buona notizia in Medio Oriente da molto tempo". "Questo significa - ha detto - che una pacifica coesistenza nel Medio Oriente e' possibile," che e' possibile "rilanciare il dialogo tra israeliani e palestinesi". Tema ripreso sia dal ministro degli Emirati sia da quello israeliano. "C'e' una nuova speranza per Israele e Palestinesi in modo che - ha detto Zayed Al Nahyan - possano lavorare per una Soluzione a 2 Stati e una regione migliore". Ashkenazi ha fatto appello ai Palestinesi affinche' tornino ai negoziati sottolineando che " trattative dirette con Israele sono l'unica maniera di avanzare verso la pace".

(Juorno, 7 ottobre 2020)


Colloqui Israele-Libano, definire confini per dividersi il gas

Previsto a metà mese il via alle trattative «marittime» mediate da Usa e Onu. Sullo sfondo c'è il basso profilo della Siria, visibile nella mancata reazione all'Accordo di Abramo. Ed Hezbollah sa di dover favorire il dialogo per frenare la crisi economica.

di Michele Giorgio

Dovrebbero cominciare a metà mese i colloqui per la definizione dei confini marittimi tra Israele e Libano che vedranno allo stesso tavolo i delegati dei due paesi assieme ai mediatori statunitensi e dell'Onu.
   La sede degli incontri sarà nei locali della base militare dell'Unifil a Ras Naqura. La certezza che i negoziati prendano il via non c'è ancora. Israele e Libano sono in stato di guerra, non hanno rapporti e le differenze sulla composizione delle delegazioni e altri aspetti «politici» restano ampie. Ma alla fine si faranno: a Ras Naqura saranno in ballo i miliardi di dollari che Tel Aviv e Beirut potrebbero incassare dallo sfruttamento di ricchi giacimenti sottomarini di gas se riusciranno a trovare un'intesa su un'area di 860 chilometri quadrati, nel cosiddetto Blocco 9.
   Non siamo di fronte al primo passo di un futuro accordo diplomatico tra Israele e Libano come banalmente lasciavano intendere qualche giorno fa i resoconti di media entusiasti dell'Accordo di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati e Bahrain.
   Parliamo di gas nel Mediterraneo orientale, la corsa al nuovo oro che coinvolge Turchia, Grecia, Cipro, Egitto, oltre a Israele e Libano, e che potrebbe sfociare in una guerra se le cose dovessero mettersi male. Il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha precisato più volte che i colloqui a Ras Naqura sono estranei alla normalizzazione mediata dall'amministrazione Trump. Ed è stato esplicito sulle finalità del negoziato sottolineando che «se la demarcazione avrà successo potremo pagare i nostri debiti».
   Giorni fa il quotidiano di Beirut Al Akhbar riferiva che l'influente movimento sciita libanese Hezbollah si oppone fermamente alla partecipazione ai negoziati di esponenti del governo israeliano, per impedire che sia dato un carattere politico alla trattativa. L'esecutivo guidato da Netanyahu infatti vorrebbe a capo della delegazione israeliana il ministro dell'energia Steinitz. E il ministro degli esteri Ashkenazi ritiene che «il successo dei colloqui contribuirà in modo significativo alla stabilità della regione». Allo stesso tempo Hezbollah deve favorire l'avvio della trattativa che riguarda lo sfruttamento di una potenziale fonte di ricchezza per il paese dei cedri alle prese con una devastante crisi economica e finanziaria (la peggiore degli ultimi 30 anni) che ha fatto precipitare nella povertà larghi settori della popolazione.
   Conta anche l'accusa mossa da una parte della popolazione libanese al movimento sciita di badare più agli interessi dei suoi alleati iraniani che a quelli del proprio paese. Accusa che Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, respinge con forza. Il Libano ha già assegnato le licenze esplorative nel Blocco 9 a un consorzio di aziende che include la francese Total, la italiana Eni e la russa Novatek. Il governo Netanyahu ha coinvolto le compagnie Delek Drilling e Noble Energy, già partner nello sfruttamento di giacimenti israeliani. Nessuno dei due paesi è attivo nella zona contesa che, affermano i libanesi, sarà delimitata sulla base «del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) concordato nel 1996» e non in altri modi.
   Sullo sfondo c'è il basso profilo sugli ultimi sviluppi regionali che la Siria ha adottato di recente. Oltre a non aver espresso una posizione a proposito della trattativa sui confini marittimi tra Israele e Libano, Damasco ha criticato a bassa voce la normalizzazione di Emirati e Bahrain con i «nemici israeliani». Dopo le forti tensioni degli anni passati per l'appoggio offerto da Abu Dhabi a jihadisti e islamisti radicali schierati contro il presidente Assad, la leadership siriana dalla fine del 2018 vanta buone relazioni con gli Emirati che hanno riaperto l'ambasciata a Damasco sfidando la rivale Turchia.
   La Siria, poi, mantiene buoni rapporti con l'Egitto, alleato degli Emirati, e appoggia il generale libico Haftar contro il governo di Tripoli alleato di Ankara. Gli Emirati, si dice, saranno protagonisti della ricostruzione in Siria se e quando gli Usa cesseranno di ostacolarla.

(il manifesto, 7 ottobre 2020)


E' iniziata l'avventura!! L'Israel Start Up Nation Team alla 103a edizione del Giro d'Italia

E' iniziata l'avventura del Team Israeliano Start Up Nation al 103o giro d'Italia. I risultati sono stati davvero importanti: fin dal primo giorno!

di Mariella Belloni

 
La squadra israeliana è apparsa per la prima volta al Giro d'Italia in occasione della storica Big Start di Gerusalemme del 2018 già con Guy Niv e Guy Sagiv: un evento sportivo che ha davvero emozionato il mondo!
L'allora Cycling Accademy, oggi Start Up Nation, sta partecipando al Giro d'Italia 2020 dopo aver terminato una settimana fa la partecipazione al Tour de France.
L'edizione del 2018 avrà sempre un posto speciale nel cuore del team, dopo quella gara ricca di irripetibili emozioni che vide la Grande Partenza da Gerusalemme.
All'epoca Sylvan Adams, comproprietario della squadra, riuscì a dimostrare agli organizzatori di gare ciclistiche di tutto il mondo l'eccezionale cultura ciclistica della piccola Israele, attraverso la sicurezza delle sue strade e lo splendore dei suoi paesaggi.
Sylvan Adams, il pro-manager Kjell Carlström e il ciclista israeliano Guy Sagiv hanno ricordi fantastici dell'edizione 2018.
Adams ha dichiarato: "Il Giro ha dato alla nostra squadra la prima opportunità di correre in un Grand Tour che è stato reso memorabile quando è iniziato sul terreno di casa, a Gerusalemme. E' bello tornare al Giro per la terza volta, per vedere i nostri vecchi amici".
Kjell Carlström, la mente finlandese del team israeliano, ha continuato: "Iniziare in Israele, con il nostro team, e finire secondi in una delle tappe ebbe un grandissimo significato per l'ICA [ora ISN]".
Guy Sagiv ha continuato: "È stato semplicemente incredibile e da allora molto è cambiato. Questa volta sono qui non solo per sopravvivere, ma per gareggiare". Sagiv vuole aiutare i leader della squadra il più possibile e unirsi ad alcune fughe durante le tappe. "Sono pronto a rappresentare il mio Paese in quella che è una gara speciale per la squadra, per Israele e per me stesso. Credo che abbiamo ottimi velocisti e un risultato storico è in palio ".
Il team dei velocisti della Start Up Nation è di livello mondiale e, oltre a Sagiv, vi sono figure come Matthias Brändle, Alex Dowsett e Rick Zabel, Rudy Barbier e Davide Cimolai.
Cimolai è l'eroe locale dell'ISN al Giro. "Il gruppo trascorrerà quattro giorni attraversando la mia regione. È super eccitante per me".
Il direttore sportivo Nicki Sörensen è fiducioso che questa formazione sarà in grado di ottenere risultati davvero straordinari. "Questo è l'obiettivo principale", ha detto, "e Barbier e Cimolai sono i nostri due ciclisti che possono raggiungerlo. Navarro sarà la nostra forza in montagna. Accanto alle tappe pianeggianti, ci sono alcune giornate particolarmente interessanti per noi, per entrare in fuga. Mi aspetto gare emozionanti in montagna in questo Giro".
Qui di seguito il team:
    Rudy Barbier
    Matthias Brändle
    Alexander Cataford
    Davide Cimolai
    Alex Dowsett
    Daniel Navarro
    Guy Sagiv
    Rick Zabel.
Un bellissimo saluto è stato regalato alla stampa e ai tifosi dal nostro Davide Cimolai che davvero apre il cuore attraverso il suo ricordo dell'emozione vissuta durante la Grande Partenza, alla scoperta di Gerusalemme e della "sua" amatissima Israele.
Con orgoglio Israele promuove e segue le imprese di questo affiatatissimo team. Il Ministero del Turismo di Israele, sponsor ufficiale della squadra con il claim "Two Sunny cities one break. Tel Aviv - Jerusalem" tiene viva la passione per Israele attraverso le imprese e la simpatia di questi giovani atleti. E riprendendo le parole di Davide Cimolai:" vi invitiamo tutti in Israele. Questa Terra è davvero speciale".

(Comunicati-Stampa.net, 7 ottobre 2020)


Il sultano di Ankara sogna l'impero

Il leader della Mezzaluna sta andando alla conquista del Caucaso e del Mediterraneo anche grazie ai tagliagole dell'Isis. Ma l'Occidente e l'Ue sembrano non accorgersene.

di Vittorio Robiati Bendaud.

Gli armeni resistono e questa è l'unica buona notizia al momento. Un aeroporto azero è stato bombardato con successo dalle forze armene, venendo cosi neutralizzato. Non stupisce che molti aerei colà presenti fossero turchi, il che dovrebbe imporre domande gravissime e urgenti alle forze Nato e all'Unione europea. L'altro giorno Los Angeles è stata paralizzata da un'immensa manifestazione pacifica automobilistica di armeni: i discendenti dei sopravvissuti all'opera genocidaria dei Giovani turchi e dei loro sodali. Mobilitazioni simili, più o meno estese, stanno avendo luogo in tutto il mondo libero. Macron si è schierato a fianco dell'Armenia, come in precedenza ha preso misure a favore della Grecia (la quale ha inviato un contingente di truppe a difendere l'Armenia). Se Macron si schierato, con un'iniziativa ottima ma tutta francese, la Ue balbetta imbarazzata: la Spagna ha interessi bancari milionari con la Turchia e il nostro Paese, come altri, non è da meno. La Germania - antica alleata del governo genocidario dei Giovani turchi e, in precedenza, del sultano «rossore Abdul Hamid che impunemente massacrò a centinaia di migliaia gli armeni già a fine '800 -, che ospita un'enorme comunità turca, tace, come si è dimostrata abbondantemente silente in relazione agli attacchi di Erdogan alla Grecia.
  Dalle forze di Yerevan riceviamo ulteriori conferme circa lo spostamento di milizie islamiste dell'Isis (e non solo) lungo i confini armeni, grazie alle truppe turche e azere. Questo conferma quanto riportato già anni fa dai cristiani iracheni, dagli armeni siriani, dagli yazidi nell'ottusità distratta e colpevole dell'Occidente: il legame tra la Turchia di Erdogan, i Fratelli musulmani - che oggi vedono in lui il principale punto di riferimento, coniugante neo-ottomanesimo e panslamismo - e le forze Isis. Erdogan è ai confini dell'Europa (inclusi i confini italiani) e ai confini dell'Armenia, e l'Occidente incredibilmente non riesce ancora a comprendere che si tratta della stessa partita, giocata abilmente e con una progettualità lucida, capace di attendere.
  A rendere ancor più fosco il quadro, il ruolo di Israele. Se gli armeni, almeno negli ultimi decenni, sono alleati degli iraniani, per evidenti e validissimi motivi di sopravvivenza, per ragioni non dissimili, ma esattamente contrarie, Israele è alleato degli azeri, in funzione anti-iraniana, incluso un pessimo commercio di armi, impiegate anche contro gli armeni. Non c'è nulla di letterario in tutto ciò e drammaticamente la realtà supera ogni più oscena fantasia: sicché due popoli sopravvissuti a due genocidi - tra loro peraltro storicamente collegati a triplo filo -, si trovano rispettivamente alleati con potenze regionali che vorrebbero reiterare nei riguardi dell'una o dell'altra minoranza, ricostituitasi in sovranità nazionale, mattanze definitive. E in questo caso è macroscopico il legame azero-israeliano, con i suoi orribili droni, nonostante il paradossale odio antisraeliano e antiebraico, non reversibile, avviato, con l'egida subdola della Fratellanza islamica, da Erdogan. Cortocircuito totale.
  Tuttavia, se la realpolitik imprigiona Armenia e Israele, bisognerebbe però aprire gli occhi, più correttamente, su chi siano oggi Turchia, Azerbaijian e Iran. E su chi siano gli occidentali, coinvolti anche loro nella vendita di armi e in politiche prone a certi governi, come pure i russi, che tutelano l'Armenia, nonostante al contempo abbiano venduto loro stessi armi agli azeri.
  S'impone una riflessione etica e politica per noi occidentali sulla rimozione del genocidio armeno, sul suo essere erroneamente stato ridimensionato per gravità e ricadute nella contemporaneità, nonché, ancor più, sull'opera politica sostanziale e vitale per la quasi centenaria Repubblica di Turchia di negazionismo sistematico di detto genocidio, perseguita tanto in Europa che negli Stati Uniti, spesso con successo.
  Chi ama il mondo libero, sa che la battaglia si combatte a Gerusalemme, come a Yerevan e Stepanakert. Se, Dio non voglia, dovessero cadere, non si pensi che Parigi, Roma e Londra resisterebbero molto di più, anche perché assai più impreparate delle capitali armene e israeliana.

(La Verità, 7 ottobre 2020)


Israele ed Emirati Arabi Uniti, l'intesa valorizza anche la Memoria

La politica internazionale in questo momento è l'unica a regalare buone notizie a Israele. Sul fronte interno infatti, il governo di Gerusalemme con ogni probabilità estenderà il lockdown nazionale fino al 18 ottobre a causa del numero elevato di contagi da coronavirus. La situazione degli ospedali è ancora sotto controllo, ma la pressione legata al numero di malati sta mettendo a dura prova il sistema sanitario.
   E così gli israeliani guardano all'estero per avere qualche notizia che dia fiducia. In particolare alla Germania. Qui, in queste ore, si sta consolidando il percorso costruito dalla diplomazia israeliana con il mondo arabo. Nel segno dello storico accordo siglato il 15 settembre scorso a Washington, il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi ha infatti incontrato a Berlino il collega degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan. Su iniziativa del capo della diplomazia di Abu Dhabi, il primo incontro si è tenuto al Memoriale della Shoah di Berlino. "Una foto storica", hanno commentato i media israeliani in riferimento all'immagine che ritrae Ashkenazi, bin Zayed Al Nahyan e il ministro degli Esteri Heiko Maas, insieme nel luogo che commemora il genocidio degli ebrei d'Europa. "Never again", il significativo "mai più" scritto in inglese dal rappresentante emiratino nel messaggio lasciato in arabo sul libro del Memoriale della Shoah. Accanto, scritto in ebraico, il messaggio del collega israeliano. Un'altra immagine forte di questo nuovo cammino intrapreso da Israele assieme agli Emirati Arabi Uniti, della possibilità di costruire un Medio Oriente diverso.
   "Il coraggioso accordo di pace" tra i due Paesi è "la prima buona notizia dal Medio Oriente dopo tanto tempo, e allo stesso tempo un'opportunità per un nuovo passo nel dialogo tra Israele e i palestinesi", il commento del ministro degli Esteri tedesco Haas, che si è detto onorato di poter ospitare il primo storico incontro tra Ashkenazi e Al Nahyan. "Coraggio e fiducia" sono gli elementi di cui c'è bisogno nel processo di pace in Medio Oriente, ha aggiunto Maas. "Dobbiamo cogliere questa opportunità, e la Germania e l'Europa vogliono aiutare. Spero che Berlino possa offrire una buona cornice per discutere ulteriori passi su questa strada".

(moked, 6 ottobre 2020)


Coronavirus, drammatica situazione in Israele: ospedali al collasso

Il totale dei contagi ha toccato quota 300mila. Pronti soccorsi allestiti nei parcheggi pubblici

di Angelo Papi

Il sistema ospedaliero israeliano è sopraffatto e sulla buona strada per crollare, secondo i massimi esperti della nazione responsabili dei pazienti Covid-19.
In una conferenza stampa straordinaria, il dottor Avishai Elis, segretario dell'Associazione israeliana di medicina interna, ha avvertito il pubblico di un imminente disastro e delle "tragiche implicazioni" della paralisi che ha preso il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo agli ospedali del Paese.
Due settimane fa, Israele è diventato il primo paese al mondo a imporre un secondo blocco a livello nazionale, con fortissime ripercussioni sulla propria economia interna.
Le proteste al Governo si sono mischiate con quelle per il lockdown, imposto sulla base di una seconda ondata paragonabile solo a quanto sta accadendo in Stati Uniti e Francia.
Sabato scorso Israele ha battuto un nuovo record di contagi, con 9.015 casi confermati di Covid-19 in sole 24 ore.
Il premier Netanyahu ha definito le manifestazioni anti governative come "incubatrici di malattie". Il controverso provvedimento di emergenza che limita il diritto di protesta potrà essere rinnovato di settimana in settimana e per molti è un attacco alla libertà del popolo.

 Ospedali allestiti nei parcheggi
  La situazione a livello sanitario sta raggiungendo il limite, con gli ospedali che ormai sono al collasso. Per ogni reparto di coronavirus che si apre, ha osservato il ministero della Salute istraeliano, un reparto di non-covid chiude. Non ci sono abbastanza medici per tenere in piedi entrambi.
I direttori degli ospedali sono stati inoltre irritati dal rifiuto del ministero della Salute di fornire ai medici vaccini antinfluenzali del primo lotto arrivato in Israele - consigliandoli di aspettare fino a novembre - e dalla mancanza di trasparenza del ministero sul contagio.
I casi totali confermati sono comunque saliti a 280 mila, le vittime a 1780. Il numero dei pazienti in terapia intensiva torna a farsi preoccupante, toccando quota 900. Continuando così fra poche settimane non ci saranno più posti per i ricoveri. In questa emergenza il Governo sta allestendo dei reparti di emergenza all'interno di aree pubbliche. Ad Haifa è stato realizzato un nuovo ospedale in un parcheggio sotterraneo, in previsione di un'ondata di pazienti gravi.

(News24.it, 6 ottobre 2020)


Choc ad Amburgo: aggredito con la vanga uno studente ebreo

Merkel: una vergogna

BERLINO - E' stato aggredito mentre si recava alla sinagoga di Hohe Weide, ad Amburgo, nel pomeriggio di domenica, per celebrare la festa di Sukkot. L'autore del crimine, un 29enne berlinese di origini kazake in tuta mimetica, lo ha colpito alla testa con una vanga, prima di essere sopraffatto dagli agenti di sicurezza e consegnato alle autorità. La vittima, uno studente ebreo di 26 anni, è rimasto ferito in modo grave e ricoverato in ospedale. Immediatamente la polizia e la procura della città hanno aperto un'inchiesta per «tentato omicidio» di «matrice antisemita» sulla base di alcuni dettagli inquietanti. L'aggressore non ha agito a caso: lo studente è stato "scelto" e attaccato proprio mentre entrava nel luogo di culto. Nella tasca del 29enne, è stato trovato un disegno con una croce uncinata.
   L'attacco, inoltre, è avvenuto a pochi giorni dall'anniversario dell'attentato alla sinagoga di Halle compiuto da un estremista di destra. Allora, Stephan Balliet, riuscì ad uccidere due persone prima di essere fermato: al momento è sotto processo. Il nuovo crimine ha molto colpito l'opinione pubblica tedesca. E «vergognoso», ha tuonato il governo tedesco. «Si stenta a credere che una cosa del genere sia potuta accadere nelle strade del nostro Paese», ha tuonato il portavoce della cancelliera Angela Merkel, Steffen Seibert. E ha aggiunto: «Il governo è inorridito. Condanniamo questo atto con la massima fermezza».
   Negli ultimi tre anni, la Germania ha assistito a un aumento esponenziale delle aggressioni antisemite: queste sono triplicate. Solo l'anno scorso, ne sono state registrate 2.032. Il mese scorso, Merkel aveva espresso forte preoccupazione per l'incremento dell'antisemitismo. Perché quest'ultimo continua a sopravvivere? si è domandato Ronald S. Lauder, presidente del World Jewish Council. E ha sottolineato l'importanza dell'educazione delle nuove generazioni per rompere la catena dell'odio.
   
(Avvenire, 6 ottobre 2020)


Così la Brigata Ebraica guidò i sopravvissuti in Palestina

Finita la guerra, 20 mila persone desiderose di lottare per la nascita dello Stato di Israele vennero trasportate clandestinamente ad Haifa. Un saggio ricostruisce il viaggio della libertà.

di Enrico Franceschini

La Brigata Ebraica
LONDRA — In una sera di giugno del 1946, l'ex-corvetta della marina militare canadese Wedgwood salpa dal porto ligure di Vado con a bordo uno strano equipaggio di un migliaio di uomini e donne. Domenico Farro, oggi un pescatore 84enne ancora residente nella cittadina in provincia di Savona, non ha dimenticato l'impressione che gli fecero quelle facce smunte: tira in dentro le guance per mostrare quanto fossero scavate da fame e sofferenze, più di un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
   Da simili testimonianze dirette, rintracciate meticolosamente da un capo all'altro dell'Europa, la ricercatrice inglese Rosie Whitehouse ha ricomposto la storia di come i soldati della dissolta Brigata Ebraica dell'esercito britannico, subito dopo la fine del conflitto, organizzarono un'operazione segreta per trasportare clandestinamente in Palestina migliaia di sopravvissuti dell'Olocausto, desiderosi di lottare e se necessario combattere per creare lo stato di Israele. Il risultato della sua inchiesta è The people on the beach -journeys to freedom after the Holocaust, un libro pubblicato nel Regno Unito, di cui ha fornito un'anticipazione il Times.
   La Gran Bretagna è la prima nazione a riconoscere nel 1917 il diritto a «una dimora nazionale per il popolo ebraico» in Palestina, allora parte dell'Impero ottomano, avvicinando l'obiettivo sionista di uno stato ebraico. Ma alla vigilia della Seconda guerra mondiale, mentre Londra controlla la Palestina attraverso il cosiddetto "mandato britannico", il governo di Neville Chamberlain si oppone all'immigrazione degli ebrei in Palestina. Tuttavia, nel 1944 Churchill in persona autorizza la formazione di una Brigata Ebraica composta da circa 5 mila volontari ebrei della Palestina mandataria e di altre regioni. Il battesimo del fuoco per quei battaglioni avviene sul fronte italiano, a Brisighella, in provincia di Ravenna, contro unità tedesche che non possono credere di trovarsi di fronte soldati con la bandiera della stella di Davide e l'uniforme inglese.
   Nel 1945 la Brigata viene dislocata a Tarvisio, in Friuli, per tenerla lontana da possibili vendette in Germania. Senonché, così facendo, l'alto comando britannico fornisce al corpo di volontari ebrei una carta decisiva per il suo ruolo successivo: vicina al confine con l'Austria, Tarvisio è una base perfetta per soccorrere i superstiti della Shoah e aiutarli a emigrare in Palestina. Oltre che per individuare e uccidere ex-criminali nazisti che cercano di nascondersi.
   Il club della Brigata Ebraica, a Palazzo Odescalchi, a Milano, si trasforma in un ufficio fantasma di emigrazione dal quale passano migliaia di profughi scampati ai lager di Hitler. Nell'ex-colonia fascista di Sciesopoli, a Selvino, nelle Prealpi bergamasche, la Brigata apre un centro di accoglienza per 800 bambini ebrei rimasti orfani e prepara anche loro all'emigrazione. E dal porti della Liguria, in particolare quello di Vado, organizza la partenza di ex-navi militari o imbarcazioni di fortuna, carrette del mare acquistate per quattro soldi per un viaggio di sola andata fino in Palestina. La Wedgwood, che durante la guerra dava la caccia alle U-boat tedesche, è una di queste: dopo un'odissea di otto giorni in cui evade il blocco navale britannico, i suoi passeggeri sbarcano finalmente a Haifa.
   Sono la "gente sulla spiaggia" a cui allude il titolo del volume: un anno dopo giunge la risoluzione dell'Onu che riconosce uno stato ebraico in Palestina e nel 1948, dopo la guerra d'indipendenza risultata dall'attacco dei paesi arabi, la nascita dello stato di Israele. Più di 20 mila ebrei arrivano nella Terra Promessa grazie alla Brigata Ebraica, i cui soldati non obbediscono più a Londra bensì a David Ben Gurion.
   Il libro di Rosie Whitehouse narra questa epopea poco conosciuta tra i cui eroi abbondano gli ebrei italiani, come Ada Sereni e il marito Enzo, paracadutatosi dietro le linee tedesche, quindi catturato e morto nel campo di concentramento di Dachau. Una storia, nota l'autrice, nella quale i sopravvissuti dell'Olocausto emergono "non come un popolo debole e oppresso, né come aggressivi imperialisti decisi a conquistare una terra straniera".

(la Repubblica, 6 ottobre 2020)


Beata Nemcovà. La guardiana

È la custode volontaria di un cimitero ebraico in una città della Slovacchia. Motociclista e antifascista, ha trasformato un luogo abbandonato in un monumento alla memoria storica della comunità locale.

di Stefan Chrappa

 
Beata Ruckschloss Nemcovà
Strade tortuose arrivano a Banskà Stiavnica, nel centro della Slovacchia. È una città dall'atmosfera straordinaria, che non a caso negli ultimi anni attira un numero crescente di turisti. È così ambita che la domanda di immobili è in costante aumento, e questo a sua volta fa salire le quotazioni immobiliari. C'è davvero qualcosa di particolare qui. Stiavnica ha i suoi segreti e i suoi traumi sia nel lontano passato sia nel presente. Il suo misterioso castello è incantevole: costruito attorno a una chiesa medievale, si dice fosse una roccaforte dei templari.
  Nel quartiere, tra piazza della Santa Trinità e piazza Radnicné, c'è la chiesa di Santa Caterina, che fu costruita dai minatori. Al cantiere parteciparono sia cattolici sia luterani. Alla fine la chiesa rimase cattolica, ma fin dal 1658 in questa città multiculturale si predicava in slovacco. Di fronte a Santa Caterina sorge una chiesa evangelica in stile classicista.
  Incastonata dentro un edificio, ci lascia di stucco quando, entrando dal fondo, c'imbattiamo nella sua originale organizzazione dello spazio. Il pilastro della Santissima Trinità fu eretto all'inizio del settecento dopo che la città era stata colpita da un'epidemia di peste. Nel vicolo dietro la piazza del municipio c'è una sinagoga neologa del 1893. Percorriamo poche centinaia di metri su una ripida scala e arriviamo al castello rinascimentale, Novy Zàmok, da cui si può ammirare il panorama di Stiavnica.
  Tutti questi edifici raccontano delle storie: turbolente o gloriose che siano, hanno lasciato segni che l'occhio del visitatore può leggere e decifrare. Tuttavia in questa città mineraria, un tempo molto ricca e importante, c'è anche un luogo che è il testimone silenzioso di altri eventi. Ed è lì che ci stiamo dirigendo.
  La nostra guida, Beata Ruckschloss Nemcovà, interprete in tribunale, custode del cimitero ebraico della città e guida dell'associazione civica Omnis Terra, ci sta aspettando nel parcheggio ai piedi del castello. Gira su un'elegante motocicletta nera e sembra l'eroina di un film d'azione. Ha un simbolo antifascista stampato sulla bandana: una svastica barrata di rosso. Si toglie il casco e gli occhiali, ci dà il benvenuto e ci mostra il percorso che faremo insieme.
  Prendiamo degli attrezzi e delle torce dalla macchina e saliamo verso il castello, svoltando a sinistra su una strada non asfaltata. Ruckschloss Nemcovà, la nostra carismatica guida, ci precede lentamente sulla sua moto chopper. Si ferma, indica un punto e ci racconta di quando l'autocarro su cui viaggiava si è ribaltato: "Il bordo della strada era franato, fortunatamente non è successo niente a nessuno, ma è stato pericoloso".

 Senza soluzione
  Da lontano vediamo la cupola della camera mortuaria che domina il cimitero. Ci avviciniamo. Ruckschloss Nemcovà ferma la moto e tocca con la punta delle dita il muro scrostato. Sull'edificio sfregiato due cartelli indicano gli artefici di questa desolazione. "I comunisti provarono a tenere insieme la struttura fissandola con il cemento, ma alla fine è franata sotto al suo peso. A quell'epoca le cose venivano sempre fatte in modo provvisorio. Noi abbiamo eliminato il cemento e abbiamo intonacato l'interno. Poi abbiamo ricevuto i finanziamenti dalla fondazione di una banca e abbiamo cominciato a intonacare anche l'esterno".
  È stato l'inizio di un'esperienza esasperante. A volte in Slovacchia sembra che niente possa cambiare. Cos'è successo dopo? "L'intonaco all'esterno era stato realizzato in modo non professionale, ed è crollato insieme a quello precedentemente applicato all'interno", spiega Nemcovà.
  In quel periodo lei aveva rischiato di perdere una gamba a causa di un infortunio. Quando è finalmente riuscita a tornare al cimitero, è rimasta inorridita. "Quattro mesi dopo la fine dei lavori l'intonaco stava crollando. Ho trovato un grosso calcinaccio qui per terra, non potete immaginare come mi sono sentita in quel momento". L'impresa che aveva eseguito i lavori di restauro sosteneva che nella camera mortuaria era tutto a posto. E così si è aperto un contenzioso in cui non ci sono stati vincitori, ma solo vinti, o piuttosto beffati: tutti quelli che riposano nel cimitero e le persone a cui questo posto sta a cuore.
  "Abbiamo cercato in tutti i modi di ottenere giustizia, firmando petizioni, facendo denunce e ricorsi. Abbiamo anche un rapporto di più di cento pagine di un esperto. L'impresa che ha fatto i lavori lo aveva commissionato per incolpare noi, invece le perizie confermano che il restauro è stato eseguito in modo sbagliato. Siamo arrivati al culmine quando l'impresa è stata venduta e noi siamo rimasti con un palmo di naso". La camera mortuaria sarà ricostruita quando si troveranno i fondi necessari e dei donatori.
  Ruckschloss Nemcovà apre il massiccio cancello in ferro battuto della camera mortuaria. Ci indica il panorama del cimitero ebraico su un terreno in pendenza, come tutto in questo angolo del paese. Da qui si vede anche il panorama di Stiavnica, i tetti delle case e la chiesa del Calvario, a pochi chilometri in linea d'aria.
  Beata Ruckschloss Nemcovà è nata a Banskà Stiavnica. Quando insegnava inglese in una scuola superiore della città, i suoi studenti lavoravano a un progetto sui luoghi dimenticati. "Una volta completato il lavoro, ci siamo resi conto che era rimasto fuori questo cimitero ebraico. Siamo venuti qui. Siamo rimasti incantati dal luogo e abbiamo deciso di rimetterlo a posto in un anno". Era un piano coraggioso ma ingenuo. Il cimitero era ricoperto di erba alta e vegetazione spontanea. I monumenti erano crollati. "Non sapevamo neanche cosa fosse esattamente, ma sapevamo che dovevamo fare qualcosa. Era il 1997. Non avevamo idea di quante fossero le tombe, a cosa servissero quegli edifìci fatiscenti. In poche parole, era una giungla. Quando abbiamo tagliato l'edera e le erbacce,abbiamo scoperto che c'erano molte tombe. Le abbiamo pulite tutte, una per una. Di tutte le pietre tombali ne erano rimaste in piedi solo quattordici. Le altre erano state abbattute. Dopo la pulizia, abbiamo dovuto mappare le tombe, riportare al loro posto le pietre tombali ed erigerle di nuovo. Erano sparse per il cimitero e nell'area circostante. Molte mancavano, erano state rubate, prese per farne materiale da costruzione o da incisione. Un gioco da ragazzi: basta cancellare i nomi sulla lapide per ottenerne una pronta da vendere. Così si fanno affari d'oro, no?", dice Ruckschloss Nemcovà.
  Oggi ogni tomba è localizzabile, ha una descrizione e una documentazione fotografica. C'è anche il cimitero virtuale di Banskà Stiavnica, un sito creato anni fa da alcuni studenti di geodesia come tesi di laurea.
  Attraversiamo il cimitero, fermandoci vicino a ogni tomba. La nostra guida indica una lapide rotta: "Questa è la più antica". Gli esperti hanno confermato che è del cinquecento. È stata la prima. "Cosa c'è scritto? Non lo sappiamo. Abbiamo inviato una foto ai nostri amici esperti in Israele, ma non hanno saputo darci una risposta perché manca un pezzo e le lettere rimaste sono danneggiate".

 Pregi e difetti
 
Il cimitero ebraico di Banskà Stiavnica
  Le pietre tombali nel cimitero ebraico di Stiavnica sono poliglotte. Alcune hanno iscrizioni solo in ebraico, altre in due o addirittura tre lingue. "Stiavnica ha un passato multiculturale: tedeschi, slovacchi, ungheresi, cechi ed ebrei vivevano qui fianco a fianco. Queste pietre tombali mostrano chiaramente quale fosse la lingua prevalente in un dato periodo. I più affascinanti sono gli epitaffi spiritosi. Nei cimiteri cristiani una cosa del genere non sarebbe concepibile. Eppure quelle scritte ci dicono chi era realmente la persona sepolta e che neanche i difetti potranno essere dimenticati. In poche parole, qui giacciono uomini e donne, non immagini idealizzate", osserva la nostra guida. "È tutto più umano".
  Nel quartiere c'è anche un cimitero cristiano. All'interno c'è un monumento eretto in memoria delle ultime vittime della seconda guerra mondiale. "Qui viveva anche una comunità tedesca. Nel caos della guerra sono usciti allo scoperto i lati più oscuri delle persone. Questi tedeschi non erano collaborazionisti. Erano a tutti gli effetti cittadini di Stiavnica. Nonostante questo furono fucilati vicino alla stazione ferroviaria".
  Alcune tombe ebraiche si possono trovare anche nei cimiteri cattolici o evangelici. Quasi tutti i defunti erano parenti acquisiti.
  Quando i volontari hanno cominciato a pulire il cimitero, le reazioni dei residenti non sono state per niente entusiaste. Per questo terreno c'erano altri progetti. "Qui volevano costruire un palazzo. D'altra parte il posto è bellissimo, tranquillo, soleggiato. È forse un problema se qualcuno va a vivere sul sito di un ex cimitero? La gente sembra più infastidita dai furti delle lapidi, ma la costruzione di un palazzo non gli darebbe fastidio. Tuttavia, se si trattasse della tomba dei loro nonni probabilmente non permetterebbero uno scempio del genere".
  La distruzione dei monumenti ebraici e la profanazione delle tombe è tipica dello pseudopatriottismo slovacco e dell'antisemitismo. Se ne sente parlare spesso. Com'è la situazione a Stiavnica? "Ci sono casi anche dalle nostre parti, cinque o sei volte all'anno. Avevamo sia foto sia video degli atti vandalici, ma questi materiali non possono essere usati come prove. Di solito risolviamo il problema ricostruendo il monumento abbattuto. Non chiamiamo più la polizia, ci siamo resi conto che non ha senso".
  La guida ha un modo tutto suo di trattare i delinquenti: "Quei ragazzi, quasi tutti giovani non troppo istruiti e non molto consapevoli, sono stracolmi di energia e a volte di alcol. Io li ho portati qui a pulire qualche tomba. Nel frattempo mi sono messa a raccontargli della comunità ebraica locale, della tragedia accaduta qui. Molti di loro si sono vergognati di quello che avevano fatto e si sono scusati. C'è un solo modo: informare ed educare".

 Il ritorno
  Per ogni problema che affligge la Slovacchia, il filo rosso porta sempre alle scuole. "Lì è cominciato tutto. Tengo lezioni anche agli insegnanti: non mi metto a elencare date, ma cerco di coinvolgerli con l'aiuto di racconti ed emozioni".
  Se il cimitero fosse dichiarato monumento nazionale, le sanzioni per gli autori degli atti di vandalismo potrebbero essere più severe, anche se non gli impedirebbero di commetterli. Molto spesso i visitatori chiedono a Ruckschloss Nemcovà perché gli ebrei, a cui appartiene questo cimitero, non se ne occupino. "Perché per il 99 per cento sono stati uccisi! Ma tramite il sito siamo stati contattati da persone che avevano dei parenti qui. Per esempio, un canadese che di cognome fa Hell è un discendente dei famosi Hellov. La sua famiglia emigrò oltreoceano. Hell è professore di matematica in Canada. Quando è tornato a vedere il posto e poi siamo andati nella sua vecchia casa è stato un momento magico. Nella sua cameretta c'era ancora un dipinto che aveva lì da bambino. Oggi è chiusa, sarà ricostruita".
  Cosa pensa Ruckschloss Nemcovà del fatto che dei politici dichiaratamente fascisti hanno incarichi importanti in Slovacchia? "Nel 2006 i giornalisti mi hanno chiesto se pensavo che il fascismo sarebbe tornato. Tornare? È già qui! Mi hanno trattato come un'isterica. Ma oggi i fascisti sono in parlamento! ".
  Che ne sarà del cimitero? Le riparazioni della camera mortuaria andranno avanti, poi ci sarà una mostra sui rituali funebri ebraici, una rarità in Europa. "Tutti dovrebbero trovare un cimitero, almeno immaginario, di cui prendersi cura. È a tutti gli effetti un investimento a lungo termine", dice Nemcovà.

(Kolòt, 6 ottobre 2020)


Per il "Kibbutz" di Indro tradimenti e polemiche

L'anno successivo al viaggio in Palestina la prima del dramma, ambientato in una colonia agricola.

di Angelo Allegri

Tra le opere teatrali di Montanelli non è la più nota, ma è strettamente legata al suo viaggio reportage in Israele: nel novembre del 1961 va in scena a Milano «Kibbutz», dramma in tre atti ambientato in una comunità di coloni.
   Il protagonista maschile è Ernesto Calindri (primattore l'anno precedente anche de «I sogni muoiono all'alba», opera dedicata alla rivolta ungherese), quella femminile è Pupella Maggio, famosa per le interpretazioni del teatro di Scarpetta e di Eduardo De Filippo.
   La vicenda ruota intorno alla storia di Rachele, ebrea napoletana (la Maggio, appunto): è una delle animatrici del kibbutz ma si scopre che è stata amante del braccio destro di Adolf Eichmann, per viltà e convenienza ha tradito i suoi correligionari. I coloni si interrogano su cosa fare, alcuni sono posti di fronte ai compromessi del recente passato. Alla fine decidono di non denunciarla. Come spiegherà lo stesso Montanelli in un'intervista: «Quanto dolore. Come giudicare, dunque? Meglio assolvere, meglio dimenticare, con il passato della donna del kibbutz, anche il nostro».
   Dietro il lavoro teatrale c'è, come detto, la scoperta di Israele. Ma anche l'eco della cattura dello stesso Eichmann, che i servizi segreti israeliani hanno rapito e trasferito in Israele, dove sarà processato, nel maggio del 1960.
   Come scrivono Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, autori di «Indro Montanelli. Una Biografia» (Hoepli): «Il dramma ottiene un buon successo di pubblico, ma suscita reazioni contrastanti sulla stampa dell'epoca». E le reazioni corrispondono agli schieramenti politici e culturali. Dal Corriere della Sera (per cui Montanelli scrive) e dal giornale della comunità ebraica milanese arrivano lodi, dall'Unità e dal «progressista» Giorno, piovono stroncature. Un «festival del qualunquismo», «saga della strizzatina d'occhio», un'opera «decisamente brutta», scrive il critico di quest'ultimo giornale, Roberto De Monticelli.
   In ogni caso, scrivono Gerbi e Liucci, «l'interesse per la cosiddetta questione ebraica» non abbandonerà mai Montanelli. Negli ultimi anni, dal 1996 in poi, ne farà oggetto di almeno 15 della sue Stanze sul Corriere. Significativi negli anni successivi al Reportage gli interventi sul caso Eichmann: Montanelli non si schiera contro la condanna capitale, ma chiede una pena suppletiva: bisogna mostrargli Israele, deve vedere «ciò che gli ebrei, questa razza da lui ritenuta inferiore e maledetta, hanno fatto in quell'angolo di sabbioso deserto», deve avere di fronte agli occhi «la superba avventura pionieristica di questo popolo». Sarebbe questo, scrive, «il suo vero e più terribile castigo».
   
(il Giornale, 6 ottobre 2020)


Al Meis di Ferrara dal 6 all'8 ottobre la Festa del libro ebraico

La bambina Matilde, i geroglifici e la capanna di Sukkot

Quest'anno la festa sarà sotto la capanna. Il giardino del museo per la prima volta ospiterà la Sukkà adornata da frutta di stagione, la tradizionale capanna che viene costruita dalle famiglie ebree in occasione della festa di Sukkot, per ricordare il periodo vissuto nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Torna dal 6 all'8 ottobre a Ferrara la Festa del Libro Ebraico, l'annuale appuntamento del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis) dedicato alla letteratura italiana e internazionale con presentazioni e incontri. Il festival, giunto alla sua undicesima edizione e realizzato con il contributo della Regione Emilia-Romagna e il patrocinio del Comune di Ferrara e dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, prende il via domani alle 18 con l'incontro "Il potere del segno", una conversazione tra Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, e Amedeo Spagnoletto, direttore del MEIS, sul mondo della scrittura e l'identità a partire dai caratteri dell'ebraico biblico e dei geroglifici egizi.
- Mercoledì alle 16 verrà presentato il volume "Archivio e camera oscura - Carteggio 1932-1940" (Adelphi) che raccoglie le lettere tra il filosofo Walter Benjamin e il teologo Gershom Scholem: a discuterne con il curatore Saverio Campanini, saranno lo storico sociale delle idee David Bidussa e Shaul Bassi, professore all'Università Ca' Foscari.
- Seguirà la presentazione del catalogo "Oltre il ghetto. Dentro & Fuori" (Silvana Editoriale) pubblicato in occasione della nuova grande mostra del Meis che verrà inaugurata nel marzo del 2021. A parlarne sarà Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi - uno dei prestigiosi musei che hanno prestato le loro opere per l'esposizione - assieme alle quattro curatrici Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel.
- Giovedì 8 ottobre alle 16 il presidente del Meis Dario Disegni e l'avvocato ferrarese Marcello Sacerdoti presentano "I racconti di Matilde" di Ermanno Tedeschi (edito dall'Associazione Culturale Acribia): la vera storia di una piccola bambola che ha viaggiato il mondo dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938.
- Si conclude alle 18 con la presentazione del libro "Olocaustico" (Giuntina) di Alberto Caviglia.

(Il Messaggero, 5 ottobre 2020)


La scoperta di Israele il reportage e gli ebrei italiani

«Dopo quel libro ci sentimmo meno soli». Sessant'anni fa Indro Montanelli pubblicava il suo viaggio-reportage sullo Stato ebraico. Fu una svolta che contribuì a cambiare l'immagine del Paese appena nato. Tra gli israeliti italiani c'è chi non l'ha dimenticato.

Sinistra e parte del mondo cattolico contro Israele. Sull'altro fronte Montanelli e la minoranza liberale. Il fondatore del «Giornale»: «I profughi palestinesi? Povere vittime non c'è dubbio, ma degli Stati arabi».

di Alberto Giannoni

«Ci deve pur essere un segreto che spieghi il miracolo ebraico». Non aveva intenzioni celebrative, Indro Montanelli, quando partì per raccontare il Medio Oriente. Ma senza volerlo, si trovò di fronte a una sorta di prodigio. Umano, umanissimo. Una «meravigliosa avventura umana che mi ha ipnotizzato», disse. Lo chiamò inizialmente «mistero» o «segreto», ma quello che andava via via descrivendo era l'autentico miracolo del nascente Stato israeliano.
  Sono passati 60 anni esatti dall'uscita del Reportage su Israele, il libro che raccolse le corrispondenze del grande giornalista toscano. Era il 1960 e dalla proclamazione dello Stato israeliano ne erano trascorsi appena 12, un soffio nella storia. Eppure il suo sguardo - prima scettico, poi ammirato - colse allo stato embrionale motivi destinati a diventare portanti: il pionierismo, lo slancio verso il futuro, il rigore e una peculiare idea di laicità. Molti anni dopo, l'amicizia per Israele ha germogliato in buona parte del mondo politico, ma allora gli amici di Israele erano rari. Montanelli fu fra i primi a gettare questo seme. «Ricordo come lettrice e come giornalista le sue posizioni - osserva Fiona Diwan, direttrice del mensile Bet Magazine e di Mosaico, il portale della Comunità ebraica di Milano -, ricordo il suo entusiasmo per Israele e l'ammirazione per lo spirito pionieristico, per la capacità di applicare scienza e tecnologia per migliorare le condizioni di vita delle persone, in un luogo che era avarissimo. L'immagine del deserto che diventa giardino oggi suona retorica ma allora non era così diffusa. Certamente - prosegue - la matrice liberale-repubblicana e quel tipo di cultura, così nobile, nell'Italia di quegli anni, hanno fatto sì che ci sentissimo meno soli e che Israele fosse meno solo. E stato molto importante».

 Voci nel deserto
  Erano gli anni in cui stava per consumarsi quello che il grande rabbino Giuseppe Laras avrebbe chiamato «il tradimento delle sinistre». E le voci laiche pro Israele cominciavano una traversata nel deserto. «La sinistra, quasi tutta, e la Dc, col mondo cattolico, sono stati a lungo contro la causa israeliana - ammette Ugo Volli, professore all'Università di Torino, semiologo, ebreo, con un passato a sinistra -. Dall'altra parte c'erano voci più isolate, penso, appunto, a Montanelli, a Giovanni Spadolini, a Ugo La Malfa. Queste privilegiavano un'idea di democrazia liberale che ora può apparire ovvia, ma allora non lo era affatto».
  Lo Stato di Israele era nato nel 1948 con il sì di Usa e Urss. Per ragioni geopolitiche, i sovietici - memori anche del feroce antisemitismo di Stalin - presto trasformarono quel favore in aperta ostilità, e i partiti comunisti europei seguirono come sempre. «La storia è questa - riflette Volli -, dopo Shoah e Nazismo ci fu un'incomprensione del sionismo come movimento di liberazione del popolo ebraico, e di Israele come rottura del colonialismo britannico. Israele nasce in una convergenza di posizioni fra Usa e Urss, che si rompe quando Israele non si mostra obbediente alla sfera di influenza sovietica. Anche il mondo cattolico è sempre stato diffidente, c'erano anche questioni teologiche aperte, fino al Concilio, e la Dc maturò l'idea del ponte col mondo arabo. Però un'esigua parte della cultura laica, possiamo citare Montanelli, Oriana Fallaci e altri, al di là della sua posizione sugli ebrei aveva la percezione di Israele come luogo di "cultura occidentale" e sapeva che era attaccato solo per questo».
  Sessant'anni fa, Montanelli già negava il carattere religioso del nascente Stato degli ebrei. «Essi - avvertiva - appartengono all'Occidente, tutto nel loro Paese, odora d'Europa». «Democrazia laica, lo sono già». Sulla Domenica del Corriere, lo riporta Progetto Dreyfus, raccontò la genesi della sua missione bisettimanale verso quella che chiamava, e innegabilmente era, la «Capitale Gerusalemme». Avrebbe dovuto «studiare» i Paesi arabi. «Ma dopo un paio di giorni - confessava - avevo abbandonato il progetto, anzi me lo ero completamente dimenticato, tutto preso com'ero dall'interesse che in me suscitavano le cose locali». E il suo interesse si rivolse appunto al «mistero», o al «miracolo» di Israele, a cui si avvicinò con la proverbiale franchezza, che in alcuni passaggi oggi appare brutale, ma infine si risolve in autentica ammirazione. Come avranno fatto - si chiedeva - a «convenire all'agricoltura alcune fra le più desolate petraie del mondo. Di dove hanno tirato fuori quegli uomini di Stato e quei generali che li hanno così ben guidati. (...) Ci deve essere una chiave, che decifri questo mistero».

 La scoperta di un miracolo
  Eccola, la scoperta di Israele, che sopravvive «incuneata in un mondo ostile», ed economicamente inizia a prosperare pur priva di risorse e materie prime. Nessuno avrebbe scommesso sulla riuscita di questa scommessa allora. «E ci siamo grossolanamente sbagliati», ammetteva, perché Israele «in dieci anni ha dato un esempio di vitalità e di capacità organizzativa». Ed eccole, la ragioni del miracolo: «L'ideale del pioniere». Poi i soldati. Israele è «fondato sulla spada», ma le circostanze lo hanno «imposto». L'esercito lo vedeva «giovane, svelto, empirico e senza pance», incarnato nella figura di Moshe Dayan, artefice nel '56 di un «capolavoro» e capace di dirigere le operazioni militari da un piccolo aereo di ricognizione che «guidava da solo tenendolo librato in volo». Incontrò Ben Gurion, che rappresenta la dimensione profetica dei padri di Israele, e incontrò proprio Dayan, ebreo nato in Palestina, generale appena entrato in politica: «Questa è casa nostra - disse -. Ne siamo stati i più antichi abitatori. E abbiamo dimostrato di saperla difendere, quando occorre». Infine, c'è un socialismo che non si impantana nella burocrazia, un «socialismo umanitario di ispirazione tolstoiana», un socialismo «esemplare». «Non siamo uno Stato comunista e non vogliamo affatto diventarlo», precisa Dayan. Ed ecco il kibbutz. L'uomo del kibbutz è il «portabandiera» della nascente cultura israeliana.

 Laboratorio di umanità
  «Montanelli - spiega Diwan - vede benissimo il tema del kibbutz come laboratorio, esperimento sociale riuscito, e non ha mai cambiato idea. L'estremo sacrificio fisico lo riempiva di stupore, riconosceva il valore di tutto ciò. Sapeva che sono gli uomini a fare i Paesi e cominciò anche a dire che nei Paesi in cui lo sviluppo non decolla occorre interrogarsi sul perché. La sua è stata una voce fuori dal coro anche sul problema palestinese. Ammetteva che i palestinesi erano vittime, ma vittime dei Paesi arabi. Aveva visto lungo, e lo aveva fatto allora, quando il mondo cattolico e comunista si defilarono, intimando «Davide discolpati». L'immagine di un Israele vittorioso per molti era intollerabile: il popolo ebraico deve essere umiliato, perdente e offeso, solo allora possiamo chinarci su di lui. Ecco, lui aveva un'idea opposta. In questo era davvero originale».
  La scoperta di Israele sfata subito varie leggende che avrebbero alimentato in seguito la vulgata anti-israeliana. Montanelli, per esempio, usava l'aggettivo «palestinese» nel suo significato proprio: abitante della Palestina, a prescindere da etnia e religione. E raccontò la vera storia dei coloni: «Non occuparono le terre di nessuno. Comprarono, spesso a prezzi esosi, quelle incolte dei latifondisti arabi, ridotti a petraie dalla voracità delle loro capre». Chiarì anche l'uso strumentale dei profughi.
  Certe sovrastrutture ideologiche erano ancora di là da venire. Non imperava il politicamente corretto e Montanelli raccontò una verità scarna, con qualche asprezza, propria dei tempi. Però si fece beffe degli stereotipi: in uno scritto osservava per esempio che «tutto è perfettamente organizzato in Israele» e che «l'unica cosa che funziona male sono le banche». Andò dritto al cuore della questione e ci trovò, quasi inaspettatamente, qualcosa che per lui contava: valore umano, visione del futuro. Raccontò dei milioni di alberi piantati, e protetti, riflettendo: «Questa è gente che pianta alberi perché crede nel domani». Ciò che lo colpì sopra ogni cosa? «Gli occhi dei bambini ebrei». «In Israele gli occhi dei bambini ridono, o sorridono, anche quando il volto è curvo e intento sul compito di scuola».

(il Giornale, 5 ottobre 2020)


"Contro il virus, una lotta per la nostra vita"

Rivlin nella sua Sukkà
"Questa domenica mattina doveva essere l'ultima volta che, durante il mio mandato, avrei aperto la mia casa al popolo israeliano in onore della festa di Sukkot. È sempre stata una giornata di festa e di cuore per me e per mia moglie Nechama, che si mescolavano tra i visitatori per ore e ore, senza mai perdere l'occasione di stringere la mano a qualcuno o di fare un selfie. Mi piaceva vedere i bambini correre e giocare, lavando via la serietà di questa vecchia casa e riempiendola di gioia festiva. Ma quest'anno la mia casa è rimasta chiusa". Sono amare le considerazioni del Presidente d'Israele Reuven Rivlin in questa che sarà la sua ultima festa di Sukkot nella residenza presidenziale. Il prossimo anno infatti scadrà il suo mandato. In sette anni Rivlin è diventato una figura molto apprezzata della politica israeliana, grazie al suo impegno per far dialogare la politica e i diversi settori della società.
   Non sono mancati momenti complicati nel corso della sua presidenza, in particolare rispetto all'instabilità politica degli ultimi anni. Contro il continuo ricorso alle urne, Rivlin si è espresso in modo deciso e chiaro, appellandosi ai leader politici affinché trovassero una quadra. Alla terza votazione in un anno, l'intesa è stata trovata nella primavera scorsa, ma con essa è arrivata anche la crisi sanitaria da affrontare. Una crisi che accompagnerà il Presidente nel suo ultimo anno di mandato. "Siamo impegnati in una battaglia per la nostra vita, ma anche in una battaglia per salvare gli altri. E se non collaboriamo e non seguiamo gli ordini come in tutte le precedenti guerre del Paese, non la vinceremo", ha dichiarato Rivlin, parlando ai suoi concittadini in occasione della festa di Sukkot.
   Il numero di positivi confermati in Israele, al momento chiuso per il secondo lockdown, ha di recente subito un significativo declino. Nelle ultime 24 ore, meno di 3mila casi registrati, dopo aver raggiunto punte di 11mila al giorno. I funzionari del ministero della Sanità hanno espresso cauto ottimismo in riferimento all'appiattirsi della curva dei contagi, ma ricordando che la battaglia è ancora lunga. "Incontro ogni giorno direttori di ospedali, medici, infermieri, soldati, ufficiali, scienziati e volontari che sono in prima linea nella battaglia contro il virus e vedo una determinazione e un sacrificio incessante per il bene pubblico. - le parole di Rivlin - Non lasciateli intrappolati nella terra di nessuno. Se non obbediamo alle direttive della sanità pubblica e non facciamo la nostra parte nella lotta contro la pandemia, perderemo. Durante il primo blocco nazionale, un senso di disattenzione e di libertà si è impadronito dei cittadini quando improvvisamente i loro giorni sono stati liberati dal dover lavorare. Ora siamo più saggi, e sì, anche più stanchi del solito e infelici. Ma, mi rivolgo al pubblico israeliano: chiusura non significa vacanza".

(moked, 5 ottobre 2020)


Coronavirus - Virologa cinese fuggita in Usa: "è artificiale, creato per essere diffuso"

"Ci troviamo davanti non a un virus derivato da un patogeno naturale, ma a un virus artificiale, elaborato e rilasciato dal Wuhan Istitute of Virology, un laboratorio di massima sicurezza che è posto sotto il controllo del Partito comunista cinese". Lo dice a La Verità Li-Meng Yan, virologa, prima firmataria del Rapporto Yan (un paper di 26 pagine sul coronavirus), convinta che "si sia creato un virus letale al fine di diffonderlo senza poter risalire agli autori".
   La virologa afferma di aver iniziato le ricerche sul Covid-19 "il 31 dicembre" scorso, "prima che il 7 gennaio le autorità cinesi dessero all'annuncio ufficiale del primo caso accertato, che addirittura risale al 16 novembre" e precisa che svolgeva le sue ricerche "nel laboratorio dell'Organizzazione mondiale della sanità presso l'università di Hong Kong". Ha lavorato fino alla primavera nel dipartimento di Salute pubblica della Hong Kong University. Ora è a New York, vive "sotto la protezione del governo degli Stati Uniti". "Nessuno dice la verità. Il governo cinese, l'Oms, il mondo scientifico - afferma - Ho studiato il genoma del Sars-Cov-2 e quel corredo cellulare non esiste in natura. E' molto simile a un virus in possesso di un laboratorio di ricerca militare, un Sars-like-Cov isolato anni fa, chiamato Zc45/Zxc21".
   "Nel mio paper spiego in modo dettagliato la procedura seguita dal Wuhan Institute of Virology per modificare tale coronavirus. Alcune parti sono state aggiunte, scambiate, modificate", dice, con l'obiettivo di "farlo sembrare un virus nuovo". Poi ancora, "la regione del virus che caratterizza l'infezione del Sars-Cov-2, chiamata Rbm, assomiglia molto a quella del virus Sars-Cov-1, responsabile dell'epidemia di Sars", nel 2003.
   Infine, "una proteina di Sars-Cov-2 chiamata Spike esiste in un sito di taglio per la furina che manca in tutti gli altri coronavirus simili a questo". E, afferma, "questa caratteristica del nuovo coronavirus induce a pensare che il Covid-19 non sia naturale, ma sia stato creato artificialmente". C'è dell'altro. "Le tecniche usate per creare il Covid-19 erano state impiegate fin da 2008 da un gruppo di ricerca coordinato dalla dottoressa Zhengli Shi del laboratorio di Wuhan - afferma - E il fatto che la stessa regione Rbm sia stata modificata dalla dottoressa Shi e da suoi collaboratori è la pistola fumante, la prova che il Sars-Cov-2 è il prodotto di una manipolazione genetica".

(Shalom, 5 ottobre 2020)


Se lo spirito di solidarietà si incrina

di Abraham Yehoshua

L'attuale pandemia di coronavirus imporrà agli israeliani un esame di coscienza non meno rigoroso e profondo (se non addirittura di più) di quello fatto dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Non so come evolverà la situazione, se la pandemia si fermerà, si indebolirà, se l'attuale lockdown sarà veramente efficace, se sarà l'ultimo, quali danni subirà l'economia e quale sarà il tasso di disoccupazione. Al di là di queste domande, pertinenti a tutti gli abitanti del mondo, la società israeliana dovrà chiedersi come sia arrivata a un livello di contagio tanto elevato da averla costretta, a differenza di altri Paesi, a un nuovo e ancor più rigido periodo di isolamento. Dopo tutto Israele non è una Nazione del terzo mondo. È uno Stato ben organizzato, con frontiere chiuse e strettamente sorvegliate. È preparato a emergenze belliche prolungate e ha un esercito grande e ben addestrato in grado di reclutare rapidamente riservisti che potrebbero dare una mano al personale sanitario nell'eseguire test e nel predispone ospedali da campo e che eventualmente potrebbero coadiuvare la polizia nel compito di far rispettare le misure anti contagio.
  In altre parole Israele avrebbe potuto gestire in maniera più efficace l'emergenza e mantenere sotto controllo l'epidemia senza che si rendesse necessaria una nuova chiusura, dannosa per l'economia già sull'orlo del collasso. Invece non è andata così. Cos'è successo? Come mai si è arrivati a uno stato di cose tanto preoccupante?
  Va subito detto che questo fallimento non è da imputare solamente al bizzarro governo che si è formato dopo tre tornate elettorali terminate con un nulla di fatto. Anche se, come molti altri esecutivi ritrovatisi ad affrontare un fenomeno nuovo e sconosciuto, pure quello israeliano, nonostante l'eccellente livello del personale medico, ha commesso qualche errore nella lotta contro il virus. È chiaro però che la disastrosa situazione in cui ci troviamo non è dovuta solo a malagestione e a decisioni sbagliate ma anche al comportamento promiscuo e persino provocatorio di varie fasce della popolazione. Il che sta a indicare che lo spirito di solidarietà nazionale israeliano si è profondamente incrinato.
  Tre fasce della popolazione se ne infischiano delle disposizioni mirate a contenere l'epidemia, e lo fanno pubblicamente e senza sensi di colpa aggravando così la diffusione del virus. Primi fra tutti gli ultraortodossi, soprattutto i Chassidim, che riempiono ospedali e cimiteri. È fra di loro infatti che si registra il maggior numero di contagi. Le varie fazioni chassidiche e religiose (alle quali, negli ultimi dieci anni, si sono affiancati i religiosi nazionalisti) si sono gonfiate a dismisura non solo in Israele ma in tutto il mondo, diventando una realtà di primo piano nella politica israeliana e ricevendo da Benjamin Netanyahu sostegno e privilegi come mai in passato. La provocatoria e spregevole dichiarazione del primo ministro agli inizi della sua carriera - "La sinistra ha dimenticato cosa significa essere un ebreo" - ha fatto sì che gli ultraortodossi diventassero il suo più prezioso partner politico, ha aggravato il loro parassitismo nella società israeliana e li ha resi civicamente indisciplinati. "Israele non è nazione senza la Torah", proclamano sfacciatamente i religiosi e, secondo il loro modo di vedere sta a loro stabilire ciò che è permesso e ciò che è vietato anziché al governo o alla Knesset. Quando decine di migliaia di ultraortodossi si accalcano nelle sinagoghe senza mascherine, infrangendo ogni regola, e il primo ministro, che dipende dal loro voto nelle prossime elezioni per evitare di finire in prigione, si guarda bene dall'imporgli le norme mirate a frenare la pandemia, non c'è da sorprendersi che i contagi arrivino a battere ogni record. Non basta che gli ultraortodossi non prestino servizio nell'esercito, non basta che non si dedichino a professioni che consentano a loro, e a noi, di affrontare i problemi del mondo moderno, non basta che vivano in condizioni di indigenza, ora mettono spudoratamente in pericolo la nostra salute e quella dei nostri figli.
  Al polo opposto c'è un settore della popolazione completamente diverso: gli arabi israeliani. Netanyahu, promulgando la legge sulla nazionalità ebraica che stabilisce che Israele è di fatto lo Stato del solo popolo ebraico e ai non ebrei è garantita unicamente l'uguaglianza sociale, ha minato il loro spirito di solidarietà verso il Paese. E’ infatti anche questa fetta della popolazione, benché in modo diverso, trasgredisce alle regole anti Covid. E lo fa non pregando in spazi chiusi e affollati ma celebrando matrimoni con centinaia di invitati. E così, accanto agli ultraortodossi, gli arabi israeliani riempiono le corsie degli ospedali (soprattutto nel Nord del Paese) ormai prossimi al collasso a causa della crescente mole di lavoro e del pericoloso logoramento del personale.
  Il terzo settore che ostacola la limitazione dei contagi è uno che mi sta particolarmente a cuore ed è vicino alla mia visione del mondo. Eppure mi indigna il modo in cui viola i decreti and Covid. Mi riferisco ai dimostranti contro Netanyahu, appartenenti a organizzazioni di sinistra e di centro che fino alla decisione di pochissimi giorni fa di bloccare tutte le manifestazioni, si raccoglievano in massa ogni sabato sera vicino alla sua residenza di Gerusalemme. Non ho dubbi che quei raduni aumentassero il numero dei contagi anche se i partecipanti indossavano mascherine e si sforzavano di mantenere le distanze. Ma anche se mi sbagliassi e se così non fosse, come sostengono alcuni degli organizzatori, quelle manifestazioni concedevano legittimità ai comportamenti trasgressivi di arabi e ultraortodossi.
  Lo spirito di solidarietà israeliano si è sgretolato ed è questo il danno peggiore causato dal governo di Netanyahu alla nostra società. Rispetto a questo tutti i successi del premier impallidiscono, svaniscono. Per il momento la Corte suprema gli ha concesso di continuare a mantenere la carica di capo del governo nonostante le gravi accuse contro di lui e anche se questa decisione ci sembra ingiusta, la si deve accettare. Il dovere di mantenersi coesi e di rispettare la legge in una società pluralista e polarizzata come la nostra è sacrosanto e le forze liberali e illuminate dovrebbero essere in prima fila.


Le descrizioni che Abraham Yehoshua fa della realtà israeliana sono spesso interessanti. Ma già quando si passa dall’anamnesi alla diagnosi cominciano a delinearsi le prime sfilacciature del discorso. Dopo aver detto: così stanno le cose, qualcuno vorrebbe sapere: ma qual è il male? A questo punto le dichiarazioni diagnostiche del romanziere cominciano a diventare inaffidabili. E’ un romanziere, appunto, abituato a rappresentare nei suoi scritti una realtà immaginata, che lui, e solo lui, riesce perfettamente a dominare. E in certi momenti a quei meravigliosi occhi creativi la nuda realtà dei fatti appare minacciosamente immersa nel male. E il male sta appunto nel fatto che ai suoi occhi la realtà non si presenta come la vorrebbe lui, e quindi... tanto peggio per la realtà. La realtà è un fatto che riguarda i politici. Lui ha altri compiti. Più lirici. Quando le cose vanno male i politici decidono, lui si indigna. Si indigna anche contro quelli che la pensano come lui ma non si comportano come lui, che da tutta una vita ha sognato, sperato, cantato lo “spirito di solidarietà israeliano”. E’ la sua “visione del mondo”. Un visionario dunque. Che si muove bene nel mondo della sua visione ma si indigna ogni volta che la sua realtà immaginaria viene disturbata. Uomini così sono pericolosi. Come papa Bergoglio. M.C.


"Fratelli arabi, basta antisemitismo"

Lo scrittore algerino Sansal si appella alla umma: "L'odio per Israele è un ritardo mentale"

di Boualem Sansal

Algeria è profondamente antisemita", questa è la conclusione infelice, ma non inaspettata, alla quale siamo giunti al termine di una chiacchierata franca tra amici fidati, organizzata a tal proposito a casa mia. Non generalizziamo, non siamo categorici, l'Algeria è un po' più antisemita in alcuni ambienti, un po' meno in altri, dipende da mille cose, dal clima sociale, dal percorso di ognuno, dalla sua lettura degli incitamenti del governo, dalle prediche del venerdì, dall'attualità delle nostre banlieue maghrebine in Francia, dal conflitto con Israele nelle sue tre dimensioni, palestinese, araba, musulmana, dai tweet di Trump, dai video del web islamico, dalle lezioni dello sceicco al-Ghazali, cui l'Algeria deve gran parte della sua follia islamista e del suo antisemitismo militante, dipende dagli sketch di Dieudonné, etc... Anche le equazioni israelo-turche e israelo-iraniane sono prese in considerazione. Con fervore dai nostri islamisti, poiché la Turchia e l'Iran, paesi non arabi, ma grandi musulmani dinanzi all'Eterno (da soli, i due paesi, contano 162 milioni di fedeli) e motivo di fierezza per l'umma, hanno il desiderio di annientare Israele. E in maniera discutibile da parte dei nostri antisemiti che si rivendicano come appartenenti ad altri movimenti politici, nazionalista, liberale, socialista o altro, e vedono in essi una fortuna e un pericolo: la fortuna è che la Turchia e l'Iran sono delle vere potenze che attuano delle autentiche politiche contro Israele, politiche che includono l'aspetto militare e anche nucleare nel caso dell'Iran; il pericolo è che la loro vittoria su Israele segnerebbe la fine del mondo arabo. Questi paesi sono i suoi nemici giurati: la Turchia vorrebbe ricostituire l'Europa ottomana sulle rovine di Israele e del mondo arabo, che si disgregherà da solo con la scomparsa di Israele, e l'Iran sciita rivendicherà subito dopo i suoi diritti legittimi sull'islam, usurpati dai califfi sunniti alla morte del profeta.
   Quale paese arabo vorrebbe che Israele cadesse sotto i colpi dei turchi e degli iraniani? Nessuno. Antisionisti sì, ma non pazzi, perché hanno bisogno di Israele per tenere a distanza questi due mastodonti, fratelli in islam, ma traditori dinanzi all'Eterno. Ecco perché, in questi ultimi tempi, mandano dei segnali a Israele. Gli darebbero la Palestina se togliesse loro di mezzo l'Iran, come Netanyahu aveva promesso. Ma non è tutto. L'antisemitismo, che si aggrava a ogni luna piena, ha generato nei nostri islamisti e nei loro amici delle orribili malattie: il ritardo mentale, il vittimismo infantile, il passatismo frenetico, la logorrea urlante, una passione sterminatrice acuta. Tutto ciò inquina le nostre vite e minaccia specialmente i nostri figli, poiché il nuovo antisemitismo va di pari passo con la salafizzazione rampante della società sullo sfondo di una povertà galoppante e di una stucchevole incuria da parte del governo. Come sconfiggere questo male inesauribile che avvilisce l'umanità se nessuno ne parla, né nel mondo arabo, né in occidente, né all'Onu, né durante il Consiglio di sicurezza? Il silenzio, un tempo d'oro, non è l'antincendio miracoloso che si può credere, bensì l'ossigeno che fa divampare le fiamme in casa. Non potendo agire, ci si interroga tra amici, in termini velati, per paura di ritrovarsi accusati di alcune cose. Abbiamo delle riposte, ma non a tutto.
   Mi auguro che i nostri giovani compatrioti che da un anno si sono impegnati con anima e corpo nel movimento Hirak contro la dittatura militare, una rivoluzione magnifica, pacifica, intelligente e molto ottimista, sapranno dare delle belle risposte a queste domande vitali. Devono convincersi ogni giorno di più che in materia di libertà non si fanno le cose a metà, è tutto o nulla. Che chiedano ai loro genitori perché la liberazione del paese nel 1962 non sia sfociata nella liberazione del popolo. Nell'attesa, continuiamo a farci delle domande.
   Gli algerini e il mondo arabo-musulmano possono liberarsi dalla loro assuefazione all'antisemitismo? No, a nostro avviso, e come prove avanziamo tre argomenti indiscutibili.
  1. L'islam, nei suoi quattro sviluppi, corano, sunna, hadith, sharia, li obbliga a combattere e a uccidere gli ebrei ovunque essi siano, "nascosti sotto le pietre o dietro gli alberi".
  2. Allah ha assegnato agli arabi la missione di diffondere l'islam in tutto il mondo e di difendere a costo della propria vita le sue terre e i suoi simboli (il Corano, il profeta, la sua famiglia, l'umma, i luoghi santi, la lingua araba, il califfato, etc.).
  3. Gli ebrei occupano la Palestina e non hanno nessuna intenzione di restituirla. Di più, essi colonizzano ogni giorno nuove terre arabe e respingono i palestinesi sempre più lontano.
Gli arabi sono pronti a dibattere sul desiderio di progredire? Dibattere, nel senso di riformare l'islam, è ciò che vi è di più pericoloso al mondo per loro. Farlo significherebbe subito essere accusati di diversi crimini che meritano tutti una morte dolorosa. La lista delle persone che vivono con delle fatwa di morte che pesano sulla testa è già assai lunga attualmente. Quale "primavera araba" potrebbe cambiare le cose e mettere gli uomini al riparo dagli eccessi della religione? I militanti dei diritti dell'uomo, e sono numerosi in Algeria e nel mondo arabo, ne guadagnerebbero a deglobalizzare il termine "diritti dell'uomo", troppo generico per essere efficace e iscriverlo nel solo quadro della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Bisogna essere chiari, dare il giusto nome alle cose: i diritti delle donne, dei bambini, degli omosessuali, e denunciare in maniera netta l'antisemitismo, anche a rischio di essere accusati di simpatia per il popolo ebraico e, peggio, per Israele.

(Il Foglio, 5 ottobre 2020 - trad. Mauro Zanon)



Aspettando il vaccino

Oppressa da “timor pandemico”, la gente ormai sta aspettando il vaccino come si aspetta il messia. Si guarda in trepida attesa ai risultati promessi, corretti, superati e sostituiti dai sacerdoti del nostro mondo secolarizzato: gli scienziati. Chi vincerà la gara di dare al mondo, per primo, il farmaco risolutore? Viene voglia di pregare, ma come? Proponiamo allora una preghiera rigorosamente laica che abbiamo chiamata “Salmo” per analogia stilistica con quelli contenuti nella Bibbia e le abbiamo assegnato il numero 151 (121+30) per non confonderla con quelli canonici.


SALMO 151

Canto della pandemia. Per l'uomo laico.

Io alzo gli occhi ai monti della Scienza,
da dove mi verrà il vaccino?
Il vaccino viene dall'Uomo
che domina il cielo e la terra.
La Scienza non permetterà che il tuo corpo s'infetti
l'Immuni che ti protegge non sonnecchierà.
La Scienza è colei che ti protegge,
l'Immuni è la tua ombra, sta alla tua destra.
Di giorno il virus non ti colpirà
né il bacillo di notte.
La Scienza ti protegge dal contagio,
ella protegge il corpo tuo.
L'Immuni sorveglierà il tuo uscire e il tuo entrare
da ora in eterno.

(Notizie su Israele, 5 ottobre 2020)

 


Svolta nella disputa sul gas in mare Libano e Israele trattano sui confini

Nuovo successo dell'amministrazione statunitense dopo tre anni di mediazione. Trattativa al via il 14 ottobre Beirut: "L'intesa ci aiuterebbe a pagare i debiti". Due settimane fa gli Accordi di Abramo con Emirati e Bahrein.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - — L'amministrazione Usa incassa un altro successo in Medio Oriente, annunciando che Israele e Libano hanno accettato, dopo tre anni di mediazione americana, di condurre negoziati diretti per la definizione della disputa sul confine marittimo tra i due Stati ancora formalmente in guerra.
   La trattativa inizierà il 14 ottobre nella base Unifil a Naqura, in Libano, a pochi chilometri dalla Linea Blu, alla presenza del vice-segretario di Stato Usa David Schenker, che ha di fatto mediato tra le parti, e del Coordinatore speciale dell'Onu per il Libano, Jan Kubis.
   La disputa sulle acque territoriali riguarda un'area di 855 kmq ricca di giacimenti di gas. Passate trattative indirette sono fallite, nonostante Israele concordasse su un compromesso di spartizione dell'area 52:48 a favore del Libano. Ma nei giorni scorsi, il presidente del Parlamento libanese, Nabih Berri, leader del partito sciita Amal alleato di Hezbollah, ha dato il senso del momento: «Questo accordo ci aiuterebbe a pagare i nostri debiti».
   Il Paese dei Cedri sta vivendo la peggiore crisi economica della sua storia, che si aggiunge a quella politica innescata con l'esplosione al porto di Beirut il 4 agosto, per cui le indagini sono ancora in corso e un nuovo governo deve ancora essere formato. Alla luce del default finanziario in cui si trova in Paese, anche Hezbollah ha ammorbidito la linea verso Israele.
   La svolta arriva a poco più di due settimane dalla firma degli Accordi di Abramo, che avviano le relazioni diplomatiche tra Israele e due Stati del Golfo, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Gli osservatori del confine israelo-libanese sanno che non sono fronti paragonabili e che la strada per la normalizzazione tra i due Paesi confinanti è molto più insidiosa. Ma forse meno improbabile di quanto non si pensasse pochi mesi fa.
   Il giornalista libanese Nadim Koteich, il giorno della firma alla Casa Bianca, ha scritto un editoriale su Asharg Al Awsat, "A quando una pace tra Libano e Israele?", sostenendo che le dispute territoriali tra i due Paesi sono minime — oltre al confine marittimo, anche i circa 24 chilometri quadrati delle Fattorie di Sheeba e il villaggio di Ghajar — ma soprattutto del tutto risolvibili. «Il Libano dovrebbe sfruttare il momento e chiedere agli Eau di premere su Israele, come ha fatto per l'annessione dei Territori palestinesi».
   Secondo un altro analista libanese, Munir al-Rabee, le trattative dirette sono di per sé un risultato importante e fa notare come «Beni nel suo annuncio abbia usato il termine "Israele" e non "entità nemica" o "potenza occupante" come avviene di solito».
   Netanyahu, nel suo discorso martedì all'Assemblea Generale Onu, ha rivelato nuovi depositi missilistici di Hezbollah in zone abitate. Nasrallah ha negato e ribadito che Hezbollah è sempre pronto ad agire sul confine, dove da luglio si sono verificati alcuni scontri a fuoco con l'esercito israeliano.
   Nonostante queste dichiarazioni, íl fatto che le trattative sul confine marittimo e sui giacimenti energetici possano rappresentare un'ancora di salvezza per il governo libanese, fa sperare che si possa mantenere una certa calma al confine, almeno nel breve raggio.

(la Repubblica, 4 ottobre 2020)


Israele: proteste anti-governative dopo l'imposizione di nuove restrizioni anti-coronavirus

Si stima che circa 130.000 persone abbiano partecipato alle proteste di sabato in Israele. Unità di polizia a cavallo sono state dispiegate a Tel Aviv, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia, che secondo quanto riferito ha attaccato alcuni manifestanti.
L'Haaretz ha affermato che sabato a Tel Aviv sono stati effettuati almeno dieci arresti e sono state inflitte multe a più persone a Tel Aviv per violazioni dei regolamenti di emergenza.
Sabato il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai è stato leggermente ferito alla mano durante gli scontri tra manifestanti e polizia, ha detto il giornale, aggiungendo che il sindaco si sente bene.

 Le nuove misure anti-coronavirus
  Alla fine del mese scorso, in Israele sono entrate in vigore nuove restrizioni sul coronavirus, sulla base del nuovo blocco introdotto il 18 settembre. Le nuove misure di lockdown saranno in vigore fino al 14 ottobre, con possibilità di proroga.
Mercoledì il Knesset (parlamento israeliano) ha approvato un emendamento alla legge sul coronavirus che consente di limitare le proteste: ora le manifestazioni non possono essere composte da più di 20 persone e devono svolgersi a non più di un chilometro di distanza dalle proprie abitazioni.
Le proteste che chiedono a Netanyahu di dimettersi a causa di una crisi economica causata dalla pandemia di coronavirus sono in corso da luglio.
Ronni Gamzu, il massimo consigliere politico israeliano per il Covid-19 e direttore generale del Tel Aviv Sourasky Medical Center, ha accusato Netanyahu d'inasprire le restrizioni Covid-19 nel tentativo di contenere le manifestazioni anti-governative.

(Sputnik Italia, 4 ottobre 2020)


Il secondo lockdown in Israele: la Masada pandemica

di Claudio Vercelli

Il contrasto tra le componenti laiche, secolarizzate ed ortodosse da una parte, disposte a seguire le misure di contenimento, e una parte di quelle ultra-ortodosse, caparbiamente indisponibili a rispettare anche le norme più elementari, è divenuto l'ennesimo terreno di scontro, sul quale la mediazione politica ha potuto poco se non nulla
  Così non va, per nulla. Quanto meno a detta di molti. Il secondo lockdown, che il governo israeliano aveva deliberato con l'avvio del 18 settembre, per una durata di tre settimane, secondo l'oramai famoso sistema del «semaforo», proseguirà almeno fino al 14 ottobre. Se ciò basterà, beninteso. Salvo, quindi, verifiche a venire. Con le conseguenze economiche ma anche sociali e civili, nonché per molti anche di ordine politico, destinate a pesare sul futuro, immediato e non, del Paese.
  Un'ulteriore chiusura pressoché ermetica, con una sorta di silicone politico e amministrativo, costituisce un poco invidiabile primato tra le nazioni a sviluppo avanzato. Questo anche al netto delle restrizioni che anche altri Stati potrebbero dovere assumere a breve. L'andamento pandemico è peraltro in parte imprevedibile, anche se alcuni elementi sono incontrovertibili: si trasmette con grande facilità; ha un'immediata incidenza sui sistemi sanitari (che sono dal febbraio di quest'anno al centro dell'attenzione dei governi nazionali, ben sapendo che il grado di saturazione rispetto ai casi di terapia intensiva, si raggiunge molto velocemente); disarticola l'insieme delle relazioni collettive, colpendone il versante più fragile ma anche più importante, quello della socialità, sia per ciò che concerne il lavoro che per quanto riguarda i rapporti interpersonali.
  La sua cronicizzazione sta creando nuovi orizzonti problematici, al netto di qualsiasi ipotesi di prospettiva di medio e lungo termine. La previsionalità a medio-breve periodo indica l'anno entrante, il 2021, come destinato ad essere comunque impegnato nel fronteggiare, a Gerusalemme come nel resto del modo, le ricadute della pandemia. Fermo restando che, al netto degli annunci miracolistici, così come delle visuali più cupe se non apocalittiche, l'identificazione di un vaccino effettivamente efficace e la sua distribuzione ad una quota sufficiente della popolazione mondiale per garantire un'adeguata copertura collettiva, richiederà diverso tempo. Quanto, al momento, nessuno può dirlo. Si possono fare solo delle ipotesi, per l'appunto.
  Il problema che accompagna Israele, così come ogni Stato, al momento è quello di garantirsi una progressione pandemica gestibile. È tale quella che non mette in cortocircuito i sistemi sanitari nazionali, che permette di mantenere un livello accettabile nell'assolvimento delle attività economiche, che mantiene in sicurezza il sistema delle comunicazioni e della distribuzione commerciale, che garantisce lo svolgimento di una serie di attività sociali elementari, evitandone l'azzeramento totale degli scambi (nessuna popolazione può vivere in totale auto-isolamento oltre determinate soglie di tempo e di spazio, in sé mutevoli ma che una volta raggiunte rischiano di causare il collasso dei sistemi legali di contenimento in regimi costrittivi, come ad esempio l'ambito esclusivamente domestico).
  All'inizio di ottobre Israele conta complessivamente 256.071 casi conclamati di Coronavirus su una popolazione stimata di 9 milioni e 240mila individui. Un range di oscillazione che varia dai 276 ai 297 contagiati ogni 100mila abitanti (molto dipende da quali cifre si usino per campionare i soggetti). L'accertamento è a carico delle autorità sanitarie, attraverso il sistema universale del cosiddetto tampone rino-faringeo per il Covid-19 (PCR SARS-Cov-2), da solo o abbinato al test sierologico SARS-CoV-2 anticorpi IGG o al test sierologico SARS-CoV-2 anticorpi IGG e IGM. Dall'inizio della pandemia i morti censiti sono stati 1.629. All'atto della lettura di queste note, ovviamente i numeri saranno nel mentre già aumentati. Il vero differenziale tra ciò che è accettabile e quanto non lo è sta nella misura di grandezza; se l'incremento quotidiano continua in progressione eccessiva, allora le cose si mettono male. Il primo caso pandemico, in Israele, era stato registrato il 21 febbraio a Ramat Gan; un mese dopo si era verificato il primo decesso. Attualmente, degli infetti registrati, pari a 70.942, il 99% di essi è in condizioni "gestibili", ossia domiciliati oppure ospedalizzati in reparti non di emergenza; la parte restante, 849 casi, è invece in condizione più che critiche, richiedendo il ricorso a terapie intensive o paraintesive. Nel mentre, 185.129 casi si sono risolti dal momento della loro manifestazione ad oggi di essi, mentre l'1% è deceduto.
  L'andamento statistico indica una curva fortemente accentuata dalla fine di giugno, quando si passa progressivamente dai 20mila casi agli attuali 256mila, con una decuplicazione nel corso di poco più di tre mesi. Il 23 settembre, si è arrivato al picco di 11.316 casi in un giorno, scesi a circa 2.300 il 28 dello stesso mese e tornati a quasi 8mila due giorni dopo. Un ottovolante inaccettabile. Va da sé che numerosità e concentrazione temporale sono indici relazionati alla quantità di tamponi effettuati, oltre ad una miriade di altri fattori, spesso difficilmente computabili. Il numero di "infetti" indica quindi una tendenza, non un valore assoluto, da intendersi come totalmente preciso. Poiché qualsiasi politica di sanità pubblica necessita di soglie quantificabili, per predisporre ed attivare misure sistematiche di prevenzione e cura, quando a metà settembre sono stati superati i 5mila casi giornalieri, il governo ha pertanto deciso di intervenire con una seconda quarantena collettiva. Il lockdown obbligatorio per l'intera popolazione, quindi, risponde sia all'esigenza di evitare la diffusione geometrica ed esponenziale del virus sia alla necessità inderogabile di non fare collassare un sistema sanitario sottoposto a fortissime pressioni. Le due cose, peraltro, rischiano altrimenti di alimentarsi vicendevolmente.
  La sanità israeliana (tenendo fermo che un conto sono i servizi ordinari, quelli che esulano da una condizione pandemica, mentre altro discorso vale per le emergenze pandemiche, alle quali non eravamo abituati fino alla fine del primo trimestre di quest'anno) conta 5,89 infermieri ogni mille persone; 3,33 dottori per mille abitanti; 9,58 ospedali ogni milione di cittadini (la misura è puramente generica, poiché contempla unità sanitarie residenziali tra di loro molto diverse, calcolando policlinici e nosocomi di dimensioni ragguardevoli ad unità ospedaliere più piccole) con 3 letti per ogni mille israeliani. I letti ICU (Intensive Care Unit, conosciuti anche come Intensive therapy unit o Intensive treatment unit-ITU ed ancora critical care unit-CCU) risultano essere circa 250 ogni 100mila persone.
  Le iniziali misure di contenimento attivo (divieti e vincoli nelle relazioni sociali) sono state assunte con una discreta celerità (anche se le modalità e la tempistica sono invece state contestate da molti) con l'11 marzo, seguite quasi subito dalla chiusura delle scuole; già erano stati vietati gli accessi dai paesi considerati maggiormente a rischio, tra cui l'Italia; otto giorni dopo, Benjamin Netanyahu dichiarava lo stato di emergenza nazionale, seguito, nei primi giorni di aprile, dalla proclamazione di «restricted zone», con limitazione alla libera circolazione. Israele ha raggiunto il primo picco della prima ondata il 2 di aprile, con 765 infetti in un giorno e 10mila positivi registrati complessivamente. I quartieri Haredi di Gerusalemme, considerate zone di intensi focolai, con il 12 aprile venivano sottoposti a rigidissime misure di contenimento, tra molte polemiche e diffuse manifestazioni di insubordinazione. Da ciò, quindi, a stretto seguito la prima quarantena collettiva.
  Nel corso della prima ondata, lo Stato d'Israele ha cercato di reagire adottando non solo misure di contenimento passivo (tampone, tracciamento e trattamento, quindi isolamento domiciliare, ricovero ospedaliero, somministrazione di farmaci generici) ma anche attivo (test rapidi, identificazione di una nuova generazione di mascherine, ricorso all'intelligence per mappare i positivi; misura, quest'ultima, fonte di molte polemiche relative alla privacy e alla libertà dei cittadini). Il sistema adottato, che proseguito nei mesi successivi, è stato quasi da subito quello del cosiddetto «semaforo», voluto dal commissario nazionale anticoronavirus Ronni Gamzu, già Ceo del Tel Aviv Sourasky Medical Center ed ora soprannominato da una parte della stampa «zar del Covid»: il rosso per la chiusura totale, il giallo-arancione con la chiusura parziale, il verde ad apertura (con vincoli selettivi e mutevoli). Inutile dire che gli effetti economici di un tale stato di cose si sono fatti sentire da subito, con un dato del tasso di disoccupazione, più che quintuplicato (dal 4% circa a ben oltre il 20%), solo in parte tamponato dalle misure di emergenza assunte dal governo. Il Prodotto interno lordo è velocemente calato del 6-7%, con la prospettiva - tuttavia - di una celere ripresa qualora la pandemia fosse stata gestita positivamente e, a ciò, si fosse accompagnato un vasto piani di interventi pubblici.
  Le cose, per il momento, stanno andando diversamente. Non solo in Israele, va da sé. Tuttavia, per una società abituata, fino all'inizio di quest'anno, ad avere un tasso di disoccupazione molto contenuto (a fronte di una retribuzione media salariale comunque insoddisfacente), ad oggi circa un quarto della forza lavoro è invece a spasso. Il fatto che nel momento in cui le attività dovessero riprendere a pieno ritmo, un buon numero di disimpegnati sarebbe riassorbito, non toglie nulla alla drammaticità dello stato vigente delle cose. Anche perché nessun paese al mondo sa quando una tale "normalità" potrà subentrare né, tanto meno, in che cosa consisterà concretamente le reali condizioni con le quali, a quel punto, le società si dovranno confrontare. In altre parole, è la nozione medesima di normalità, se con essa si intende prevedibilità e calcolabilità, ad essere a sua volta sottoposta a molti interrogativi.
  La cronicizzazione della crisi comporta la diffusione di un disagio economico che si fa sociale e, quindi, malessere civile. I giovani lavoratori sono destinati a pagare il prezzo più alto delle tensioni in corso, insieme alle tradizionali fasce deboli della società israeliana. Non pochi cittadini hanno contestato al governo, in questa seconda fase, incoerenza, lentezza nei processi decisionali e una sostanziale mancanza di obiettivi che non siano quelli meramente legati al tamponamento delle situazioni di immediata criticità. Il fatto che l'esecutivo sia composto da due premier concorrenti, Netanyahu e Gantz, di certo non aiuta l'assunzione di misure basate su un celere decision making. Come nel caso italiano, la "patata bollente" è stata affidata in parte ai tecnici i quali, a loro volta, dopo avere formulato pareri spesso tra di loro contrastanti, l'hanno rigirata all'esecutivo. Mentre i sanitari hanno ripetutamente lanciato il loro segnale di allarme, temendo default organizzativi nel sistema di contenimento della pandemia.
  Se a marzo ed aprile la leadership politica sembrava essere ancora motivata e unitaria almeno sul dossier Covid (dopo le ripetute esortazioni del presidente Reuven Rivlin), dall'estate le cose sono invece andando peggiorando. Con increspature tra ministri che si sono poi tradotte in continue contrattazioni, spesso defatiganti, su modalità, tempistiche e misure da assumere. Fino a manifestazioni di rottura dentro la stessa compagine governativa. Il contrasto, nella società civile, tra le componenti laiche, secolarizzate ed ortodosse da una parte, sostanzialmente proclivi a seguire le misure di contenimento, e una parte di quelle ultra-ortodosse, caparbiamente indisponibili a rispettare anche le norme più elementari, è divenuto l'ennesimo terreno di scontro, sul quale la mediazione politica (peraltro assai debole) ha potuto poco se non nulla. Sta di fatto che le preesistenti tensioni ideologiche tra gruppi sociali molto differenziati, ne escono ulteriormente rafforzate da questo transito.
  A tutto ciò, secondando un meccanismo presente in molti altri paesi, diversi cittadini, pur rispettando selettivamente le norme dettate dalle autorità, hanno spinto per la veloce riapertura delle attività economiche. Se a maggio, per un poco si è respirata una pallida parvenza di ritorno alle vecchie prassi, già in estate le cose sono peggiorate molto velocemente. E qui l'inerzia dell'esecutivo, sospeso tra una linea che chiedeva la reintroduzione da subito di misure radicali ed un'altra, invece, più "attendista", ha contribuito ad aumentare la confusione. La prassi del bilancino (chiudere; non chiudere; chiudere prima, durante o dopo le festività ebraiche) non sta premiando nessuno.
  Nel mentre, diversi cittadini - già di per sé poco o nulla favorevoli al premier Netanyahu - non solo hanno continuato a manifestare in pubblico ma hanno intensificato numeri e occasioni di protesta, a partire da quelle che si sono ripetute dinanzi alla casa del premier. I rigidi vincoli imposti agli assembramenti, di fatto pressoché vietati, sono stati denunciati da una parte delle opposizioni come una manovra politica dal titolare dell'esecutivo per limitare o azzerare ogni forma di contestazione nei confronti della sua persona. L'accusa di cesarismo nei confronti di Netanyahu è oramai abituale nella discussione politica corrente. Le stime più prudenti degli esperti calcolano in almeno 15 miliardi di shekelim le perdite dirette generate dal blocco parziale delle attività in meno di un mese del calendario commerciale.
  La Banca d'Israele ha ribadito una contrazione del prodotto interno lordo annuo intorno al 7%, qualora tuttavia le cose non dovessero ulteriormente peggiorare. Il calo della produzione dovrebbe attestarsi intorno al 14,6%. Sono tuttavia stime miti e benevole, beninteso. Che non possono ancora tenere in considerazioni molte variabili, al momento difficilmente confutabili. Ad esempio, quando il turismo, voce strategica del bilancio israeliano, riprenderà ritmi accettabili? Quanto tempo si dovrà attendere? Anche perché, al netto dei numerosi annunci miracolistici, che risuonano un po' ovunque in tutto il mondo su vaccini salvifici prossimi ad essere prodotti e distribuiti, la comunità dei virologi invita invece a valutare la reale situazione nella sua problematicità, indicando in almeno un anno, se non più, i tempi per potere contare su un antidoto efficace. Con la seconda metà di settembre i contagi mondiali di Covid hanno abbondantemente superato i 30 milioni (con un tasso di mortalità del 3,5% circa). Purtroppo, le previsioni per i mesi a venire, a Gerusalemme come nel resto del pianeta, prospettano un aumento dei casi (e dei decessi in valore proporzionale) non solo in progressione aritmetica. Qualunque sia il risultato a venire, in Israele come in Italia e nel resto del mondo, sarà ancora una partita lunga e defatigante quella che l'umanità ha dovuto ingaggiare contro il SARS-CoV-2.

(JoiMag, 4 ottobre 2020)


Graffiti antisemiti in un ristorante francese: aperta un'inchiesta

Graffiti antisemiti sono stati scoperti in un ristorante kosher a Parigi, sui quali la Procura ha avviato delle indagini. Un video pubblicato dall'Unione degli studenti ebrei di Francia mostra i muri del ristorante nel 19esimo arrondissement nella capitale, con slogan antisemiti e svastiche, nonché finestre rotte e tavoli e sedie distrutti. L'indagine è stata aperta per «degradazioni razziste», hanno detto i pubblici ministeri.
Ferma condanna della sindaca di Parigi Anne Hidalgo e del premier Jean Castex. Che ha anche twittato la sua «solidarietà ai nostri compatrioti ebrei», dicendo di condividere la loro «emozione e indignazione». Lo scorso anno la polizia francese ha registrato 687 atti antisemiti, con un aumento del 27% rispetto all'anno precedente.

(Avvenire, 4 ottobre 2020)


Usa, Israele ed Emirati pronti a collaborare su petrolio, gas e rinnovabili

I tre paesi si sono impegnati a esplorare le attività collettive in contesti multilaterali in coordinamento con le istituzioni finanziarie e il settore privato

di
Sebastiano Torrini

Gli Stati Uniti, Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di cooperare nei settori del petrolio, del gas e delle energie rinnovabili tra gli altri settori energetici, a seguito della firma dell'accordo di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti a settembre.
  I tre paesi "concordano di incoraggiare un maggiore coordinamento nel settore energetico, comprese le energie rinnovabili, l'efficienza energetica, il petrolio, le risorse di gas naturale e le relative tecnologie e le tecnologie di desalinizzazione dell'acqua - secondo quanto riporta una dichiarazione congiunta dei ministri dell'energia di tutti e tre i paesi pubblicati sul sito web del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti -. Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti sono impegnati a esplorare attività collettive in contesti multilaterali in coordinamento con le istituzioni finanziarie e il settore privato per migliorare gli investimenti internazionali in ricerca e sviluppo e la rapida adozione di nuove tecnologie energetiche".

 Gli Emirati possono cooperare con Israele sulla desalinizzazione e il solare
  Gli Emirati Arabi Uniti, che hanno firmato un accordo di pace con Israele a Washington il 15 settembre, possono cooperare con Israele nei campi della desalinizzazione dell'acqua e dell'energia solare, visto anche il fatto che il terzo produttore di petrolio dell'OPpec cerca di generare il 44% della sua energia da energie rinnovabili entro il 2050, secondo quanto annunciato dal ministro dell'Energia Suhail al-Mazrouei lo scorso 14 settembre in occasione della firma del trattato.

 Potenziamento della capacità
  Gli Emirati Arabi Uniti sono il primo membro del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) a cercare un accordo di pace con Israele, che ha altri due patti simili con i paesi del Medio Oriente, Giordania ed Egitto, oltre agli accordi di pace di Oslo con i palestinesi. Il Gcc include anche Bahrain, Qatar, Oman, Kuwait e Arabia Saudita.
  Sia gli Emirati Arabi Uniti sia il Bahrein hanno firmato il 15 settembre gli accordi di pace con Israele a Washington, ma il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si aspetta che più paesi del Medio Oriente normalizzino i loro legami con il paese.
  Abu Dhabi National Oil Co., il più grande produttore di energia degli Emirati Arabi Uniti, prevede di aumentare la sua capacità di produzione di greggio a 5 milioni di barili al giorno entro il 2030 dai 4 milioni di barili al giorno attuali, con l'aiuto delle compagnie petrolifere internazionali. Sta anche aumentando la produzione di gas.
  Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti stanno portando avanti vari progetti nel comparto fotovoltaico nel tentativo di diversificare il proprio mix energetico e liberare petrolio e gas per l'esportazione. L'obiettivo è quello di generare il 50% dell'energia dalle rinnovabili, nucleare compreso, entro il 2050.
  Gli Emirati Arabi Uniti sono diventati, tra l'altro, il primo paese del Golfo a generare energia dal nucleare quest'anno, con l'avvio di uno dei quattro reattori in costrizione. Una volta che tutti i reattori saranno operativi, produrranno 5,6 GW di energia nucleare, soddisfacendo fino al 25% del fabbisogno energetico del Paese.

 Obiettivo 2030
  Israele ha fatto passi da gigante nella produzione di gas con la scoperta di due giacimenti importanti nell'ultimo decennio. La produzione di gas di Leviathan, che detiene 620 mld di mc di riserve di gas recuperabili, è iniziata alla fine di dicembre 2019. Leviathan è il secondo grande giacimento di gas in Israele ad iniziare la produzione dopo l'avvio nel 2013 del giacimento Tamar gestito da Noble, che continua a servire il mercato interno.
  Il ministero dell'Energia israeliano ha anche annunciato a giugno un piano da 80 miliardi di Shekel (23,3 miliardi di dollari) per aumentare la quota di energia solare nel mix energetico. Il paese, che ha generato il 5% della sua elettricità dall'energia solare nel 2019, vuole aumentare tale livello al 30% o 16 GW entro il 2030. Israele attualmente fa affidamento principalmente su gas e carbone per produrre elettricità.

(Energia Solare, 4 ottobre 2020)


Le nuove alleanze che ridisegnano il Medio Oriente

di Robert D. Kaplan

L'imminente avvio dei rapporti diplomatici tra Israele e due Stati del Golfo — gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein — fa parte di un processo di cooperazione in materia di sicurezza che è stato inaugurato molti anni fa. Un dato, questo, che se da un lato riduce l'impatto dell'evento, dall'altro ne aumenta il significato e suggerisce che l'iniziativa di porre fine all'era degli scontri arabo-israeliani è destinata ad andare avanti e forse culminerà in un sovvertimento politico in Iran. Questa sembra essere la strada che il Medio Oriente si trova a percorrere.
   Sudan, Arabia Saudita, Oman e Kuwait sono alcuni dei Paesi arabi che pare stiano valutando la possibilità di avviare dei colloqui di pace con Israele. Uno o due di questi Paesi potrebbero cambiare idea, mentre l'Arabia Saudita — che pure sostiene il processo di normalizzazione regionale con Israele — potrebbe negare un riconoscimento ufficiale. Ma non importa: anche in assenza di documenti ufficiali, tutti questi Paesi hanno, in senso spirituale, posto fine alle ostilità con lo Stato ebraico.
   Diamo uno sguardo alla cartina geografica. L'alleanza tra Israele e Emirati gode di un accesso praticamente illimitato ai tre lati della penisola arabica: il Mar Rosso, il Mar Arabico e il Golfo Persico. L'unica sfida rimane quella rappresentata dal piccolo Qatar e dallo Yemen, caotico e dilaniato dalla guerra.
   Nel frattempo, la crescente presenza militare della Cina nel Gibuti e, potenzialmente, a Port Sudan, continuerà a essere un elemento neutrale rispetto a questa nuova iniziativa di sicurezza araboisraeliana che si estenderà ben oltre la sfera navale, sino ad abbracciare ogni aspetto della sicurezza e dei sistemi di attacco e di difesa ad alta tecnologia.
   II Medio Oriente sta attraversando un complicato processo di trasformazione. Per decenni, a partire dagli anni Sessanta, I regimi baathisti totalitari di Siria e Iraq avevano diretto il fronte del rifiuto a Israele. Ma quei due Stati, così come la Libia, adesso appaiono completamente devastati, mentre l'Egitto resta impotente, schiacciato com'è da una repressione debilitante e dal caos economica. Elementi palestinesi, shiiti e gatarini in Libano sono tutto quel che resta del fronte di opposizione arabo, che ormai è costretto a dover contare sul sostegno di due Paesi non arabi: Turchia e Iran.
   Dei due l'Iran è forse il più fragile. Mentre il leader neo-autoritario turco Recep Tayyip Erdogan continua a operare in un contesto di parziale democrazia, tra partiti politici rivali e sindaci e giornalisti indipendenti, il regime dell'Ayatollah Ali Khamenei rappresenta una teocrazia radicale decisamente più impopolare in patria di quanto Erdogan non lo sia in Turchia. Il regime iraniano, inoltre, a differenza di quello turco, è legato al prezzo degli idrocarburi, che in generale (e a prescindere dalle sanzioni imposte dagli Usa) è sceso, anche se i recenti accordi di pace tra arabi e Israele mettono a rischio proprio l'appoggio dell'Iran nel Golfo. Infine la Turchia, per motivi geografici, culturali e di storia del ventesimo secolo, è uno Stato quasi europeo. Con tutta la stabilità che da ciò deriva. L'Iran, no.
   Verso la fine del 2019, ben prima che il governo desse prova di una gestione fallimentare della crisi del Covid-19, l'Iran è stato scosso da imponenti manifestazioni di protesta contro il regime. Il regime iracheno è sottoposto a crescenti pressioni politiche e viene considerato dal popolo palesemente illegittimo. La scomparsa del terrorista e mente della geopolitica Qassem Soleimani, assassinato agli inizi dell'anno dagli Stati Uniti di Trump, renderà più difficile all'Iran rispondere con atti di terrorismo o con la forza militare, come in passato.
   Secondo una famosa affermazione di Lenin: «Ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni». Dalla Rivoluzione del 1979 in poi in Iran non è accaduto praticamente nulla, così come a partire dal 1994, anno in cui Israele e Giordania inaugurarono i rapporti diplomatici, nulla è più accaduto tra Israele e i suoi vicini arabi. Poi, nel giro di qualche settimana, delle dinamiche che erano al lavoro già da decenni hanno prodotto due trattati di pace. Viene da domandarsi se e quando in Iran vedremo accadere decenni nel giro di qualche settimana. Non adesso, certo, ma forse nel corso del prossimo mandato presidenziale degli Stati Uniti.
   In breve: la battaglia per conquistare i cuori e le menti degli iraniani e iniziata all'indomani della nuova alleanza tra Israele e Paesi del Golfo arabo, poiché si tratta di due eventi legati inevitabilmente l'uno all'altro. Nei prossimi anni, a poter imprimere all'intera regione un vero cambiamento saranno le dinamiche interne all'Iran — un Paese di 84 milioni di abitanti, con un alto tasso di istruzione.
   Eppure, a dispetto dei drammatici eventi della scorsa settimana, a Washington c'è ancora chi, incapace di accettare la realtà dei fatti, adduce "le guerre infinite" come motivo per ritirarsi del tutto dal Medio Oriente. Nello stilare una classifica di regioni in ordine di importanza, un consigliere senior del candidato presidenziale Joe Biden citato dalla rivista Foreign Policy ha relegato il Medio Oriente al quarto posto "con grande distacco sul terzo" e preceduto da Europa, Indo-Pacifico e America Latina.
   In realtà le "guerre infinite" sono da anni sul punto di finire, mentre la presenza dei militari Usa continua a diminuire, passando da 132mila a 3mila in Iraq, da 100mila a 4.500 in Afghanistan, sino ad arrivare a meno di mille in Siria. Stiamo vivendo una nuova era, caratterizzata dalla cooperazione implicita ed esplicita tra arabi e israeliani, dall'espansione neo-ottomana della Turchia, e dalla crisi interna iraniana.
   Il tutto sotto l'insidiosa ombra economica dei cinesi, che anziché considerare il Medio Oriente al «quarto posto, con grande distacco», lo vedono sempre più come un elemento chiave: l'anello necessario a collegare con naturalezza la Via della Seta in Asia con quella in Europa. Per questo, sostenuti da investimenti da centinaia di miliardi di dollari, i cinesi stanno costruendo in tutta la regione porti e basi militari.
   Non è il momento di ritirarsi dal Medio Oriente, né di considerarlo una regione scollegata da tutte le altre. Al contrario: il Medio Oriente è parte integrante dell'Eurasia ed è quindi ora che gli Stati Uniti, durante il prossimo mandato presidenziale, contribuiscano a espandere e rafforzare la pace arabo-israeliana, allo scopo di arginare il neo-imperialismo della Turchia e indebolire ulteriormente il regime iraniano. Il tutto, nell'ottica di gestire con intelligenza l'ascesa della Cina nell'Indo-Pacifico.

* Robert D. Kaplan. titolare degli studi di Geopolitica al Foreign Policy Research Institute di Philadelphia *

(la Repubblica, 4 ottobre 2020)



Il primo comandamento: una questione di vita o di morte
    «Non avere altri dei nel mio cospetto» (Esodo 20:3).
Davanti al tempo che passa, alle situazioni che cambiano, alle ideologie che si susseguono, ai valori morali che si modificano, ogni uomo ha la segreta nostalgia di un punto fisso, l'aspirazione a qualcosa di assoluto, di cui non si possa dire che oggi c'è e domani no, che non debba continuamente essere messo in discussione, che non abbia l'aspetto della provvisorietà e dell'incertezza.
   Qualcosa di questo genere esiste: è la morte. In qualunque periodo si viva, qualunque posizione si occupi, qualunque cosa si pensi, tutti muoiono. Questo fatto non cambia. Su questo non si discute. Non potrebbe allora essere proprio questo l'assoluto che è alla base di tutta la realtà?
   L'uomo normale rifiuta questa ipotesi. Egli avverte istintivamente che la morte è un buco nero in cui precipita tutto ciò che esiste, ma che non è, non può essere il fondamento di ciò che esiste. La morte che interrompe un rapporto d'amore tra due persone separandole dolorosamente l'una dall'altra non può essere il fondamento di quell'amore. No, non si può «vivere per la morte»: nessuno potrebbe sopportare una così atroce lacerazione.
   Si cercano allora altri punti fissi: qualcosa o qualcuno che costituisca il fondamento stesso della vita, qualcosa per cui valga la pena e sia giusto vivere.
   Questo qualcuno esiste: è l'Eterno, colui che ha nome «Io sono». La Scrittura dice che soltanto Lui è il fondamento di tutto ciò che è. Egli occupa interamente lo spazio in cui si muove tutto ciò che ha vita.
    «Difatti, in lui viviamo, ci moviamo e siamo» (Atti 17:28).
Egli è e crea. Egli è il creatore degli uomini e di tutte le cose. Quindi non ci sono, non ci possono essere altri dei da mettere a confronto con Lui. Egli è unico. È l'unico vero punto di riferimento di tutto ciò che vive. Chi cerca un altro assoluto, trova soltanto la morte. Ogni altro dio che pretenda di confrontarsi con l'Eterno non può essere che una manifestazione della morte.
   Ma come si può conoscere questo Dio «nel quale viviamo, ci moviamo e siamo»?
    «Io sono l'Eterno, l'Iddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù» (Esodo 20:2).
L'Eterno è un Dio che parla e agisce. Più precisamente libera. Da che cosa? «Dalla legge del peccato e della morte» (Romani 8:2). La liberazione di Israele dalla schiavitù di Egitto è un'anticipazione della liberazione dalla schiavitù della morte a cui soggiace tutta la creazione in conseguenza del peccato dell'uomo. Adamo ha cercato un punto di riferimento diverso da Dio, e l'ha trovato: la morte. Nello stesso modo, chi si pone alle dipendenze di dei stranieri non trova prosperità e pace, ma soltanto la morte.
    «Ma se avvenga che tu dimentichi il tuo Dio, l'Eterno, e vada dietro ad altri dei e li serva e ti prostri davanti a loro, io vi dichiaro quest'oggi solennemente che certo perirete» (Deuteronomio 8:19).
Risuonano in questo avvertimento le solenni parole di Dio ad Adamo: «Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» (Genesi 2:17).
   Ecco perché il primo comandamento è così tremendamente importante: si tratta di una questione di vita o di morte.
    «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi d'amare l'Eterno, il tuo Dio» (Deuteronomio 30:15).
L'Eterno è un Dio geloso perché sa che dietro l'idolo c'è la morte. E Dio non vuole che l'uomo muoia: per questo non si stanca di mettere in guardia il suo popolo dai rischi che corre ad andare dietro ad altri dei.
   Si dice talvolta che la gelosia di Dio sottolinea la sua sovranità, la sua maestosa regalità. Ma con ciò non si dice tutto, anzi, si dice molto poco. Se un padre deve attraversare con suo figlio un fiume in piena, passando su un ponticello stretto e privo di protezione, e per il pericolo che vede continua a ripetere minacciosamente a suo figlio di non allontanarsi da lui nemmeno per un attimo, chi direbbe che quel padre sta insegnando al figlio l'ubbidienza e il rispetto assoluto dell'autorità paterna?
   Dio ci ama di un amore appassionato, tenero, sviscerato, e non può sopportare l'idea che l'uomo si perda. Per questo non si stanca di dirci e di ripeterci che bisogna guardarsi dagli idoli, perché con gli idoli non si scherza. All'idolo si dà il cuore, cioè tutto sé stessi, e quindi l'idolo ci possiede e ci tiene in schiavitù fino a che non ci consegna alla morte.
   Si potrebbe obiettare che l'idolo non è niente, perché è soltanto una costruzione umana, come descrive il profeta Isaia (44:9 ss.). Ma bisogna fare attenzione: l'idolo non è nulla nei confronti di Dio, ma non nei confronti dell'uomo; esattamente come la morte non ha alcun potere su Dio, ma un potere reale sull'uomo. L'idolo, come la morte, non ha quindi alcun potere sull'uomo che confida nell'Eterno; ma, come la morte, ha un potere reale e devastante sull'uomo che si è allontanato dal suo Creatore e Signore.
   L'idolo non è nulla, perché non può salvare; ma è qualcosa, perché può uccidere.
   La continua tendenza dell'uomo all'idolatria fa capire che, per natura, l'uomo non può essere indipendente. Egli è nato per dipendere da qualcuno. I fatti fondamentali della sua esistenza, la vita e la morte, non sono in suo potere. Egli può, a dire il vero, darsi la morte, ma non può né darsi la vita né impedire che questa gli sfugga. E questo dimostra, ancora una volta, che l'unico potere autonomo dell'uomo è quello dell'autodistruzione. La libertà dell'uomo senza Dio è la possibilità di scegliere per sé la morte.
   L'uomo è un essere dipendente, e quindi se non ha un Dio è costretto a farselo.
   Ai piedi del monte Sinai il popolo d'Israele stava aspettando da molti giorni che Mosè tornasse, portando disposizioni da parte di Dio. Ma di Mosè non c'era più traccia e Dio non dava segni di sé. E se tutto fosse rimasto così per sempre? Poteva un intero popolo rimanere a bivaccare nel deserto per tutta la vita? Bisognava agire, muoversi. Ma si può attraversare un lungo e ignoto deserto senza avere un dio che si ponga alla guida del popolo? No, non è possibile, non c'è neppure da pensarci. Se non si ha un dio, bisogna farselo.
    «Or il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, si radunò intorno ad Aaronne, e gli disse: "Orsù, facci un dio che ci vada dinanzi" poiché quanto a Mosè, a quest'uomo che ci ha tratto dal paese d'Egitto, non sappiamo che ne sia stato"» (Esodo 32:1).
Il popolo d'Israele non ebbe la pazienza di aspettare, e la sua impazienza nei confronti dei tempi di Dio lo condusse all'idolatria.
   L'uomo che non accetta l'Eterno come Dio, deve dunque costruirsi un altro dio. Un dio che non solo non salva, ma non resta neppure inerte. Il feticcio che l'uomo si costruisce comincia presto a sprigionare una misteriosa forza d'attrazione, una specie di risucchio che attira l'anima del costruttore in un vortice senza via d'uscita. Dal momento che la creazione di un idolo fa uscire l'uomo dalla dipendenza del Dio vivente, e poiché l'unica possibilità autonoma dell'uomo è quella di scegliere la morte, l'idolo che egli si costruisce cade nelle mani della morte e diventa uno strumento per la sua distruzione.
   L'uomo dunque non può in alcun modo fabbricare un Dio che lo libera e lo salva; ma può fabbricare un mostro che lo rende schiavo e l'uccide.
    «Ascolta Israele: l'Eterno, l'Iddio nostro, è l'unico Eterno. Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6:4-5).
Con queste parole comincia la famosa preghiera «Sh'ma Israel» (Ascolta, Israele), tratta dal libro del Deuteronomio, che l'ebreo pio recita tutti i giorni. Con questa ripetuta recitazione il pio israelita ricorda continuamente a sé stesso l'importanza del primo comandamento. Il famoso « gran comandamento» dell'amore che Gesù cita in risposta alla domanda dello scriba (Marco 12:29-30) non è dunque una specie di undicesimo comandamento, ma una formulazione del primo, il quale vieta solennemente all'uomo di dividere il suo cuore, la sua anima, la sua mente, le sue forze tra diversi dei. L'Eterno, e soltanto l'Eterno, deve essere amato.
   Questo primo comandamento era ben presente nella mente di Gesù. Uno dei pochi passi del vangelo in cui vediamo Gesù citare esplicitamente i comandamenti è quello del giovane ricco. A questo giovane pio e di buona reputazione, che vuole avere buoni consigli per ottenere la vita eterna, Gesù risponde di osservare i comandamenti. Ma è da notare che i comandamenti citati da Gesù sono quelli della seconda tavola, cioè quelli che riguardano i rapporti con il prossimo. I racconti dei vangeli non danno alcun motivo di pensare che Gesù non abbia creduto alle parole del giovane. Ma quando questi chiede: «Che cosa mi manca?» Gesù in sostanza risponde: Ti manca di osservare il primo comandamento, il quale esclude che ci possano essere altri dei da tenere accanto all'unico vero Dio. Quindi va', sbarazzati del tuo idolo, e rendi onore a Dio ubbidendo alla sua parola che oggi ti chiama a seguirlo.
   Liberarsi di un idolo può essere qualcosa di incredibilmente difficile. Anzi, come dice Gesù, agli uomini è impossibile. Impossibile come liberarsi da soli dal potere della morte. Come l'uomo non può decidere di sciogliersi da solo dai lacci della morte per entrare di sua volontà nella vita, così non può liberarsi da solo da quella espressione del potere della morte che è l'idolo. L'unica possibilità per lui è di cogliere il momento in cui Dio stesso lo chiama ad uscire dalla schiavitù della morte per entrare nella libertà della vita eterna. Il giovane ricco ha rifiutato di essere liberato dall'idolo e quindi è rimasto sotto il suo potere, sotto il potere della morte, perché in questo modo non ha potuto ereditare quella vita eterna che Gesù gli aveva offerto.
   Gli idoli che minacciano oggi la nostra vita possono essere di diversa natura. Che si tratti dei soldi o del potere o del prestigio o della droga o di un'ideologia o di qualcosa di molto semplice e innocuo, l'idolo è sempre una potenza a cui consegniamo la nostra vita, a cui restiamo legati da una dipendenza vitale. Gli idoli che condizionano la vita di un uomo possono anche essere più di uno; in tal caso il cuore si divide e l'uomo cade nella paura di dover indovinare ogni volta quello giusto da invocare e da ingraziarsi.
   Un segno inequivocabile di dipendenza dagli idoli è la paura persistente. Le spiegazioni psicologiche che caso per caso si possono dare non sono in grado di arrivare alla radice del male. Le banalizzazioni supportate da argomentazioni «scientifiche» non servono. Va detto e ripetuto che con gli idoli non si scherza. Essi hanno a che fare con la morte: per questo non possono che generare paura, instabilità, insicurezza.
   Il primo comandamento doveva servire a mettere minacciosamente in guardia il popolo, perché il pericolo che correva ad abbandonare il suo Dio, o a permettere che accanto a Lui ci fossero divinità straniere, era mortale. Questo minaccioso avvertimento vale anche per noi. Dio ci ama teneramente, ci conosce per nome; ciascuno di noi esprime un suo pensiero, un suo particolare progetto. Per questo Dio non può tollerare che la sua creatura si consegni a padroni spietati che sembrano promettere chi sa quali soddisfazioni ma non mantengono mai le loro promesse, e alla fine, quando ormai è troppo tardi, fanno cadere la maschera e rivelano il loro vero volto, che è il volto macabro della morte. Per questo Dio avverte, minaccia, richiama, riprende, castiga, colpisce: Egli vuole che rimaniamo in una posizione di totale e continua dipendenza da Lui, e non per dare sfogo al suo dispotismo, ma perché ci ama. Soltanto Lui, che ci ha creati per amore, e ci mantiene in vita per amore, e per amore ci fa rinascere in Gesù Cristo, è in grado di darci «la vita e il bene»; gli idoli invece non possono che darci «la morte e il male».
   Il primo comandamento esprime dunque l'invito teneramente imperioso di Dio a rispondere senza alcuna riserva a questo amore, perché soltanto in questa risposta incondizionata l'uomo può trovare la sua vera vita e la liberazione da ogni paura della morte. Perché «Dio è amore» (I Giovanni 4:8) e «nell'amore non c'è paura» (I Giov. 4:18).
    «Io prendo oggi a testimoni contro a voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua progenie, amando l'Eterno, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e tenendoti stretto a lui (poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi giorni), affinché tu possa abitare sul suolo che l'Eterno giurò di dare ai tuoi padri Abrahamo, Isacco e Giacobbe» (Deuteronomio 30:19-20).
(da “Le dieci parole”, di Marcello Cicchese)

 


Negoziati tra Israele e Libano per la definizione dei confini marittimi

Le trattative partiranno a metà ottobre con la mediazione degli Stati Uniti

Israele e Libano hanno annunciato congiuntamente ieri il prossimo avvio di negoziati per la definizione dei confini marittimi, nell'intento di dare impulso all'esplorazione e allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale nella zona. Lo hanno indicato il presidente del Parlamento libanese, Nabih Berri (leader del movimento sciita Amal), e il ministro degli Esteri israeliano, Gaby Ashkenazi. Berri ha comunque tenuto a precisare che questo sviluppo è estraneo al graduale processo di normalizzazione fra Israele ed alcuni paesi arabi recentemente avviato.
   Mediati dagli Stati Uniti, i negoziati dovrebbero iniziare «verso il 14 ottobre», secondo quanto ha anticipato alla stampa israeliana da David Schenke, consigliere del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. Si svolgeranno, ha aggiunto il funzionario statunitense, sotto gli auspici dell'Onu nella sede dell'Unifil (il contingente delle Nazioni Unite nel Libano meridionale) a Naqoura, il punto di valico sul mare fra Israele e Libano, ex sede della dogana libanese, confinante con la base militare israeliana di Rosh Ha-Nikra. In questa stessa sede si tengono da più di dieci anni regolari incontri tripartiti tra israeliani, libanesi e i vertici della missione dell'Onu in Libano.
   La delegazione del Libano sarà messa a punto dal presidente, Michel Aoun, nei prossimi giorni, mentre, per Israele, il coordinatore dei colloqui sarà il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz. Gli Stati Uniti, ha precisato Berri, hanno preso nota che «la delimitazione dei confini marittimi dovrà avvenire sulla base del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) concordato nel 1996». Dall'anno scorso, gli emissari Usa hanno mantenuto una spola serrata fra Israele e Libano proprio per mettere a punto il quadro dei negoziati per delimitare un'area marina di centinaia di chilometri quadrati, nota come "Bloc 9". Questi contatti hanno avuto di recente un impulso per l'aggravarsi della crisi economica libanese (la peggiore degli ultimi trent'anni) e anche per i contraccolpi della esplosione di due mesi fa al porto di Beirut. Secondo la radio statale israeliana, è presumibile che la ripresa dopo tre decenni dei contatti israelo-libanesi sia stata approvata anche dal leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Ed un allentamento delle tensioni militari nella zona è quanto si attendono le compagnie occidentali interessate allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale.
   
(L'Osservatore Romano, 3 ottobre 2020)


Hezbollah ha i missili puntati. Dal Libano contro Israele

Sono numerosissimi e anche ad altissima precisione. Lo ha dimostrato all'Onu il premier israeliano Benjamin Netanyahu. I missili dell'ultima generazione vengono montati in stabilimenti realizzati sotto condomini abitati da gente comune al centro della città di Beirut per cui, se ci fossero degli incidenti (com'è successo il 4 agosto scorso nel porto della capitale libanese) le incolpevoli vittime civili sarebbero moltissime. Gli hezbollah hanno deciso di collocare le fabbriche di missili in questo modo per evitare che l'aviazione militare israeliana, che sa dove sono, sarebbe in grado i colpirli.

di Dorian Gray

Parlando in videoconferenza in occasione dell'annuale discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il premier israeliano Netanyahu ha nuovamente fatto delle rivelazioni di intelligence molto importanti. Questa volta Netanyahu non ha parlato del nucleare iraniano, ma dei depositi di missili di precisione del gruppo terrorista libanese Hezbollah. Secondo quanto rivelato dal primo ministro israeliano, a pochi chilometri dall'area delle esplosioni al porto di Beirut avvenute il 4 agosto scorso, ci sarebbero ben tre fabbriche di missili di precisione (Pgm) del Partito di Dio (quindi tutte nella capitale libanese).
La prima fabbrica si trova nell'area di Laylaki, nei sotterranei di un condominio di sette piani, in cui vivono ben settanta famiglie (!).
   La seconda si trova nell'area di Chouaifet, nei sotterranei di un palazzo di cinque piani, in cui vivono cinquanta famiglie (!).
   La terza fabbrica si trova invece nell'area di Janah, vicino a delle abitazioni civili, a due società del gas e ad una pompa del gas.
   Tutte aree in cui, se avvenisse un qualsiasi incidente «di lavoro», i terroristi di Hezbollah potrebbero causare la morte di decine e decine di innocenti civili, usati come scudi umani dagli uomini di Nasrallah, al fine di ridurre il rischio di essere colpiti dagli aerei nemici, ben sapendo che il codice morale di eserciti come quello israeliano impone di cercare sempre di ridurre al minimo i rischi di perdite di vite civili.
   I Pgm sono missili di precisione con sistemi di navigazione altamente avanzata che, se ben sviluppati, consentono di eludere le difese missilistiche, colpendo le aree civili con estrema precisione. Per questo Israele ritiene che questi missili siano molto pericolosi e sta cercando in tutti i modi di impedirne la costruzione.
   Per anni il regime iraniano ha tentato dal 2013 al 2015 di esportare i Pgm in Libano ma, dopo vari fallimenti, ha deciso di inviare a Hezbollah i missili divisi in vari pezzi, affinché l'assemblaggio avvenisse in loco.
   Ricordiamo che già nel 2018, parlando all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Netanyahu aveva mostrato delle immagini satellitari che rivelavano la presenza di centri di produzione di missili di precisione di Hezbollah nei pressi dell'aeroporto Rafiq Hariri, l'aeroporto internazionale di Beirut dedicato all'ex premier libanese, ucciso proprio da uomini del Partito di Dio. Da non dimenticare anche che a metà luglio scorso, il centro di ricerca israeliano Alma aveva rivelato l'esistenza di almeno 28 siti di lancio missilistici appartenenti a Hezbollah installati in mezzo alle aree civili di Beirut. Il centro Alma aveva corredato la sua indagine con una serie di mappe estremamente precise, a riprova di quanto veniva affermato. Si stima che da queste postazioni il gruppo terrorista potrebbe lanciare verso Israele anche missili a medio raggio (sempre di produzione iraniana) come il Fateh 110.
   Infine, ricordiamo che l'ultimo «incidente di lavoro» causato dai terroristi di Hezbollah è avvenuto appena pochi giorni fa: il 22 settembre, infatti, è saltato in aria un deposito di armi presso il villaggio di Ain Qana, causando ingenti danni, uccidendo un terrorista di Hezbollah, ferendo altre quattro persone e mettendo in pericolo la vita di decine di civili.

(ItaliaOggi, 3 ottobre 2020)


La prima strada wireless che ricarica i veicoli elettrici: avviato il progetto a Tel Aviv

 
La prima strada wireless a Tel Aviv
La città di Tel Aviv, in Israele, sta sviluppando un particolare progetto legato alla viabilità attraverso il quale le strade, dotate di strutture wireless, avranno la specifica funzione di ricaricare i mezzi di trasporto elettrici in circolazione. L'ideazione del progetto è di paternità della società israeliana ElectReon, in cooperazione con la Dan Bus Company, nota azienda di trasporti pubblici. La priorità al momento è data al trasporto pubblico; il sistema verrà inizialmente testato su un tragitto di 2 chilometri, partendo dalla stazione ferroviaria in prossimità dell'università di Tel Aviv fino ad arrivare all'aeroporto.

 Come è strutturata la strada wireless
  Stando ai dettagli tecnici, otto centimetri al di sotto del pavimento stradale verranno installate delle bobine di rame in grado di ricaricare tramite wireless i mezzi pubblici in circolazione attrezzati per la ricarica. La tecnologia in questione è chiamata DWPT, Dynamic Wireless Power Transfer, e consente un notevole risparmio dei costi, oltre che del peso, grazie alle dimensioni ridotte delle batterie collocate sui mezzi. È la prima volta che un progetto simile viene messo in atto, la tecnologia potrebbe così andare ad incidere anche sul nostro modo di spostarci.

 I risultati del primo test su strada wireless
  La società israeliana ha già effettuato il primo test in strada a Beit Yanay attraverso una Renault Zoe e sembrerebbe che la prova su strada sia stata superata.
La ElectReon ha da poco diffuso i risultati della prova: "Il test ha mostrato una trasmissione di energia di 8,5 kw con un'efficienza superiore al 91%. Prevediamo di poter aumentare la potenza oltre i 15 kw in poche settimane" ha dichiarato la società.

 Il progetto eco-sostenibile contro l'inquinamento ambientale
  Il progetto è nato con un'evidente impronta di eco sostenibilità e tutela dell'Ambiente con il sindaco della città israeliana, Ron Huldai ad aver affermato che il tutto rientra in un programma di lotta all'inquinamento ambientale. La possibilità di caricare direttamente i veicoli sulla strada tramite wireless consentirebbe di eliminare le stazioni di ricarica e i terminali.
CNN Business, portale online di notizie e informazioni finanziarie, ha comunicato che i lavori sono già iniziati a Tel Aviv, le strade sono in costruzione e nei prossimi giorni verranno effettuate ulteriori prove. Al momento in Israele sono comunque vigenti delle limitazioni a causa della pandemia da Covid-19, la cosa potrà ovviamente portare a un ritardo nel compimento del progetto.

(Blasting News Italia, 3 ottobre 2020)


Bisogna eliminare con la legge i privilegi che solo gli ebrei hanno

II primo documento politico di Hitler. Il capitano Karl Mayr, che apparteneva a un'unità di intelligence, affidò a Hitler l'incarico di fornire chiarimenti riguardo alla posizione dell'esercito sulla questione ebraica a un suo collega, l'ufficiale Adolf Gemlich. La lettera del 16 settembre 1919 è il primo documento politico di Hitler. Inedita in Italia, è pubblicata nel volumetto di Levy. Ne anticipiamo alcuni brani.

di Adolf Hitler

L'origine dell'avversione di ampi settori popolari verso l'ebraismo non va ricercata in una nitida conoscenza dell'agire pernicioso più o meno pianificato del gruppo ebraico verso la nostra nazione, ma per lo più nei rapporti personali, nell'effetto prodotto dal singolo ebreo, che è quasi sempre sfavorevole. Ma così l'antisemitismo assume solo il carattere di mero fenomeno emotivo. E questo non va bene. L'antisemitismo come movimento politico non deve e non può essere determinato da moti emotivi, ma dalla conoscenza dei fatti. (...).
   Con una millenaria riproduzione endogamica, spesso avvenuta in cerchie molto ristrette, l'ebreo ha saputo conservare la razza e le proprie caratteristiche assai meglio rispetto a molti dei popoli tra cui vive. E, quindi, fra noi vive una razza straniera, non tedesca, nient'affatto disposta o in grado di sacrificare le sue caratteristiche razziali, di rinnegare i suoi sentimenti, i suoi pensieri e le sue aspirazioni, e che tuttavia possiede politicamente i nostri stessi diritti. L'ebreo agisce spinto solo da moventi puramente materiali, ancor di più lo sono i suoi pensieri e le sue aspirazioni. La danza intorno al vitello d'oro diventa la lotta implacabile per ogni bene che, secondo i nostri sentimenti più profondi, non devono essere quelli più importanti e desiderabili su questa terra. (...)
   L'antisemitismo su basi puramente emotive troverà la sua espressione conclusiva nella forma dei pogrom. L'antisemitismo della ragione deve tuttavia condurre alla lotta giuridica pianificata e all'eliminazione dei privilegi dell'ebreo, che solo lui possiede rispetto agli altri stranieri che vivono fra noi (soggetti alla legislazione degli stranieri). Il fine ultimo di tale legislazione deve essere l'allontanamento definitivo degli ebrei. A tal fine è necessario un governo di forza nazionale e non un governo di impotenza nazionale.
   La Repubblica tedesca deve la sua nascita non alla volontà unitaria nazionale del nostro popolo, ma allo scaltro utilizzo di una serie di circostanze che tutte insieme produssero un profondo malcontento generale. Ma tali circostanze erano indipendenti dalla forma statale e agiscono tuttora. Ben più di prima. Perciò una larga parte del nostro popolo è disposta ad ammettere che non è la mutata forma statale a poter cambiare o migliorare la nostra situazione, ma solo una rinascita delle forze morali e spirituali della nazione.
   E tale rinascita non sarà avviata da una classe dirigente di maggioranze irresponsabili influenzate da precisi dogmi partitici, da una stampa irresponsabile, da slogan e da parole d'ordine di conio straniero, ma dall'utilizzo spietato di personalità carismatiche, di sentimenti nazionali, di intimo senso di responsabilità.
   Questo fatto priva tuttavia la Repubblica del sostegno intimo delle forze spirituali della nazione. Perciò l'attuale classe dirigente è costretta a cercare il sostegno di coloro che traggono e trassero esclusivamente beneficio dal rimodellamento delle condizioni tedesche, e che per questo motivo furono anche le forze trainanti della Rivoluzione: gli ebrei. Pur consapevoli del pericolo dell'ebraismo (ne sono una dimostrazione le diverse espressioni delle attuali personalità al comando), la nostra classe dirigente è costretta ad accettare a proprio vantaggio il sostegno prontamente fornito dagli ebrei, e così anche la contropartita richiesta. E questo scambio non consiste solo nel generico sostegno dell'ebraismo, ma soprattutto nell'impedire la lotta del popolo tradito contro i suoi mistificatori, cioè reprimendo il movimento antisemita.
   Rispettosamente,
   A. H.

(La Stampa - tuttolibri, 3 ottobre 2020)


Macron contro l'Islam radicale: un esempio anche per l'Italia

Iniziative da prendere come esempio anche in Italia dove la lotta all'Islam radicale sembra completamente dimenticata pur sapendo che sotto la cenere cova il fuoco.

di Franco Londei

Emmanuel Macron ha un piano per difendere i valori secolari della Francia contro l'Islam radicale. Lo ha svelato lui stesso ieri durante un discorso tenuto a Les Mureaux, poco fuori Parigi.
   Macron ha annunciato una supervisione più rigorosa delle scuole islamiche, sulla provenienza e sull'utilizzo dei fondi delle varie associazioni islamiche e tutta una serie di provvedimenti volti ad integrare i giovani musulmani nella società francese impedendo così che in Francia si instauri una sorta di "doppia legislazione", quella nazionale e quella islamica, non di rado ritenuta dai musulmani superiore a quella francese se non addirittura l'unica legislazione.
   Il Presidente francese ha dipinto l'Islam come "una religione in crisi" per via del fatto che sempre più spesso vira verso l'integralismo piuttosto che verso una idea di pacifica convivenza nel rispetto delle altre religioni.
   Un fenomeno che in Francia sta assumendo contorni davvero allarmanti considerando anche il fatto che la Francia ospita la più grande comunità islamica dell'Europa occidentale con i suoi cinque milioni di adepti.
   Secondo Macron in Francia è in corso una sorta di "separatismo islamista" dove le scuole islamiche vengono usate per indottrinare i bambini verso l'Islam integralista trascurando di insegnare loro le leggi della Repubblica che vengono sostituite con la legge islamica. Si sta cercando insomma di creare una "contro-società" che considera le proprie leggi al di sopra di quelle della Repubblica.
   Nelle prossime settimane il Governo presenterà una nuova legge per la separazione della religione dallo Stato che vada a rafforzare se non addirittura a sostituire quella già in vigore dal 1905.
   La normativa più interessante che verrebbe introdotta in questa nuova legge è quella che prevede l'obbligo per i bambini dai tre anni in su di frequentare solo scuole francesi.
   Secondo alcuni esperti infatti oggi non sarebbero più le moschee il vettore principale con il quale inculcare ideologie estremiste, ma sarebbero le scuole islamiche.
   Le stesse moschee saranno oggetto di questo piano per fermare l'Islam radicale. Oggi buona parte degli Imam arrivano dall'estero e di solito riescono ad estremizzare una moschea e a prenderne il controllo in poche settimane. Per questo motivo la Francia avvierà una procedura che porterà gradualmente a riconoscere solo Imam francesi.
   Macron ha parlato di «pesanti influenze straniere nell'Islam francese» puntando il dito contro Arabia Saudita, Qatar e Turchia annunciando anche maggiori controlli sui finanziamenti esteri alle moschee. Secondo il Presidente francese «dobbiamo liberare l'Islam francese».
   Infine Macron ha riconosciuto gli errori fatti dalla Francia nel "ghettizzare" i musulmani francesi. «Abbiamo concentrato le popolazioni in base alle loro origini, non abbiamo lavorato sufficientemente bene per integrare la diversità, né assicurato la mobilità economica e sociale» ha detto il Presidente.
   «Gli islamisti radicali sono piombati qui, approfittando del nostro ritiro e della nostra codardia» ha poi aggiunto.
   Le iniziative annunciate da Macron arrivano una settimana dopo l'ultimo attentato islamista subito dalla Francia e, se veramente messe in pratica, sarebbero un coraggioso passo avanti nella lotta all'Islam radicale. Iniziative da prendere come esempio anche in Italia dove la lotta all'Islam radicale sembra completamente dimenticata pur sapendo che sotto la cenere cova il fuoco.

(Rights Reporter, 3 ottobre 2020)


Basket - 12 squadre israeliane si sono iscritte alla Balkan League

12 squadre della Winner League sono state iscritte venerdì alla Balkan League, campionato che l'Hapoel Gilboa/Galilea ha vinto due volte nel 2012 e nel 2013. La Lega Balcanica è riconosciuta dalla FIBA dalla sua fondazione nel 2008 da parte dell'ex arbitro israeliano Shai Streix e la prossima stagione sarà la sua 13a consecutiva.
Le squadre israeliane, è stato dichiarato, "sono felici di entrare a far parte di un torneo internazionale di lunga data e rispettato, e la registrazione per questo campionato deriva da un genuino desiderio da parte delle squadre di continuare a giocare a basket anche durante questo periodo impegnativo e dal desiderio di preservare l'industria del basket in Israele."
La mossa è stata fatta perché solo le squadre iscritte alle competizioni internazionali sono attualmente autorizzate ad allenarsi e giocare a causa del lockdown del governo israeliano. Ciò consentirà ai giocatori di mantenersi in forma a causa delle restrizioni che sono state imposte allo sport.
Nel corso degli anni la Lega Balcanica ha visto passare squadre provenienti da Bulgaria, Croazia, Serbia, Macedonia settentrionale, Montenegro, Grecia, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Albania, Kazakistan, Romania e, come detto, Israele. Oltre all'Hapoel Gilboa/Galilea, che ha vinto il titolo per due anni di fila e ha raggiunto un'altra finale, l'Hapoel Tel Aviv ha disputato le Final Four del 2012 tenutesi al Candle Garden.

(Pianeta Basket, 3 ottobre 2020)


Accordo Israele-Libano per i giacimenti di gas

L'intesa commerciale prevede contatti diretti tra i due Paesi con la mediazione degli Usa.

di Roberto Bongiorni

Non si tratta di una tregua, neanche di un tentativo. Si tratta, come ha ben spiegato il ministro israeliano dell'Energia Yuval Steinitz , di una questione commerciale. Ma per due Paesi che hanno combattuto diversi conflitti, e sono ancora formalmente in Stato di guerra, è un passo in avanti.
   «Israele e Libano - ha spiegato il ministro israeliano dell'Energia - terranno contatti diretti, con la mediazione americana, per i confini delle acque commerciali tra le due nazioni. Il nostro obiettivo è mettere fine alle divergenze sulla questione per aiutare lo sviluppo delle risorse naturali a beneficio dei popoli della regione».
   La conferma è arrivata anche dal Libano per bocca del capo del Parlamento, lo sciita Nabih Beni. «La visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo in Libano - ha chiarito Berri - ha riportato in vita il dossier della demarcazione del confine». «Gli Stati Uniti - ha aggiunto - si rendono conto che i governi di Libano e Israele sono pronti a delimitare i loro confini marittimi sulla base dell'esperienza del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) esistente dagli accordi dell'aprile dei 1996 e che è attualmente regolato dalla risoluzione Onu n.1701 (del 2006)».
   La questione è da anni legata allo sfruttamento di alcuni giacimenti contesi di gas naturale al largo delle coste israeliane e libanesi. Le acque davanti a Israele, ma anche nel sud del Libano, nascondono ricchissimi giacimenti di gas. Ma se Israele li ha già messi in produzione, divenendo un esportatore di energia per la prima volta nella sua storia, il Libano è molto in ritardo. Le gare per la concessione delle licenze alle compagnie straniere per l'esplorazione dei blocchi sono state più volte rinviate. Il Libano, tuttavia, sta attraversando la più grave crisi economica di sempre. In marzo è stato dichiarato il default. La Pandemia di Covid-19 ha poi fatto il resto. La devastante esplosione al porto di Beirut avvenuta in agosto ha dato il colpo finale. Mettere a frutto il tesoro energetico che si nasconde sotto le acque del sud del Libano, anche se ci vorranno anni prima di commerciare il gas, contribuirebbe a frenare la crisi evitando lo scenario peggiore. Ovvero che il Piccolo Paese dei Cedri, un tempo noto come la Svizzera del Medio Oriente, divenga un `Venezuela del Medio Oriente".

(Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020)


Storica collaborazione musicale tra musicisti israeliani e degli Emirati Arabi

di Luca Spizzichino

 
Con il processo di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato d'Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Barhein, ufficializzato con la firma dei cosiddetti "Accordi di Abramo" lo scorso 15 settembre, sono iniziate le prime collaborazioni tra i paesi, soprattutto tra lo Stato ebraico e gli Emirati, non solo a livello economico, ma anche culturale, o per meglio dire musicale.
Infatti, proprio nel panorama musicale israeliano si stanno vedendo i primi segni tangibili di una pace tanto agognata. Il primo a muoversi è stato quello che al momento è uno dei cantanti israeliani più conosciuti al mondo, Omer Adam, che attraverso il canale Kan ha sorpreso tutti confermando la visita dello stato del Golfo e la realizzazione di un concerto appena si sarebbero ufficializzati i rapporti tra i due stati.
A meno di un mese dalle firme del trattato di pace tra i tre stati, è avvenuto un altro fatto storico per la musica israeliana ed emiratina, infatti lo scorso 30 settembre è uscita la prima collaborazione musicale tra un cantante israeliano, Elkana Marziano, e un cantante proveniente dagli Emirati Arabi Uniti, Waleed Aljassim.
La canzone, che si chiama "Ahalan Bik", caratterizzata da una melodia arabeggiante, è un mix tra arabo, ebraico ed inglese, il cui messaggio è quello di fratellanza e di pace.
Tra le menti che hanno partorito questo storico progetto, Doron Medalie, autore di "Toy" di Netta Barzilai, vincitrice dell'Eurovision Song Contest, ed Henree, produttore musicale, che attraverso i social ha affermato che "la musica connette le religioni e le nazioni".
Questo caso storico è l'esempio lampante di come l'arte, e in questo caso la musica, sia il ponte migliore per unire due culture distanti e differenti.

(Shalom, 2 ottobre 2020)


Mossad: il racconto di una notte a Teheran

In arrivo nelle librerie la storia di una delle più importanti operazioni dei servizi segreti israeliani

Il 30 aprile 2018 il premier israeliano Benjamin Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell'archivio segreto relativo al nucleare iraniano, che agenti del Mossad avevano trafugato a Teheran e portato in Israele. Secondo gli esperti dell'Intelligence israeliana e della Cia, che poterono visionare il materiale prima della rivelazione in mondovisione, quei documenti, rapporti, video e fotografie erano le prove che l'Iran, dopo aver firmato l'accordo che avrebbe dovuto fermare lo sviluppo militare delle ricerche nucleari, stava ingannando il mondo intero. Nel corso della conferenza stampa in diretta tv, il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva smascherato il governo degli Ayatollah dicendo: "Ecco le prove che il programma iraniano cerca ancora di creare l'arma atomica". Secondo le rivelazioni l'archivio segreto era stato trovato e prelevato a Teheran dagli agenti israeliani, in un edificio che dall'esterno sembrava un normale magazzino. L'obiettivo dei Pasdaran, aveva poi affermato Netanyahu, era quello di produrre e installare su un missile balistico, una testata nucleare con potenza pari a cinque volte la bomba che distrusse Hiroshima. Israele, per poter provare al mondo la malafede iraniana, aveva rinvenuto e prelevato cinquantacinquemila files di informazioni che incriminavano l'Iran, e lo fecero eseguendo una vasta operazione d'Intelligence in una località segreta della quale, durante la conferenza, fu mostrata anche un'immagine. Il peso totale del materiale arrivato a Gerusalemme era di cinquecento chilogrammi.
  È la trama del libro "Mossad, una notte a Teheran", in uscita l'8 ottobre edito da 'La nave di Teseo', scritto da Michael Sfaradi, giornalista free lance in lingua italiana iscritto alla Tel Aviv Journalist Association, specializzato in politica mediorientale, analisi militari e reportage di guerra, che racconta, in uno scenario di fantasia, come potrebbe essersi svolta la vicenda e quali intrighi internazionali potrebbero averla caratterizzata fino al momento in cui il Mossad, su ordine del governo israeliano, decise l'operazione di recupero degli archivi segreti sul nucleare iraniano. Nel racconto si prova anche a ricostruire le tensioni politiche, diplomatiche e militari, che caratterizzarono il periodo che precedette le rivelazioni del Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, basate proprio sui documenti recuperati.
  Agosto 2017. Report arrivati dai servizi segreti alleati, CIA e MI6 in particolare, che danno calma piatta sulla situazione iraniana, contrastano con le informazioni inoltrate da un agente infiltrato a Teheran che, invece, fa presente che lavori importanti sono eseguiti in quelle ore intorno alle centrali nucleari e negli uffici del ministero che si occupa del progetto nucleare. L'agente, nome in codice 'Apostolo 04' faceva parte di una rete di 12 agenti infiltrati in Iran e proprio perché 12 erano stati tutti soprannominati 'Apostolo'. Questa discrepanza di informazioni convince il capo del Mossad a proporre al Primo Ministro una missione di infiltrazione ausiliaria di un'agente donna da affiancare ad Apostolo 04 per vagliare sul campo la validità dei rapporti inoltrati. Nel romanzo viene spiegata la dinamica dell'arruolamento nei servizi segreti israeliani degli agenti destinati ad essere infiltrati in Iran e qui viene raccontata la storia di uno dei personaggi più importanti, Apostolo 04 per l'appunto, al secolo Ilan Ghorbani. Ilan, già ufficiale dell'esercito, nasce in una famiglia di origini persiane che lasciò Teheran alla caduta dello Scià. In famiglia ha appreso le tradizioni iraniane, conosce usi, costumi e la lingua farsi parlata, ma non scritta e non letta. Un corso approfondito di lingua Farsi, tenuto da Saman Yeganeh, anche lei figlia di una famiglia scappata all'arrivo di Khomeini, sarà parte dell'addestramento.

(OFCS.Report, 2 ottobre 2020)


La Chiesa contro Kertzer

Il controverso operato di Pio XII al tempo delle persecuzioni antiebraiche resta al centro dell'attenzione degli storici. Una vicenda che la recente apertura degli archivi apostolici vaticani permetterà di inquadrare in modo forse più esaustivo rispetto a quanto avvenuto finora. Anche in questa nuova fase di studio e approfondimento sulle carte non mancano però gli attacchi strumentali contro chi cerca di fare, con rigore e professionalità, il proprio lavoro. Come quello, lanciato nelle scorse settimane, nei confronti del Premio Pulitzer David Kertzer.

di Roberto Benedetti e Tommaso Dell'Era

Che cosa succede in Vaticano? Perché venerdì 4 settembre si è scelto di dedicare l'intera quarta pagina de L'Osservatore Romano - principale organo di stampa, anche se non ufficiale, della Santa Sede - ad una critica serrata di un articolo scritto qualche giorno prima dallo storico statunitense David I. Kertzer?
L'articolo di Matteo Luigi Napolitano, professore di Storia delle relazioni internazionali presso l'Università degli Studi del Molise, si intitola Per una nuova democrazia storiografica ed è una lettura interessante sotto molti punti di vista. L'argomento trattato è "l'apertura degli archivi su Pio XII e i pregiudizi da sfatare" ma per comprenderne appieno il significato occorre analizzare brevemente il contesto da cui nasce e fare dunque un passo indietro di qualche mese.
   Il 2 marzo 2020 gli archivi vaticani hanno aperto alla consultazione pubblica i fondi archivistici relativi al pontificato di Pio XII. La notizia era stata diffusa circa un anno prima e aveva creato una grande e giustificata fibrillazione all'interno della comunità scientifica degli storici di tutto il mondo: finalmente, dopo decenni di richieste, chilometri di documentazione vaticana sarebbero stati resi accessibili agli studiosi.
   In realtà, una piccola parte di questa immensa documentazione era stata messa a disposizione già a partire dal 1965, grazie al lavoro di una speciale commissione vaticana, nominata per ordine di papa Paolo VI, che aveva avuto lo specifico incarico di pubblicare tutti i documenti che potessero aiutare a stemperare le insistenti e insopportabili accuse di indifferenza al dramma della Shoah, quando non addirittura di contiguità con i regimi fascisti e nazista. In poco meno di venti anni di lavoro serrato la commissione riuscì a dare alle stampe ben dodici corposi volumi degli Actes et Documents du Saint-Siège rélatifs à la seconde guerre mondiale (Adss, 1965-1981), contenenti la trascrizione di una grande quantità di carte provenienti proprio dalla Segreteria di Stato vaticana. Fin da subito, però, la comunità scientifica aveva iniziato a richiedere a gran voce l'apertura degli archivi per verificare che tipo di selezione - qualitativa e quantitativa - fosse stata fatta dalla commissione vaticana....

(Pagine Ebraiche, ottobre 2020)


Sukkot in tutto il mondo - 5781/2020

di Laura Ben-David

Come ogni anno, siamo felici di condividere con voi un'esperienza visiva delle celebrazioni di Sukkot nelle nostre comunità in tutto il mondo e in Israele!
Uno degli aspetti piacevoli e divertenti di lavorare con le comunità ebraiche di tutto il mondo è il momento in cui si celebrano le" festività ebraiche" . Dare un'occhiata alle tradizioni, alla cultura, alla varietà e allo stile in ogni comunità unica ci ricorda come ci siano davvero "70 volti della Torah…" - e a tutti coloro che vi aderiscono! Date un'occhiata ad alcune delle Sukkot (capanne) che i nostri membri della comunità hanno costruito.
E rimanete sintonizzati! verranno aggiunte altre foto durante il periodo della festa!

(Shavei Israel Italia, 2 ottobre 2020)


Festival della Palestina, caso a San Lorenzo

Polemiche per il patrocinio del II Municipio all'iniziativa. Un assessore lascia la giunta.

L'imbarazzo dentro al Pd è totale e arriva ai piani altissimi del Nazareno quando ieri l'assessore alla cultura Lucrezia Colmayer ha deciso di protocollare le sue dimissioni dalla giunta Pd del Trieste Salario. La questione gira attorno al patrocinio concesso dalla presidente del Municipio II, Francesca Del Bello, alla quattro giorni del Falastin Festival della Palestina, cominciato ieri a San Lorenzo che strizza l'occhio ai movimenti di boicottaggio contro Israele. Nel Pd c'è chi come Aurelio Mancuso parla di «operazioni politiche mimetizzate da evento culturale» e ricorda che il partito «è contrario rispetto alle campagne di boicottaggio di Israele (BDS)». «Iniziativa inappropriata», la bolla il segretario regionale Bruno Astorre. II festival diventa per questo inaccettabile per la Comunità ebraica di Roma e per un bel pezzo di Pd. «Ho scritto personalmente alla presidente Del Bello per chiedere il ritiro del patrocinio, da cui mi dissocio e non ho nemmeno ricevuto risposta», ha detto Colmayer. «II patrocinio è incompatibile con la mia storia e visione politica e rende impossibile la mia permanenza in Giunta», ha scritto Colmayer incassando la solidarietà dei Giovani Democratici, di Italia Viva, Azione e di Valentina Grippo, alla Regione Lazio che parla di «ammirevole coerenza» di Colmayer. L'assessore municipale all'Ambiente Rino Fabiano, favorevole al patrocinio, vorrebbe trattenersi, parla sui social di un imprecisato «senso di vomito». Nel partito intanto si fanno distinguo, si spiega, si scrivono note. L'imbarazzo totale, appunto. Ste. P.

(Il Messaggero, 2 ottobre 2020)


Coronavirus, in Israele quasi 9mila casi in un giorno

"Il 34% dei contagiati sono ebrei ultraortodossi"

 
Agente di polizia di pattuglia nella città vecchia di Gerusalemme durante un blocco del coronavirus
 
Protesta. Nella scritta: "Un grande cartello contro una piccola autorità"
 
PROTESTA!
Record negativo di contagi in Israele, primo paese a entrare in un secondo lockdown che durerà almeno fino al 14 ottobre. Nelle ultime 24 ore sono state quasi 9mila (8.919) le infezioni registrate e il 34% delle persone diagnosticate con il Covid sono ebrei ultraortodossi, sebbene questa comunità costituisca circa il 12% della popolazione complessiva. Oltre 65mila - secondo i dati della sanità - i tamponi effettuati con un tasso di morbilità del 13.6%. I casi attivi della malattia sono 69mila con 810 malati gravi, per la prima volta in discesa, e 206 in ventilazione. I decessi hanno raggiunto quota 1.571 con 43 morti in un giorno. Il governo ha inoltre previsto sanzioni fino a 500 Shekel (circa 124 euro) per quanti violeranno le disposizioni delle autorità in occasione del Sukkot, una delle più importanti festività della religione ebraica che durerà dal 2 al 9 ottobre.

 I contagi tra gli ultraortodossi
  A spiegare perché siano così tanti all'interno della comunità dei più religiosi, è intervenuto il direttore generale del ministero della sanità Chezy Levy: "Causa il superaffollamento e le preghiere che a volte violano le regole di condotta" questa parte della popolazione "ha raggiunto un alto livello di morbilità". Levy ha anche sottolineato che sebbene il tasso di mortalità in questa comunità rimanga relativamente basso in rapporto con la popolazione generale e con quella araba, presumibilmente per la giovane età di quelli infettati, tuttavia il tasso sta "subendo un forte aumento". Per Levy alcune scuole religiose ultraortodosse hanno "enormi" tassi di infezione.

 L'estensione del lockdown
  Il governo israeliano ha approvato una misura per estendere il lockdown, imposto a partire dal 18 settembre, di tre giorni, fino al 14 ottobre. L'esecutivo Netanyahu ha anche approvato una misura per limitare le proteste e il culto nel raggio di un chilometro dalla propria casa, un passo controverso per frenare la diffusione del contagio che secondo i critici mira a reprimere le proteste settimanali contro il premier. Il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha sostenuto il provvedimento sulle proteste in un'intervista a Israel Radio, affermando che al momento c'è "bisogno di un rinvio" nelle manifestazioni per fermare la diffusione della malattia. Gantz ha inoltre aggiunto che il blocco nazionale potrebbe rimanere in vigore per molte altre settimane. Israele ha visto un notevole aumento del numero di nuovi casi di Covid-19 nelle ultime settimane: dopo aver in gran parte contenuto il virus in primavera con una risposta rapida, il Paese ha revocato le restrizioni troppo rapidamente a maggio, con conseguente ripresa dei contagi.

(il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2020)


*


Israele - Il Parlamento approva una legge che vieta le manifestazioni in lockdown

Il Parlamento israeliano ha approvato una legge che vieta manifestazioni durante il lockdown nel paese per il coronavirus, che secondo i critici ha l'obiettivo di mettere a tacere le proteste contro il primo ministro Benjamin Netanyahu. La legge, passata in ultima lettura con 46 voti favorevoli e 38 contrari, dovrebbe far parte della serie di misure adottate da Israele per limitare il numero di contagi, esplosi nelle ultime settimane. In base alla nuova normativa, il governo sarebbe ora autorizzato a dichiarare "uno stato d'emergenza speciale a causa della pandemia di coronavirus" per una settimana, durante la quale sarebbero vietati spostamenti di oltre un chilometro da casa. Una misura che comunque sarebbe introdotta in futuro solo in caso di nuovo lockdown.

(Shalom, 1 ottobre 2020)


L'asse israelo-sunnita di contenimento agli ayatollah

Il rafforzamento degli alleati Usa nel Golfo arabico e a Gerusalemme attraverso gli accordi di Abramo — tra Israele, Uae e Bahrein — è andato di pari passo con il rafforzamento delle sanzioni americane a Teheran, fissate per spremere ulteriormente la leadership iraniana. Le opzioni di ritorsione da parte degli ayatollah sono limitate, anche perché gli Emirati Arabi Uniti sono un mercato redditizio per l'Iran, con quasi 4,5 miliardi di dollari di esportazioni nel 2019 ad Abu Dhabi e 8,9 miliardi di dollari di importazioni a Teheran.

di Matthew Robinson*

Mentre la pandemia ha dominato il panorama politico interno americano, con commentatori distratti da test e numeri di casi, le sabbie geopolitiche si sono spostate in modo monumentale in Medio Oriente con gli accordi di Abramo. La normalizzazione delle relazioni degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e del Regno del Bahrein con Israele segna un coronamento della diplomazia americana, che vede il terzo e il quarto Paese arabo aprire relazioni diplomatiche con Israele, dopo Egitto e Giordania. L'accordo di pace è sicuramente da considerarsi come una vittoria per Mohammed bin Zayed, il governatore de facto degli Emirati; Hamad bin Isa Al Khalifa, il re del Bahrain; Benjamin Netanyahu, Primo ministro israeliano; per il presidente Trump e infine per Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell'Arabia Saudita. Infatti, sebbene l'Arabia Saudita non fosse parte dell'accordo, senza il suo consenso gli Stati del Golfo, in particolare il Bahrein, sarebbero stati molto più cauti nell'impegnarsi in questo accordo, al contrario stipulato con tanta audacia. La benedizione di Mohammed bin Salman a questo riguardo è una mossa strategica per consolidare la sua posizione di riformatore e modernizzatore agli occhi dell'occidente. L'annuncio di questo accordo alla Casa Bianca non dovrebbe essere guardato isolatamente, perché parte di un riallineamento più ampio e attentamente ponderato nella regione guidata dagli americani. Prima dell'accordo di pace, il segretario di Stato americano Mike Pompeo è volato a Doha per incontrare una delegazione talebana per i negoziati di pace in Afghanistan con l'obiettivo di garantire un ritiro sicuro del personale militare americano nel Paese. Inoltre, gli sforzi di Pompeo sono arrivati pochi giorni dopo una visita in Iraq del generale della Marina Frank McKenzie, il comandante del Comando centrale degli Stati Uniti, in cui ha confermato il ritiro parziale, da tempo anticipato, delle truppe statunitensi da 5.200 a 3mila. Entrambe le mosse mirano a mantenere Trump presidente. L'impegno della campagna del 2016 di ridurre l'impronta del personale militare americano in Medio Oriente e far uscire così gli Stati Uniti da — come dice lui — "guerre infinite", si riattiva ora in vista delle sue speranze di rielezione a novembre. Sempre nel mese di settembre, l'amministrazione Trump ha raddoppiato il suo precedente ritiro dal Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), altrimenti noto come l'accordo nucleare iraniano, aumentando le sanzioni contro la Repubblica Islamica per il suo programma di armi nucleari. Il dipartimento di Stato ha affermato che "l'embargo delle Nazioni Unite sulle armi all'Iran è ora imposto a tempo indeterminato, e faremo in modo che rimanga in vigore finché l'Iran non cambierà il suo comportamento".
   In tandem con il rafforzamento degli alleati Usa nel Golfo arabico e a Gerusalemme attraverso gli accordi di Abramo, queste sanzioni sono fissate per spremere ulteriormente la leadership iraniana a Teheran. Anche se, sorprendentemente, l'Iran non ha rifiutato l'accordo, con il presidente Rouhani che condanna la mossa sia come un "enorme errore" sia come un "atto insidioso" da parte dei Paesi del Golfo, le loro opzioni di ritorsione sono limitate. Dopotutto, gli Emirati Arabi Uniti sono un mercato redditizio per l'Iran, con quasi 4,5 miliardi di dollari di esportazioni nel 2019 negli Eau e 8,9 miliardi di dollari di importazioni nell'Iran. Farshid Farzanegan, presidente della Camera di commercio Iran-Emirati Arabi Uniti ha affermato i limiti economici dell'Iran quando ha parlato all'Iranian labour news agency nel luglio di quest'anno: "Non abbiamo una vasta gamma di opzioni per quanto riguarda il commercio, viste le sanzioni. Gli Emirati Arabi Uniti sono il principale mercato dei cambi per l'Iran. E difficile rinunciarvi, viste le severe sanzioni bancarie e finanziarie contro l'Iran". Mentre il soggiorno di Donald Trump al 1600 di Pennsylvania Avenue è tutt'altro che permanente, la sua strategia per il Medio Oriente lo è. Un'ipotetica amministrazione Biden molto probabilmente manterrebbe la rotta del contenimento iraniano nella regione, cercando contemporaneamente di consolidare gli storici accordi di Abramo. L'asse israelo-sunnita è destinato a restare.

* Membro del comitato direttivo Egic e già consigliere della delegazione per le relazioni con l'Iraq presso il Parlamento europeo.

(Formiche.net, 1 ottobre 2020)


Roma - La Comunità Ebraica contro il patrocinio del II Municipio ad un evento che ospita il Bds

L'ennesimo evento propal contro Israele a Roma, come sempre mascherato da festival culturale o pseudo tale, questa volta patrocinato dal II Municipio della Capitale con il logo ben in evidenza sul manifesto, scatena la reazione della Comunità Ebraica di Roma che in una nota attacca duramente:
«Il patrocinio del II Municipio a un'iniziativa che vede la presenza del movimento di boicottaggio di Israele (Bds) è inaccettabile e pericoloso. Il movimento di boicottaggio, nega allo Stato Ebraico il diritto ad esistere ed è legato ai movimenti terroristici di Hamas e Al Fatah».
«Così come dichiarato nella definizione di antisemitismo dell'IHRA, adottata dal nostro governo su input di tutti i partiti politici e come stabilito dai parlamenti di Francia e Austria questo movimento è antisemita. - prosegue la nota - Con questa scelta il Municipio sta legittimando l'odio antiebraico. Non ci possono essere ambiguità su questi temi, tanto che se questa è la linea non parteciperemo a iniziative per la memoria in quel territorio. Non si possono ricordare gli ebrei di ieri e legittimare l'odio antiebraico verso gli ebrei di oggi»

(Progetto Dreyfus, 1 ottobre 2020)

*


Lucaselli: il patrocinio del II Municipio di Roma al Bds è vergognoso

Ylenja Lucaselli
"Il patrocinio del II Municipio della Capitale all'iniziativa Bds è vergognoso e inaccettabile. Una istituzione territoriale non può dare questo riconoscimento ad una realtà che, di fatto, predica la cancellazione di Israele". Lo dichiara la deputata di Fratelli d'Italia Ylenja Lucaselli. "Questo tanto più in una città come Roma, che vanta una delle più antiche comunità ebraiche d'Europa ed allaccia un filo ideale e storico con Gerusalemme. L'indignazione sia più ampia possibile: non può esserci spazio per l'odio e per gli estremisti", conclude.

(La Voce del Patriota, 1 ottobre 2020)


Bambini ''rapiti" dal clero perché ebrei, dagli archivi del Vaticano la verità sul caso Finaly

La verità sul caso di Robert e Gerard Finaly, i due fratellini ebrei contesi tra Vaticano e Israele negli anni '50.

Questo racconto si basa su documenti custoditi in Vaticano a cui si è avuto accesso (da parte di studiosi selezionati) soltanto a partire dal marzo dello scorso anno.
   L'accesso riguarda il periodo del pontificato di Pio XII, dal 2 marzo 1939 fino alla sua morte il 9 ottobre 1958.
   Ogni anno vi possono accedere solo 1200 studiosi da 60 Paesi.
   Le informazioni sono state raccolte da David Kertzer, vincitore del Premio Pulitzer per le Biografie nel 2015, il quale le ha pubblicate a fine agosto in un articolo su The Atlantic.
Nel 1938, immediatamente dopo l'Anschluss, il dottor in medicina Fritz Finaly e la moglie Anna, entrambi ebrei, lui di 37 e lei di 28 anni, fuggirono dall'Austria cercando di andare in Sud America. Non ci riuscirono e trovarono allora rifugio in un paesino poco lontano da Grenoble, in Francia. Dopo la creazione dello Stato fantoccio di Vichy fu impossibile continuare ad esercitare ufficialmente come medico ma, se pur in modo fortunoso, la coppia riuscì a sopravvivere. Nel 1941 Anna partorì il figlio Robert e nel 1942 il secondogenito Gerald. Nonostante la campagna antisemita instaurata dal governo del maresciallo Pétain su pressione dei tedeschi, i genitori riuscirono a circoncidere entrambi i bambini secondo i dettami della loro religione.
Purtroppo, la pressione tedesca sul governo di Vichy contro gli ebrei andò aumentando e impauriti dall'intensificarsi delle ispezioni della Gestapo, i due decisero, nel febbraio 1944, di mettere al sicuro i due bambini affidandoli ad una loro amica, tale Marie Paupaert.
   Temevano di essere arrestati e, infatti, quattro giorni dopo i tedeschi li catturarono e li deportarono ad Auschwitz dove morirono poche settimane più tardi. L'amica francese, visto ciò che era successo ai due amici, temette che i tedeschi potessero venire a cercare i bambini e li portò al convento di Notre Dame de Sion a Grenoble, sperando che fosse un luogo più sicuro.
   Tuttavia, le suore, sentendosi incapaci di prendersi cura di due esseri così piccoli, li consegnarono a loro volta ad una locale scuola materna diretta dalla Signora Antoinette Brun, una donna di mezza età non sposata.
   Quella appena descritta potrebbe essere una delle innumerevoli storie di famiglie di ebrei in fuga dai nazisti e ricorda anche quanto successe a quella eccezionale scrittrice ebrea che fu la russa (rifugiatasi in Francia dopo la rivoluzione) Irene Nemirovsky.
   Si tratta, invece, di una storia speciale che suscitò scalpore nella Francia dei primi anni cinquanta e che ha acquistato una nuova luce dopo che il 24 marzo 2019 è stato dato libero accesso agli Archivi Segreti Vaticani (oggi denominati Archivio Apostolico Vaticano) per i documenti riguardanti il periodo del papato di Pio XII.
   Tutto cominciò quando, nel Febbraio 1945 e con la Francia già occupata dagli alleati, una sorella di Fritz, Margherita Finaly (rifugiatasi in Nuova Zelanda durante gli anni terribili), cercò di ottenere che i due nipotini la potessero raggiungere nel suo nuovo Paese di residenza.
   Margherita scrisse alla Brun ringraziandola e chiedendo il suo aiuto per organizzare il viaggio di Robert e di Gerald. La Brun rispose in maniera evasiva all'ipotesi di lasciar partire i due bambini (allora di quattro e tre anni) affermando anche di essere stata nominata loro tutrice da un giudice locale. Margherita non si dette per vinta e assieme alle altre due sorelle, una che viveva in Israele, l'altra anch'essa in Nuova Zelanda e con la cognata Auguste (moglie del fratello Richard catturato e ucciso dai nazisti a Vienna) scrisse al sindaco del paesino. In assenza di alcun riscontro positivo, Auguste che viveva in Gran Bretagna si recò a Grenoble per incontrare la Brun. Costei, anziché collaborare si dimostrò ostile ed affermò definitivamente che non avrebbe mai restituito i bambini.
   
A questo punto comincia il vero dramma, la cui storia diventa più completa grazie alla lettura dei documenti custoditi in Vaticano. Si scopre così che la Brun con l'accordo del vescovo locale aveva battezzato i due bambini nonostante ne conoscesse l'ascendenza ebraica e che, essendo essi diventati cattolici, erano "proprietà" della Chiesa di Roma e mai più sarebbero stati "sottomessi" ad una famiglia ebrea.
I Finaly si rivolsero allora ad un tribunale francese che nel Luglio 1952 ordinò alla Brun di consegnare i bambini ai parenti dei genitori. Come tutta risposta le locali le suore del convento di Notre Dame de Sion li nascosero, sembra su suggerimento dell'arcivescovo di Lione il Cardinale Gerlier. Nel Novembre 1952 il tribunale francese emise un ordine esecutivo ma le suore si rivolsero alla Corte d'Appello per chiedere una nuova sentenza.
Nel frattempo, la stampa francese aveva cominciato ad occuparsi del caso e il Cardinale Gerlier chiese istruzioni al Vaticano. Il Sacro Uffizio (oggi conosciuto come Congregazione per la Dottrina della Fede) suggerì, come risposta, di attendere la sentenza della Corte d'Appello e comunque, in caso di decisione sfavorevole, di "suggerire alla signora Brun di resistere, magari appellandosi alla Corte di Cassazione, e di usare tutti i mezzi legali per ritardare il più a lungo possibile l'esecuzione di una eventuale nuova sentenza sfavorevole.
   Nell'attesa del nuovo giudizio, le suore decisero di spostare i bambini in una scuola cattolica vicino al confine spagnolo e di registrarli colà sotto falso nome. Prima di farlo, chiesero e ottennero l'approvazione del vescovo locale. La giustizia francese non fu inerte e il 29 gennaio 1953 la madre superiora del convento fu arrestata. Con lei finirono in prigione alcuni monaci e suore considerati complici. Il Sacro Uffizio informò per iscritto Papa Pio XII di quanto stava accadendo, specificando che "gli ebrei, in combutta con i massoni e i socialisti hanno organizzato una campagna di stampa internazionale" su questo caso.
   La cosa, oramai di dominio pubblico, stava diventando imbarazzante per le gerarchie cattoliche e il Vaticano, con la mediazione dell'ambasciata francese a Roma e il Nunzio a Parigi cercò quindi un accordo che prevedeva la consegna dei ragazzi ai parenti purché ci fosse la garanzia che "si prendano le opportune precauzioni per assicurare che loro (i ragazzi) non siano soggetti a diventare ancora ebrei". L'allora Cardinal Montini (poi Papa Paolo VI), incaricato dal Papa di seguire l'affaire, scrisse al Nunzio a Parigi un telegramma in codice:
   "E' bene che il Sacro Uffizio non appaia (come ispiratore dell'accordo - n.d.r.)". In altre parole, il Vaticano appoggiò dapprima la sparizione dei ragazzi ma, in un secondo momento, volle che tutta la questione apparisse soltanto come dovuta a responsabilità locali.
   Nonostante l'intesa apparentemente raggiunta e gli arresti e le sentenze dei tribunali francesi, i due ragazzi furono inviati in un convento di monaci in Spagna con l'ordine di essere tenuti nascosti. Nel frattempo, col tentativo di recuperare il favore dell'opinione pubblica, il Cardinale Montini mandò al Nunzio Vaticano in Svizzera la bozza di un articolo che avrebbe dovuto apparire su un giornale locale come firmato da un qualunque redattore. Nel pezzo, ritrovato tra i documenti vaticani, si sosteneva che i due ragazzi si autoconsideravano dei "rifugiati" e invocavano il diritto d'asilo in Spagna. Era l'aprile del 1953 e i ragazzi avevano oramai dodici e undici anni.
Passarono altri tre mesi senza nuove notizie. Si sapeva che stavano in Spagna ma non esattamente dove. Si mossero allora la diplomazia francese, quella spagnola e quella israeliana. Alla fine, il clero spagnolo affermò ufficialmente che "senza un ordine formale che arrivi da Roma, i ragazzi rimarranno nella clandestinità".
La pressione mediatica mondiale comunque stava montando e, ad un certo punto, in Vaticano si cominciò a temere per la ripercussione negativa sull'immagine del papato stesso. L'Osservatore Romano pubblicò allora un articolo in cui si sosteneva che l'accordo raggiunto dall'episcopato francese non avrebbe permesso alla famiglia Finaly di portare i ragazzi in Israele per farli diventare ancora ebrei.
   "I due ragazzi … hanno dichiarato il loro desiderio di rimanere cattolici … di professare e praticare il cattolicesimo ".
   Le pressioni dell'opinione pubblica, tuttavia, erano così così forti in Francia da obbligare il Vaticano a dare via libera alla restituzione dei due ragazzi. Il 25 di Luglio i due atterravano finalmente a Tel Aviv.
   Ciononostante, il cardinale Montini scrisse alla fine di settembre una lettera di protesta al governo francese attraverso l'ambasciatore presso il Vaticano sottolineando che i due ragazzi erano stati battezzati e che con il loro viaggio in Israele "la loro educazione cattolica sarebbe stata compromessa".
   Gerard dopo essere diventato ufficiale dell'esercito israeliano ha lavorato come ingegnere. Robert ha esercitato da medico, esattamente come suo padre.
   A difesa di Montini occorre ricordare che, da Papa, portò a termine il Concilio Ecumenico Vaticano II e nel 1965 fece pubblicare un testo (Nostra Aetate-già preparato in bozza da Giovanni XXIII col titolo Decreto sugli Ebrei) in cui si sosteneva che la religione giudaica e gli ebrei, così come gli islamici, dovevano essere considerate con totale rispetto.

(Sputnik Italia, 29 settembre 2020)


Israele, mortalità più degli Usa. Netanyahu: lockdown lungo

GERUSALEMME - Per la prima volta Israele ha superato gli Stati Uniti per numero di morti pro-capite a causa del Covid. Il tasso di mortalità nello Stato ebraico nell'ultima settimana è stato di 3,5 per milione di abitanti, mentre quello degli Usa è stato di 2,2. Israele ha registrato finora 1.507 decessi per coronavirus e 233.554 contagi, con poco più di 65mila pazienti attivi al momento, di cui 755 in gravi condizioni.
   Ieri il premier Benjamin Netanyahu, confermando le anticipazioni del ministro della Salute Yuli-Yoel Edelstein, ha detto che il lockdown imposto il 18 settembre in vista delle festività ebraiche, e che avrebbe dovuto essere revocato l'11 ottobre, in realtà durerà molto di più. Anche più di un mese, ha spiegato Bibi, facendo appello a «tutti i cittadini» affinché «obbediscano alle regole, senza eccezione.
   I provvedimenti restano quelli che erano già stati previsti a marzo: scuole chiuse, chiuse tutte le attività non essenziali, chiuse anche le sinagoghe e gli altri luoghi di preghiera. Divieto di allontanarsi da casa e divieto di assembramento. Misure severe anche contro le manifestazioni: si potrà protestare solo nel raggio di un chilometro dalla propria abitazione. Aspetto, questo, che sta sollevando molte polemiche all'interno della società civile israeliana in tanti ci vedono il tentativo di Netanyahu di zittire le proteste democratiche in corso da mesi e che, da mesi, chiedono le sue dimissioni. Tra le voci critiche, anche quelle di alcuni ministri dello stesso governo, a cominciare dal titolare della Difesa e futuro premier del governo a rotazione Benny Gantz (del partito centrista Blu Bianco). E stato lui, ieri, ad opporsi al tentativo del Likud (il partito del premier) di estendere i limiti alle manifestazioni anche dopo la fine del lockdown. Sempre lui, parlando a una commemorazione dei caduti nella guerra del Kippur (1973), ha espresso riserve sulla gestione della crisi. «In questi giorni - ha osservato - siamo in guerra in un campo di battaglia totalmente diverso. Ma dobbiamo onestamente ammettere che anche questa volta siamo stati colti di sorpresa. Abbiamo fatto soffrire il nostro eccellente sistema sanitario per anni. Non abbiamo risposto in maniera appropriata. E anche questa volta pagheremo un prezzo: un pesante costo di vite». R.E.
   
(Avvenire, 30 settembre 2020)


Il kippur ai tempi del lockdown

Come la solenne festività è stata vissuta dalla comunità ebraica di origine italiana a Gerusalemme.

di Beniamino Lazar*

Sinagoga italiana di Conegliano Veneto a Gerusalemme
 
Sinagoga italiana di Conegliano Veneto a Gerusalemme
Sono trascorse pochissime ore dal termine della solenne giornata del digiuno del Kippur, che gli ebrei di tutto il mondo hanno festeggiato e ricordato ieri e l'altro ieri sera, con le preghiere e con il digiuno assoluto per oltre 25 ore. Anche la collettività ebraica di origine italiana a Gerusalemme ha festeggiato e ricordato in forma solenne la giornata, ma questa volta dovendo tenere presente le limitazioni causate dal Covid 19 e dall'entrata in vigore del secondo lock down; e tra queste il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione, oltre i mille metri, e il divieto quasi assoluto di usare l'interno delle sinagoghe, ed evitare qualsiasi forma di assembramento.
  Mentre negli anni passati, dal lontano 1952, la sinagoga italiana di Conegliano Veneto, ubicata al centro di Gerusalemme, nella centrale arteria Hillel street, è stata il centro spirituale della comunità di origine italiana a Gerusalemme in particolare e in Israele in generale, quest'anno, a causa delle limitazioni di spostamento e di assembramento, si sono dovute trovare all'ultimo momento delle soluzioni alternative, per rispondere e far fronte alle necessità della grande comunità gerosolomitana.
  Mentre per chi abita al centro di Gerusalemme si sono tenute regolarmente nel piazzale antistante la sinagoga di Conegliano Veneto, con un discreto numero di partecipanti, tutti chiaramente con mascherina e seduti a debita distanza [grazie ai hazanim Emanuele Della Torre, Eran Jarach, Astorre Modena, Marco Moscati e Gavriel Orvieto], una nuova sinagoga, già di per se esistente, si è creata all'aperto nella Via Chopin, non lontana dal Teatro di Gerusalemme e dalla via Palmach, nel quartiere di Katamon Hayeshana'.
  Questa sinagoga all'aperto ha visto la partecipazione di oltre 80 persone, nonostante la temperatura, durante la giornata di ieri, di oltre 34 gradi. Questo gruppo ha avuto l'onore e la sorpresa di avere come ospite il Presidente della Repubblica Reuven Rubi Rivlin, la cui Residenza ufficiale confina con lo spazio all'aperto ove ha pregato il gruppo del cosiddetto "Tempio italiano di Chopin".
  Il Presidente Rublin in forma riservata ha seguito tutte le preghiere, da quelle iniziale del Kol Nidre' e sino alla preghiera finale di Neila', con il suono dello shofar. Per il Presidente Rivlin è stata la prima volta in cui ha seguito delle preghiere in base al cosiddetto rito "dei figli di Roma" - "Minhag bnei romi"; al termine delle preghiere, ieri sera, il responsabile della congregazione Samuele Giannetti ha donato al Presidente Rivlin copia del libro di preghiere della giornata del Kippur in base al rito romano.
  Validi cantori, hazanim, Angelo Piattelli, Daniel Di Veroli, Marco Ottolenghi, Jonathan Sierra, Davide Nizza e Samuele Giannetti. Un'altra sinagoga, quella che si chiama Schola Tempio, sotto la direzione di Jonathan Pacifici e Raffi Steindler, ha anche raccolto un certo numero di persone, nel terrazzo di una casa privata, nella via Harav Berlin, nel quartiere di Kiriat Shmuel, sempre osservando le regole del Covid, e permettendo a tutti i presenti di pregare e festeggiare l'importante ricorrenza seguendo le melodie tipiche della comunità ebraica di Roma.
  Un quarto minian, una quarta sinagoga all'aperto, si è organizzata nel quartiere di S. Simon, organizzata dal sig. Micha Ben Zimra e dal dr. Chanoch Cassuto, per raccogliere gli interessati e poter pregare in base al rito spagnolo della comunità ebraica di Firenze.
  In poche parole, quattro gruppi diversi, in ubicazioni separate, per permettere a tutti i componenti della non piccola e variegata collettività italiana di Gerusalemme di partecipare e di pregare in base alle melodie e tradizioni delle antiche comunità ebraiche italiane, trapiantate oramai da anni in terra di Israele.

* Presidente Comites Gerusalemme

(aise, 30 settembre 2020)


Israele - Il nuovo anno ebraico nel segno del lockdown. Ma la scienza fa sperare

Dinanzi alle minacce nel Paese non c'è unità

di Meir Onziel*

Come vivono gli israeliani l'inizio di questo nuovo anno ebraico, il 5781, tra nuove alleanze, una nuova ondata di coronavirus e la crescente tensione politica interna? Da migliaia di anni, gli ebrei celebrano il loro capodanno con l'inizio dell'autunno. Dopo dieci giorni, cade la celebrazione più solenne del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Il giorno del digiuno di espiazione e preghiera in cui Israele è tradizionalmente paralizzato in una sorta di lockdown volontario: tutti i negozi chiusi, niente mezzi di trasporto, la gente che passeggia indisturbata nelle autostrade vuote. La maggioranza della popolazione digiuna e le sinagoghe sono affollate. Non è stato così quest'anno. L'aumento dei contagi ha costretto Israele a un lockdown obbligato, il secondo dallo scoppio della pandemia, e alla limitazione dei raduni al chiuso. Quest'anno i fedeli hanno pregato quindi davanti al tempio, in gruppi distanziati, digiunando per 25 ore, cercando il conforto dell'ombra nel caldo torrido di quest'estate che non finisce.
   Ma non c'è ombra che possa riparare dalle alte temperature del dibattito tra gli oppositori del primo ministro Netanyahu e i suoi elettori. Dopo che tre campagne elettorali in un anno non sono riuscite a fargli abbandonare l'ufficio del primo ministro, è giunta la stagione delle manifestazioni il cui slogan è "salviamo la democrazia israeliana". Quando Netanyahu è volato alla Casa Bianca per firmare lo storico accordo di pace con gli Emirati e il Bahrein, i manifestanti hanno cercato di sbarrargli la strada per l'aeroporto. Quando è tornato con questo grande risultato, l'hanno atteso con cartelli "Perché sei tornato? Vattene!". La polarizzazione è evidente anche in tribunale, dove Netanyahu è sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere, ma molti israeliani credono si stia facendo un uso politico della giustizia.
   Dando uno sguardo al consueto rapporto dell'Istituto nazionale di statistica in vista del nuovo anno, la foto del Paese sembra meno grigia di quanto non risulti dalla piazza. Gli ultimi dati indicano che la popolazione israeliana conta 9.246.000 abitanti, in crescita dell'1,6% rispetto all'anno precedente. Conflitti e tensioni sociali non mancano: quasi ogni giovane serve nell'esercito, e il costo della vita è molto alto. Eppure, anche nell'anno sciagurato della pandemia, le statistiche mostrano che l'88,8% degli israeliani continua a provare un elevato livello di soddisfazione per la propria vita (più della media Ocse, 77,4%). L'aspettativa di vita è tra le più alte al mondo: 82 anni per gli uomini, 85 per le donne. Ottimo anche lo stato dell'economia, con un rating invidiabile del debito pubblico. Certo, alla fine dell'anno della pandemia, il Pil calerà del 6% secondo l'Ocse, facendo comunque meglio dell'Eurozona che dovrebbe perdere quasi 8 punti.
   Israele continua a subire l'ostilità del mondo musulmano. L'Iran ne invoca la distruzione, così come alcune fazioni palestinesi guidate da Hamas. Dinanzi a queste minacce, il Paese non mostra unità. Sebbene dopo le ultime elezioni, Kahol Lavan — il partito che ha condotto un anno di campagne elettorali all'insegna del "Tutto tranne Bibi" — abbia formato una coalizione di governo con Netanyahu, a livello di opinione pubblica l'ostilità al premier è così radicata che persino gli accordi di pace appena stipulati non sono stati accolti con grande entusiasmo. Non si contano le partnership di cooperazione economica e scientifica già avviate con i Paesi del Golfo, e chi può rimanere indifferente al video di quella ragazzina di Abu Dhabi che intona l'inno israeliano Hatikva? Gli israeliani sono abituati all'odio nei loro confronti, non a simili espressioni d'amore. Eppure, oltre alla comprensibile avversione di alcuni elettori dei partiti arabi (12,5% dei seggi della Knesset), anche nel campo della pace c'è chi non riesce a rallegrarsi perché la svolta è arrivata grazie a Netanyahu, che potrebbe trarne vantaggio politico.
   Il nuovo anno ebraico si apre mentre i laboratori di tutto il mondo lavorano al vaccino per il Covid. In Israele l'Istituto biologico di Ness Ziona ha iniziato la sperimentazione sugli esseri umani. Sarà forse la scienza a fornire la speranza di una nuova unità per il Paese? —

*Editorialista del quotidiano israeliano "Maariv"

(la Repubblica, 30 settembre 2020 - trad. Sharon Nizza)


Netanyahu punta il dito contro i "veri nemici del Medio Oriente"

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha affermato che Hezbollah possiede un deposito di armi nei pressi dell'aeroporto di Beirut, in un momento in cui Israele e altri Paesi sono impegnati ad affrontare "i veri nemici del Medio Oriente", ovvero l'Iran e i suoi alleati.
  Le parole del premier israeliano sono giunte nella sera del 29 settembre, in un discorso pronunciato virtualmente dinanzi all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In particolare, Netanyahu ha rivelato l'esistenza di un magazzino appartenente al cosiddetto "Partito di Dio" nei pressi dell'aeroporto della capitale libanese, già testimone di una violenta esplosione il 4 agosto scorso. Quest'ultima, come precisato dal premier stesso, ha provocato la morte di circa 200 persone, mentre altre 1000 sono rimaste ferite e circa "un quarto di milione di libanesi sono rimasti senza casa". Tuttavia, a detta di Netanyahu, vi è il rischio di una nuova esplosione nel quartiere di Janah, nei pressi dell'aeroporto internazionale di Beirut, dove il partito sciita sostenuto dall'Iran possiede, "segretamente", un grande deposito di armi. Stando a quanto precisato, il magazzino è situato nei pressi della sede di una compagnia petrolifera, ed è circondato da abitazioni civili.
  Di fronte a tale ipotesi, Netanyahu ha esortato gli abitanti di Janah ad agire e a scendere per le strade, in segno di protesta contro quella che potrebbe rivelarsi un'altra tragedia. Rivolgendosi all'intera popolazione libanese, il primo ministro ha poi dichiarato che Israele non farà loro del male, diversamente dall'Iran. In particolare, sono stati Teheran ed Hezbollah ad aver messo in pericolo il popolo libanese, utilizzando i cittadini come "scudi umani" e, per tale ragione, è lo stesso popolo a dover richiedere l'abbattimento dei pericolosi magazzini, la cui presenza è inaccettabile.
  Il segretario del partito sciita, Hassan Nasrallah, ha risposto quasi nell'immediato alle dichiarazioni di Netanyahu, affermando che quest'ultimo cerca di incitare i libanesi contro Hezbollah, parlando della presenza di siti missilistici. In realtà, ha riferito Nasrallah, il suo partito non ha posto missili nel porto di Beirut o nei pressi di una stazione di servizio, né tantomeno nelle vicinanze di abitazioni civili. Le dichiarazioni di Netanyahu, a detta del leader di Hezbollah, sono da collocarsi nel quadro di una "guerra psicologica".
  Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Netanyahu ha poi puntato il dito contro un altro avversario regionale, l'Iran. "Israele e i Paesi arabi non stanno insieme solo per il bene della pace, siamo insieme di fronte al più grande nemico della pace in Medio Oriente, l'Iran". Quest'ultimo, a detta del premier israeliano, attacca ripetutamente i suoi vicini ed è impegnato per procura in azioni violente in Iraq, Siria, Yemen, Gaza e Libano.
  Netanyahu ha poi espresso soddisfazione per il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano e per la successiva re-imposizione di sanzioni. In tale quadro, Netanyahu ha affermato che, in un momento in cui vi sono divergenze all'interno del Consiglio di Sicurezza, vi è unità a livello regionale tra arabi e israeliani, e quando ciò accade "bisogna prestare attenzione". "Israele invita tutti i membri del Consiglio di sicurezza a porsi a fianco degli Stati Uniti di fronte all'aggressione iraniana. Dobbiamo tutti schierarci con loro, chiedendo all'Iran di porre fine al suo piano nucleare, e, una volta per tutte, affrontare la minaccia maggiore alla pace regionale".
  Il primo ministro ha altresì fatto riferimento ai recenti accordi di normalizzazione con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti (UAE), siglati ufficialmente il 15 settembre alla Casa Bianca. Tale intesa, a detta di Netanyahu, porterà pace e benefici ai popoli interessati, derivanti da un numero maggiore di scambi e investimenti, oltre che da un potenziamento di alcuni settori, quali commercio, turismo e trasporti. "Sono certo che altri Paesi arabi e musulmani si uniranno presto, molto presto" ha poi affermato Netanyahu.

(Sicurezza Internazionale, 30 settembre 2020)


Gli arabi: "I palestinesi ripetono gli stessi errori"

di Khaled Abu Toameh

Diverse fazioni palestinesi hanno esortato la leadership palestinese a ritirarsi dalla Lega Araba per protestare contro il rifiuto dei Paesi arabi di condannare la normalizzazione delle relazioni con Israele. All'inizio di questo mese, i ministri degli Affari Esteri della Lega Araba si sono rifiutati di approvare un progetto di risoluzione palestinese che condanna gli EAU per la loro decisione di fare pace con Israele.
     I palestinesi hanno richiamato i loro ambasciatori negli Emirati Arabi Uniti e in Bahrein per protestare contro la firma degli accordi di pace tra i due Paesi del Golfo Persico e Israele. I palestinesi minacciano ora di ritirare i loro inviati da qualsiasi Paese arabo che faccia altrettanto e stabilisca relazioni con Israele.
     Inoltre, diverse fazioni palestinesi hanno esortato la leadership palestinese a ritirarsi dalla Lega Araba per protestare contro il rifiuto dei Paesi arabi di condannare la normalizzazione delle relazioni con Israele. All'inizio di questo mese, i ministri degli Affari Esteri della Lega Araba si sono rifiutati di approvare un progetto di risoluzione palestinese che condanna gli EAU per la loro decisione di fare pace con Israele.
     "Le risoluzioni della Lega Araba sono vincolate all'amministrazione americana sionista", hanno asserito le fazioni in un comunicato. "La normalizzazione delle relazioni [con Israele] è un grosso tradimento della questione palestinese e una pugnalata ai sacrifici e al dolore dei palestinesi e degli arabi".
     Le minacce di ritirarsi dalla Lega Araba e di richiamare gli ambasciatori palestinesi dai Paesi arabi che stabiliscono relazioni con Israele hanno suscitato scherno e scatenato una raffica di commenti nel mondo arabo, in particolare negli Stati del Golfo. Il tema principale delle critiche è che i palestinesi non imparano dai loro errori.
     Le critiche arabe, dirette principalmente contro i leader dei palestinesi, sono l'ennesimo segnale del crescente antagonismo tra i palestinesi e il mondo arabo. Di questo passo, i palestinesi potrebbero svegliarsi una mattina e scoprire di non avere più amici nei Paesi arabi.
     Molti arabi hanno espresso indignazione per le minacce palestinesi, così come per gli attacchi quotidiani agli Emirati Arabi Uniti e al Bahrein. Tali attacchi includono le accuse secondo cui i due Stati del Golfo Persico hanno "tradito la Moschea di al-Aqsa, Gerusalemme e la questione palestinese" accettando di stabilire relazioni con Israele. Gli arabi rammentano altresì ai palestinesi le numerose opportunità che hanno perso quando hanno respinto un certo numero di iniziative e di piani di pace.
     Il giornalista palestinese Khairallah Khairallah si è indignato del fatto che la cerimonia della firma degli accordi tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein alla Casa Bianca sia stata etichettata come un "giorno nero".
     Khairallah ha rilevato che i palestinesi fanno riferimento alla loro espulsione dalla Giordania avvenuta all'inizio degli anni Settanta, definendola "Settembre nero". All'epoca, egli ha dichiarato, una fazione separatista palestinese con quel nome cercò di creare in Giordania uno Stato dentro lo Stato e di uccidere Re Hussein di Giordania. Il sovrano, dopo la sua sconfitta nel 1967 nella guerra dei Sei Giorni, aveva consentito all'OLP di istituire basi militari nel suo regno, presumibilmente per attaccare Israele. Ma quando i palestinesi cercarono di rovesciare il governo giordano Re Hussein li espulse dal territorio giordano e loro si rifugiarono in Libano. Lì parteciparono alla guerra civile iniziata nel 1975 e continuarono a lanciare attacchi terroristici contro Israele. Nel 1982, dopo che Israele guidò un'invasione in Libano, i palestinesi vennero nuovamente espulsi, stavolta in Tunisia.
     "Cinquant'anni dopo 'Settembre nero' o come lo si voglia chiamare, non è cambiato nulla", ha scritto Khairallah .
    "I leader palestinesi si rifiutano di imparare dalle esperienze passate. Le organizzazioni armate palestinesi hanno reiterato l'esperienza della Giordania in Libano. Hanno svolto un ruolo nella distruzione del Libano [durante la guerra civile]. La questione palestinese ne avrebbe beneficiato se le organizzazioni palestinesi fossero riuscite nel 1970 a rovesciare Re Hussein?"
Khairallah ha osservato che l'ex leader dell'OLP Yasser Arafat commise un "grosso errore" nel 1990 quando prese una posizione a sostegno dell'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, Paese che aveva ospitato pacificamente quasi mezzo milione di lavoratori palestinesi. Dopo che il Kuwait venne liberato dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti nel 1991, centinaia di migliaia di palestinesi, considerati traditori, furono deportati dal Kuwait e da altri Stati del Golfo.
     "Yasser Arafat non ha imparato dalle esperienze di Giordania e Libano", ha aggiunto Khairallah.
    "Ci si aspettava che Abu Mazen [Mahmoud Abbas] avrebbe imparato dagli errori di Yasser Arafat e da quelli delle esperienze di Giordania e Libano, ma lui ha preso il peggio da Arafat. Mezzo secolo dopo ciò che i palestinesi definiscono 'Settembre nero' non è cambiato nulla. I palestinesi hanno ancora la capacità di commettere gli stessi errori." (Al-Arab, 20 settembre 2020)

     L'analista politico saudita Sami al-Morshid ha precisato che la leadership palestinese in passato ha rigettato un certo numero di iniziative e di piani di pace. Ogni volta che i palestinesi fanno questo, ha affermato al-Morshid, "perdono".
    "Purtroppo, i leader palestinesi ripetono gli stessi errori. Hanno respinto le iniziative di pace egiziane e giordane [con Israele] e hanno rigettato l'iniziativa di pace del presidente americano Bill Clinton [al vertice di Camp David del 2000]. In questi giorni, respingono l'iniziativa di pace del presidente Donald Trump e infine hanno rigettato le iniziative di pace degli EAU e del Bahrein".
Lo scrittore iracheno Farouk Youssef ha affermato che il problema dei palestinesi è che i loro leader non vogliono uno Stato palestinese. "I palestinesi non sono riusciti a creare il loro Stato", ha osservato Youssef.
    "I palestinesi non sono riusciti a stabilire il loro Stato. Hanno fallito perché non volevano crearlo. Qui mi riferisco ai leader politici, alcuni dei quali insistono ancora nel ripetere frasi rivoluzionarie. La creazione di uno Stato palestinese sarà un peso per i leader palestinesi e impedirà loro di praticare la corruzione. (...) L'Autorità Palestinese non è più adatta a rappresentare il popolo palestinese." (Al-Arabiya, 19 settembre 2020)
Il giornalista egiziano Imad Adeeb ha scritto che se lui fosse stato al posto della leadership palestinese avrebbe preso le distanze dal Qatar, dalla Turchia e dall'Iran. Adeeb ha inoltre consigliato ai leader palestinesi di evitare insulti e calunnie nei confronti degli arabi:
    "Se fossi stato uno dei leader palestinesi, avrei abbandonato l'intransigenza politica e l'uso di insulti, di calunnie e di un linguaggio finalizzato all'istigazione. (...) Se fossi stato al posto della leadership palestinese, avrei approfittato dell'iniziativa di pace degli EAU. Se fossi stato al posto della leadership palestinese, non avrei giocato al gioco del Qatar, della Turchia e dell'Iran contro i Paesi arabi moderati." (Al-Watan, 8 settembre 2020)
Lo scrittore saudita Yusef al-Qabalan ha altresì accusato i leader palestinesi di aver respinto ripetutamente negli ultimi decenni le iniziative di pace. Rilevando che i palestinesi non sono riusciti a trarre vantaggio dall'Iniziativa di pace araba, adottata nel 2002 dai leader arabi, al-Qabalan ha scritto:
    "La scelta realistica da parte dei leader palestinesi è stata quella di attivare a livello internazionale quell'iniziativa araba. Cosa è successo? I leader palestinesi hanno accolto le iniziative di pace con la retorica del tradimento e con slogan che non approdano a nulla. I leader palestinesi si sono rivolti ai trafficanti della loro questione, come l'Iran, la Turchia e il Qatar, e hanno perso la loro carta migliore, che è quella dell'unità nazionale. I leader palestinesi non sono riusciti a investire nelle opportunità. Non sono riusciti a prendere decisioni strategiche e hanno [piuttosto] preferito stringere un'alleanza con l'Iran." (Al-Riyadh, 18 settembre 2020)
Il clerico islamico degli EAU, Wassem Yousef, rivolgendosi ai palestinesi e ad altri arabi che non accettano la pace con Israele, ha scritto su Twitter:
    "Israele non ha distrutto la Siria; Israele non ha bruciato la Libia; Israele non ha rimpiazzato la popolazione egiziana; Israele non ha distrutto la Libia e Israele non ha fatto a pezzi il Libano. Prima di incolpare Israele, voi arabi guardatevi allo specchio. Il problema è dentro di voi."
Intanto, i leader palestinesi ignorano i messaggi e i consigli dei loro fratelli arabi. Ai leader palestinesi in Cisgiordania e a Hamas nella Striscia di Gaza non piace che si ricordino i loro errori. Inoltre, non sono disposti ad accettare alcun consiglio, anche quando tali moniti provengono dai Paesi arabi che hanno versato loro miliardi di dollari. Ovviamente, i principali perdenti sono ancora una volta i palestinesi, i quali stanno rapidamente perdendo il sostegno di un crescente numero di arabi.

Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 30 settembre 2020 - trad. di Angelita La Spada)


Libia ebraica

Salomon Belforte, 500 pp., 30 euro, a cura di Jacques Roumani David Meghnagi e Judith Roumani

di Alessandro Litta Modignani

Libia ebraica è un libro collettaneo, la raccolta di varie testimonianze e immagini fotografiche di un mondo millenario, oggi cancellato per sempre. Sulla base dei riscontri archeologici, le prime presenze ebraiche si registrano in Libia intorno al 300 a. C. Ne consegue che, al momento dell'invasione araba del Mahgreb, gli ebrei vivevano in quelle terre già mille anni prima dei conquistatori musulmani. Avevano vissuto, da minoranza religiosa, sotto il dominio di varie civiltà, con alterne vicende, sempre coniugando le tradizioni ebraiche con quelle specificamente locali. Nel XVI secolo fu la volta dei turchi ottomani, sotto i quali gli ebrei vissero nella condizione di "dhimmi" (protetti, cioè sottomessi, tassati e umiliati): un trattamento che durò fino al 1911, con l'occupazione italiana.
   "L'impatto del mondo arabo con il colonialismo europeo fu per gli ebrei della regione una possibilità di emancipazione da una condizione secolare di oppressione, insicurezza e umiliazione", scrive David Meghnagi. Le vicende più recenti, quelle del Novecento, sono narrate con sofferenza e passione. Nel 1943, dopo uno dei tanti rovesciamenti di fronte, circa 2.600 ebrei furono deportati nel campo di concentramento di Giado, duecento chilometri a sud di Tripoli. Moriranno in 562 di malnutrizione, maltrattamenti, tifo. Molti altri saranno deportati in un viaggio della morte, dolorosamente narrato da Yossi Sucary nel libro Benghazi-Bergen Belsen.
   La guerra finisce, ma non per gli ebrei: nel novembre del '45 un pogrom scatenato dagli arabi provoca 130 morti e centinaia di feriti e mutilati. La convivenza fra ebrei e musulmani, che durava da 13 secoli, passa da difficile a impossibile nell'arco di pochi anni. Alcuni arabi tuttavia si distinguono nell'aiutare le famiglie ebraiche amiche a nascondersi e a mettersi in salvo. Le testimonianze sono atroci: "Poi di notte sentimmo delle urla, da ogni casa. Urla, urla, urla, tutti urlavano. C'era una bambina piccola (piange), le strapparono gli occhi di fronte a sua madre. Le avvolsero in un tappeto di paglia, lei e sua madre, versarono della benzina e le bruciarono. Li ho visti tutti. Non posso dimenticare". Tre anni dopo, nel '48, segue un secondo pogrom, alla nascita di Israele. Stavolta però gli ebrei non si fanno trovare impreparati, anche grazie all'addestramento ricevuto dai soldati della Brigata ebraica. Restano uccisi 19 ebrei e 92 arabi: gli ebrei libici hanno imparato a difendersi.
   La comunità che contava ai tempi del censimento ottomano fino a 38 mila persone, è costretta ad andarsene. Più del 90 per cento degli ebrei libici emigra fra il '45 e il '51. Ormai non ne restano più che 5 mila, ma sono sorvegliati speciali e vivono nella paura. Nel '67, allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni, re Idris dichiara di non essere più in grado di garantire la loro incolumità. Se ne vanno alla spicciolata anche gli ultimi, di notte, di nascosto, a mani vuote. Si dividono fra Israele e l'Italia, in particolare a Livorno. Meghnagi racconta questo doloroso epilogo con parole intense e sofferte.
   
(Il Foglio, 30 settembre 2020)


Coronavirus: in Israele più di 1.500 morti, il lockdown andrà avanti

di Giacomo Kahn

In Israele sono ormai più di 1.500 i morti a causa della pandemia di coronavirus dall'inizio dell'emergenza sanitaria. Secondo i dati del ministero della Sanità, ha scritto il Times of Israel, più di 500 decessi si sono registrati in appena tre settimane. L'ultimo bollettino parla di 1.507 morti per complicanze legate al coronavirus. I contagi sono oltre 233.000 e sono 772 i pazienti ricoverati in condizioni descritte come gravi. Così il lockdown 'rafforzato' durerà probabilmente più a lungo della 'scadenza' prevista dell'11 ottobre. "Non esistono ipotesi per cui in dieci giorni revocheremo tutto e diremo 'è tutto finito, va tutto bene'", ha affermato il ministro della Sanità, Yuli Edelstein, in dichiarazioni a Kan News. "Abbiamo appreso le lezioni dalla prima ondata - ha detto il ministro - e questa volta l'uscita dal lockdown sara' fatta gradualmente e responsabilmente", ha assicurato.
   Intanto, il comitato consultivo dell'Agenzia per la Sicurezza Nazionale ha presentato al governo le sue raccomandazioni stringenti: riapertura di asili ed elementari solo quando i casi giornalieri di Covid non saranno tornati a quota 2 mila, negozi e mercati quando saranno a quota mille, mentre ristoranti e luoghi di divertimento solo 100. Secondo i media, il premier Benjamin Netanyahu ritiene che il lockdown debba essere esteso per circa un mese in modo da contenere la diffusione del coronavirus. Anche il direttore generale del ministero della salute, Chezy Levy, e il suo vice Itamar Grotto, si sono detti convinti che difficilmente l'epidemia sara' sotto controllo per l'11 ottobre e che quindi il lockdown dovra' essere prolungato.

(Shalom, 29 settembre 2020)


Gerusalemme: proteste davanti al Parlamento contro misure anti-manifestazioni

Manifestanti chiedono dimissioni le Netanyahu: "Ci mette la museruola"

Centinaia di manifestanti e automobilisti israeliani hanno protestato a Gerusalemme, davanti al Knesset (il parlamento israeliano) contro una misura proposta dal governo per ridurre le manifestazioni pubbliche durante il lockdown, rinnovato a livello nazionale nella speranza di fermare la diffusione dei contagi, che in Israele ha raggiunto più di 233.000 casi dall'inizio della pandemia e più di 1.500 morti, superando gli Usa per numero di decessi pro capite. Diversi i cartelli con la scritta "difendi la democrazia" esposti dai manifestanti. Si chiedono anche le dimissioni di Netanyahu che, secondo gli attivisti, sta usando la crisi provocata dal Covid come pretesto per mettere la museruola ad ogni forma di dissenso.

(LaPresse, 29 settembre 2020)


Scenari di scontro tra Turchia e Grecia?

di Daniel Pipes

 
Gli abitanti di Kastellorizo possono essere pochi, ma sono dei greci patriottici
 
La presidente greca Katerina Sakellaropoulou ha visitato Kastellorizo
il 13 settembre per celebrare il giorno della liberazione dell'isola
 
Il cinese Xi e il turco Erdogan: migliori amici per sempre?
Un oscuro punto caldo nel Mediterraneo potrebbe presto sfociare in una crisi: stiamo parlando della minuscola e lontana isola di Kastellorizo (o Megisti; Meis in turco). Come molte altre isole greche, si trova molto più vicino alla Turchia rispetto alla terraferma greca (1 miglio contro 357 miglia). A differenza di altre isolette greche, la sua ubicazione tra Rodi e Cipro le conferisce un'enorme importanza militare ed economica.
  Se Kastellorizo, con meno di 500 abitanti, godesse dei pieni diritti conferitile dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, la Grecia potrebbe rivendicare una zona economica esclusiva (ZEE) di 200 miglia nautiche che lascerebbe alla Turchia una ZEE esigua lungo le sue coste; togliendo alla Grecia Kastellorizo, le dimensioni della ZEE turca sarebbero più che raddoppiate. La scoperta di grandi giacimenti di gas e petroli nel Mare Mediterraneo fa sì che la potenziale importanza di ciò sia particolarmente significativa.
  La Repubblica di Turchia, sotto il presidente Recep Tayyip Erdogan, rifiuta categoricamente che Kastellorizo goda di tali privilegi. Di recente, Erdogan ha condannato "i piani di chi cerca di confinare alle sue coste un Paese di 780 mila chilometri quadrati utilizzando un'isola di 10 chilometri quadrati". Ha poi proseguito col dire, riferendosi al Trattato di Losanna del 1923 e ad altri accordi che delimitavano i confini turchi: "La Turchia ha il potere politico, economico e militare [sufficiente per] strappare mappe e documenti immorali imposti". Poi, alludendo a vittorie militari di molto tempo fa sui greci, ha aggiunto: "Un secolo fa, li abbiamo sepolti nella terra o li abbiamo gettati in mare. Spero che non paghino lo stesso prezzo ora".
  Per tutta risposta, la presidente della Repubblica greca Katerina Sakellaropoulou, il 13 settembre, si è recata in visita a Kastellorizo, replicando con una serie di osservazioni talmente sconcertanti che potrebbero addirittura invitare all'aggressione: "Stiamo attraversando un momento difficile e pericoloso. La leadership turca sta intensificando le pressioni sul nostro Paese inducendo a dichiarazioni aggressive", che minano "le relazioni di buon vicinato e la pacifica convivenza", che sono state costruite in tanti decenni da greci e turchi, i quali considerano il mare che li separa non come un confine impenetrabile, ma come un canale di comunicazione". Il fatto che il ministro della Difesa turco un giorno prima si fosse recato in visita nella città turca più vicina a Kastellorizo ha inviato un messaggio inquietante.
  Negli ultimi mesi, Erdogan è stato più aggressivo che mai nel Mediterraneo: inviando navi per le attività esplorative nelle acque greche e cipriote, con una notevole scorta navale, alla ricerca di idrocarburi e firmando un accordo con una fazione libica in cui i due Paesi condividono un confine marittimo (la Grecia e l'Egitto hanno quindi risposto allo stesso modo.)
  Potrebbe essere imminente una crisi. Con l'economia turca che va male, guidata da una valuta debole, uno scontro su Kastellorizo servirebbe idealmente a suscitare emozioni nazionaliste con un occhio alle elezioni presidenziali del 2023. L'analista Jack Dulgarian ha proposto uno scenario plausibile: le truppe turche invadono Kastellorizo o prendono l'isola in ostaggio e (bissando Cipro nel 1974) e sfidano il mondo a fare qualcosa al riguardo.
  Da sole, le forze armate elleniche non possono riconquistare l'isola. Né Israele né l'Egitto entreranno in guerra con la Turchia per Kastellorizo. L'art. 5 della NATO, che promette protezione in caso di aggressione, si rivelerà di certo inefficace quando entrambi le parti sono membri di quell'organizzazione. Sotto la guida della Germania, la maggior parte dell'Europa (con Macron che rappresenta l'onorevole eccezione) freme alla prospettiva che la Turchia usi l'arma dei migranti illegali e preferisce rabbonire Ankara. Il presidente russo Vladimir Putin corteggia Erdogan con l'obiettivo di farlo uscire dalla NATO e non si schiererà contro di lui. Il presidente cinese Xi Jinping accoglie con favore la debolezza economica della Turchia, come un'opportunità per trasformarla - come l'Iran - in una colonia economica.
  Se Kastellorizo (come un terzo di Cipro) dovesse finire sotto il controllo turco, a costo minimo per Ankara, le conseguenze sarebbero di vasta portata. Godendo dell'adulazione all'interno del Paese, Erdogan probabilmente intensificherà le attività di esplorazione aggressiva di petrolio e gas e potrebbe rivolgere l'attenzione alle isole dell'Egeo appartenenti alla Grecia come suo prossimo obiettivo. E non solo: da islamista e jihadista qual è, Erdogan potrebbe plausibilmente tentare di conquistare tutta Cipro e perfino tutta la Grecia. Ha già invaso Iraq, Siria e Libia; Kastellorizo sarebbe il passo successivo verso un furore che potrebbe estendersi a tutte le parti dell'Impero ottomano, che era all'apice del suo splendore, cinque secoli fa.
  Chi lo fermerà? Tutti i leader chiave - quelli di Stati Uniti, Germania, Russia e Cina - sorridono a Erdogan, rendendo difficile immaginare come verrà scoraggiato questo nemico a lungo sottovalutato e del tutto determinato.

(Gatestone Institute, 27 settembre 2020 - trad. di Angelita La Spada)


Dubai, è l'Al-Nasr il primo club arabo che acquista un giocatore israeliano!

Un club arabo ha acquistato per la prima volta un calciatore israeliano, Diaa Sabia, meno di due settimane dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno normalizzato i legami con lo Stato ebraico

Diaa Muhammad Sabia, 28enne centrocampista israeliano ex Guangzhou Fuli Zuqiu Julebu, ha firmato un contratto di due anni con l'Al-Nasr di Dubai. Lo ha comunicato il club degli Emirati Arabi in una nota ufficiale pubblicata sul proprio sito ufficiale. Secondo quanto riferito, il trasferimento è costato più di due milioni e mezzo di euro. "Al-Nasr ha completato le procedure con Diaa Sabia per un contratto di due stagioni dopo aver superato con successo gli esami medici", si legge.
L'Al-Nasr ha poi postato su Twitter un video di Sabia, con tanto di maglia numero 9, che dribbla e tira allo stadio Al-Maktoum. L'acquisto del calciatore arriva dopo che gli Emirati Arabi Uniti, di cui Dubai è membro, hanno firmato un accordo mediato dagli Stati Uniti per normalizzare i legami con Israele il 15 settembre, il primo accordo del genere con una nazione del Golfo.
Intanto proprio in questo mese, i media d'Israele hanno riferito che un uomo d'affari emiratino senza nome ha espresso interesse a investire in un team di calcio israeliano, il Beitar Jerusalem. Il club è noto per i suoi legami con l'estrema destra nazionale e non ha mai schierato un giocatore arabo. Inoltre è stato multato più volte per i cori razzisti dei suoi fan contro gli arabi.
Sabia - che è di origine palestinese - è nato nel nord di Israele ed è salito nei ranghi di un club giovanile prima di trasferirsi al Maccabi Tel Aviv nel 2012. Ha giocato per diverse società fino a quando ha firmato nel 2014 con il Maccabi Netanya, dove è rimasto per quattro anni. Il nuovo innesto dell'Al-Nasr ha segnato 50 gol in 111 partite in varie competizioni, di cui 24 nella stagione del 2018, e conta 10 presenze nella Nazionale israeliana. L'Hapoel Be'er Sheva l'aveva venduto al Guangzhou R&F per oltre quattro milioni di euro.

(DerbyDerbyDerby, 29 settembre 2020)


Auguri di Rosh ha-Shanà in ritardo

Nella tradizione ebraica Rosh ha-Shanà è la festa con cui si apre il nuovo anno. Per questo è consuetudine, prima di tale festa, inviarsi auguri corrispondenti al nostro Buon Anno! Ma se l'anno che viene sarà buono o cattivo dipende anche da come il credente si comporterà nei dieci giorni che lo separano dalla successiva festa: Yom Kippur. In quei dieci giorni, detti "giorni terribili", secondo la tradizione il comportamento di ciascuno viene attentamente esaminato dall'Alto, appositamente verbalizzato e alla fine concluso con una Firma che sancirà il giudizio finale sull'operato dell'esaminando. Come si sa, sono gli stessi ebrei a saper fare la migliore ironia su se stessi. Ripresentiamo allora un articoletto di un autore, rimasto anonimo, che nel passato ha scritto brevi commenti sul notiziario dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Ha inviato contributi per circa due anni sotto lo pseudonimo "Il Tizio della Sera" poi per i lettori è scomparso. In uno di questi commenti comunica un suo problema: si è dimenticato di fare gli auguri di Rosh ha-Shanà. E se ne è ricordato quando era già passato Yom Kippur, quando i dieci giorni di esame si erano conclusi e la Firma sotto il giudizio era ormai stata messa. Che fare? Ecco come se l'è cavata. M.C.



Cari amici, la scorsa settimana non vi ho potuto fare gli auguri di Rosh ha-Shanà, scusate. Ma ora che ve li vorrei fare, a un tratto mi chiedo: ve li posso fare? Non sapendo se sia permesso fare in ritardo degli auguri spirituali come quelli di Rosh ha-Shanà, ho telefonato a un anziano rav che sta a New York ed è un amico di famiglia dei tempi antichi. Non ne faccio il nome per non associarlo al Tizio della Sera e farlo rotolare immediatamente nella Gehenna. A dire il vero, quando l'ho chiamato non ho pensato che lì erano le tre di notte. Eppure, lui mi ha risposto subito e con schiettezza:
  "Oioi, sei tu".
Gli ho spiegato il mio dubbio sugli auguri in ritardo e ha detto:
- "Circa la possibilità o il divieto di fare in ritardo gli auguri di Rosh ha-Shanà, bisogna vedere se vi sia stato un impedimento reale, una questione di dimenticanza, se la dimenticanza abbia coinciso con un problema di fondo, ad esempio il caso di uno che è cretino - il classico caso dello shoté. Quale caso di questi mi stai sottoponendo, figlio mio?"- mi fa.
   Non ho avuto assolutamente dubbi e ho risposto che si trattava di un gigantesco caso di shoté.
- "Ma conosci bene questa persona deficiente che non ha ancora fatto gli auguri di Rosh ha-Shanà e li vuole fare adesso che la Firma c'è stata da un pezzo?", chiede il rav.
  "La conosco bene quella persona - faccio - ah se la conosco".
- "E così - mi fa - sei sicuro di conoscere questa persona veramente bene…".
  "Vorrei vedere che proprio io non conoscessi questo qui", gli rispondo.
- "Sicuro sicuro?".
  "Non sono scemo, sono io quel cretino".
- "E così ti conosci bene, vero?".
  "In effetti, rav, ora che ci penso, non saprei se mi conosco bene".
- "E così, prima ti conosci bene e dopo non ti conosci bene...".
  "Per favore, adesso non cominciamo con la matematica".
- "E così - mi incalza - dici di non conoscerti bene, quando mi hai appena detto che la dimenticanza era di un grande cretino. Lo vedi che ti conosci benissimo?".
  "Sì?!...", chiedo raggiante.
- "Certo, sei uno shoté nato. Prima di tutto perché sei contento di essere shoté, e questa è veramente una cosa da shoté, e se non capisci è perché sei shoté. Seconda cosa, rifletti, nel caso tu ce la faccia: se tu non fossi un gigantesco shoté, non mi avresti svegliato alle tre di notte per fare una domanda così".
E ha riattaccato.
No, penso, non posso rimanere in forse: io adesso prendo e lo richiamo subito. In effetti avviene che lo richiami e lo implori di dirmi se giudica che possa fare gli auguri di Rosh ha-Shanà, quando la Buona Firma c'è stata da un pezzo.
  "Cerchi di capire, rav - dico per ben figurare - sarebbe come fare gli auguri per la milà a uno che sta festeggiando la laurea in giurisprudenza".
  Il rav sospira. "Quanto mi fai penare, tu?".
  "Non lo so", faccio io.
- E lui: "Pazienza, voglio aiutare l'asino iellatissimo che si è reincarnato in te".
- Poi fa: "Circa la questione 'auguri di Rosh ha-Shanà in ritardo', si può adeguatamente citare la risposta del rav Eliau ben Zadìk di Tallin, gran suonatore di shofar con lo stile della gallinella, sia benedetto nel seno di Abramo. Il rav Eliau di Tallin disse a tutta la yeshivà di fare così: se siete in ritardo con gli auguri di Rosh ha-Shanà, fateli lo stesso. Serviranno per l'anno dopo, quando vi scorderete di nuovo di farli. E quando l'anno dopo vi scorderete di nuovo di farli, voi, o giovani, li avrete già fatti l'anno prima e di nuovo non ci sarà alcun problema per un anno. Vi dovrete solo ricordare di fare in anticipo anche quelli per l'anno successivo. Perché, be-emet, errore corretto fa sapienza certa".
 
  Che bellezza, finalmente avevo la soluzione. "Grazie rav! E guardi, già che ci sono, le faccio gli auguri in anticipo di un bellissimo 5772, 73, 74!".
- "Bravo - mi fa - ti ringrazio anticipatamente fino al 5790 compreso, così per diciotto anni riposo tutta la notte".

Ai miei amici del notiziario quotidiano "l'Unione informa" e del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it un bellissimo 5771. E poi anche un bellissimo 5772.

Il Tizio della Sera

(moked, 16 settembre 2010)



L'Iran sull'orlo di una grande rivolta popolare

Quando arriverà quel momento, nessuno di tutti questi piani repressivi, né l'IRGC o il suo apparato di sicurezza sarà in grado di fermare il diluvio di questo esercito che cancellerà questo regime dalla faccia della terra.

L'Iran è sull'orlo di una grande rivolta popolare mentre la distanza tra il regime e il popolo continua a crescere inesorabilmente.
   A dirlo è l'importante analista politico iraniano Hasan Bayadi il quale collega l'innalzamento della tensione in Iran con la brutale repressione del regime, la spaventosa crisi economica e sociale e, soprattutto, la pessima gestione della pandemia di COVID-19 che in Iran ha provocato (ufficialmente) 106.000 morti.
   Parlando con il sito web statale Entekhab, Hasan Bayadi ha detto di aspettarsi eventi socio-politici senza precedenti prima di dicembre 2020.
   «A causa della cattiva gestione delle varie crisi da parte del Governo le persone non credono più a nessuna corrente politica, non credono più alle promesse e siamo alla vigilia di una grande esplosione di collera popolare».
   Anche tra la stampa fuori dall'influenza del regime si inizia a respirare aria di rivolta. Il 31 agosto il quotidiano Mardomsalari scriveva che «la via d'uscita da un vicolo cieco non è l'uso della violenza contro chi chiede risposte», ricordando poi l'errore commesso con le repressioni del 2017 e del 2019 (per non parlare delle proteste post-elettorali del 2009 / 2010).
   Il 29 giugno 2020 il deputato Hashem Harisi ha dichiarato: «l'attuale situazione della società iraniana non è tollerabile. Ogni giorno il divario tra il popolo e il governo aumenta. La situazione è troppo fragile. Non possiamo sederci ad aspettare che i problemi si risolvano da soli».
   È in questo quadro dove sono in molti ad accorgersi che la situazione sta precipitando che il regime degli Ayatollah sta preparando la sua risposta, che come sempre sarà violenta.
   Secondo informazioni provenienti da fonti iraniane lunedì 14 settembre, Mohammad Yazdi, comandante del corpo di "Mohammad Rasool-allah" di Teheran, ha annunciato che sarebbe stato realizzato un piano chiamato "Sicurezza di vicinato". Questo piano utilizzerà la capacità delle basi paramilitari Basij e formerà "squadre di assalto" in diverse regioni di Teheran per, come dice lui, fornire la sicurezza di tutti i quartieri della capitale.
   Yazdi ha detto che «queste squadre hanno il compito di affrontare teppisti, ladri e perturbatori della sicurezza», ma è chiaro che il regime si sta effettivamente preparando ad affrontare il pericolo di una rivolta popolare, pronta a scoppiare in qualsiasi momento. Anche perché, affrontare la microcriminalità come ladri e teppisti è sempre stato un compito della polizia e non di corpi speciali anti-sommossa.
   Fino ad ora il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC) è rimasto sostanzialmente a guardare nonostante dietro ad ogni repressione ci siano loro, i pasdaran.
   Tuttavia fonti interne all'Iran riportano della formazione di diverse "hit squads", squadre di Basij direttamente agli ordini dei Guardiani della Rivoluzione distribuite nei maggiori quartieri delle città più importanti, con il compito di reprimere sul nascere qualsiasi manifestazione.
   «Il popolo iraniano vuole che le Nazioni Unite applichino le sanzioni contro questo regime» scrive il giornalista Hassan Mahmoudi. «Se non lo faranno Khamenei continuerà con la sua sanguinosa repressione perché è l'unico modo che ha per non perdere il potere».
   «I poveri, l'esercito di persone affamate e un esercito di persone in lutto ferite da questo regime durante i 41 anni del suo governo troveranno il momento giusto» scrive ancora Mahmoudi. «Quando arriverà quel momento, nessuno di tutti questi piani repressivi, né l'IRGC o il suo apparato di sicurezza sarà in grado di fermare il diluvio di questo esercito che cancellerà questo regime dalla faccia della terra».

(Rights Reporter, 29 settembre 2020)


Coronavirus, in Israele ultraortodossi e festività spingono il Paese verso il tracollo sanitario

La diffusione del Covid-19 resta fuori controllo nei quartieri e nelle città a maggioranza ultraortodossa: la pausa di Yom Kippur serve a capire cosa sta causando l'emergenza.

di Davide Frattini

GERUSALEMME — Quattordici scuole religiose sono state trasformate in quelli che gli israeliani chiamano «hotel corona». Gli studenti della yeshiva che risultano positivi non possono lasciare le aule dove giorno e notte studiano i testi sacri, gli allievi contagiati in altri istituti vengono trasferiti qui. Le misure sono state decise — spiega il quotidiano Haaretz — da Roni Numa, il generale che coordina con la comunità ultraortodossa l'intervento dell'esercito per rallentare la diffusione dell'epidemia. Il confinamento nelle scuole ha voluto impedire che i ragazzi tornassero a casa per Yom Kippur, che finisce al tramonto, e infettassero i parenti più anziani. Alcuni di questi ospedali improvvisati alla periferia di Tel Aviv hanno causato le proteste degli abitanti dei quartieri: temono che i giovani devoti non rispettino le regole, che il richiamano a onorare il giorno dell'Espiazione sia più forte delle norme stabilite dallo Stato. Alla vigilia di Kippur il governo israeliano ha imposto misure ancora più rigide per il secondo lockdown deciso quindici giorni fa e alcuni leader religiosi hanno invitato i seguaci a rispettare la norma che limita gli assembramenti nei luoghi chiusi e quelli all'aperto a un massimo di 20 persone.
   La diffusione del Covid-19 resta fuori controllo nei quartieri e nelle città a maggioranza ultraortodossa. Venerdì scorso sono stati registrati 2.692 nuovi contagiati tra gli haredim, un terzo dei casi diagnosticati quel giorno (il doppio se si considera la proporzione dei «timorati di Dio» rispetto alla popolazione totale). Fin dall'inizio dell'epidemia i rabbini (soprattutto quelli dei gruppi chassidici) hanno incitato alla ribellione, a non rispettare le restrizioni che fermassero lo studio nelle scuole religiose o riducessero il numero di fedeli nelle sinagoghe per celebrare le festività più importanti del calendario ebraico, iniziate una settimana fa. Ventiquattro ore di digiuno e di espiazione. Di riflessione su quello che è successo nell'anno passato. Questa volta la pausa di Yom Kippur serve agli israeliani per provare a capire come sia potuto succedere, com'è possibile che da nazione verde e virtuosa — in maggio in nuovi casi di Coronavirus andavano verso lo zero — la crisi sanitaria sia diventata profondo rosso: 1.512 pazienti sono in ospedale, 749 in gravi condizioni, vicino a quella quota di 800 letti in terapia intensiva che gli esperti considerano il limite prima per tracollo sanitario. I morti hanno raggiungo i 1.450 su 9 milioni di abitanti.
   Il premier Benjamin Netanyahu ammetta di aver sbagliato a riaprire tutto e troppo in fretta lo scorso maggio, critica soprattutto i partiti avversari in parlamento che gli avrebbero impedito di approvare in fretta le leggi necessarie. L'opposizione lo accusa invece di voler usare le nuove limitazioni agli spostamenti dei cittadini per disperdere le proteste davanti alla residenza di via Balfour a Gerusalemme: migliaia di manifestanti si ritrovano da mesi e urlano al capo del governo di dimettersi, gli rinfacciano di aver mal gestito l'epidemia perché ha avuto la testa immersa nel processo per corruzione. Oggi i deputati discutono delle norme che dovrebbero fermare le manifestazioni «per ragioni sanitarie». Netanyahu avrebbe voluto far passare le regole qualche giorno fa con lo stato di emergenza, il ministro della Difesa Benny Gantz e gli altri alleati di necessità glielo hanno impedito.

(Corriere della Sera, 28 settembre 2020)


F-35, come sarà il contratto Usa-Emirati Arabi Uniti

A dicembre il contratto Usa-Emirati Arabi Uniti sugli F-35.

di Marco Orioles

Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti hanno raggiunto un'intesa di massima sulla vendita a questi ultimi degli F-35, accordandosi per una data relativamente lontana - dicembre - per dare il tempo agli americani di studiare il modo per non irritare Israele.

 Il 2 dicembre usa e uae dovrebbero firmare la lettera d'intenti
  Le fonti di Reuters al corrente dei negoziati parlano anche di una data precisa per la firma di una lettera preliminare: è il 2 dicembre, giorno della festa nazionale degli Emirati.

 Il peso di Israele
  Come qualsiasi accordo militare siglato dal governo americano, anche questo dovrà rispettare il criterio secondo cui Israele deve mantenere la superiorità militare nella sua regione, garantendo che le armi fornite allo Stato ebraico siano "superiori in capacità" rispetto a quelle vendute ad altri acquirenti.

 Le mire Usa
  Quel che ha in mente Washington secondo due fonti è di trovare il modo di rendere meno "stealth" gli F-35 venduti agli Eau, e dunque più visibili ai radar israeliani. Non è chiaro se ciò richiederà di cambiare del tutto l'F-35, o sarà sufficiente fornire radar migliori ad Israele.

 Le parole del ministro
  Il ministro della Difesa di Israele Michael Biton ha comunque dichiarato alla radio dell'esercito che se anche gli Eau si dotassero degli F-35 sarà sempre possibile "preservare il vantaggio relativo" dell'esercito israeliano.

(Startmag Web, 28 settembre 2020)


Yom Kippur 5781 - 28 settembre 2020

Lezione di Rav Alberto Sermoneta tenuta giovedì 24 settembre nella Comunità Ebraica di Bologna

 
Yom Kippur è la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell' espiazione. Nella Torah viene chiamato Yom haKippurim (Ebraico, "Giorno degli espianti"). È uno dei cosiddetti Yamim Noraim (Ebraico, letteralmente "Giorni terribili", più propriamente "Giorni di timore reverenziale").
  Gli Yamim Noraim [giorni terribili] vanno da Rosh haShana a Yom Kippur, che sono rispettivamente i primi due giorni e l'ultimo giorno dei Dieci Giorni del Pentimento.
Nel calendario ebraico Yom Kippur incomincia al crepuscolo del decimo giorno del mese ebraico di Tishrì (che cade tra Settembre e Ottobre del calendario gregoriano), e continua fino alle prime stelle della notte successiva. Può quindi durare 25-26 ore.

 Origine biblica
  Il rito dello Yom Kippur viene descritto quattro volte nel sedicesimo capitolo del Levitico (vedi Esodo 30;10, Levitico 23;27-31 e 25;9, Numeri 29:7-11). All'epoca del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme venivano offerti i sacrifici descritti nella Torah e nella Mishnah.

 Nel pensiero ebraico
  Yom Kippur è il giorno ebraico della penitenza, viene considerato come il giorno ebraico più santo e solenne dell'anno. Il tema centrale è l'espiazione dei peccati e la riconciliazione. È proibito mangiare, bere, lavarsi, truccarsi, indossare scarpe di pelle ed avere rapporti sessuali. Il digiuno - astinenza totale da cibo e bevande - inizia qualche attimo prima del tramonto (chiamata tosefet Yom Kippur - aggiunta a Yom Kippur - l'aggiunta di una piccola parte del giorno precedente al digiuno è prescritta dalla Halakha), e termina dopo il tramonto successivo, all'apparire delle prime stelle. Le persone malate consultano in anticipo un'autorità rabbinica competente per verificare se il loro stato le esenti dal digiuno.
  Il servizio ha inizio con la preghiera di Kol Nidre che deve essere recitata prima del tramonto. Kol Nidre (parola aramaica che significa "tutte le promesse") rappresenta l'annullamento di tutti i voti pronunciati nel corso dell'anno. Secondo The Jewish Encyclopedia, il testo della preghiera recita: "Tutti i voti, gli impegni, i giuramenti e gli anatemi che siano chiamati 'konam', 'konas', o con qualsiasi altro nome, che potremmo aver pronunziato o per i quali potremmo esserci impegnati siano cancellati, da questo giorno di pentimento sino al prossimo (la cui venuta è attesa con gioia), noi ci pentiremo".
  Yom Kippur completa il periodo di penitenza di dieci giorni iniziato con il capodanno di Rosh haShana. Sebbene le preghiere con le quali si chiede perdono siano consigliate durante l'intero anno, diventano particolarmente sentite in questo giorno.
  La preghiera mattutina viene preceduta da alcune litanie e richieste di perdono chiamate selihot; nel giorno di Kippur queste vengono aggiunte in abbondanza nella liturgia.
  In accordo con Mosè Maimonide "Tutto dipende da quanto un uomo meriti che vengano cancellati i demeriti che pesano su suo conto", quindi è auspicabile di moltiplicare le nostre buone azioni prima del conteggio finale fatto il Giorno del Pentimento (ib. iii. 4). Coloro che Dio considera meritevoli entreranno nel Libro della Vita, la preghiera recita: "Entriamo nel Libro della Vita". Recita anche l'auspicio "Possa tu essere iscritto (nel Libro della Vita) per un gioioso anno". Nella corrispondenza scritta tra capodanno e il Giorno del Pentimento, colui che scrive conclude, abitualmente, augurando al mittente che Dio approvi il suo desiderio di felicità. Nel tardo ebraismo alcune peculiarità proprie del giorno di capodanno furono trasferite al Giorno del Pentimento.
  Il Giorno del Pentimento sopravisse all'abbandono delle pratiche sacrificali dell'anno 70 CE. "Nonostante nessun sacrificio verrà offerto, il giorno manterrà il suo proprio effetto di espiazione" (Midrash Sifra, Emor, xiv.). I testi ebraici insegnano che in questo giorno non è permesso che venga compiuta altra attività che non sia il pentimento. Il pentimento è l'indispensabile condizione per tutti i vari significati dell'espiazione. La confessione del penitente è una condizione richiesta per l'espiazione. "Il Giorno del Pentimento assolve dalle colpe di fronte a Dio, ma non di fronte alla persona offesa fin quando non si ottiene il perdono esplicito dalla stessa" (Talmud Yoma viii. 9). È usanza di terminare ogni disputa o litigio alla veglia del giorno di digiuno. Anche le anime dei morti sono incluse nella comunità dei perdonabili del Giorno del Pentimento. È un costume per i bambini che abbiano perso i genitori di ricevere una menzione pubblica in sinagoga, e di offrire doni caritatevoli alle loro anime.
  Contrariamente al credo popolare, Yom Kippur non è un giorno triste. Gli ebrei Sefarditi, ovvero gli ebrei di origine spagnola, portoghese o nordafricana chiamano questa festività il "Digiuno Bianco". Di conseguenza, molti ebrei hanno l'usanza di indossare solo vestiti bianchi, per simbolizzare il candore delle loro anime.

 La liturgia
  Per le preghiere della sera viene indossato un Talled (uno scialle di preghiera rettangolare), e questo è l'unico servizio serale dell'anno in cui questo succede. Ne'ilah è un servizio speciale che si tiene solo a Yom Kippur, e lo chiude. Yom Kippur termina con il suono dello shofar, che conclude la celebrazione. Viene sempre osservato un giorno di vacanza, sia dentro che fuori i confini della terra di Israele.
  Il servizio nella sinagoga comincia alla sera della vigilia con il Kol Nidre. Le devozioni durante il giorno sono continue dalla mattina alla sera. Molta importanza è data al brano liturgico in cui si narra il cerimoniale del tempio.
  Secondo il Talmud, Dio apre tre libri il primo giorno dell'anno, Rosh Hashana; uno per i cattivi assoluti, un altro per i buoni assoluti, e il terzo per la grande classe intermedia. Il fato dei buoni e cattivi assoluti viene determinato in quel momento; il destino della classe intermedia resta sospeso fino al giorno di Yom Kippur, quando il fato di ognuno si decide. Il brano liturgico Unetanneh Tokef afferma:
    "D-o Re, che siedi su un trono di misericordia per giudicare il mondo, allo stesso momento Giudice, Difensore, Esperto e Testimone, apri il Libro delle Firme. Si legge che dovrebbero esserci le firme di ogni uomo. La grande tromba viene suonata; si sente una voce piccola e decisa; gli angeli fremono, dicendo "Questo è il giorno del Giudizio": perché gli stessi ministri di Dio non sono puri dinnanzi a Lui. Come un pastore dirige il suo gregge, facendolo passare sotto il proprio bastone, così Dio fa passare ogni vivente di fronte a Lui, per stabilire i limiti della vita di ogni creatura e per definirne il destino. Nel giorno di capodanno il decreto è stilato; nel giorno del pentimento è sigillato; chi vivrà e chi morirà... Ma il pentimento, la preghiera e la carità possono evitare il crudele decreto."
La "Corona di Maestà" di Ibn Gvirol è aggiunta alla liturgia Sefardita nel servizio serale, ed è anche letta in alcune sinagoghe Askenazite ed Italiane. Al centro della liturgia antica è la confessione dei peccati. "Perché non siamo tanto presuntuosi da dirTi che siamo giusti e non abbiamo peccato; ma, nella realtà, abbiamo peccato... sia la Tua volontà che io non pecchi ulteriormente; Ti piaccia lavare i miei peccati trascorsi, secondo la Tua bontà, ma non con punizioni severe".
  Le melodie tradizionali con i loro toni di lamento (della tradizione Askenazita) danno espressione sia all'angoscia individuale a fronte dell'incertezza del destino e al lamento di un popolo per le glorie perdute. Nel giorno di espiazione l'ebreo osservante dimentica la mondanità e le sue necessità e, escludendo l'odio, l'antipatia e tutti i pensieri ignobili, cerca di occuparsi unicamente di cose spirituali. I libri ebraici di preghiera fanno notare che, se gli atti di pubblica contrizione sono obbligatori, il correttivo più efficace è quello stabilito dai Profeti biblici, che insegnano che il vero digiuno di cui D-o gioisce è lo spirito di devozione, gentilezza e penitenza.
  Il carattere austero impresso alla cerimonia dal tempo della sua istituzione è stato conservato fino ad oggi. Anche se altre cose sono divenute desuete, la presa sulla coscienza di ogni ebreo è così forte che pochi, a meno che non abbiano reciso ogni legame con l'ebraismo, evitano di osservare il giorno di espiazione astenendosi dal lavoro quotidiano e partecipando alle funzioni.

(Comunità Ebraica di Bologna, settembre 2020)


Segnaliamo un interessante Studio biblico sulla festa di Yom Kippur che si può trovare sul sito "Ariel Italia". Lo studio può essere acquistato e scaricato qui.


Israele. L'importanza di 30 gatti in Parlamento

di Fabio Scuto

 
Gatti sui davanzali di una casa nel centro storico di Gerusalemme.
Filibuster, Lobby, Revision e Ethics non sono soltanto termini politici, ma i nomi di alcuni dei 30 gatti di strada che vivono nel cortile della Knesset, il Parlamento israeliano a Gerusalemme. A loro è stata recentemente concessa la residenza permanente dai funzionari della moderna struttura che svetta su una delle colline della Città Santa. Non dobbiamo stupirci. C'è sempre stato molto feeling tra la cultura ebraica e il mondo dei piccoli felini. Un mio amico ha addirittura stilato un codice in 7 punti delle relazioni che legano gli ebrei al mondo dei gatti che si possono riassumere così: i gatti sono contemplativi. Interagiscono con il mondo in modo riflessivo e sfumato. Invece di immergersi direttamente in un problema, i gatti esaminano le loro opzioni.
   I gatti di strada nel corso degli anni avevano fatto dell'ampio cortile del Parlamento la loro casa e così alla fine sono stati adottati dai membri del personale, che forniscono loro cibo e acqua. Alcuni felini si erano presi la libertà di entrare nelle luccicanti sale del potere con l'evidente disappunto di alcuni parlamentari, che hanno presentato decine di reclami alla direzione amministrativa della Knesset. Di conseguenza, il direttore della Knesset Sami Baldash ha chiesto a Tamar Bar-On - capo dell'ufficio ambiente del Parlamento - di formulare un piano di adozione completo per questi gatti, che sono stati definiti "una parte importante dell'ecosistema della Knesset ed è quindi un dovere preservare questa parte della natura urbana". I servizi veterinari della città sono stati chiamati per fornire vaccinazioni, sterilizzazione e altri servizi, mentre nell'ampio parco che circonda la struttura un'area è stata designata ad ospitare la colonia felina.
   Il presidente della Commissione per l'Ambiente della Knesset, Mild Haimovich, ha elogiato la politica del direttore. "Ho avuto il piacere di incontrare alcuni di questi residenti della Knesset e sono stato felice di vedere che sono stati ben curati. Sono un amante degli animali, sostengo la politica, del direttore e spero che altre istituzioni pubbliche seguano il nostro esempio".

(il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2020)


Per la pace, Israele deve essere forte

Cosa ci dice l'accordo con gli Emirati Arabi e il Bahrein

Scrive il Times of Israel (15/9)

Il trattato di pace firmato da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein è una vittoria retroattiva su una delle più grandi minacce che Israele abbia mai dovuto affrontare", scrive Yossi Klein Halevi. "Quasi mezzo secolo fa, subito dopo la guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973), i paesi arabi produttori di petrolio imposero un boicottaggio contro i paesi considerati troppo vicini a Israele. Per Israele non c'era una minaccia strategica più grande del petrolio arabo, che di fatto lo stava trasformando in uno stato paria. L'atmosfera in Israele e in tutto il mondo ebraico era cupa. Elie Wiesel scrisse un editoriale sul New York Times in cui esortava gli ebrei a non cedere alla disperazione. Cynthia Ozick scrisse un saggio per Esquire intitolato `Tutto il mondo vuole la morte degli ebrei'. Quella paura mi sembrava allora del tutto ragionevole. Il boicottaggio petrolifero arabo toccò il suo culmine il 10 novembre 1975, quando l'Assemblea generale delle Nazioni Unite si piegò ad approvare una risoluzione che tacciava il sionismo come una forma di razzismo. Oggi Israele firma un trattato di pace con gli Emirati Arabi Uniti, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, e con il Bahrein, altro paese arabo ricco di petrolio. E l'accordo gode della tacita benedizione dall'Arabia Saudita. Il processo di normalizzazione e pace con Israele è guidato dagli stessi attori che un tempo capeggiavano la campagna contro la sua legittimità a esistere.
   Per ironia della sorte, proprio mentre gran parte del mondo arabo scende a patti con la presenza dello stato nazionale ebraico in medio oriente, in occidente sta accadendo il processo opposto. Il boicottaggio arabo contro Israele è finito, il movimento Bds (per boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) è vivo e vegeto in occidente. Gli accordi di pace di oggi confermano la lezione centrale del trattato di pace israelo-egiziano: il prerequisito indispensabile per la pace in medio oriente è che Israele sia una forza imbattibile. E' la forza di Israele che sprona questa pace. Nella sua paura dell'Iran e della Turchia, due paesi che mirano a dominare il medio oriente, il mondo arabo si rivolge a Israele. In altre parole: i paesi arabo-musulmani si rivolgono allo stato ebraico per un'alleanza contro le ambizioni imperiali delle due potenze musulmane non-arabe della regione.
   La forza economica di Israele è un ulteriore incentivo: quella che vediamo formarsi è un'alleanza di paesi concentrati più sul futuro che sul passato. La risoluzione di questo conflitto attende una nuova generazione di leader israeliani e palestinesi. Ma è possibile in futuro? Ebbene, se mezzo secolo fa qualcuno mi avesse detto che la normalizzazione con Israele sarebbe stata promossa dai paesi arabi produttori di petrolio e che la ricchezza creata dal petrolio avrebbe motivato i paesi arabi a cercare di fare causa comune con un Israele militarmente, tecnologicamente ed economicamente potente, avrei sorriso e l'avrei cortesemente liquidato come un pazzo".

(Il Foglio, 28 settembre 2020)


Gli ebrei a Venezia, una storia affascinante tra mito e realtà: parla il Dottor Calimani

La storia del ghetto ebraico di Venezia

di Umberto Marsilio

 
Riccardo Calimani nella sua abitazione a Venezia
La città di Venezia ha nella sua storia le fonti di maggior fascino e interesse, forse ancor più che nella sua architettura urbana, unica al mondo. È, dunque, fondamentale conoscere le genti che hanno ideato, costruito e caratterizzato queste opere architettoniche: infatti, non c'è luogo di questa meravigliosa città che non abbia storie da raccontare.
Per questa ragione, abbiamo deciso di intervistare il Dottor Riccardo Calimani, che è un veneziano particolare: di origine ebraica, ingegnere elettronico, laureato in filosofia della scienza all'Università di Venezia. È noto in Italia e all'estero per esser uno dei maggiori studiosi dell'Ebraismo italiano ed europeo. Con lui parleremo degli ebrei a Venezia, del noto ghetto della città, il più antico del mondo. Un rapporto, quello tra la comunità ebraica e questa città, molto interessante ed atipico, sia per l'unicità di Venezia, sia per quella del popolo ebraico.

- Dottor Calimani, Venezia e gli ebrei: quando comincia la storia di una delle comunità più importanti d'Italia e d'Europa?
  La presenza ebraica in Veneto, nella Laguna veneta, è ben antecedente la creazione del noto ghetto. Già nel 1386 era presente una piccola comunità a Mestre, erano ebrei provenienti da altre parti d'Italia e dalla Germania, quest'ultimi chiamati ashkenaziti. Ashkenaz era il nome dato, in ebraico medievale, alla regione del Reno, regione da cui provenivano gli ebrei ashkenaziti per l'appunto. La comunità si era distinta fin da subito per una importante utilità di tipo finanziario.

- Quale?
  La Repubblica, o meglio la nobiltà veneziana, quest'ultima intrinsecamente legata al potere politico della Serenissima, non si fidava dei Monti di Pietà, fondazioni religiose cristiane sorte nel Medioevo. Queste fondazioni, questi istituti, che a Venezia sarebbero comparsi molto tardi, erogavano prestiti di denaro di limitata entità, tuttavia non godevano della fiducia di molti nobili veneziani e dei ricchi commercianti della città, che preferivano utilizzare gli ebrei come intermediari finanziari per prestare, talvolta a scopi di usura, grandi quote di capitali finanziari. Bisogna ricordare che per la Chiesa cattolica, molto influente nella Repubblica, l'usura era un peccato grave, mentre ciò non valeva per la comunità ebraica di Venezia e non solo. La rappresentazione, relativa a quei tempi in particolare, dell'ebreo usuraio è di per sé un mito, come il noto Shylock nell'opera teatrale "Il mercante di Venezia" di William Shakespeare, poiché in realtà gli ebrei agivano come intermediari tra le parti e non come prestatori autentici.

- Quanto influì questa loro utilità nella decisione, nel 1516, da parte della Repubblica, di istituire il primo ghetto ebraico del mondo?
  Molto, in quanto sarebbe stato, come in effetti è avvenuto, molto più comodo controllare la comunità e controllarne le attività, tra l'altro quest'ultime totalmente tassate. L'istituzione del ghetto veneziano aveva uno scopo prettamente pragmatico. Tuttavia bisogna tener conto di un aspetto importante: la giudeofobia dell'epoca non fu il motivo principale dell'istituzione del ghetto a Venezia, a differenza del ghetto di Roma, sorto nel 1555. A Roma lo Stato Pontificio istituì il ghetto principalmente per convertire gli ebrei romani, obiettivo che non venne ottenuto. A Venezia gli ebrei avevano libertà di culto, certamente anche tra i veneziani vi erano i pregiudizi che in molte città e paesi d'Europa si avevano nei confronti delle varie comunità ebraiche. Il ghetto venne creato nel sestiere di Cannaregio, e l'origine della parola deriva dal fatto che in precedenza, proprio nel quartiere dove sarebbe sorto vi era una fonderia, e quindi dall'italiano getto, sinonimo di fonderia, a "ghèto" in dialetto veneziano. Tuttavia, per intenderci su come veniva trattato uno straniero a Venezia, l'idea del ghetto non è poi così dissimile dall'idea dei fondachi, tenendo conto ovviamente delle dovute differenze e finalità. I fondachi erano degli edifici, degli alloggi per i commercianti stranieri, che spesso avevano funzioni di magazzino, ma soprattutto lo scopo di mantenere la presenza straniera in città sotto controllo, seppur questa presenza era momentanea in quanto composta prevalentemente da commercianti. Il più noto è il Fontego dei Turchi affacciato sul Canal Grande.

- Quali sono stati i vantaggi che la città ha avuto dalla propria comunità nel corso dei secoli?
  Direi che i vantaggi sono stati reciproci, la comunità ha potuto vivere in relativa tranquillità, sviluppandosi socialmente al suo interno, e soprattutto anche da un punto di vista religioso, con la presenza di ben cinque sinagoghe, emerse a distanza di pochi decenni l'una dall'altra: due di rito ashkenazita, la Scola grande tedesca e la Scola canton, fondate tra il 1527 e il 1532, la Scola levantina, fondata nel 1541 dai primi ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna nel 1492, la Scola ponentina o spagnola, fondata nel 1581, e la Scola italiana, fondata nel 1575. Nel corso del XVI secolo arrivarono dalla Spagna e dal Portogallo numerosi ebrei sefarditi, dal nome ebraico dato alla Spagna, Sefarad. Gli ebrei sefarditi non si prestavano alla funzione di intermediari finanziari come gli ebrei ashkenaziti e gli ebrei italiani, erano anzi abili commercianti che avevano girato in lungo e in largo il Mediterraneo, portando a Venezia importanti beni e continuando la loro attività in una delle città più ricche e popolate d'Europa, che da ciò aveva innegabilmente tratto un vantaggio. Un ulteriore vantaggio per Venezia fu la creazione di una vera e propria industria del libro ebraico, di una grande e notevole stampa dei libri all'interno del ghetto, facendo di Venezia un centro culturale per gli ebrei di tutto il mondo, assieme alla nascita dell'Università ebraica, il maggior organismo culturale della comunità.

- Vi è stata una integrazione atipica rispetto ad altre città italiane ed europee?
  Certamente, ma ciò è dovuto al fatto che Venezia era una città atipica e unica rispetto alle altre città d'Italia e d'Europa, sotto moltissimi punti di vista.

- Nel 1797 con l'arrivo di Napoleone e la caduta della Repubblica, anche il ghetto venne definitivamente aperto, cessando così di esistere.
  Sì, le porte del ghetto vennero rimosse definitivamente, dopo l'epopea napoleonica e il Congresso di Vienna, che aveva assegnato Venezia al Regno Lombardo-Veneto, che faceva parte dell'Impero austriaco, l'idea del ghetto divenne un ricordo storico. Troppi mutamenti politici e sociali vi erano stati nei 18 anni trascorsi tra il 1797 e il 1815. L'Europa era cambiata e non sarebbe stata più la stessa. La comunità, tuttavia, rimase comunque in larga parte all'interno di quello che era ormai l'ex ghetto.

- Il XIX secolo vide profonde trasformazioni anche all'interno dell'ebraismo, in particolar modo la nascita dell'ebraismo riformato, laico per molti aspetti, e, per riflesso, la comparsa di molte correnti ebraiche ortodosse, ligie alla tradizione e all'osservanza, nonché la nascita del sionismo. La comunità veneziana venne segnata da questi cambiamenti?
  No, a Venezia la comunità, che contava e aveva sempre contato poche migliaia di individui, era ancora ortodossa, tuttavia ortodossa "all'italiana", nel senso che era ben integrata con la popolazione, negli usi e costumi, e ciò valeva per tutti i quasi 50 mila ebrei italiani. Niente di paragonabile alle comunità ebraiche dei paesi dell'Est, alle varie correnti o ramificazioni dell'ebraismo ortodosso sorte in Polonia nel XVIII secolo, dove la comunità ebraica locale superava i 3 milioni e dove era ben evidente la differenza, in questo caso soprattutto negli usi e costumi, tra ebrei e non ebrei. La comunità, a partire dalla fine del XIX secolo, avrebbe visto un continuo decremento demografico.

- Che cosa hanno significato per la comunità le leggi razziali, la Seconda guerra mondiale, e come è cambiata dal dopoguerra ai giorni nostri?
  Gli ebrei veneziani, dapprima discriminati dalle leggi razziali del 1938, sarebbero andati incontro, per fortuna non la maggioranza, ad un tremendo destino. Con l'occupazione nazista dell'Italia, nel settembre 1943, anche per gli ebrei veneziani la situazione precipitò tragicamente: la deportazione avvenne attraverso varie retate tra il 1943 e il 1944. Dei 254 ebrei veneziani arrestati e deportati, ne sopravvissero pochi. La comunità, a guerra conclusa, seppe comunque rialzarsi, e a Venezia arrivarono altri ebrei, da tutta Europa, fuggiti dai paesi che avevano conosciuto più da vicino l'olocausto e che non avevano più un paese tranquillo dove abitare, visti gli effetti tremendi, da un punto di vista politico, della guerra. Con la fondazione dello stato d'Israele, nel 1948, molti di essi si trasferirono in Palestina. Oggi la comunità ha numeri ridotti, si parla di qualche centinaio di persone, tuttavia la vita al suo interno è ancora fervente, con eventi e ricorrenze, in particolar modo nel Museo ebraico, la vita religiosa nelle sinagoghe, la presenza di numerosi turisti, sia italiani che stranieri.

- Lei Calimani ha scritto vari libri sulla storia del ghetto, sulla storia degli ebrei italiani e sull'ebraismo. Certamente è uno dei più esperti studiosi dell'ebraismo in Italia. Quale sua opera, oltre a quelle storiche, può consigliarci per capire di più il carattere degli ebrei, di questo popolo per molti aspetti disgraziato ma allo stesso tempo affascinante e geniale?
  Consiglierei "Non è facile essere ebreo. L'ebraismo spiegato ai non ebrei", un libro assai recente. Tuttavia, scrivere un libro, per lo meno certi libri, è sempre un atto per certi aspetti di presunzione, ed è per questo che consiglio anche "Gesù ebreo", un libro in cui ho cercato di dimostrare e spiegare l'inscindibile fratellanza tra l'ebraismo e il cristianesimo delle origini, e di quanto abbiano in realtà in comune ebrei e cristiani.

- Grazie per la bella discussione Calimani.
  Grazie a lei Umberto.

(l'Occidentale, 28 settembre 2020)


Fa tappa a Ruvo la serie tv israeliana "The Vegan Italian Chef"

Una troupe televisiva è in questi giorni in Puglia a caccia di ricette vegane

 
Nadia Ellis e Nancy Dell'Olio
 
La Puglia è stata scelta come protagonista di tre puntate della serie tv internazionale, The Vegan Italian Chef, in onda su Ananey Communications, il più importante network israeliano. La troupe è già in Puglia dal 25 settembre per girare le tre puntate e si fermerà fino al 2 ottobre. La produzione della serie è affidata a Marco Tricomi, che è anche il regista, esperto di format televisivi (My Planet Vegan in onda su Sky, ad esempio), e alla chef talent Nadia Ellis, americana, milanese di nascita, che in Israele è la prima host vegana di cucina italiana grazie a EatWith (piattaforma di prenotazione di home cooking per esperienze culinarie).
  La serie tv, approdata in Puglia grazie all'attività di educational tour di Pugliapromozione e ad una serie di relazioni stimolate dall'Ambasciatrice della Puglia, Nancy dell'Olio, sarà successivamente lanciata su scala europea. Il progetto nasce su incarico ufficiale della Direttrice della Camera di Commercio e Industria di Israele (primo Paese Vegano nel mondo), l'Agenzia Nazionale del Turismo Italiano ENIT, con il supporto dell'Ambasciata Italiana di Israele. Il format tratta luoghi, territorio, cultura, tradizioni e soprattutto cibo nelle più svariate forme locali, ma unicamente in versione vegan. Il turismo ecofriendly è una delle nuove frontiere su cui tour operators di tutto il mondo stanno investendo risorse importanti.
  Prima tappa di Nadia Ellis è stata Lecce con lo chef Simone De Siato. A seguire Nardò, Santa Maria al Bagno, Gallipoli e Supersano presso la masseria Le Stanzie. Quindi alla volta della Valle d'Itria, Ostuni e masserie Torre Maizza e Il Frantoio. Oggi Polignano, Alberobello, Locorotondo e Masseria Le Carrube. Domani il tour si sposta nelle terre di Federico e la Murgia con una sosta a Trani, Castel del Monte e Biomasseria Lama di Luna.
  Il 1 ottobre riprese da Antichi Sapori e nell'Azienda Conte Spagnoletti Zeuli, sosta a Ruvo, e cena da Mezzapagnotta. Il rientro è previsto per il 2 ottobre.
«L'esperienza Pugliese è una festa per i tutti i sensi - commenta la chef Nadia Ellis - i paesaggi spettacolari, i profumi inebrianti delle erbe locali, il silenzio meraviglioso delle campagne attorno alle masserie, e naturalmente la parte del gusto e del tatto che sono emozione pura, grazie alla tradizione gastronomica pugliese. Scoprire così tante ricette che sono vegane fin dall'origine e che sono così saporite e ricche è una vera gioia!».
«La Puglia è la destinazione naturale per i consumatori di nutrimento Vegano. Un ulteriore frontiera per la nostra filiera Enogastronomica - commenta Nancy Dell'Olio, ambasciatrice della Puglia - Per la Puglia l'Enogastronomia è un canale di promozione turistica, culturale, prioritario. Elemento fondamentale del Brand Puglia. Attraverso il nostro cibo si trasmettono esperienze, emozioni e valori che identificano il territorio nel mondo. Bello leggere tanta meraviglia , entusiasmo, da parte di chi scopre che la Puglia è naturalmente Vegana. Origine che si trasforma costantemente passato... futuro, presente».
Secondo i dati dell'Osservatorio turistico della Regione Puglia, Israele rappresenta per la Puglia un mercato turistico di grande rilievo, con oltre 7 mila arrivi e 16 mila pernottamenti in Puglia nel 2019 e una crescita dei flussi del +41% rispetto al 2015. La propensione al viaggio degli israeliani è altissima, sicuramente una delle più elevate al mondo. Un recente sondaggio Enit rileva che su una popolazione totale di 8,8 milioni di persone, ben 6,5 milioni si sono recati all'estero, di cui il 92,5% ha lasciato il Paese per via aerea.
  Le destinazioni più richieste della Puglia dagli israeliani nel 2019 sono state Bari, Lecce, Vieste, Alberobello, Trani, Corato e Polignano con viaggi concentrati soprattutto nei mesi di aprile, maggio, settembre e ottobre.

(RuvoViva, 28 settembre 2020)


Il mancato realismo della leadership palestinese

di Ugo Volli

A chi segue le vicende mediorientali capita spesso di dover ripetere la considerazione sconsolata attribuita a Golda Meir (ma forse di Abba Eban) per cui i dirigenti palestinisti "non perdono mai l'occasione di perdere un'occasione". E' accaduto di nuovo nelle ultime settimane con i ripetuti rifiuti opposti da tutte le fazioni palestinesi all'accordo fra Israele e un paio di stati arabi (a quanto pare destinati presto a essere imitati da altri) e poi all'indignazione espressa per il rifiuto della Lega Araba di condannare questi accordi. Perché politici spregiudicati nella gestione del potere come Mohamed Abbas (eletto solo per un mandato di quattro anni, ma ormai entrato nel quindicesimo anno di presidenza), si bruciano tutti i ponti alle spalle, subendo la minaccia di complotti guidati dai "fratelli arabi" per sostituirlo? La risposta può forse venire da un sondaggio recente dove si rileva che la grande maggioranza dell'Autorità Palestinese condivide l'ira proclamata da Abbas per gli accordi e semmai lo incolpa di non averli combattuti abbastanza efficacemente. Il dittatore segue i suoi sudditi. Ma perché anch'essi mancano di qualunque realismo, chiedono per esempio di non riallacciare i rapporti con Israele ma dicono anche di volere i servizi assicurati dallo stato ebraico, come quelli fiscali e sanitari? Perché l'odio impedisce loro di vedere la realtà? Una prima ragione è naturalmente la continua propaganda, il vero e proprio lavaggio del cervello revanscista e antisemita che subiscono da decenni.
   Ma c'è qualche cosa di più profondo. Coloro che a partire dalla metà degli anni Sessanta si iniziò a definire palestinesi, infatti, hanno provenienze e culture assai diverse, sono divisi in tribù, oltre che in orientamenti politici e posizioni sociali lontanissime. In realtà l'idea di un popolo palestinese non ha alcun contenuto positivo, non esprime un progetto politico autonomo ma si identifica con il tentativo di eliminare lo stato nazionale del popolo ebraico. Nel momento in cui questo progetto di genocidio fortunatamente si è dimostrato impossibile e molti stati arabi vi rinunciano formalmente, che resta del palestinismo? Che identità può darsi un popolo che si dice palestinese, intendendo solo anti-israeliano? Questo è il problema che li porta a perdere tutte le occasioni. Come diceva ancora Golda Meir, solo quando ameranno i loro figli più di quanto odiano noi, anche per loro verrà l'ora della pace.

(Shalom, 27 settembre 2020)


Allarme jihadisti, Parigi rafforza la protezione di obiettivi ebraici

Un accoltellato venerdì notte nella "piccola Gerusalemme"a Nord della capitale. Il pachistano arrestato ammette: "Volevo colpire Charlie Hebdo per le vignette".

di Anais Ginori

PARIGI — La Francia scopre di avere una doppia emergenza. Dopo l'attacco davanti all'ex sede di Charlie Hebdo, il premier Jean Castex scelto per aver guidato la task force che ha organizzato la riapertura del Paese dopo il lockdown, si trova in prima linea contro un possibile ritorno del terrorismo islamico. «I nemici della République non vinceranno», ha detto. Nei rapporti dell'intelligence si registra l'aumento di messaggi di gruppi jihadisti, in particolare dopo la ripubblicazione delle vignette su Maometto da parte del giornale satirico. I motivi dell'allerta sono anche altri, dall'impegno della Francia contro il terrorismo islamico nel Sahel alla prossima scarcerazione di alcuni ex jihadisti dell'Isis. Il ministro dell'Interno Gérard Darmanin ha ammesso: «C'è stata una sottovalutazione della minaccia». La strada del quartiere Bastille dove il ragazzo pachistano Ali Hassan ha ferito venerdì due persone con una mannaia, aggiunge il ministro, avrebbe dovuto essere protetta da agenti. Darmanin ha chiesto di rafforzare la vigilanza su altri possibili obiettivi, in particolare nella comunità ebraica.
   Poche ore dopo l'attacco di rue Nicolas-Appert, un uomo è stato ferito alla gola da un ragazzo con un machete mentre usciva da un commissariato a Sarcelles, banlieue nord di Parigi. L'aggressore è fuggito. La polizia ipotizza un regolamento di conti, anche se non esclude un fenomeno di "mimetismo" rispetto ai fatti di rue Nicolas-Appert. Sarcelles è definita la "piccola Gerusalemme", abitata da una comunità ebraica che si è molto ridotta negli ultimi anni. Dall'inizio dell'anno ci sono stati altri 4 attacchi all'armi bianca di sospetti radicalizzati. «
   Sono stato io». Il pachistano Ali Hassan ha spiegato agli investigatori di voler colpire Charlie Hebdo perché non aveva "sopportato" la pubblicazione delle caricature. Non sapeva che il giornale aveva cambiato indirizzo. I testimoni raccontano di un ragazzo solo, un po' inebetito, che non ha fatto proclami religiosi. Non ha opposto resistenza quando è stato fermato dai poliziotti a meno di un chilometro. Sette i fermati, tra cui il fratello di 16 anni, e alcuni pachistani, coinquilini a Pantin, banlieue nord di Parigi. Molte cose sono ancora da chiarire, a cominciare dall'identità di Ali Hassan, che si è anche presentato altre volte come Hassan Ali. È arrivato in Francia nell'agosto 2018 senza documenti, dicendo di essere nato a Islamabad nel 2002. Già allora c'erano dubbi sul fatto che fosse minorenne, dettaglio che gli ha permesso di avere la protezione sociale fino a un mese fa, quando ha compiuto 18 anni.

(la Repubblica, 27 settembre 2020)


Il Covid punisce i populisti

di Yair Lapid

I Paesi pensano sempre di essere unici e, di solito, hanno ragione. La differenza tra italiani e cinesi è che gli italiani sono italiani e i cinesi sono cinesi. La geografia del loro Paese non è la stessa e così pure la demografia e la storia. Ogni nazione ha una sua personalità. Se mettete gli italiani di fronte a una guerra, una festa di nozze o un piatto di pasta, reagiranno in modo diverso rispetto a tedeschi o australiani. Questa verità è particolarmente valida nel caso dei capi populisti. Quando qualcuno cerca di paragonare quello che hanno fatto loro con quello che hanno fatto altri leader, la risposta è sempre la stessa: «Non potete capire, noi siamo un caso unico»: Sarà anche vero, ma non in questo caso. Non durante la crisi provocata dalla pandemia. II virus è lo stesso, ovunque. La crisi economica ha colpito tutti i Paesi. Ciò nonostante, esistono Paesi che hanno gestito la crisi meglio di altri. Qual è, dunque, la differenza tra coloro che l'hanno fatto bene e coloro che non ci sono riusciti? Che cosa consente ad alcune economie di sopravvivere? La risposta sorprende: i governi. Quell'istituzione malandata e malridotta è tornata in primo piano in tutto il mondo. I buoni governi hanno migliorato la situazione, quelli inefficienti hanno provocato la morte di molte persone e il crollo delle economie. Nella gestione della crisi, la differenza più importante tra il successo e il fallimento è la qualità della dirigenza. Un'epidemia è il banco di prova del senso di responsabilità nei confronti della gente. Quando si tratta di salute e di economia, la capacità dei cittadini di collaborare è la cosa più importante. Perché ciò avvenga, l'opinione pubblica deve nutrire fiducia nei suoi capi. Nel loro buonsenso, nella capacità di gestire le situazioni e impartire gli ordini giusti.
   La crisi del coronavirus ci ha colpito esattamente quando sembrava che il populismo stesse dilagando nel mondo. In tutto il mondo, i capi populisti sono ascesi al potere sull'onda dei social network, con parole che istigano all'odio e seminando la paura verso chiunque non è «dei nostri». Questo sistema ha dato i suoi risultati ma, di fronte a una pandemia globale, non può funzionare. Perfino i più accaniti sostenitori di quei capi autoritari hanno dovuto prendere atto che il virus non uccide meno persone soltanto perché sono «dei nostri».
   A gestire meglio l'epidemia sono stati leader equilibrati che si collocano al centro dello spettro politico, come Jacinda Ardern in Nuova Zelanda, Sanna Marin in Finlandia, Tsai Ing-wen a Taiwan, Kyriakos Mitsotakis in Grecia e Angela Merkel in Germania. Governano con pragmatismo, senza istrionismi e collaborando con esperti. Hanno spiegato all'opinione pubblica i provvedimenti che stavano adottando e non sono andati alla ricerca di capri espiatori. Quando hanno commesso errori, li hanno ammessi e vi hanno posto rimedio. Perlopiù sono tornati a una cosa che i populisti erano quasi riusciti a spazzare via dalle nostre vite: una gestione della situazione basata sull'evidenza di prove. I populisti trattano i fatti con disprezzo. Quando la realtà è scomoda, non fanno altro che inventarne un'altra. Ma, a fronte della crisi provocata dal coronavirus, questo sistema non funziona. I grafici non mentono. Nemmeno il populista di maggior talento riuscirà a convincere un malato che in verità è sano o un disoccupato che in verità ha un posto di lavoro. Se controlli il tuo estratto conto e ti scopri in rosso, nessun discorso di un primo ministro potrà convincerti che sei in una situazione rosea.
   Il motivo per cui i populisti hanno avuto un cos&igrande; grande successo negli ultimi anni è che la gente non prendeva il governo sul serio. Per politica non si intendeva uno strumento atto ad amministrare le nostre vite, ma un gioco da truffatori e imbroglioni. In tale situazione, la gente ha preferito scegliere chi faceva la voce più grossa. Anche se forse occorrerà un po' di tempo prima di rendercene conto, la crisi provocata dal coronavirus ha posto fine a questa pericolosa tendenza. Ci ha rammentato che amministrare un Paese è importante, e che un simile incarico deve essere affidato a persone che lo prendano sul serio. Dovendo affrontare una crisi reale, occorre un leader di centro che sappia portare a buon fine le cose.

* L'autore è capo dell'opposizione presso la Knesset israeliana.

(la Repubblica, 27 settembre 2020 )


Israele in pieno lockdown nel giorno di Kippur

Il governo ammette errori, ma fa appello a manifestanti politici e religiosi ultra-ortodossi perché contribuiscano a limitare il tasso dei contagi.

Il Ministero della sanità israeliano ha espresso forte preoccupazione per il fatto che la celebrazione di Yom Kippur, che va dal tramonto di domenica al tramonto di lunedì, possa portare a un forte aumento dei contagi da coronavirus dato che il numero di nuovi casi quotidiani di covid-19 è salito alle stelle nei giorni scorsi in parte a causa degli assembramenti in occasione di Rosh Hashanà (il capodanno ebraico)....

(israele.net, 27 settembre 2020)


Il progetto di Ricca per combattere a scuola l'antisemitismo

Gli orrori della Shoah in classe

di Mariachiara Giacosa

Ascoltare gli orrori della Shoah dalla voce dei protagonisti o dei loro familiari. Farlo a scuola, in classe e tra i compagni, per diventare parte attiva di una cultura che combatta l'odio e l'antisemitismo, «che, purtroppo va sempre più di moda» osserva Fabrizio Ricca, assessore regionale alle politiche giovanili e promotore del progetto da 750mila euro destinato ai giovani. Il politico leghista intende sensibilizzare i ragazzi «sui rischi dell'antisemitismo che purtroppo sta diventando di moda», dice. Le scuole potranno ospitare testimoni e protagonisti della Shoah. Parleranno con i ragazzi a cui verrà rilasciato un attestato di "ambasciatore di verità". «La formazione dei ragazzi ha un ruolo fondamentale - è la convinzione di Ricca - Dobbiamo coinvolgerli perché siano "ambasciatori della verità" tra i coetanei, organizzino presentazioni di ciò che hanno ascoltato a scuola, per fare in modo che certe ideologie velenose non trovino spazio in futuro».
   A organizzare gli incontri con le classi sarà Claudia De Benedetti, membro del board of governors Maccabi World Union e responsabile progetto Ambasciatori della verità per l'Italia, nonché presidente onorario di Sochnut Italia, Agenzia ebraica per Israele: «Sentiamo l'esigenza di trattare questi temi con e per gli studenti, perché sappiano individuare come e perché viene seminato, troppo spesso, l'odio», dice. «La lotta contro odio e antisemitismo deve cominciare a scuola dove si fa politica, è importante che i ragazzi siano consapevoli - prosegue Ricca - Dovrebbero esserlo anche i partiti politici e invece anche a Torino il Movimento 5 stelle ha più volte preso posizioni contrarie a Israele». Secondo Roberto Gabei, presidente della Fondazione arte storia e cultura ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte orientale, partner dell'iniziativa, «ormai non basta dire "mai più", bisogna impegnarsi concretamente per sconfiggere odio e antisemitismo, anche nelle sue varianti più subdole come l'antisionismo».
   Il progetto prevede anche l'organizzazione - quando saranno allentate le restrizioni imposte dal Covid - dei treni della verità, qualcosa di simile ai treni della memoria, dove ad accompagnare i ragazzi, però, saranno i sopravvissuti all'Olocausto o i loro familiari.

(la Repubblica - Torino, 27 settembre 2020)


Capsula del tempo di 150 anni trovata nella sinagoga più antica di Manchester

 
Il barattolo di vetro conteneva denaro e documenti risalenti al 1873, quando fu fondata la sinagoga
L'amministratore delegato del museo ha già dichiarato che non vede l'ora di esporre la capsula la prossima primavera.

I lavori di ristrutturazione effettuati al Museo Ebraico di Manchester hanno recentemente prodotto un'intrigante scoperta sotto forma di una capsula del tempo che fu sepolta in una cavità del muro circa un secolo e mezzo fa, riferisce il 'Guardian'.
Secondo il giornale la capsula - un barattolo di vetro con il sigillo di cera ancora intatto - è stata ritrovata accanto all'Arca del Museo, "la camera che ospita i rotoli della Torah", ed era "piena di documenti della sinagoga, giornali e alcune monete antiche".
"Stavamo facendo molta attenzione a rimuovere la targa, ma non avremmo mai immaginato di trovare qualcosa vecchia quanto l'edificio ancora intatta", ha detto Adam Brown, il responsabile del sito."
La scoperta ha creato un'eccitazione generale qui. Ci appare ovvio che molti anni fa molto tempo e molti sforzi sono stati impiegati per posizionare la capsula. Trovarla in perfette condizioni è stato davvero gratificante".
Il museo occupa l'edificio di quella che il giornale descrive come "la più antica sinagoga sopravvissuta a Manchester", completata nel 1874 e ritenuta superflua quando la popolazione ebraica locale si è trasferita dall'area negli anni '70. Tuttavia, le è stata "data una nuova prospettiva di vita come il Museo Ebraico di Manchester nel 1984".
"Siamo entusiasti e sopraffatti dalla scoperta [della capsula] e non vediamo l'ora di esporla nel nuovo museo la prossima primavera", ha affermato Max Dunbar, amministratore delegato del museo.
Ha anche aggiunto che la scoperta "tempestiva" della capsula arriva in "un periodo appropriato e simbolico in cui milioni di ebrei in tutto il mondo si preparano per il giorno più sacro del calendario ebraico, lo Yom Kippur, un periodo dell'anno significativo e di riflessione in cui molti osservanti guardano dietro per andare avanti".

(Sputnik Italia, 26 settembre 2020)



La preghiera sacerdotale di Gesù
  1. Gesù disse queste cose; poi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, l'ora è venuta; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
  2. giacché gli hai dato autorità su ogni carne, perché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dati.
  3. Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data da fare.
  5. Ora, o Padre, glorificami tu presso di te della gloria che avevo presso di te prima che il mondo esistesse.
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che mi hai date, vengono da te;
  8. poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi;
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; e io sono glorificato in loro.
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia gioia.
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
  15. Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
  19. Per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati nella verità.
  20. Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
  21. che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
  23. io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
  26. e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro».
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 17

 


Israele entra in lockdown totale e sale lo scontro politico

Da giorni si registrano numeri record. Non si trovano soluzioni sulle sinagoghe e lo svolgimento delle preghiere.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il lockdown rinforzato, come lo chiamano in Israele, per contenere la pandemia è entrato in vigore ieri pomeriggio alle 14. La chiusura del paese non sarà alleggerita prima di due settimane e solo se al termine delle festività ebraiche i numeri del contagio saranno più confortanti. Secondo le nuove restrizioni sarà vietato muoversi oltre un chilometro dal proprio domicilio con alcune eccezioni, resteranno ferme le produzioni non essenziali, i negozi saranno chiusi tranne supermarket e farmacie. Non saranno permessi assembramenti con più di 20 persone. Le sinagoghe resteranno chiuse, eccetto il giorno di Kippur. Volerà da Israele solo chi ha acquistato un biglietto prima di ieri alle 11 e se sarà in possesso del risultato negativo del test al coronavirus.
   Il lockdown più leggero proclamato una settimana fa non ha dato risultati apprezzabili. Da giorni si registrano numeri record inquietanti. Ieri i casi positivi sono stati 7.500,59 i decessi in 24 ore (1.412 in totale). I malati in terapia intensiva sono attualmente 708 (170 intubati). Il Weitzman Institute, uno dei più autorevoli di Israele, per sottolineare la gravità della situazione ha comunicato che se nella prima ondata di marzo i contagi erano stati in totale circa 16mila, in questa seconda solo negli ultimi 4 giorni sono stati 17mila. Gli ospedali sono saturi e sono stati assunti altri medici e infermieri per affrontare meglio la pressione sulle strutture sanitarie.
   La diffusione dell'epidemia rischia di andare fuori controllo e gli scontri politici non aiutano a trovare le soluzioni idonee. La Knesset non è riuscita a trovare ancora un compromesso sulle norme che riguardano la chiusura delle sinagoghe e lo svolgimento delle preghiere. E sul diritto a manifestare che le nuove restrizioni limitano nel luogo e nel numero. Denuncia una svolta repressiva il movimento delle Bandiere nere che da settimane tiene raduni a Gerusalemme e in altre città per chiedere le dimissioni del premier Netanyahu, per la sua cattiva gestione della crisi coronavirus e perché è sotto processo per corruzione. Netanyahu contro le Bandiere nere vorrebbe usare il pugno di ferro facendo approvare alla Knesset «lo stato di emergenza». Definisce «anarchiche e ridicole» le manifestazioni, sostiene che la «gente ne è stanca» perché sono «incubatori di contagi». Ma contro le sue intenzioni si è schierato il procuratore dello stato Avichai Mandelblit: la Corte Suprema, avverte, potrebbe bocciare le misure di emergenza.
   Non cessano anche le contestazioni dei religiosi ortodossi per la chiusura imposta durante le festività ebraiche, mentre gli esperti avvertono che la paralisi dell'economia avrà ricadute devastanti. Lo stesso commissario per la lotta al coronavirus Ronni Gamzu si oppone al lockdown più rigido deciso dal governo. «Senza dubbio quando blocchi di più il calo delle infezioni è più significativo ma il costo economico è tremendo», ha messo in guardia. Da febbraio scorso circa 850mila israeliani si sono iscritti al servizio nazionale di impiego in cerca di lavoro, di questi 522mila erano stati licenziati. Altri 110mila non hanno alcun ammortizzatore sociale.
   La gestione fallimentare della crisi coronavirus, soprattutto nei suoi risvolti economici, si sta trasformando in una Caporetto politica per Netanyahu e il suo partito, il Likud, che i sondaggi danno in forte calo. Al contrario cresce il consenso per il partito nazionalista religioso Yamina, di Naftali Bennett, che predica soluzioni totalmente diverse da quelle attuate dal governo.

(il manifesto, 26 settembre 2020)


Coronavirus: la Knesset non raggiunge il consenso sulle limitazioni a proteste e preghiere

GERUSALEMME - La commissione legislativa e costituzionale della Knesset (il parlamento monocamerale di Israele), incaricata di approvare il rafforzamento della serrata in vigore contro il coronavirus adottato ieri dal governo, non ha raggiunto un accordo sulle limitazioni a preghiere e manifestazioni previste dal pacchetto governativo. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". In particolare, il governo proponeva di limitare le proteste a un numero massimo di manifestanti, abitanti nel raggio di un chilometro dal sito delle manifestazioni. Quando è diventato chiaro che la Knesset non avrebbe approvato le misure, il ministro della Salute ed esponente del Likud, Yuli Edelstein, ha cercato di proporre senza successo regolamenti di urgenza, che avrebbero permesso al governo di imporre restrizioni sulle proteste prima della prossima seduta della Knesset, prevista per la settimana ventura. "Ai miei occhi viene prima di tutto la salute pubblica", ha detto Edelstein, aggiungendo "non permetterò affatto che vite umane siano messe a rischio in manifestazioni o sinagoghe". Il Likud, partito del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha accusato per la mancata approvazione delle misure l'opposizione, e per la mancata approvazione delle misure di urgenza il partner di governo, la coalizione Kahol Lavan (Blu e bianco) del ministro della Difesa Benny Gantz. Quest'ultimo aveva già annunciato oggi che non avrebbe sostenuto le ulteriori restrizioni d'urgenza su proteste e preghiere.

(Agenzia Nova, 26 settembre 2020)


Perché i paesi arabi hanno cambiato idea su Israele?

Le politiche aggressive dell'Iran nel corso di tre decenni hanno allarmato molti paesi arabi e li hanno fatti guardare al loro rapporto con Israele con occhi nuovi.

di Franco Londei

Perché i paesi arabi hanno cambiato idea su Israele? Sono in tanti a chiederselo dopo che gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno regolarizzato i loro rapporti con lo Stato Ebraico e altri paesi arabi si accingono a farlo.
  In parte ci illumina il Ministro degli affari esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, che in una intervista alla Associated Press spiega che il comportamento dell'Iran negli ultimi anni ha spaventato i paesi arabi tanto da far loro rivedere le posizioni su Israele e spingerli a guardare lo Stato Ebraico con altri occhi.
  "Le politiche aggressive dell'Iran nel corso di tre decenni hanno allarmato molti paesi arabi e li hanno fatti guardare al loro rapporto con Israele con occhi nuovi".
  
Ma non è solo questo. Per decenni la questione palestinese ha paralizzato l'apertura di normali relazioni tra Israele e il mondo arabo mentre altri, che dicevano di essere filo-palestinesi, avevano normali relazioni con lo Stato Ebraico e facevano affari miliardari.
  Un caso per tutti, la Turchia. È proprio il ministro degli esteri emiratino a ricordarci l'ipocrisia di Ankara che critica l'accordo tra Gerusalemme e Dubai quando Israele e Turchia hanno normali relazioni da decenni, hanno ambasciate nei rispettivi paesi, lo scorso anno 550.000 israeliani hanno visitato la Turchia e hanno scambi commerciali per oltre tre miliardi di dollari.
  «Quella turca è pura ipocrisia» ha detto Anwar Gargash alla Associated Press. «Ankara cerca di trarre vantaggio dalla difficile situazione palestinese per limitate considerazioni regionali» ha detto ancora il Ministro degli esteri emiratino.
  I paesi arabi sono stanchissimi della questione palestinese. Hanno capito che non ha uno sbocco e non certo per colpa di Israele. Si sono stancati di versare miliardi di dollari nella casse palestinesi per poi vederli sparire nel nulla. Hanno ormai compreso che i cosiddetti palestinesi non hanno alcun interesse a creare un loro Stato e che preferiscono rimanere in questo limbo dove ottengono praticamente di tutto senza alcun controllo e senza pagare o restituire un centesimo.
  Ormai sono anni che Israele e Paesi arabi hanno relazioni sottobanco, anche molto delicate riguardanti la difesa. Mancava solo il coraggio da parte araba di ufficializzare questa cooperazione e di mandare a quel paese il problema palestinese.
  Finalmente con questo processo il cambiamento sembra essere iniziato e non c'è niente da chiedersi sul perché i paesi arabi hanno cambiato idea su Israele. Era semplicemente inevitabile.

(Rights Reporter, 26 settembre 2020)


Benefattore israeliano decide di aiutare ogni mese due cittadini bisognosi di Nonantola

di Chiara Ugolini

 
Villa Emma, Nonantola - 1943
"Se fai del bene, ricevi del bene", anche a distanza di 77 anni. Nel pieno della seconda guerra mondiale, nel 1943, Nonantola, comune in provincia di Modena, nascose nella tenuta di Villa Emma decine di giovani ebrei, salvandoli dalla deportazione. Un episodio che è rimasto nel cuore di un israeliano di Zikhron Ya'aqov, un piccolo paese di 17mila abitanti, che ha scelto la strada della gratitudine. Tutto nasce da un parco dedicato a Nonantola inaugurato nella cittadina israeliana di Rosh HaAyn: è lì che l'uomo, che vuole rimanere anonimo, ha conosciuto la storia di Villa Emma contattando poi la sindaca della cittadina modenese per donare 200 euro al mese a due famiglie in difficoltà della zona. "Non ce lo aspettavamo, non in un momento così difficile per tutti - ammette il vicesindaco di Nonantola, Gian Luca Taccini -. Siamo rimasti piacevolmente sorpresi da così tanta generosità".
  Due però le condizioni richieste dal benefattore. La prima, che i destinatari siano davvero bisognosi e, la seconda, che percepiscano il denaro direttamente sul proprio conto bancario senza intermediari. Così, grazie anche all'aiuto dei servizi sociali, i beneficiari sono stati individuati: una donna anziana, senza famiglia e con problemi di salute, e un uomo adulto conosciuto nella cittadina per il suo impegno nel volontariato. "Mio figlio ha perso il lavoro a causa del coronavirus, ancora oggi non ha trovato un altro impiego fisso. Questo ci serve per andare avanti - racconta la madre 70enne -. Ci sentiamo lusingati. In un mondo così pieno d'odio, è difficile trovare persone disposte a dare una mano agli altri senza chiedere nulla in cambio".
  La donazione, partita con i primi 400 euro a luglio, al momento non prevede una scadenza. "Non sappiamo quali saranno gli sviluppi - aggiunge Taccini -. Col benefattore abbiamo però parlato di un periodo di medio-lungo termine. Ogni mese ci tiene a sapere se sono arrivati i soldi, se le due persone li hanno ritirati o se ci sono dei problemi".
  La storia di Villa Emma in questi anni è stata più volte ricordata dai parenti dei giovani salvati o dai sopravvissuti stessi, molti dei quali dopo la guerra sono andati a vivere in Israele. Così come il coraggio dimostrato da don Arrigo Beccari, parroco di Rubbiara, e dal medico Giuseppe Moreali (i due che al tempo si occuparono di nascondere i 73 ragazzi ebrei), oggi Giusti delle Nazioni allo Yad Vashem. L'ultimo riconoscimento, a marzo, è stato proprio quello di Rosh HaAyn (una città israeliana di 50mila abitanti), dove il sindaco ha dedicato al comune modenese un parco, Nonantola Park. Occasione in cui il benefattore anonimo ha preso coscienza di ciò che successe più di 70 anni fa nel modenese, rimanendo profondamente colpito.
  Tramite due intermediari, la figlia di Sonja Borus, una dei giovani ebrei nascosti e salvati durante la guerra, Ada Kuyer e un concittadino nonantolano di origine israeliane, Barak Aaronson, l'uomo si è così messo in contatto con il vicesindaco e la sindaca di Nonantola, Federica Nannetti, gli unici due a conoscere la sua identità. "Quando abbiamo ricevuto l'email siamo rimasti stupiti. Non è una cosa che capita tutti i giorni - sottolinea Taccini -. Come in tante altre città in questo periodo molti nonantolani hanno perso il lavoro e stanno pagando il prezzo dell'emergenza sanitaria. A causa del Covid le situazioni economiche (e non solo) difficili sono aumentate: ora sono seguite dai servizi sociali nuove famiglie, italiane e straniere". Per questo la generosità del benefattore anonimo "è stata come una boccata di ossigeno - aggiunge il vicesindaco -. Almeno così riusciamo ad aiutare due persone in più".
  Ma la solidarietà di Nonantola non è rimasta cristallizzata a Villa Emma. Negli anni il Comune ha continuato a essere accogliente nei confronti dei più deboli, come richiedenti asilo e migranti, grazie all'intervento anche di diverse associazioni presenti sul territorio. "Fondamentale l'impegno della Fondazione Villa Emma che continua a documentare ciò che successe durante la guerra - aggiunge il vicesindaco -. L'ultimo progetto che partirà dal 2021 è quello di realizzare un luogo per la memoria, 'Davanti a Villa Emma' che sorgerà a Prato Galli, terreno che si trova proprio di fronte alla residenza: racconterà la storia dei ragazzi di Villa Emma, ma parlerà anche di tutte le esperienze di oggi, di tutte le persone che hanno dovuto lasciare la propria casa e sono state ospitate e aiutate da Nonantola".

(il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2020)


Mastercard e Visa. Nessun servizio al terrorismo palestinese per non essere fuorilegge

di Paolo Castellano

Le aziende Mastercard e Visa non dovranno fornire i loro servizi alla nuova banca dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (PLO) se non vorranno essere incriminate per favoreggiamento del terrorismo, rischiando procedimenti penali e civili in Israele. Il monito arriva dall'associazione israeliana Palestinian Media Watch (PMW) che monitora i cambiamenti sociali all'interno dei territori di Gaza e Cisgiordania.
   Il 25 settembre il Jerusalem Post ha pubblicato l'appello della PMW in cui si fa riferimento alla nascita di una nuova banca dell'Autorità Palestinese, istituita appositamente per aggirare l'ordinanza israeliana sui finanziamenti ai terroristi e alle famiglie dei terroristi. La legge israeliana, entrata in vigore il 9 maggio, stabilisce che verranno puniti gli istituti di credito che trasferiranno somme di denaro a chiunque abbia compiuto un attacco terroristico, compresi i parenti.
   Il governo israeliano ha infatti approvato l'ordinanza per scoraggiare la popolazione palestinese a compiere violenze nei confronti dei cittadini israeliani in cambio di denaro. Sin dal 1994, l'Autorità Palestinese utilizza il meccanismo pay for slay per reclutare attentatori.
   Come sottolinea PMW, le banche che si trovano in Cisgiordania non hanno ancora chiuso definitivamente i conti correnti dei terroristi. Questo perché l'Autorità Palestinese aveva preteso una sospensione del processo di chiusura fin quando non fosse stato istituito un nuovo istituto di credito per stipendiare gli assassini. Dopo tre mesi di attesa, i funzionari palestinesi hanno creato la propria banca, accantonando l'opzione delle Poste che attualmente non possono emettere credito.
   Dunque, l'associazione israeliana ha voluto informare Mastercard e Visa riguardo al coinvolgimento delle banche palestinesi nel terrorismo dei gruppi armati presenti a Gaza e in Cisgiordania. Da questo momento, le due istituzioni finanziarie non potranno sostenere di aver incoraggiato la violenza palestinese a loro insaputa.
   «Ad oggi, le società di carte di credito hanno evitato di essere accusate di fornire sostegno finanziario ai terroristi nascondendosi dietro a banche che hanno standard elevati», ha sottolineato Maurice Hirsch, direttore delle strategie legali della PMW. «Le banche che operano nei territori dell'Autorità Palestinese violano chiaramente gli standard antiterrorismo riconosciuti e accettati a livello internazionale. Essendo state informate del supporto che le banche dell'Autorità Palestinese forniscono al terrorismo e ai terroristi, Mastercard e Visa devono agire rapidamente per evitare di scoperchiare un vaso di Pandora».

(Bet Magazine Mosaico, 25 settembre 2020)


L'Iran apre una nuova base nello stretto di Hormuz

TEHERAN - Il corpo dei Guardiani della rivoluzione iraniana ha annunciato l'apertura di una nuova base navale nello stretto di Hormuz lungo una delle rotte di transito petrolifere più trafficate del mondo. Secondo quanto riporta l'emittente iraniana "Press Tv", la base si chiama Shaheed Rahbari ed è situata vicino al porto di Sirik, sul lato orientale dello stretto di Hormuz. I lavori per la sua realizzazione sono durati sei anni. La cerimonia di apertura della base è avvenuta alla presenza del comandante dei Guardiani della rivoluzione, generale Hossein Salami. "Le operazioni di combattimento, le operazioni navali, di ricognizione e le operazioni difensive e offensive del paese nel Golfo Persico si svilupperanno ulteriormente", ha dichiarato Salami. L'annuncio dell'entrata in funzione della base Shaheed Rahbari giunge dopo l'accordo raggiunto tra Emirati Arabi Uniti e Israele per la normalizzazione dei rapporti aprendo la strada a una presenza ufficiale di Israele nelle acque del Golfo.

(Agenzia Nova, 25 settembre 2020)


Antisemitismo e razzismo in crescita in tutta la Germania

di Jacopo Rossi

BERLINO - Dopo 75 anni dalla fine della guerra la Germania conosce ancora una volta l'incubo dell'antisemitismo.
L'ultima dimostrazione è l'incendio doloso di un bar gestito da ebrei distrutto il mese scorso, proprio nelle vicinanze del quartiere Lichtenberg di Berlino. Lo stesso dove targhe di ottone incastonate sul marciapiede ricordano i residenti ebrei che da lì furono portati via dalle proprie case e uccisi dai nazisti.
(Research and Information on Anti-Semitism - RIAS) ha lanciato un allarme molto serio in Germania denunciando 410 incidenti, più di due al giorno, solo durante la prima metà del 2020. Sei sono attacchi fisici, 25 casi di danni alla proprietà, 20 minacce, 58 tipi di propaganda antisemita e 301 gesti o comportamenti, come il saluto nazista.
Le autorità tedesche sono molto preoccupate da questo fenomeno che dalla riunificazione della Germania non aveva avuto mai livelli cosi alti.
Il ministero dell'Interno ha segnalato un aumento del 13% dei crimini antisemiti portando il totale a 2.032, più del 93% dei quali attribuiti all'estrema destra. Anche i crimini anti-musulmani sono aumentati del 4,4% per un totale di 950, oltre il 90% di questi commessi da presunti estremisti di destra.
Infine a Francoforte e provincia nelle ultime tre settimane sono state segnalati diversi episodi di razzismo nei confronti della comunità turca e albanese molto presente nel territorio dell'Assia.

(FRANCOFORTENEWS.COM, 25 settembre 2020)


Visita alla Villa Romana per Dror Eydar. Positano accoglie l'ambasciatore d'Israele

L'incontro con l'ambasciatore potrà dare nuovo slancio a importanti progetti di collaborazione fra il territorio della Costa d'Amalfi e Israele, culturali, sociali ed economici, oltre a rinsaldare un sentimento di fratellanza e lotta all'antisemitismo che la Città Verticale testimonia da tempo con la tomba dello scrittore Essad Bey

di Maria Abate

 
L'ambasciatore d'Israele Dror Eydar e il Sindaco di Positano Giuseppe Guida
Il Sindaco di Positano Giuseppe Guida ha accolto l'ambasciatore d'Israele, il giornalista e professore universitario israeliano Dror Eydar, in Italia. L'ambasciatore, accolto in Piazza Thurnau, ha potuto ammirare le bellezze di Positano, "Città Rifugio" per gli Ebrei, e ha visitato la Villa romana.
    «Dopo una breve passeggiata sul Sentiero degli Dei ha potuto ammirare anche le meraviglie della nostra Positano e in particolare della Villa romana. Abbiamo avuto un lungo colloquio che ci ha dato l'opportunità di conoscerci e raccontarci dei nostri paesi; l'ambasciatore ed il suo Entourage sono rimasti molto colpiti dalla bellezza di Positano ed infatti ci siamo salutati con la promessa di ritrovarci presto»,
ha detto Guida.
L'incontro con l'ambasciatore potrà dare nuovo slancio a importanti progetti di collaborazione fra il territorio della Costa d'Amalfi e Israele, culturali, sociali ed economici, oltre a rinsaldare un sentimento di fratellanza e lotta all'antisemitismo che la Città Verticale testimonia da tempo con la tomba dello scrittore Essad Bey, l'ebreo arabo che nel 1938 si trasferì a Positano dopo la fuga da Baku e fu sfamato dai gestori della «Buca di Bacco» fino alla morte, avvenuta a causa della sindrome di Raynaud.
    «Per quanto ampie siano le nostre relazioni economiche, Israele e Italia non si sono ancora avvicinate del tutto alla piena realizzazione della cooperazione economica in tutti i campi, attraverso investimenti, ricerca scientifica e industriale, soluzioni tecnologiche disponibili per l'industria, l'agricoltura e il settore dei servizi e molto altro ancora. Prendiamo ad esempio il settore agricolo. L'Italia meridionale e Israele vivono condizioni simili sia per quanto riguarda il clima che per le risorse idriche. In effetti, Israele collabora con Confagricoltura per condividere la sua esperienza nell'implementazione delle tecnologie agricole all'avanguardia, in grado di massimizzare la produzione agricola. Inoltre, siamo impegnati affinché l'Italia possa essere un punto di riferimento europeo(hub) nel campo dell'agritec e stiamo lavorando per promuovere una conferenza annuale sull'agricoltura simile al Cybertech Europe»,
aveva detto a giugno in un'intervista a "Tribuna Economica".

(GeosNews, 25 settembre 2020)


Accordo Abraham: quanto vale sul piano economico e tecnologico

Dietro l'Accordo Abraham non c'è solo la creazione di un percorso di pace e normalizzazione ma l'inizio di una collaborazione che avrà un enorme impatto sull'economia e lo sviluppo scientifico.

di Roberto Battistini

Che dietro all'Accordo Abraham non ci fosse solo la creazione di un percorso di pace e normalizzazione, era chiaro sin dal 13 agosto, ovvero dall'annuncio mondiale sull'Agreement del Presidente Donald Trump. Al di là dell'impegno israeliano alla sospensione dell'ulteriore annessione dei territori palestinesi in Cisgiordania, una rinuncia inizialmente solo annunciata come ritardata dal premier israeliano Netanyahu, poi diventata realtà, lo storico accordo siglato dopo circa un mese di intensi rapporti diplomatici tra le due potenze offre sul piano operativo diversi elementi di interesse, dimostrando come l'annessione non sia la priorità di Israele.
  In particolare emergono lo sviluppo scientifico e tecnologico nel bacino medio-orientale e il consolidamento di un importante asse economico capace di contrastare l'avanzata dell'Iran. "Le future collaborazioni tra le due realtà" afferma Shai-Lee Spigelman direttore generale dell'Israeli Ministry of Science and Technology, "arriveranno a coinvolgere soprattutto gli ambiti dell'Intelligenza Artificiale, della scienza quantistica, dell'agricoltura, degli studi sugli ambienti desertici e la water security. Ciascun paese potrà mettere in campo le elevate competenze di ricerca inerenti la cybersecurity, l'energia e le tecnologie di de-salinizzazione.
  Inutile dire che Israele ed Emirati Arabi risultano accumunati da tempo dal forte interesse nel campo della tecnologia e della ricerca. Israele, a partire dalla premiazione di Tel Aviv come Best City nell'ambito del World Smart City Awards che ha concluso la quarta edizione dello smart City Expo World Congress del 2014, sta dimostrando da anni come la tecnologia possa migliorare la vita dei cittadini.
  Basti ricordare la piattaforma Digi-Tel, una piattaforma destinata a trasformare Tel Aviv in un punto di riferimento dei nuovi modelli di partecipazione pubblica sotto il profilo dello sviluppo urbano e dell'economia partecipata secondo i modelli di Poter e Kramer, il wi-fi gratuito di Tel Aviv, i sistemi innovativi di intelligenza artificiale di urban traffic control AVIVIM, per supportare il trasporto pubblico o il Traffic Enforcement solution, in grado di rilevare il comportamento stradale irregolare (il fenomeno del traffic on shoulder) e le varie tipologie di parcheggio irregolari. L'interesse verso le scienze degli israeliani ha origini remote, probabilmente sin dalle applicazioni mediche del Maimonide, ed oggi vede il paese in prima linea in diversi ambiti. Nella ricerca medica, nella mobilità sostenibile legata al processo di de-carbonizzazione, con le infrastrutture di ricarica dei mezzi elettrici Electroad, con i bikesharing innovativi come Tel-O-Fun, nonché nella ricerca chimico-farmaceutica e ovviamente nella lotta contro il Covid 19 (dai device di protezione facciale per i medici, ai prodotti chimici per disinfettare le superfici, fino ai sistemi di testing rapidi).
  Dall'altro lato, gli Emirati arabi hanno dimostrato un forte interesse ad investire nell'intelligenza artificiale e nella robotica dopo aver sperimentato l'affidamento a droni dei sistemi di consegna dei documenti amministrativi, tra cui l'Identity Card, direttamente a domicilio ed aver predisposto l'innovativo Dubai Autonomous Transportation Strategy: un piano che entro il 2030 prevede di disporre del 25% del trasporto con veicoli autonomi, con un guadagno economico pari a 900 milioni di AED, contribuendo così alla riduzione dell'inquinamento prodotto dai veicoli. Negli UAE sono già sperimentati e in uso aereotaxi e sistemi modulari di bus flessibili in grado di essere adattati alla domanda di viaggio dei pendolari.
  Due potenze che sull'asse tecnologico scientifico avevano anche già diversi elementi condivisi. La cooperazione scientifica non è iniziata ora, ma si innesta in un progresso in forte crescita: è sufficiente rilevare come gli scienziati degli Emirati e israeliani siano stati co-autori di ben 248 articoli scientifici tra il 2017 e il 2019 stando ai dati del database Scopus.
  Dal giorno successivo all'annuncio di Trump, il 14 agosto, questa collaborazione è diventata ancora più concreta (vedi la creazione del collegamento telefonico). E proprio il collegamento telefonico, che riduce la tendenza di alcuni israeliani ad utilizzare smartphone palestinesi con numeri +970 per chiamare gli Emirati per ragioni di business, non è per nulla casuale. Come non lo è l'aver rimosso i blocchi sui siti web di news israeliane. Come sosteneva Edward Geaser le città per superare il problema dell'urban divide, devono agire sui transition costs, quei costi legati al far agire le realtà urbane come social network, dove l'informazione e l'educazione siano accessibili a tutti. Dove la comunicazione svolge un ruolo centrale, come vettore di socialità e cultura.
  Da quando Abdullah bin Zayed al-Nahyan, Ministro degli esteri e della cooperazione internazionale insieme al primo ministro Benjamin Netanyahu hanno firmato a Washington l'Accordo di Pace tra Emirati Arabi ed Israele, si è potuto assistere ad un graduale rafforzamento degli strumenti economici, atti al finanziamento dello sviluppo tecnologico, facendo emergere la centralità dell'area scientifica e tecnologica. Tutto ciò a partire dall'abolizione della legge che prevedeva il boicottaggio economico verso Tel Aviv, consentendo di importare e commerciare prodotti israeliani, e ancor meglio, stipulare accordi con società di Israele, per un volume d'affari stimato in 4 miliardi di dollari.
  Le aree di cooperazione toccano gli ambiti dell'energia, della medicina, del turismo, della tecnologia e della finanza. La stessa Bank Hapoalim, una delle principali banche israeliane, prevede di lavorare con le banche degli Emirati, e al contempo la società Group 42, un'importante società fondata ad Abu Dhabi per lo sviluppo della IA e del cloud computing, nei settori pubblici, della sanità, finanza, delle risorse energetiche e dell'aeronautica, si avvia ad aprire una sede in Israele.
  La stessa G42 è impegnata in questo periodo nello studio della fase 3 per un vaccino contro il Covid19 e già ai primi di luglio aveva annunciato di aver firmato due distinti Memorandum of Understanding con la Rafael Advanced Defense Systems (Rafael) l'Israel Aerospace Industries (IAI), due importanti aziende tecnologiche, con il fine di esplorare cooperazioni nella ricerca e lo sviluppo di soluzioni concrete per la lotta al Covid19.
  Il nesso tra tecnologia e ricerca sanitaria, sta nel fatto ad esempio che la stessa G42 ha recentemente annunciato, in partnership con l'Oxford Nanopore Technologies, un detecting test di tipo end-to-end finalizzato ad uno screening di massa o su richiesta, nell'ottica di prevenire la diffusione del virus e di conciliare la riattivazione dell'economia globale.
  A sostegno del valore scientifico ed economico dell'Accordo si schierano anche altre diverse partnership, tra cui gli accordi tra l'APEX emiratina e la TeraGroup israeliana per lo sviluppo della ricerca scientifica sul Covid, tra la Pluristem Therapeutics di Haifa e la Abu Dhabi Stem Cells per la ricerca sulle cellule staminali e l'ingresso nel mercato emiratino dell'israeliana Bo&Bo Ltd con la sua tecnologia di tele-riabilitazione. La nuova leadership UAE dello sceicco Mohammed bin Zayed, orientata all'innovazione, guarda all'era post-greggio e cerca in Israele un partner ideale per il processo di de-carbonizzazione e di sviluppo scientifico e culturale. Molti esperti del settore hanno riferito al magazine Nature che la cooperazione scientifica-economica porterà assodati benefici su entrambi i lati: gli scienziati degli Emirati potranno usufruire della frontiera scientifica israeliana, ben strutturata, e della collaborazione con aziende tecnologiche israeliane. Analogamente gli scienziati israeliani potranno attingere agli investimenti nello sviluppo degli UAE.
  Un sodalizio che fa intravedere un futuro tecnologico e scientifico evoluto per i due paesi, fatto di mobilità sostenibile de-carbonized, di applicazioni concrete di IA e computing, di nuove frontiere medicali e di un rafforzamento di flussi di capitale. In sostanza, gli ambiti dell'Accordo Abraham, nel loro evidente valore scientifico e tecnologico, sono orientati a mantenere vivi gli ecosistemi moderni ed urbanizzati. Un approccio da cui trarranno benefici anche gli altri paesi. Europa e Stati Uniti compresi.

(JoiMag, 25 settembre 2020)


Emirati-Israele: colloquio telefonico tra ministri dell'Energia

Focus su petrolio, gas e rinnovabili

ABU DHABI - Il ministro dell'Energia e delle Infrastrutture degli Emirati Arabi Uniti, Suhail bin Mohammed Al Mazrouei, ha discusso in videoconferenza con l'omologo israeliano, Yuval Steinitz, dei legami bilaterali e delle modalità per rafforzarli nei settori dell'energia e delle infrastrutture, in particolare nell'ambito delle fonti rinnovabili. Lo riferisce l'agenzia di stampa emiratina "Wam". Durante l'incontro, Al Mazrouei ha presentato la strategia emiratina per l'energia (Uae Energy Strategy 2050), il primo piano energetico unificato del paese che mira a mantenere un equilibrio tra produzione e consumo e soddisfare gli impegni ambientali globali, per creare un ambiente economico favorevole per la crescita complessiva. Entrambe le parti hanno anche discusso delle modalità per rafforzare la loro cooperazione nel settore del petrolio e del gas, nonché l'uso di energia verde e tecnologie avanzate nei settori dell'energia e della sicurezza informatica legate all'energia. Il colloquio giunge a una settimana dalla firma degli Accordi di Abramo tra Emirati e Israele.

(Agenzia Nova, 24 settembre 2020)


Israele e Territori palestinesi: lo stato della situazione

di Claudio Vercelli

Qualsiasi valutazione di merito sulla manifestazione di volontà, espressa recentemente da Benjamin Netanyahu, di annettere una parte dei territori che compongono l'attuale Cisgiordania, deve tenere in considerazione alcuni elementi di quadro. Il primo di essi è che ciò che il premier d'Israele ha palesato è un'intenzione di fondo che, tuttavia, faticherà a divenire fatto compiuto. Semmai, si potrebbe assistere ad annessioni di singoli spazi urbani prospicienti la vecchia Linea verde, tracciata con gli accordi di Rodi del 1949. Difficile pensare diversamente, allo stato attuale delle cose. Se l'incremento della presenza ebraica nei Territori dell'Autonomia palestinese è destinato ancora a proseguire, la scelta di procedere a un'acquisizione unilaterale, sancendo la sovranità israeliana su rilevanti porzioni di terra che sono al di fuori di quelle che costituiscono ancora linee armistiziali (poiché di ciò si tratta, non essendo confini definiti una volta per sempre), sarebbe un'azione destinata a comportare costi politici molto elevati. I benefici che ne deriverebbero per Gerusalemme (a sua volta contestata da molta parte della comunità internazionale nella sua qualità di capitale «unica e indivisibile» di un solo Stato) non è per nulla detto che sopravanzerebbero gli oneri che, nel qual caso, maturerebbero per l'Amministrazione israeliana, a partire dalla difficile, se non impossibile, coesistenza con una parte corposa di popolazione araba, che in tutta probabilità rifiuterebbe l'esito dell'atto unilaterale.
  L'attuale filo logico dell'Amministrazione Netanyahu-Gantz sembra invece essere informato al presupposto che la questione del destino politico, amministrativo e quindi sovrano di quelle terre costituisca, al medesimo tempo, un significativo elemento della propria piattaforma elettorale e una rilevante merce di scambio per futuri accordi con il mondo arabo. Non è un caso, infatti, se il percorso di progressiva normalizzazione diplomatica con una parte dei paesi sunniti del Golfo, a partire dagli Emirati Arabi Uniti, abbia a oggetto proprio l'astensione della premiership israeliana dalle intenzioni paventate nei mesi scorsi. Si tratta di una falsa contropartita rispetto al concreto merito dei rapporti in via di formalizzazione, che semmai riformulano la proiezione e la collocazione dell'asse sunnita dentro le labirintiche dinamiche mediorientali. In gioco non c'è solo la contrapposizione con l'Iran ma anche il ruolo della Turchia nel Mediterraneo insieme al ridisegno della fisionomia della complessa regione siro-irachena. In altre parole, il rimando a una sorta di baratto, per il quale la progressiva formalizzazione delle relazioni tra Israele e le monarchie del Golfo si baserebbe sulla curatela che queste eserciterebbero degli interessi palestinesi, è un pretesto la cui unica utilità è quella di permettere alle seconde di venire allo scoperto rispetto alla crescente trama di rapporti che già da tempo vanno intrattenendo con lo Stato ebraico.
  All'interno dei conflitti e nelle contrapposizioni aperte si inseriscono a tutto tondo le dinamiche economiche: malgrado Israele stia soffrendo gli effetti della pandemia, rimane uno snodo fondamentale della produzione di ricchezza nell'età della globalizzazione. Più e meglio di altri paesi, Gerusalemme è inserita dentro le dinamiche dell'economia della conoscenza e dell'informazione, sapendo operare su quella dimensione digitale che sta diventando la radice dell'attuale costituzione economica mondiale. È quindi improbabile che la parte del mondo sunnita che intende non perdere il treno dell'innovazione continui ad astenersi da rapporti "in chiaro" con lo Stato ebraico. Il quale, a sua volta, rafforzando le sue politiche di sicurezza, identifica nel problema della sua legittimazione un nodo prioritario della propria azione politica a venire. Quanto meno sul piano regionale. Quindi, in una parte del mondo arabo, che condivide l'esigenza di controllare e filtrare l'operatività del fondamentalismo islamista, vero e proprio attore trasversale, capace di inserirsi nelle dinamiche di potere di non pochi Stati.
  Il processo in atto, per intenderci, segue quello che portò nel 1979 alla pace con l'Egitto: l'oggetto della trattativa è lo scambio tra territori controllati militarmente e amministrativamente da Israele, con la cessazione della condizione di ostilità formale nei suoi confronti e il suo riconoscimento nella qualità di interlocutore. In questo caso, è come se Netanyahu avesse detto: «possiamo annetterci la Valle del Giordano ma se ci offrirete una convincente contropartita, che sta già nei fatti, ce ne asterremo, almeno temporaneamente». Le premesse ci sono già da tempo. Tuttavia, occorreva un qualche elemento che ne legittimasse la formalizzazione rispetto all'opinione pubblica araba. La cui ostilità a Israele non per questo verrà meno ma sarà attenuata dal concreto decision making delle sue classi dirigenti. Il riscontro di immagine (in prospettiva anche il ritorno politico) è prezioso per la leadership israeliana.
  Un ulteriore elemento da considerare sono le dinamiche demografiche in corso, sia nella società palestinese che in quella israeliana. Tramontata nel primo caso la suggestione di una «guerra delle culle», già paventata a suo tempo da Yasser Arafat («vinceremo grazie al numero prima ancora che in ragione di un netto ribaltamento sul campo, politico o militare che sia»), poi in buona parte smentita da un trend accrescitivo molto più contenuto di quello inizialmente previsto, rimane tuttavia la difficile dialettica degli spazi tra una comunità nazionale e l'altra. Nel caso israeliano, la crescita della popolazione è stata costante nel tempo, arrivando a contare gli attuali 9 milioni (il 74% dei quali ebrei). Dopo di che, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania non rispondono solo a una logica di espansione geografica e spaziale, così come di controllo territoriale (la «profondità strategica»), ma alle sollecitazioni che, a partire dagli anni Settanta in poi, sono pervenute da diversi segmenti del quadro politico interno e internazionale. La presenza israeliana in Cisgiordania, infatti, si inscrive in un preciso codice ideologico che è proprio delle destre identitarie e neonazionaliste. Se fino agli Accordi di Oslo degli anni Novanta l'espansione degli insediamenti colonici si inseriva nel mutamento che stava accompagnando la radicalizzazione di alcune componenti della destra israeliana, con la morte di Yitzhak Rabin, nel 1995, la spinta scaturita dai movimenti di area evangelica - stabilmente presenti negli Stati Uniti come forza elettorale conservatrice, una parte dei quali è impegnata a sostenere la presenza israeliana in Cisgiordania - è divenuto un fattore importante. In prospettiva, forse, decisivo. Sussiste un asse politico e ideologico, se non un'implicita specularità culturale, tra la nuova destra israeliana, post-likudista, al medesimo tempo populista e sovranista, che Benjamin Netanyahu si è incaricato di guidare (benché la sua formazione politica sia ben diversa da tale milieu), e alcuni movimenti di reviviscenza religiosa, perlopiù di estrazione protestante, attivamente impegnati nella politica statunitense. Il sostegno più deciso al «piano del secolo», licenziato dall'Amministrazione Trump per il riassetto del contenzioso israelo-palestinese, proviene da quella parte di elettorato (e dai suoi esponenti e rappresentanti) che si rivela maggiormente sensibile a questi ambienti. Che stanno investendo risorse finanziarie negli insediamenti colonici e che intrattengono con gli esponenti più politicizzati di quelle realtà rapporti consolidati. Le monarchie del Golfo, così come molte leadership del mondo arabo, peraltro guardano con maggiore simpatia a interlocutori israeliani di matrice conservatrice che non a soggetti che potrebbero, in ipotesi, mettere in discussione uno status quo nel quale l'ulteriore compressione delle prerogative palestinesi è comunque accetto.
  Un altro elemento è non solo il tempo a venire ma anche quello presente del lungo percorso che conosciamo come «conflitto israelo-arabo-palestinese». Le coordinate di campo, infatti, sono mutate. I palestinesi subiscono una crescente marginalità rispetto agli scenari generali, faticando a difendere, e quindi a mantenere, l'ordine di priorità della propria posizione nell'agenda politica internazionale. Benché la residuale ipotesi di una sua soluzione negoziata non si sia esaurita del tutto, nel mondo arabo ha oramai scarso credito. Così come anche, al netto delle dichiarazioni di circostanza, tra la diplomazia internazionale. Non più, quanto meno, secondo la logica dei "due popoli, due Stati". Al netto dei mutamenti geopolitici e di scenario intervenuti in questi decenni, il più grave deficit della comunità palestinese è la mancanza di una leadership unitaria. Ovvero, la sua sostanziale acefalia e il patrimonialismo corporativo che l'accompagna. La frattura tra Hamas e le componenti dell'Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, di fatto operante in maniera definitiva già dal 2006, segna anche la separazione territoriale, nettamente disegnata sul piano geografico, tra due entità non solo politiche ma oramai anche sociali, culturali e civili. Perdurando lo stato attuale delle cose, non ci sono le premesse per ricostruire un tessuto di contrattazione che permetta di arrivare a un qualche final status credibile. Una tale condizione di così lungo periodo ha peraltro creato il contesto in cui operano da tempo gruppi di interesse, a volte trans-comunitari, ossia israelo-palestinesi, che traggono beneficio economico dal mantenimento intenzionale della paralisi dei processi decisionali. La quale, prima o poi, è destinata comunque a sgretolarsi ma, nel qual caso, lasciando libero campo ai soli rapporti di forza nel frattempo determinatisi.
  A fronte di queste considerazioni di merito, entra in gioco lo sforzo di Netanyahu di garantirsi una longevità politica che, qualora dovesse tradursi nei fatti, non avrebbe pari nella storia israeliana, essendo egli in gioco dal 1996. Quattro elementi giocano a suo favore: la trasformazione e la metamorfosi delle culture politiche israeliane, a sinistra come anche a destra; la mancanza di una leadership alternativa alla sua, malgrado le diffuse opposizioni all'indirizzo cesaristico e personalistico che ha fatto proprio; l'incapacità di tradurre le tensioni presenti nella società israeliana in un progetto in grado di risultare credibile alle urne, in contrapposizione alle posizioni della destra (posto che la sinistra storica, in Israele, è pressoché quasi estinta); l'evidente sintonia che Netanyahu medesimo manifesta con una generazione di leader politici mondiali, definibili come "sovranisti", la cui radice è il richiamo all'identità nazionale, di radice etnica, in quanto fondamento esclusivo della propria legittimazione, insieme al convincimento che il multilateralismo nelle relazioni internazionali sia oramai esaurito, dovendo semmai essere sostituito da contrattazioni bilaterali se non da situazioni di fatto basate su atti unilaterali.

(Italianieuropei, 24 settembre 2020)


Primo volo commerciale fra Israele e Bahrein

Il primo volo commerciale diretto fra Israele e Bahrein è atterrato ieri. II volo, un Israir Airlines Airbus A320, è il frutto della strategia di avvicinamento fra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi promossa dagli Stati Uniti. Il 16 settembre i tre paesi hanno infatti firmato alla Casa Bianca i Patti di Abramo, accordi per normalizzare le loro relazioni che sono stati definiti «storici» dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

(Domani, 24 settembre 2020)


Israele inasprisce il confinamento: «Da nessuna parte misure simili»

Chiusi tutti i servizi e le industrie non essenziali. Critiche: «Il settore privato non avrebbe dovuto chiudere».

di Dario Ornaghi

TEL AVIV - Durante la notte il governo israeliano ha approvato nuove misure di confinamento per far fronte alla pandemia di Covid-19 ancora più rigide rispetto a quelle già in atto. Le restrizioni entreranno in vigore da domani (venerdì) e saranno valide fino all'11 ottobre, alla fine della serie di festività ebraiche che scandiscono queste settimane.
   Tra i provvedimenti figura la chiusura di tutti i servizi e le fabbriche non essenziali, una misura che non ha precedenti nemmeno in marzo-aprile. Sono inoltre vietate le manifestazioni con più di 20 persone e non è comunque possibile prendere parte a eventi che si svolgano a più di un chilometro dal proprio domicilio. Le sinagoghe verranno aperte solo per le cerimonie dello Yom Kippur. Resteranno aperti solo i supermercati, le farmacie e alcune industrie essenziali. Ora tocca alla Knesset approvare il pacchetto di misure.
   «Il settore privato non avrebbe dovuto chiudere. Ciò che viene proposto qui ora non ha precedenti nel mondo, nessun Paese ha disposto misure simili», ha dichiarato il ministro delle Finanze israeliano Israel Katz, che con il "mister coronavirus" locale Ronni Gamzu e il governatore della banca centrale si opponeva a nuove restrizioni. «Questa proposta non assomiglia per niente a quella di marzo-aprile, quando abbiamo vissuto il secondo più rigido confinamento al mondo e gravi danni all'economia», ha aggiunto come riporta Ynet News.
   Dall'inizio della pandemia di Covid-19, in Israele si sono registrati 204'690 casi confermati di positività al SARS-CoV-2. I decessi nel Paese di poco più di 9 milioni di abitanti sono stati 1'325. Nelle ultime due settimane i nuovi contagi si aggirano tra le 2'000 e le 6'000 unità. Secondo i dati della Johns Hopkins University, mercoledì si è toccato un picco di 11'316 nuovi casi giornalieri.
   
(tio.ch, 24 settembre 2020)


Colloquio tra Netanyahu e il principe del Bahrein

                 Benjamin Netanyahu                                       Salman bin Hamad Al Khalifa
«Una telefonata eccezionale, molto amichevole». Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito la conversazione avuta ieri con il principe della corona del Bahrein Salman bin Hamad Al Khalifa. «Abbiamo riaffermato i principi dell'Accordo di Abramo e abbiamo discusso di come tramutare questa pace, economica, tecnologica, turistica, in concreto. Molto presto conoscerete i passi pratici» ha aggiunto.
   L'Accordo di Abramo è stato firmato la scorsa settimana alla Casa Bianca e prevede la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, soprattutto in materia commerciale ed economica. «Il principe ha discusso dell'importanza di garantire la stabilità regionale e internazionale e di rafforzare l'impegno per sostenere la pace nella regione. In questa direzione andrà l'accordo sottoscritto» ha confermato in un comunicato il Bahrein riportando la conversazione.
   Un richiamo alla pace regionale, intanto, è giunto ieri da Re Abdallah di Giordania. Parlando all'assemblea generale delle Nazioni Unite, Abdallah ha detto che occorre «lavorare insieme» per «preservare Gerusalemme per tutta l'umanità come una città unificante di pace».
   
(L'Osservatore Romano, 24 settembre 2020)


Israele-Italia, nuovo accordo militare

Il governo di Gerusalemme acquista elicotteri d'addestramento Agusta, quello di Roma missili controcarro. Solo l'ultimo passo di una collaborazione tra forze armate e aziende sempre più stretta.

Un altro passo avanti nella cooperazione militare tra Italia e Israele, con un duplice contratto. Israele ha annunciato l'acquisto di altri cinque elicotteri d'addestramento; l'Italia invece comprerà missili controcarro e simulatori di missione.
   L'accordo bilaterale è stato siglato martedì con una cerimonia in tele-collegamento tra Roma e Tel Aviv: a firmarlo il direttore generale del ministero della Difesa, Amir Eshel, e il responsabile della Direzione Generale degli Armamenti Nicolò Falsaperna.
   In questo modo, Israele completa la fornitura di un reparto d'addestramento elicotteri fornito da Leonardo, che conterà 12 Agusta Aw119 e due simulatori di volo. L'Italia invece aumenterà la dotazione di missili anti-tank Rafael Spike e acquisterà sistemi Elbit destinati a nuovi simulatori per elicotteri realizzati da Leonardo. Il ministro della Difesa Benny Gantz, appena rientrato da Washington, ha dichiarato che l'accordo "riflette l'importante e stretta collaborazione con il ministero della Difesa italiano che va avanti da anni. Ed è anche di grande rilevanza per la sicurezza di Israele e per la sua industria militare".
   Le relazioni tra i Paesi sono andate crescendo dal 2012. In quell'anno è stato concluso un patto tra i due governi, rilevante per l'importo - complessivamente vicino ai quattro miliardi di euro - e per la sofisticazione della tecnologia. Israele acquistò trenta jet Aermacchi M-346 per la formazione avanzata dei piloti, l'Italia invece un satellite spia Optsat 3000 e due sistemi di sorveglianza aerea imbarcati su bireattori Gulfstream 550.
   Da allora ci sono stati altri protocolli per la realizzazione congiunta di sistemi d'arma in tutti i settori, dai droni subacquei ai veicoli blindati da combattimento. E sono aumentate le esercitazioni comuni delle due aviazioni, con la presenza di cacciabombardieri israeliani sul poligono sardo di Decimomannu mentre gli F-35 italiani hanno partecipato alle manovre Blu Light in Israele.
   Ultimamente ci sono stati contatti per valutare l'eventualità di realizzare insieme un carro armato di ultima generazione, che dovrà sostituire i Merkava israeliani e gli Ariete italiani: al momento, però, le linee guida emesse dai due eserciti non paiono compatibili.

(la Repubblica, 24 settembre 2020)


Elezioni in Palestina: le ultime comiche dirette da Teheran e Ankara

Continua la presa in giro e per la milionesima volta vengono promesse elezioni in Palestina, questa volta con Teheran e Ankara come sponsor.

di Franco Londei

 
Abu Mazen, direttore dei flussi di denaro che arrivano da tutto il mondo
Non sappiamo se il mondo è pronto per elezioni in Palestina, specie dopo che per decenni sono state ripetutamente promesse e mai effettuate. Ma questa volta sembra che da quelle parti facciano sul serio.
Ad annunciarle alla TV palestinese, subito ripresa dai media iraniani, è Jabril al-Rajoub, che sembrerebbe essere un alto funzionario di Fatah (capo della Federcalcio palestinese) il quale nel dare l'annuncio specifica che «questa è la prima volta che le decisioni vengono prese da Fatah in modo indipendente e separato da qualsiasi influenza o pressione regionale», affermazione a dire il vero assai fumosa ma che dovrebbe dare all'annuncio quel "passo in più" che lo renda minimamente credibile.
Le ultime elezioni in Palestina si sono tenute nel 2006 e non hanno detto bene a Fatah, soprattutto a Gaza dove Hamas ha preso il potere prima con i voti poi, visto che Fatah non voleva sloggiare, con i Kalashnikov.
Giusto un anno prima, nel 2005, si erano tenute le elezioni presidenziali che avevano conclamato la vittoria di Mahmud Abbas (alias Abu Mazen) che sarebbe dovuto rimanere in carica fino al 2008 ma che invece è ancora li, al centro di Ramallah, a dirigere i flussi di denaro che arrivano da tutto il mondo.
Ma torniamo alle elezioni in Palestina perché i media iraniani ci annunciano che ci potrebbero essere delle complicazioni al loro regolare svolgimento.
Prima di tutto ci sono gli israeliani che sembra istituiscano blocchi stradali prima di ogni elezione per impedire ai palestinesi di andare a votare. È vero, non è una fake news, lo sostiene ABNA dimenticando però di dire che dal 2006 i palestinesi non sono più andati a votare e che nel frattempo i blocchi israeliani, se c'erano, potrebbero essere stati rimossi.
Poi ci sarebbero dei "disaccordi" tra Hamas e Fatah sul come votare e, soprattutto, sul cosa fare dopo il voto. L'ultima volta si sono scannati e a Gaza i motorini venivano usati per trascinare i corpi dei leader di Fatah per le strade.
Poi sembra che un tribunale di Ramallah nel 2016 si sia espresso per impedire le elezioni a Gaza, come se fosse un altro territorio. Infine ci sarebbero disaccordi sulla legge elettorale sulla quale non vi starò a tediare ma, fidatevi, sono questioni "serissime".
Ora però sembra che, dopo il tradimento dei Paesi Arabi che hanno fatto la pace con Israele, ci penseranno gli iraniani e i turchi a mediare tra le varie fazioni palestinesi in modo da organizzare queste benedette elezioni.
Riunioni su riunioni si stanno tenendo a Teheran e ad Ankara invece che al Cairo come in passato. Lo garantiscono media turchi e iraniani per rimarcare che la separazione dei palestinesi dagli arabi è definitiva.
Vedremo quindi finalmente i palestinesi andare a votare per scegliere il loro futuro? Chissà, chi vivrà vedrà.

(Rights Reporter, 24 settembre 2020)



Il re saudita: l'Iran va fermato

L'intervento all'Onu

il re saudita Salman bin Abdulaziz è intervenuto ieri via video all'Assemblea Generale dell'Onu in corso a New York. Il monarca ha parlato soprattutto dell'arcinemico, l'Iran, sottolineando la necessità di una soluzione complessiva che porti anche al disarmo dell'affiliato libanese di Teheran, Hezbollah. Il re ha detto che il regime iraniano ha approfittato dell'accordo 2015 sul nucleare «per intensificare le sue attività espansionistiche, creare i propri network terroristici e utilizzarli: «Una soluzione complessiva e una posizione internazionale ferma e decisa - ha sottolineato - sono indispensabili».
   Gli Stati Uniti hanno abbandonato l'accordo internazionale sul nucleare iraniano nel 2018. Un accordo che il presidente americano aveva definito «il peggiore di sempre». Da allora la Casa Bianca ha reimposto le sanzioni che erano state tolte durante l'Amministrazione Obama chiedendo anche agli altri firmatari (oltre all'Iran e agli Usa, Cina, Francia, Regno Unito, Stati Uniti più Germania e Unione europea) di rinegoziare i termini dell'intesa.
   «Sosteniamo'gli sforzi dell'attuale amministrazione americana per raggiungere la pace in Medio Oriente portando allo stesso tavolo Israele e i palestinesi», ha detto re Abdulaziz. Il monarca però si è ben guardato dal commentare la recente normalizzazione nei rapporti tra Israele, gli Emirati arabi uniti e il Bahrein. Ufficiosamente è soddisfatto, ma evidentemente non è ancora pronto a compiere lo stesso passo.
   
(Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2020)


Israele chiuso in casa

Nella Gerusalemme di nuovo in lockdown, è vietato tutto tranne manifestare (contro Bibi)

di Beatrice Guarrera

 
GERUSALEMME - Strade deserte, macchine della polizia appostate e finestre illuminate, a indicare la presenza della gente nelle case: in Israele i giorni di Rosh Hashana, la festa del capodanno ebraico, si sono chiusi con un insolito silenzio. Un silenzio determinato dal secondo lockdown del paese, iniziato venerdì scorso per frenare l'impennata di contagi da Covid-19. Israele è il primo paese al mondo ad adottare nuovamente questo provvedimento drastico per contenere la pandemia, anche se la decisione è stata frutto di lunghe discussioni e ripensamenti. Soltanto due settimane fa il governo aveva approvato un coprifuoco notturno che imponeva la chiusura di quaranta quartieri e città considerate "rosse" per numeri di contagi. Davanti a migliaia di nuovi casi di Covid-19 ogni giorno e all'avvicinarsi delle feste ebraiche, momento di riunioni familiari, è arrivata poi la decisione di portare Israele a un nuovo lockdown. Dall'inizio della pandemia i deceduti in Israele sono arrivati a oltre 1.200 e i casi registrati hanno superato quota 188 mila, con un picco giornaliero di 6.063 nuovi infetti il 16 settembre. Sono dati allarmanti, che hanno fatto salire il paese al sedicesimo posto nel mondo per casi di Covid-19 ogni milione di abitanti, secondo quanto dichiarato dal Coronavirus National Information and Knowledge Center, un istituto supervisionato dall'esercito israeliano.
   Secondo le disposizioni delle autorità, per tre settimane i cittadini israeliani non potranno allontanarsi dalle proprie case per una distanza superiore a un chilometro, se non per comprovate motivazioni di necessità. Tra queste l'acquisto di cibo o beni essenziali, la necessità di raggiungere il luogo di lavoro o di recarsi in luoghi di culto (non più di venti persone in spazi aperti e non oltre dieci al chiuso). Le disposizioni del lockdown vietano, inoltre, raduni nelle case private e di frequentare spiagge e parchi pubblici, ma non la partecipazione a manifestazioni di protesta. Proprio la possibilità di manifestare risulta controversa, perché, pur essendo consentita dalla legge, potrebbe diventare una fonte di contagio.
   Venerdì, a poche ore dallo scoccare del secondo lockdown infatti, hanno fatto discutere le immagini di decine di manifestanti che, fuori dalla casa del primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme celebravano la cena del Capodanno ebraico seduti attorno a un lungo tavolo, senza distanza di sicurezza e senza mascherine. Sabato altri manifestanti si sono radunati sulla spiaggia di Tel Aviv per una azione di protesta contro il premier. Domenica sempre a Gerusalemme nel quartiere Rehavia, sotto casa di Netanyahu, erano presenti come ogni settimana migliaia di manifestanti alle proteste contro di lui, definito "Crime Minister". Mentre si rischia una multa se ci si allontana da casa senza un valido motivo, i checkpoint che collegano Israele con i Territori Palestinesi (che non hanno adottato nessun lockdown) risultano aperti, anche se con maggiori controlli. Rimarranno chiusi invece scuole, bar, ristoranti e negozi non essenziali.
   Nel frattempo gli ospedali Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme e Assuta Medical Center di Ashdod hanno annunciato lunedì che non potranno più accogliere ulteriori pazienti affetti da coronavirus, essendo ormai sovraccarichi. "Vi chiedo di trattare questa situazione come una situazione di emergenza per il sistema sanitario" ha detto lunedì in una lettera agli ospedali del paese il direttore generale del ministero della Salute Chezy Levy. Levy ha chiesto alle strutture sanitarie di sospendere gli interventi chirurgici non urgenti, di dedicare tutte le risorse disponibili per rispondere alla pandemia e di formare nuovo personale per il lavoro nei reparti Covid-19. "Prevediamo di terminare i prossimi 10 giorni con un aumento di 200-300 pazienti gravi", ha scritto Levy. Il ministero della Salute con i suoi esperti discuterà martedì l'ipotesi di nuove restrizioni, se i numeri dei contagiati non dovessero scendere nei prossimi giorni. Si parla di una chiusura delle sinagoghe, di introdurre limitazioni alle manifestazioni e di una chiusura del settore privato, ad eccezione dei lavoratori essenziali.
   Le restrizioni aggiuntive dovrebbero entrare in vigore la settimana prossima, dopo lo festa dello Yom Kippur.

(Il Foglio, 23 settembre 2020)


Così il patto di Abramo fra Israele e Paesi arabi rivoluzionerà il Medio Oriente

di Alessandro Minuto Rizzo

Ci sono dei momenti in cui il termine anglo-sassone game changer appare molto appropriato. In altre parole, si cambia il modo di giocare. Naturalmente sto parlando del recente accordo offerto in mondovisione dallo Studio Ovale, con il presidente, il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu e, un gradino più sotto, i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein. E chiaro il desiderio di Donald Trump di mostrare ai suoi elettori che lui è uno che «risolve i problemi». Altro che quell'esitante Obama! Lui sì che merita davvero il premio Nobel per la pace! Bisogna dire che questa volta ha realmente fatto goal. Perché? Perché oggi abbiamo un accordo che gira una pagina di storia e apre un nuovo capitolo su una pagina bianca. E vero che i protagonisti si trovano diversi fusi orari più in là di Washington, in quella regione calda e in disordine che è il Medio Oriente, però una garanzia cos) visibile e pubblica da parte del più potente Paese del mondo rappresenta un grande valore aggiunto per i firmatari.
  Per capire le ragioni di questa svolta e girando un occhio verso il futuro, bisogna per forza guardare alla big picture, vale a dire al quadro generale. Cosa vediamo? Israele è molto cresciuta in questa generazione e continua a crescere. E' una potenza industriale, possiede alte tecnologie, capacità militari, sta diventando una potenza energetica, una società sviluppata e così via. Il suo peso specifico è ormai tale che non può essere ignorato. Difatti non lo è più. Dall'altra parte del quadro, c'è il desolante mondo arabo di oggi, che meriterebbe molto di più. ma che non riesce ad andare avanti. La parola di entrata che meglio lo descrive è «frammentazione». Quel poco che c'era di cooperazione regionale è entrato visibilmente in crisi, niente lo illustra meglio del rifiuto della Lega Araba di condannare «l'accordo di Abramo», di cui stiamo parlando. Fino a ieri la solidarietà con il popolo palestinese era l'unico collante di consenso fra i suoi membri. Immagino la frustrazione del segretario generale Aboul Gheit, già ministro degli Esteri dell'Egitto e figura di livello internazionale. Il Consiglio di cooperazione del Golfo ha di fatto finito di esistere dopo il tentativo saudita di isolare il Qatar, imponendo sanzioni che avrebbero dovuto riportarlo all'ovile di Riad. Doha non si è piegata e ha tanti e tali mezzi da poterselo permettere, trovando un braccio di appoggio nella Turchia, ben lieta di poter tutelare il Paese. A parte il quadro istituzionale, il livello economico e sociale dei Paesi arabi appare in crisi. Il nazionalismo arabo di Nasser era criticabile ma aveva una sua grandiosità. Il partito Baath che negli anni 60 e 70 del secolo scorso sembrava costituire un'apertura verso una società più laica e democratica è scomparso. Al suo posto abbiamo avuto l'Isis e la disgregazione mentre le primavere arabe si sono afflosciate su se stesse senza i risultati sognati. Piazza Tahrir è un lontano ricordo e dispiace vedere l'Egitto, Paese storico e leader naturale nella regione, relegato a un ruolo di secondo piano, con difficoltà molto serie di gestione interna, come abbiamo visto nel caso del povero Giulio Regeni. Il riavvicinamento fra Gerusalemme e diversi Paesi arabi era visibile ormai da tempo. Però questi rapporti avvenivano in un quadro informale. Ormai tutto questo è saltato. Il testo ufficiale dell'accordo di Abramo è disponibile. Constatiamo che esso va ben più in la del riconoscimento diplomatico reciproco. Le aree di cooperazione potenziali sono numerose: dalle tecnologie al commercio, dalla navigazione aerea alla scienza ecc. Persino il settore tabù della sicurezza vi è incluso. Un quadro di riferimento molto ampio e inaspettato. E che dire della tempistica ? Credo che sia dettata dalle elezioni americane. Non si sa chi verrà designato alla Casa Bianca il 3 novembre e come questo avverrà. Meglio quindi coagulare adesso gli interessi comuni in un Trattato che resterà. L'impressione è che gli Arabi, e forse anche Israele, temano un'ulteriore uscita americana dal Medio Oriente. Essa era già cominciata con Obama e continua con Trump, sia pure in maniera ondivaga. Questo vuol dire vedere una storica garanzia di sicurezza che diventa problematica. Oggi sembra che sia Democratici che Repubblicani si stiano orientando verso una politica estera dove l'intervento, soprattutto militare, venga riservato a casi speciali in cui sia in gioco l'interesse nazionale degli Stati Uniti. Ove questo quadro si confermi, si può capire che gli interessi regionali comuni prevalgano e Israele può essere un prezioso valore aggiunto. In altre parole, l'intero quadro strategico sta cambiando e vediamo Guida Suprema della Rivoluzione protestare violentemente da Teheran minacciando rappresaglie. Finora l' Iran, malgrado le evidenti difficoltà interne su vari fronti, ha avuto uno spazio di manovra in Siria, Libano, Gaza e Iraq che ora viene a restringersi per la nuova intesa con cui dovrà fare i conti.
  E i palestinesi? Vi è un consenso sul fatto che essi appaiono sacrificati all' interesse strategico complessivo arabo-israeliano di unire le forze. Effettivamente gli interessi appaiono prevalere sui principi. Si può argomentare che la partita era già persa e che vi è un controllo totale di Israele sulla Cisgiordania che non è modificabile, se non forse nel lungo periodo. Si è parlato seriamente di annessione vera e propria e l'accordo di Abramo esclude questa eventualità. D'altra parte sappiamo che nello stesso partito di Netanyahu vi sono molte voci dissenzienti sull'interesse per lo Stato ebraico di annettere un'ampia popolazione araba in Medio Oriente-dove la complessità è di casa. Siamo all'inizio di una nuova storia di cui non possiamo prevedere gli esiti. Possiamo però sperare che questa inedita alleanza porti dei benefici complessivi alla regione. che certamente merita un futuro migliore e una più forte cooperazione regionale.

(MF, 23 settembre 2020)



Lega Araba, gelo palestinese. Erdogan più vicino all'Anp

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha deciso di rinunciare alla presidenza di turno del Consiglio della Lega degli Stati arabi, ruolo che le sarebbe spettato di diritto nell'attuale sessione dei lavori. Ad annunciarlo, ieri da Ramallah, in Cisgiordania, il ministro degli Esteri palestinese, Riad alMalki, in conferenza stampa: «Questa decisione è stata presa a seguito della posizione, assunta dalla segreteria della Lega Araba, a supporto di Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno normalizzato le loro relazioni con Israele in violazione dell'Iniziativa di pace araba».
   Secondo il ministro, la posizione della Lega sarebbe riconducibile al fatto che «alcuni Stati arabi influenti hanno rifiutato di condannare la violazione». Il riferimento è alla sessione dello scorso 9 settembre, quando il consesso non ha trovato un'intesa allargata su di una risoluzione di condanna di Abu Dhabi e Manama, probabilmente per volontà saudita. La cosiddetta Iniziativa di pace araba (2002) prevede che gli Stati arabi procedano alla normalizzazione dei rapporti con Israele solo dopo la fine dell'occupazione militare della Palestina. «Ramallah non intende abbandonare l'istituzione», ha garantito al-Malki, però i segnali di rottura si moltiplicano: secondo i media locali, rappresentanti di al-Fatah, forza di maggioranza in seno all'Anp, si sarebbero recati ieri in Turchia per chiedere l'intervento di Ankara a favore della riconciliazione palestinese, in fieri. I segretari delle principali fazioni, in testa Hamas, si sono riuniti a Beirut all'inizio di settembre per stilare un programma in tappe. Più volte in passato il presidente Recep Tayyep Erdogan ha cercato di cavalcare la causa palestinese, schierandosi con Gaza e finanziando progetti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, per scippare ad Arabia Saudita ed Egitto la loro influenza nel risico regionale: se gli riuscisse di condurre in porto la riconciliazione, per Ankara sarebbe un successo politico paragonabile solo a quello dell'Amministrazione Trump nel processo di normalizzazione fra Stati arabi e Israele. In agosto, la Turchia ha minacciato di sospendere le relazioni diplomatiche con gli Emirati in risposta all'accordo con Israele. La «Turchia è dalla parte dei palestinesi» e «non permetterà che i diritti dei palestinesi vengano violati», ha tuonato il presidente turco, criticando le strategie intraprese dal casato Saud nella regione e accusando Israele di essere uno «Stato razzista».
   Dopo Libia, Corno d'Africa, Africa Orientale, il braccio di ferro fra la Turchia neo-ottomana di Erdogan e l'arco sunnita degli Stati arabi si sposta insomma a Gerusalemme: ora si fa sempre più indispensabile, per Israele e Lega Araba, normalizzare i rapporti e fare fronte comune contro ambizioni che non conoscono le vie diplomatiche.

(Avvenire, 23 settembre 2020)


Un'altra esplosione mortale nel deposito armi di Hezbollah

Quattro morti nel Sud. L'agenzia di stampa statale denuncia «un'intensa presenza di aerei israeliani».

di Chiara Clausi

 
L'esplosioni nel villaggio di Ain Qana, sud del Libano
BEIRUT - Un boato e poi una grossa colonna di fumo nero. Una nuova grande esplosione è avvenuta ieri pomeriggio nel villaggio di Ain Qana, nel sud del Libano. Ha provocato un incendio e un denso fumo nero. Secondo i primi elementi, l'esplosione è avvenuta in un edificio di proprietà di Hezbollah, ma non è ancora chiaro se fosse un magazzino di armi o l'abitazione di un quadro del partito.
   Una fonte all'interno dei servizi di sicurezza ha precisato che un deposito di armi appartenenti a Hezbollah è stato distrutto dall'esplosione a seguito di un errore tecnico. «La terra ha tremato e poi abbiamo sentito una forte esplosione. All'inizio pensavo si trattasse di un raid israeliano», ha detto Mahmoud, un abitante del posto. «Ma poi ci siamo resi conto che era in una casa ai margini del villaggio e abbiamo sentito le ambulanze».
   Quattro sono le vittime secondo fonti e testimoni locali. Hezbollah è la forza politica dominante nel sud del Libano e mantiene un potente braccio militare che ha più di 100 mila razzi. Un portavoce di Hezbollah ha riferito però che l'esplosione è avvenuta in un centro di sminamento collegato al gruppo sciita in cui erano immagazzinate munizioni inesplose di una precedente guerra con Israele. Il portavoce ha anche confermato che l'esplosione è stata causata da un errore tecnico, ma ha negato che ci siano state vittime.
   Secondo fonti locali invece diversi sono i feriti, ma non si hanno numeri precisi. L'esplosione è avvenuta in una zona residenziale, una ventina di abitazioni sono state danneggiate e diverse auto distrutte. I residenti nella zona in preda al panico sono stati evacuati e sono corsi nella direzione opposta al fumo, mentre altri sono rimasti increduli a guardare. I membri di Hezbollah hanno isolato il luogo dell'esplosione e hanno impedito ai giornalisti di avvicinarsi all'area.
   Secondo l'Agenzia nazionale libanese, dalla mattina fino al momento dell'esplosione erano stati notati intensi sorvoli israeliani, con aerei da guerra e droni-spia, nelle zone di Iklim al-Touffah e Nabatiye, vicino a dove è avvenuta l'esplosione. Il botto è stato sentito fino alla città di Saida, a circa trenta chilometri di distanza. Ma ieri è stata una giornata travagliata anche per altri motivi. Al mattino, un piccolo incendio è divampato nel perimetro del porto di Tripoli nel nord del Libano. E un altro è avvenuto nel pomeriggio in un magazzino di pitture nel distretto di Ouzai, nella periferia sud di Beirut, senza fare feriti.
   Questa ennesima esplosione arriva in un momento difficile e preoccupante per il Libano. Il Paese è ancora traumatizzato dalla doppia esplosione del 4 agosto, che ha dilaniato il porto di Beirut, e ha ucciso più di 190 persone e ferito 6.500.
   Quel fatidico 4 agosto, l'incendio è scoppiato in un hangar del porto di Beirut dove erano immagazzinate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, custodite senza alcuna misura di sicurezza. Il 10 settembre è scoppiato un nuovo incendio nello stesso porto, che ha provocato un forte fumo tossico che ha ricoperto la città e causato un tremendo panico tra i beirutini ancora traumatizzati dal disastro di agosto. Quello di ieri è l'ennesimo incidente, Beirut e il Libano sono stremati e davanti ad una grande prova di coraggio e resistenza.
   
(il Giornale, 23 settembre 2020)


Il Qatar appoggia il piano di pace di Trump. Preoccupazione tra i palestinesi

di Paolo Castellano

L'Autorità Palestinese e altri gruppi terroristici palestinesi - compresa Al Fatah - sono preoccupati per le recenti dichiarazioni congiunte di Qatar e Stati Uniti per il consolidamento di uno sforzo comune nella costruzione di un'intesa militare nel Golfo in funzione anti-Iran e della risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi.
   Negli scorsi giorni, Mike Pompeo, Segretario di Stato americano, e Mohammed bin Abdul Rahman Al Thani, ministro degli Esteri del Qatar, si sono incontrati per discutere del futuro del Medioriente dopo la firma degli Accordi di Abramo con Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
   Come riporta Jewish Press, il Qatar ha accolto favorevolmente la normalizzazione diplomatica tra Israele e i due Stati arabi e ha rilasciato insieme agli Stati Uniti una dichiarazione congiunta e un memorandum d'intesa.
   In questa dichiarazione, lo Stato del Golfo riconosce il piano di pacificazione degli Usa e si impegna nella risoluzione della questione israelo-palestinese suggerita dagli americani con la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Invece, gli Stati Uniti hanno riconosciuto il Qatar come "importante alleato NATO". Ciò garantirebbe una collaborazione militare quantificabile intorno ai 26 miliardi di dollari.
   L'avvicinamento tra Stati Uniti e Qatar spaventa la leadership dell'Autorità Palestinese e di Hamas, scavalcata in qualche modo dagli interessi di stabilizzazione della Regione intrapresi da un numero sempre più crescente di Stati arabi. Lo riportano alcune fonti citate da Jewish Press. La preoccupazione nasce dal fatto che il paese del Golfo sia sempre stato un solido sostenitore delle ragioni palestinesi, soprattutto dell'ideologia anti-israeliana del gruppo terroristico palestinese Hamas.
   Sebbene l'Autorità Palestinese non abbia ancora voluto commentare il comportamento del Qatar, l'organizzazione palestinese Al-Fatah ha descritto così la situazione: «Il Qatar ha fretta di unirsi alla normalizzazione delle relazioni con Israele e all'Accordo del Secolo di Trump».
   Più volte il Qatar è stato accusato dal mondo arabo di "finanziare il terrorismo". Per questo motivo nel 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno interrotto i rapporti diplomatici con il paese del Golfo. È inoltre noto che il Qatar guardi con favore alla Fratellanza Musulmana.
   
(Bet Magazine Mosaico, 23 settembre 2020)


Coltivata una specie di datteri che cresceva in Galilea duemila anni fa

Hanno un sapore molto diverso da quello cui siamo abituati

di Luciana Grosso

 
Datteri in vendita a Gaza City
Non sappiamo molto di come si vivesse nella Palestina di 2000 anni fa, all'epoca in cui si colloca la Predicazione di Gesù. Ma una recente ricerca del Louis L. Borick Natural Medicine Research Center presso l'Hadassah Hospital di Gerusalemme insieme al Centro per l'agricoltura sostenibile presso l'Arava Institute for Environmental Studies nel Kibbutz Ketura è riuscita a riportare in vita una qualità di datteri che si credeva perduta per sempre.
Questo grazie ad alcuni dei semi di dattero che fortunosamente ritrovati negli anni '60 durante uno scavo di Masada, la fortezza nel deserto del Mar Morto. La ricerca è partita nel gennaio 2005 è solo ora ha dato - letteralmente - i primi frutti, grazie al fatto che le scienziate impegnate nel progetto sono riuscite a risvegliare i semi.

(Business Insider Italia, 21 settembre 2020)


Israele, quasi quattromila contagi, meno tamponi

Ospedali sovraffollati. In forse riavvio scuole a fine lockdown

Nelle ultime 24 ore sono stati 3.843 i nuovi casi di coronavirus in Israele a fronte di oltre 34mila test. I contagi, da inizio pandemia, sono arrivati a 192.579. Degli oltre 50mila casi attualmente attivi, 653 sono in condizioni gravi e di questi 169 in ventilazione. Le vittime sono ad ora 1.273. Lo ha reso noto il vice ministro alla Sanità, Yoav Kish.
Intanto cresce la preoccupazione per il sovraffollamento degli ospedali alle prese con l'ondata di casi gravi in costanza del lockdown che durerà fino all'11 ottobre se non sarà prorogato. Kish ha fatto capire che le scuole potrebbero non riaprire alla fine del blocco attuale e che l'alto tasso di contagi nel sistema educativo è dovuto in parte al fatto che non sono state osservate in pieno le regole. Il presidente della Corte Suprema Esther Hayut è da oggi in quarantena dopo che uno dei suoi consiglieri è risultato positivo al test.

(ANSA, 22 settembre 2020)


Dahlan: il dopo Abu Mazen. Così gli Usa isolano l'Olp

Il favorito di Trump è a capo del "blocco di riforma" di Fatah, espulso dal movimento, consigliere degli Emirati per il patto In più per Ankara è uno dei golpisti».

di Fabio Scuto

MOHAMMED DAHLAN
Conosciuto come Abu Fadi è un politico palestinese ex leader di Fatah da cui fu espulso nel 2011. Rinchiuso nelle prigioni israeliane con l'accusa di terrorismo contro Israele, lì imparò l'ebraico. Con la nascita della Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, fu scelto da Arafat come capo della sede di Gaza del Servizio di sicurezza preventiva. Fu accusato di aver torturato diversi militanti di Hamas e si dimise nel 2002 per poi essere nominato, nel 2003, ministro per la Sicurezza da Mahmoud Abbas. Vive ad Abu Dhabi.

GERUSALEMME - Hai mai visto un movimento rivoluzionario guidato da un'ottantaquattrenne?", mi chiese non molto tempo fa Hanan Ashrawi, una delle donne simbolo di Fatah, deputato, già ministro della Cultura, fine linguista insignita di prestigiosi riconoscimenti nel mondo, dalla Legion d'Onore francese al premio Olof Palme e undici lauree honoris causa negli Stati Uniti. La domanda è legittima perché anche nella "vecchia guardia" di Fatah si è fatta strada la convinzione che per la causa palestinese bisogna cambiare marcia - che gli eventi stanno sopravanzando e che la leadership di Ramallah abbia fatto il suo tempo. Dopo la firma con i nuovi alleati arabi, del Golfo ora la mossa di Stati Uniti e Israele è quella di isolare l'Autorità palestinese di Mahmoud Abbas.
Abu Mazen, venne eletto nel 2004 e il suo mandato scadeva nel 2009, poi si è andati avanti di proroga in proroga, citando l'impossibilità di tenere elezioni anche nella Striscia di Gaza che nel frattempo col governo di Hamas si era "staccata" dalla Cisgiordania. I tempi sembrano oggi maturi per Abu Mazen, che peraltro ha anche qualche problema di salute e la fronda contro il presidente imbarca nuovi sostenitori ogni giorno. È un fiume carsico, perché nonostante quella sua aria da nonno buono, Abu Mazen è spietato con i suoi oppositori, liquidati spesso con l'accusa di tradimento o di tramare contro l'Anp.
   Sono almeno una decina gli uomini di Fatah che ambiscono a sedersi al suo posto nella Muqata di Ramallah. Giovani Leoni e Vecchia Guardia. In pista ci sono nomi di peso della galassia palestinese. Nasser Al Kidwa, nipote di Yasser Arafat ed ex ministro e ex ambasciatore dell'Anp all'Onu. Jibril Rajoub, attuale presidente del Comitato Olimpico palestinese ed ex capo dei servizi segreti in Cisgiordania. Il generale Majdj al Faraj, già capo della Preventive Security palestinese.
   E naturalmente Mohammed Dahlan, il sessantenne potente ex delfino di Arafat ed ex capo della Preventive Security nella Striscia di Gaza, ora rifugiato nel Golfo Persico, sostenuto anche da Egitto e Arabia Saudita. Ed è su di lui che si stanno puntando le attenzioni degli Stati Uniti di Donald Trump come possibile futuro leader palestinese.
   "Ci stiamo pensando, ma non abbiamo alcun desiderio di costruire la leadership palestinese" , ha detto David Friedman, inviato americano in Israele, in un'intervista a Usa Today. Ma non è un segreto che ci sono elementi all'interno dell'Amministrazione statunitense che sostengono Dahlan per accelerare l'uscita di scena di rovesciare Abbas come presidente della Palestina. Negli anni in cui comandava la sicurezza a Gaza, Dahlan ha avuto modo di avere stretti rapporti di collaborazione con gli Usa, è amico personale dei Clinton e di un paio di ex direttori della Cia. Parla anche un ebraico fluente, appreso durante i suoi 11 soggiorni in gioventù nelle carceri israeliane. La scure di Abu Mazen si è abbattuta su di lui con l'espulsione da Fatah e la denuncia di tradimento nel 2015 e per evitare l'arresto l'ex delfino di Arafat si è rifugiato negli Emirati, dove ha avviato una fiorente attività imprenditoriale ed è tra i consiglieri più ascoltati di Mohammed Bin Zayed al Nayan, l'erede al trono dell'Emirato.
   Il gossip sostiene che sarebbe stato proprio lui uno dei mediatori della recente intesa diplomatica fra gli Emirati e Israele. Dahlan è un uomo d'affari e di relazioni, il suo seguito è ancora forte specie negli apparati di sicurezza palestinesi.
   Oggi gli uomini del "blocco di riforma democratica", il movimento da lui ispirato, non riconoscono più in Abbas il loro presidente.
   Dahlan è anche sotto il tiro della Turchia - che ha messo su di lui una taglia da 5 milioni di dollari - per un suo presunto coinvolgimento nel golpe che nel 2016 voleva rovesciare il presidente Erdogan. Nonostante sia assente sulla scena da diversi anni Mohammed Dahlan gode della fiducia indiscussa degli uomini che hanno lavorato con lui in passato e anche nella Gaza amministrata da Hamas non c'è foglia che si muova a KhanYounis - il più grande campo profughi della Striscia - che lui non voglia. Come un rais, o quasi.

(il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2020)


Abu Mazen, il perenne Presidente palestinese che teme Mohammed Dahlan

Abu Mazen fa arrestare persone vicine a Mohammed Dahlan. Le accuse? Al momento in cui scrivo non si conoscono ma sono sicuro che la fantasia del perenne presidente palestinese saprà ovviare a questa temporanea mancanza.

di Franco Londei

 
Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen, presidente "per forza" della Autorità Nazionale Palestinese (ANP), non teme le elezioni dato che si guarda bene dall'indirle, teme però gli oppositori.
   Il più temibile oppositore di Abu Mazen è senza dubbio Mohammed Dahlan. Ex capo della sicurezza a Gaza per Fatah, ex portavoce dello stesso Fatah, venne estromesso dal partito nel 2011 con l'accusa di essersi appropriato di 16 milioni di dollari, accusa che lo costrinse a fuggire a Dubai.
   Dahlan è accusato - sempre da Abu Mazen - anche di aver collaborato con Israele nell'uccisione del leader di Hamas, Salah Shehade, ucciso nel 2002 e addirittura di essere in qualche modo implicato nella morte di Yasser Arafat, feticcio sempre buono da tirar fuori nei momenti di difficoltà.
   Ora l'ultima accusa che il Presidente palestinese rivolge a Mohammed Dahlan è quella di aver collaborato nell'iniziativa che ha portato al trattato di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, una accusa che vista dalla parte palestinese è gravissima perché prefigura il tradimento.
   Così ieri il perenne Presidente palestinese ha ordinato l'arresto di una mezza dozzina di sostenitori di Dahlan tra i quali Haytham al-Halabi e Salim Abu Safia, non proprio due personaggi qualsiasi.
   Le accuse? Al momento in cui scrivo non si conoscono ma sono sicuro che la fantasia del perenne presidente palestinese saprà ovviare a questa temporanea mancanza.
   Una fonte araba mi rivelava qualche mese fa che la fazione palestinese che faceva capo a Mohammed Dahlan stava diventando sempre più forte in Giudea e Samaria (la c.d. Cisgiordania) e che in caso di elezioni (se mai avverranno) un candidato esponente di quella fazione potrebbe essere appoggiato anche da Hamas.
   È chiaro che ad Abu Mazen tutto questo non piaccia, specie in un momento in cui a seguito degli accordi tra Israele e Paesi arabi, appare particolarmente debole e isolato persino dagli arabi. E quale cura migliore di qualche buon arresto, meglio se di qualità, per rimarcare la propria autorità?

(Rights Reporter, 22 settembre 2020)


Storia di un'identità ritrovata

di Irit Levy

Scaduta la data per presentare la richiesta, il Regno di Spagna ha registrato più di 130.000 domande per l'ottenimento della cittadinanza pervenute da tutti i paesi del mondo. Era il 2015 quando è entrata in vigore la legge che consentiva ai discendenti degli ebrei cacciati alla fine del 1400 di ottenere la cittadinanza in quella terra. Quasi un risarcimento.
Ma chi sono questi neo cittadini spagnoli? Cosa li ha spinti a fare richiesta e perché? Di loro sappiamo che non tutti sono ebrei. Di sicuro, però, tutti sono discendenti di sefarditi: cioè di ebrei espulsi dai territori spagnoli per effetto del decreto emanato da Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia il 31 marzo 1492, oppure di 'conversos' costretti a lasciare la Spagna in seguito, dopo aver abbracciato la religione cattolica, perché perseguitati dall'Inquisizione.
Secondo uno studio recente, a oggi sarebbero 13 milioni nel mondo i figli di quella migrazione forzata: i loro avi furono uomini e donne che si opposero alla conversione o fuggirono alle torture perpetrate in nome della fede cattolica, cercando rifugio nell'Impero Ottomano, in Europa e in Nord Africa.
A Roma è l'Archivio storico della Comunità ebraica che ha supportato 14 persone richiedenti la nazionalità spagnola nella complicata ricerca tra documenti, registri dell'anagrafe e ricostruzioni del proprio albero genealogico per fornire le prove necessarie richieste dalla Legge 12/2015 del 24 giugno. Una Legge che in molti ha risvegliato ricordi, memorie sepolte o addirittura sconosciute, e cambiato migliaia di destini.
Come nel caso di Abigail Rosa, che ha scoperto per caso di essere ebrea.
Abigail (questo è il suo nome ebraico) nasce a Roma, è la più piccola di 5 fratelli e vive una infanzia felice tra le mura di una Villa nobiliare, dove spesso si tengono feste sontuose e ricevimenti. La madre Sandra è una fervente cattolica che ha sempre avuto un rapporto amichevole con la Comunità ebraica capitolina: spesso affitta la villa ai giovani sposi ebrei che scelgono di celebrare le nozze tra le sontuose sale della dimora e il suo magnifico giardino.

 
Un giorno, poiché era impegnata ad organizzare un ricevimento, Sandra chiede ad Abigail di accompagnare la nonna materna in Toscana per fare visita alla sorella Adele.
Di questa zia sconosciuta non si parla mai in casa, ma l'idea di una gita a Siena è sufficiente per accendere il suo entusiasmo.
Quello che non sa invece è che quella visita cambierà la sua vita per sempre.
Arrivata a destinazione, Abigail si rende conto di non essere in una villa privata di famiglia, bensì all'interno di un ospedale psichiatrico.
Adele vi era stata ricoverata anni prima in seguito agli abusi e ai traumi subiti durante la sua prigionia nella Risiera di San Sabba, a Trieste. Una storia sconvolgente che implica una rivelazione ancora più scioccante: mentre la zia dal suo buio infernale chiede terrorizzata alle due donne notizie del duce, e le esorta a scappare prima che sia troppo tardi, Abigail scopre di essere ebrea.
Come un vetro che si spanna, la sua infanzia le scorre davanti agli occhi rivelando dei fermo immagine sconvolgenti. Durante le persecuzioni razziali i genitori di Sandra si trovano costretti a scappare da Casale Monferrato, dove hanno sempre vissuto: non è facile muoversi con cinque bambini piccoli, una domanda ingenua, una parola fuori luogo, un pianto improvviso potrebbe tradirli e mandare a monte l'intero il piano di fuga. L'unico modo per salvarsi è ammutolirli, instillando nella mente dei piccoli il terrore continuo e pressante di essere uccisi.
La famiglia si muove vagando nel Nord Italia fino ad arrivare a Milano. Ma la zia Adele, allora sposata con due figli, viene tradita da una soffiata e catturata, imprigionata, torturata.
Alla fine della guerra Adele è una sopravvissuta che porta dentro e addosso cicatrici che non rimargineranno e un inferno così grande che la famiglia decide di affidarla in cura in un ospedale psichiatrico.

Tornata a Roma, Abigail annuncia alla madre di voler recuperare la propria ebraicità: a nulla valgono le suppliche e i pianti di Sandra: e se la storia si ripetesse? Se ci fosse una seconda Shoah, che fine farebbe la famiglia? Dove si nasconderanno tutti? Ma Abigail prosegue convinta per la sua strada, sempre più curiosa, fiera, e desiderosa di accedere a quella verità che le era stata negata.
La passione per i viaggi la porta nella penisola iberica, una terra di cui si innamora a tal punto da decidere di stabilirsi a Ibiza per buona parte dell'anno, mentre durante la permanenza a Roma frequenta un corso di ebraico biblico organizzato dal Centro di cultura della Comunità ebraica.
E poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva la Legge 12/2015 del 24 giugno: il Regno di Spagna offre la possibilità di ottenere la cittadinanza a chi può dimostrare due requisiti, la condizione di sefardita originario della Spagna e uno speciale vincolo con il Paese.
Per Abigail significa porre l'ultimo tassello ad un puzzle che sta cercando di completare da più di 10 anni. Il lavoro certosino svolto dall'Archivio storico a Roma e dalla Comunità ebraica di Casale Monferrato sono decisivi per la ricostruzione del suo albero genealogico: scopre così che nelle sue vene si intrecciano trame e destini di una famiglia interamente sefardita, segnata dalle persecuzioni nei secoli, dalla cacciata dalla Spagna alle Leggi razziali.
Tra le carte escono i nomi delle famiglie Ottolenghi, Tedeschi, Segre, Sacerdoti, tutti sposati tra di loro, fuggiti dai roghi e dalle conversioni forzate 500 anni prima, e poi di nuovo perseguitati dalla minaccia nazista.
Tutto è chiaro davanti ai suoi occhi, ma come dimostrare all'attuale Regno di Spagna che quegli uomini e quelle donne erano effettivamente i suoi parenti?
Abigail non si dà per vinta e, determinata a scoprire tutta la verità, dà inizio a una caccia incessante per trovare le tracce dei nonni e dei genitori prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale; fino alla svolta decisiva che arriva dalla Comunità ebraica di Casale Monferrato, dove risulta essere stata effettivamente iscritta tutta la famiglia della nonna materna. E' la fine della ricerca, l'inizio di una nuova vita, la 'reconquista' della propria identità.
Abigail oggi è una donna ebrea italiana - e ormai anche spagnola - che vive a Siviglia, è molto attiva nella sua piccola comunità e continua a studiare per migliorare la lingua ebraica e la conoscenza della Torah.
Quando le chiedo cosa ha provato ma soprattutto cosa ha trovato quando ha fatto il giuramento alla bandiera spagnola, risponde così: "Non ho fatto richiesta di cittadinanza per uno scopo materiale ma per la memoria della mia famiglia e di tutti i miei antenati, ebrei sefarditi il cui destino è stato segnato o spezzato per sempre dalle persecuzioni antiebraiche. Questo passaporto lo dedico a loro".

Ah, per la cronaca, la Spagna ha concluso il periodo di accettazione delle domande, ma invece è appena cominciato, con caratteristiche analoghe, quello del Portogallo, che concede la cittadinanza ai discendenti dei sefarditi cacciati. Anche l'Austria mette a disposizione la possibilità di chiedere la cittadinanza, ma quei cittadini ebrei e ai loro discendenti che sono scappati durante la Seconda Guerra Mondiale.

(JoiMag, 22 settembre 2020)


Oggi il ministro Gantz negli Usa per discutere di Iran ed F-35 agli Emirati

Benny Gantz
>GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, si trova oggi a Washington per incontrare il segretario alla Difesa statunitense, Mark Esper, e altri funzionari del Pentagono. Nel corso della visita di 24 ore, riferisce un comunicato stampa israeliano, Gantz discuterà con la controparte statunitense di cooperazione congiunta in materia di sicurezza per ridurre l'espansione iraniana nella regione. La visita di Gantz negli Stati Uniti giunge mentre Washington sta cercando di vendere i caccia multiruolo stealth di quinta generazione F-35 agli Emirati Arabi Uniti. Finora l'ipotesi dell'eventuale vendita degli F-35 agli Emirati ha suscitato delle perplessità a Gerusalemme che teme di perdere la superiorità militare regionale. Secondo quanto previsto dalle leggi statunitensi, il Congresso ha il compito di controllare le vendite di armi ai paesi del Medio Oriente, garantendo a Israele - storico alleato degli Usa - il vantaggio qualitativo.
   Formalmente Israele non può porre il veto alle vendite degli Stati Uniti ad altri paesi del Medio Oriente, ma può sollevare delle problematiche, rendendo l'accordo più complicato. Gantz inizialmente ha espresso preoccupazione per l'acquisizione da parte degli Emirati Arabi Uniti dei caccia da superiorità aerea di ultima generazione. La scorsa settimana, tuttavia, è sembrato ammorbidire i toni e ha detto che l'obiezione di Israele non avrebbe comunque avuto molto peso. "È una prerogativa statunitense, non una prerogativa israeliana, decidere a chi vendere (gli F-35)", ha detto Gantz. A poche ore dalla firma degli Accordi di Abramo, che hanno sancito l'avvio delle relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, il 15 settembre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto che personalmente non ha "alcun problema" a vendere i caccia F-35 agli Emirati Arabi Uniti, nonostante le obiezioni del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Da parte sua, il ministro di Stato emiratino, Anwar Gargash, ha dichiarato: "L'intera idea di uno stato di belligeranza o guerra con Israele è finita, quindi penso che dovrebbe essere effettivamente più facile (acquistare l'aereo da combattimento)".
   Il quarto punto del Trattato firmato il 15 settembre da Israele ed Emirati riguarda la pace e la stabilità. Le parti attribuiscono "profonda importanza alla comprensione reciproca e al coordinamento nell'ambito della pace e della stabilità, come pilastro fondamentale delle loro relazioni e come uno strumento per rafforzare questi aspetti in tutto il Medio Oriente". Le parti "si impegnano a intraprendere i passi necessari per prevenire qualsiasi attività terroristica od ostile reciproca o da parte dei rispettivi territori". Riconoscendo la nuova fase delle relazioni amichevoli e di pace tra loro, così come la centralità della stabilità per il benessere dei rispettivi popoli e della regione, "le parti si impegnano a discutere di questi temi regolarmente e a concludere dettagliati accordi e intese sul coordinamento e la cooperazione", si legge nel testo.

(Agenzia Nova, 22 settembre 2020)


La strage dei turisti israeliani di otto anni fa: due ergastoli (in contumacia) ai colpevoli

L'attentato di Hezbollah in Bulgaria

Sono stati condannati all'ergastolo in Bulgaria i due imputati per l'attentato suicida di Burgas, sul Mar Nero, in cui otto anni fa furono uccisi cinque turisti israeliani, tra cui una donna incinta, e il conducente dell'autobus su cui si trovavano. Altre 40 persone rimasero ferite. L'azione è stata attribuita alla branca militare dell'Hezbollah libanese. L'accusa ha individuato l'autore dell'attacco in Mohamed Hassan al-Husseini, con doppia cittadinanza - libanese e francese -, che avrebbe agito con la complicità di Meliad Farah e Hassan al-Haj Hassan, i due che il Tribunale speciale di Sofia per crimini di terrorismo ha condannato ieri all'ergastolo ma in contumacia, essendo ancora latitanti.
Il fatto avvenne il 18 luglio 2012 nel parcheggio degli arrivi dello scalo aereo di Burgas, poco dopo lo sbarco dei turisti israeliani che erano arrivati con un volo da Tel Aviv. Il gruppo di vacanzieri doveva essere trasportato nel complesso balneare di Slancev Briag (Costa d'Oro). Subito dopo la salita a bordo dei turisti avvenne la potente esplosione che distrusse l'autobus.

(Avvenire, 22 settembre 2020)


Hezbollah pianificava attentati in Italia, lo rivelano gli Usa

Hezbollah voleva compiere attentati in Italia. La clamorosa rivelazione arriva dagli Usa, dove l'ambasciatore del Dipartimento di Stato Nathan Sales, capo degli Stati Uniti per l'antiterrorismo ha dichiarato che il gruppo terroristico sciita ha nascosto esplosivi in tutta Europa, fra cui Grecia, Spagna, Francia e appunto Italia.
Sales, poca prima di un evento dell'American Jewish Committee, ha lanciato un allarme che se confermato farebbe tremare il Vecchio Continente e i vertici dell'Unione Europea, la cui ostinazione per la divisione tra ala politica e ala militare di Hezbollah sta diventando uno stancante ritornello:
"Hezbollah ha spostato attraverso il Belgio grandi scorte di nitrato di ammonio, utilizzato per fabbricare bombe, in Francia, Grecia, Italia, Spagna e Svizzera. Abbiamo ragione di credere che attività di questo tipo siano ancora in corso. Hezbollah rappresenta oggi un pericolo evidente e reale per gli Stati Uniti. Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e presente per l'Europa".
Sales, inoltre, ha spiegato il motivo dell'azione di Hezbollah, mostrandone la subalternità all'Iran:
"Hezbollah può condurre importanti attacchi terroristici ogni volta che i suoi padroni a Teheran lo ritengono necessario".
Cosa contenevano i depositi di armi di Hezbollah in Europa? Sicuramente nitrato di ammonio, la sostanza responsabile dell'esplosione al porto di Beirut dello scorso agosto, dove persero la vita oltre 200 persone (più circa 7000 feriti).
Il funzionario americano non ha specificato come il suo paese abbia ottenuto le informazioni:
"Sappiamo con certezza che Hezbollah ha immagazzinato enormi quantità di nitrato di ammonio in tutta Europa. Gli Stati Uniti hanno chiesto un'indagine completa, aperta, trasparente e approfondita sull'esplosione di Beirut, e speriamo di vederne presto i risultati".
Se confermato, quanto detto dal capo degli Stati Uniti per l'antiterrorismo, si aprirebbero scenari molto preoccupanti per l'Europa che continua a non bandire Hezbollah nella sua interezza, come fatto da Germania e Gran Bretagna.
Come reagirebbero i vertici dell'Unione se venissero attaccati da un gruppo terroristico che hanno difeso con tanta forza?
Cosa farebbe l'opinione pubblica italiana se Hezbollah compiesse un attentato nel nostro paese?
Qualora il gruppo terroristico libanese, braccio armato dell'Iran, colpisse l'Italia, cosa farebbero le autorità? Metterebbero tutto a tacere, mettendo il segreto di storia? Farebbero spuntare un fantomatico erede del colonnello Giovannone per rimandare la verità a data da destinarsi?

(Progetto Dreyfus, 21 settembre 2020)


Qualcosa è meglio di "tutto o niente"

L'accordo fra Israele e i paesi arabi è un grande progresso

Scrive il Jerusalem Post (16/9)

Finalmente una buona notizia. Anzi no, una grande notizia, una notizia di portata storica. La cerimonia di martedì sul prato della Casa Bianca, dove Israele ha firmato accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, è la realizzazione di un sogno degli israeliani vecchio di decenni: essere accettati. Forse non accettati globalmente, ma accettati da parte di alcuni attori regionali estremamente significativi. Il fatto che questa novità abbia luogo mentre le ombre del coronavirus incombono sul paese la rende ancora più gradita. Con il paese sull'orlo del lockdown proprio alla vigilia di Rosh Hashanà (il capodanno ebraico), la cerimonia di Washington ha dato a tutti noi un motivo per cui rallegrarsi, almeno brevemente. Ed è certamente il caso di rallegrarsi per gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Anche coloro che non amano il primo ministro Benjamin Netanyahu né il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrebbero plaudire a questi accordi, perché costituiscono una grande svolta in medio oriente.
   Gli accordi firmati a Washington non risolvono tutti i problemi strategici d'Israele. L'Iran rimane una minaccia, Gaza una tragedia umanitaria e la questione palestinese continua a inasprirsi. Ma gli accordi dimostrano che è possibile separare la questione palestinese e pensare in modo diverso e creativo. Fino a martedì, per la pace mediorientale il mondo era incatenato a un paradigma del tipo "tutto o niente" che non ha funzionato per un quarto di secolo: o la pace completa con i palestinesi, o niente del tutto con il mondo arabo. Ma la realtà può essere molto più sfumata, e questo accordo ne prende atto. E' possibile avere qualcosa con il mondo arabo anche in assenza di una pace piena con i palestinesi, nell'auspicio che relazioni migliori con il mondo arabo possano effettivamente portare, tra gli altri vantaggi, a migliori possibilità di pace con i palestinesi. Come mai? Perché i principali stati arabi possono ora spingere i palestinesi verso una maggiore flessibilità; perché i palestinesi potrebbero finalmente rendersi conto che il tempo non lavora a loro favore; perché Israele potrebbe infine sentirsi abbastanza sicuro da correre dei rischi che prima non poteva permettersi.
   Una delle equazioni fallimentari dei precedenti tentativi di una pace israelo-palestinese era l'idea che non si può concordare su nulla finché non si è trovato un accordo su tutto. Questa equazione aveva bloccato il processo. Più di 40 anni dopo il trattato di pace egiziano-israeliano solo chi ha paraocchi ideologici sosterrebbe che gli Accordi di Camp David non hanno portato enormi benefici a Israele, all'Egitto e a tutta la regione, anche se non hanno risolto la questione palestinese. Lo stesso vale oggi. Solo chi è accecato dall'ideologia sosterrà che gli accordi firmati martedì non sono buoni perché risolvono solo alcuni problemi, ma non tutti".

(Il Foglio, 21 settembre 2020)


L'Honduras trasferirà l'ambasciata a Gerusalemme entro la fine dell'anno

 
Juan Orlando Hernandez e Reuven Rivlin
Anche l'Honduras trasferirà la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme. E "spera" di farlo "prima della fine dell'anno". La conferma è arrivata nelle ultime ore dal presidente Juan Orlando Hernandez, dopo che la scorsa estate era stato aperto un?ufficio commerciale a Gerusalemme, come distaccamento dell'ambasciata, sulla scia della decisione - due anni fa - del presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferirvi la rappresentanza diplomatica Usa.
Su Twitter Hernandez ha parlato di un passo concordato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e ha anche annunciato che Israele aprirà per la prima volta un'ambasciata a Tegucigalpa. "Ho appena finito di parlare con Netanyahu per rafforzare la nostra alleanza strategica e concordare l'apertura delle ambasciate a Tegucigalpa e Gerusalemme. Speriamo di compiere questo passo storico prima della fine dell'anno, pandemia permettendo", ha twittato il presidente, sottolineando i "legami tra Honduras e Israele".
Una nota dell'ufficio di Netanyahu conferma che Israele aprirà entro dicembre la sua missione diplomatica a Tegucigalpa dopo aver inaugurato il mese scorso un ufficio di rappresentanza.

(Shalom, 21 settembre 2020)


Inizio di disgelo fra arabi e israeliani

di Peter Schiesser

È l'alba di un nuovo Medio Oriente, come annunciato dal presidente statunitense Trump? Forse. Di certo la decisione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele è un evento storico, come ha rimarcato il premier israeliano Netanyahu, la cui portata sarà misurata sugli effetti che avrà su altri paesi arabi (Egitto e Giordania avevano già normalizzato le relazioni nel 1979 e nel 1994). Ne seguiranno altri? Si parla dell'Oman, ma anche del Sudan, mentre l'Arabia Saudita, potenza regionale che si contende la supremazia con l'Iran, non si muove ancora. Il Bahrain è quasi un suo Stato vassallo, la sua monarchia (sunnita come quella saudita) comanda su una popolazione a maggioranza sciita che occhieggia a Teheran, è poco immaginabile che abbia deciso di normalizzare i rapporti con Israele senza il beneplacito di Ryad, in particolare del principe ereditario Mohamed bin Salman. Per ora la posizione ufficiale della monarchia saudita è che non può esserci normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale (così il ministro degli esteri Faisal Ben Farhan il 17 agosto), coerentemente con «l'iniziativa di pace araba» lanciata nel 2002 dal defunto Re Abdullah; tuttavia nel recente passato Mohamed bin Salman ha lanciato segnali di apertura verso Israele, secondo alcuni vorrebbe coinvolgerlo nella realizzazione del suo piano di sviluppo economico, «Visione 2030», con cui intende liberare l'Arabia Saudita dalla dipendenza dal petrolio.
  In senso stretto, non si tratta di un accordo di pace, poiché fra questi tre Stati non c'è mai stata guerra. E in realtà intrattengono rapporti in campo economico e della sicurezza da diversi anni, benché in sordina, come fanno anche altri paesi. Riconoscerli ufficialmente cambia però le carte in tavola: Israele cessa di essere considerato un paria e può ambire a una maggiore integrazione in un Medio Oriente in cui fino ad oggi è stato al massimo mal tollerato. Per Netanyahu un bel regalo in un momento di difficoltà interne, con Israele che ha decretato il secondo lockdown a causa della pandemia, per Trump un successo in politica estera più sostanzioso dell'accordo con i talebani afghani e dei tentativi di risolvere il decennale stato di crisi con la Corea del Nord.
  Ma come si è giunti a questa svolta? Secondo quanto letto sul «New York Times» la proposta di normalizzare le relazioni con Israele è giunta dagli Emirati Arabi Uniti, in cambio della rinuncia da parte di Israele di annettersi la Cisgiordania. L'Amministrazione Trump ha colto la palla al balzo, con il merito di capire la portata storica che poteva avere questa mossa. Tuttavia, una simile decisione non sorge dal nulla: rispetto a 20, 30, 50 anni fa il Medio Oriente è mutato, drammaticamente si può dire. La questione palestinese ha perso la sua centralità, messa in ombra dalle rivoluzioni della cosiddetta «Primavera araba» del 2011 e dalle sanguinose guerre e rivolte che ne sono seguite, in cui le vecchie élite hanno dovuto (e devono tuttora) temere di finire come Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia o peggio come Gheddafi in Libia. Inoltre, le guerre, soprattutto quella in Siria ma anche quella scatenata dall'Arabia Saudita nello Yemen, hanno riportato a galla il fossato fra sunniti e sciiti, i primi capitanati dall'Arabia Saudita, i secondi dall'Iran, rendendo ancora più visibile e palpabile sul terreno lo scontro di potere fra queste due potenze regionali. Infatti, molti commentatori leggono questa svolta in funzione anti-iraniana: alla prova dei fatti ai regnanti arabi fa più paura Teheran di Tel Aviv (ricordiamo che nel Bahrain fra il 2011 e il 2014 ci sono state proteste popolari e scontri con morti e feriti che hanno coinvolto cittadini sciiti contro forze dell'ordine e cittadini sunniti). Dopo questo decennio sanguinoso, che ha visto anche la nascita e il declino dello Stato Islamico, è venuto a cadere l'assioma secondo cui la pace in Medio Oriente dipende solo dall'esistenza e dal comportamento di Israele.
  I perdenti sono chiaramente i palestinesi. Non possono più contare sull'appoggio incondizionato dei fratelli arabi, né sul fatto che gli Stati Uniti giochino il ruolo di veri mediatori (il piano di pace presentato dall'Amministrazione Trump riconosceva quasi unicamente le pretese israeliane ed è stato quindi rifiutato dai palestinesi). Il loro isolamento è aggravato dalla spaccatura fra Hamas, che controlla Gaza, e l'Autorità nazionale palestinese, radicata nella Cisgiordania. Ottimisticamente, c'è chi ipotizza che, venendo pian piano a cadere le minacce esterne, Israele si ammorbidisca anche verso i palestinesi, che l'idea di uno Stato autonomo per i palestinesi potrebbe tornare d'attualità. Ma potrebbe essere anche il contrario. In quel caso la rabbia dei palestinesi, figlia di una frustrazione e di un'oppressione decennale, potrebbe esplodere nuovamente. Anche oggi, una vera pace in Medio Oriente non può prescindere da una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

(Azione.ch, 21 settembre 2020)


Emirati: gruppo alberghiero pianifica l'apertura di un ufficio di rappresentanza in Israele

IL CAIRO - Il gruppo alberghiero emiratino Al Habtoor Group (Ahg), con sede a Dubai, ha in programma di aprire un ufficio di rappresentanza in Israele. Lo riferisce il quotidiano saudita "Arab News". L'annuncio è arrivato dopo un incontro tra l'ad del gruppo emiratino, Khalaf Ahmad al Habtoor, e quello del gruppo immobiliare e finanziario israeliano Ampa Group, Shlomi Fogel. Il gruppo Habtoor - i cui ambiti di attività includono anche costruzioni, istruzione e auto - è attualmente in trattativa con la compagnia israeliana Israir per avviare collegamenti aerei commerciali diretti tra lo Stato ebraico e gli Emirati.

(Agenzia Nova, 21 settembre 2020)


'A mèvesa 'mbuttunata: le origini ebraiche del piatto dei salernitani per San Matteo

Il 21 settembre è il giorno più atteso dai salernitani, la città si ferma e si riunisce per festeggiare San Matteo, Patrono della città.

 
La milza imbottita salernitana
Il momento clou della celebrazione è la processione che attraversa il Centro Storico della città per poi rientrare al Duomo. La tradizione vuole che la processione venga aperta da tre statue in argento, raffiguranti i Martiri salernitani Anthes, Gaio e Fortunato, definiti dalla cittadinanza come le "tre sorelle" del Santo. Quest'anno, a causa dell'emergenza del coronavirus, la processione pomeridiana non si terrà come nelle scorse annate.
   La leggenda vuole che San Matteo, di professione pubblicano ovvero collettore di imposte, al momento di seguire Gesù si voltò per guardare tutte le ricchezze e così la statua fu fatta con due facce. Di conseguenza tutti i salernitani si dice che abbiano due facce.
Piatto tipico della tradizione culinaria salernitana in occasione della celebrazione di san Matteo è la milza imbottita, le cui origini si fanno risalire ai primi insediamenti ebraici in città.
   In molti ignorano la presenza di una comunità ebraica a Salerno le cui tracce scritte risalgono al X secolo. Il quartiere ebraico, o giudecca, sorgeva vicino alla riva del mare, tra le attuali via Masuccio Salernitano e vico Giudaica. Una tradizione vuole tra i fondatori della Scuola Medica Salernitana l'Ebreo Elino, che avrebbe insegnato in ebraico, mentre altri tre colleghi avrebbero insegnato rispettivamente in greco, arabo e latino.
   Questo insediamento stabile della comunità ebraica salernitana ha lasciato, nel corso dei secoli, importanti tracce della sua presenza in città a livello sia economico (mercanti, banchieri, tessitori, conciatori) che culturale ed ha influenzato anche la cucina del territorio. E uno dei piatti tipici della festa di san Matteo a Salerno, "'a mèvesa 'mbuttunata",la milza cotta nell'aceto e imbottita di prezzemolo e peperoncino, consta proprio di origini ebraiche.
   Per la macellazione della carne gli ebrei, secondo i loro dettami religiosi, non potevano percepire denaro per il proprio lavoro, e quindi trattenevano come ricompensa le interiora che cucinavano come farcitura per panini che vendevano poi ai "gentili", cioè ai cristiani.
   La milza venne poi utilizzata come strumento di baratto tra i macellai e gli allevatori che vendevano i loro animali in cambio delle interiora, o i popolani e agricoltori che chiedevano nei macelli le interiora che allora venivano vendute a prezzi estremamente bassi. Un cibo poverissimo, dunque, in grado però di sfamare e corroborare chi aveva poco o nulla da mangiare, e che nel tempo a Salerno è diventato fortemente indentitario della festa di San Matteo, tant'è che non manca mai sulle tavole imbandite in questo particolare giorno.

(UlisseOnline, 21 settembre 2020)


Shalom News - Edizione del 20 settembre 2020




(Shalom, 20 settembre 2020)


La cannonata di capitan Segre che riscattò e illuse gli ebrei

di Riccardo Di Segni*

Chissà se e come quest'anno, anniversario importante in cifra tonda (150 anni) della breccia di Porta Pia del 20 settembre, le manifestazioni in ricordo saranno partecipate e sentite. Tra Covid-19, polemiche mai sopite e memoria sempre più lontana si prevedono messaggi ufficiali e poco più. A quel poco che ci sarà non potranno partecipare istituzionalmente gli ebrei perché quest'anno la data coincide con il Rosh haShanà, II capodanno religioso.
   Eppure tra i pochi a conservare una memoria positiva di quell'avvenimento sono proprio gli ebrei, e specialmente gli ebrei romani, per i quali l'ingresso del regio esercito a Roma significò la fine della soggezione di secoli al dominio papale, che li teneva ancora chiusi nel ghetto con tutta una serie di limitazioni e umiliazioni. Ultimi, gli ebrei romani, tra quelli viventi nel regno d'Italia a ottenere l'emancipazione e i diritti di cittadinanza, elargiti nel 1848 dallo Statuto Albertino.
   Non fu un caso che il compito (ingrato o ambito, dipende dai punti dl vista) di aprire a cannonate la breccia suite mura fu affidato (tra gli altri) a un ebreo piemontese, Giacomo Segre, capitano di artiglieria, che non temeva la minaccia di scomunica. La storia di questo ufficiale e della sua famiglia è emblematica di quello che capitò agli ebrei italiani prima e dopo Porta Pia. Il figlio Roberto, nato due anni dopo, fu generale di artiglieria e ebbe un ruolo decisivo e controverso nella Prima guerra mondiale e nelle trattative di pace che ne seguirono; morì nel 1936 risparmiandosi l'onta delle leggi razziali e delle persecuzioni che colpirono i suoi discendenti. Lo stesso Stato che aveva demolito i ghetti, privava gli ebrei dei diritti elementari. Una bella lezione contro gli entusiasmi per un sistema, un progetto politico, una dinastia. Sappiamo quanto sia stato divisivo l'evento del 20 settembre nella memoria collettiva, rappresentando il simbolo dei conflitto dello Stato con la Chiesa cattolica. Solo per breve periodo fu festa nazionale; introdotto a fatica e tardivamente nel 1895 fu cancellato subito dopo i patti lateranensi. Nuovi equilibri tra poteri e imbarazzi mai sopiti continuano a ostacolare analisi serene. Per gli ebrei romani e italiani fu comunque un evento decisivo, che aprì una stagione di piena integrazione, ma di breve durata, perché ancora prima ancora del fascismo, la presenza di pochi ebrei illustri nelle stanze del potere (da Luigi Luzzatti a Ernesto Nathan) entrò in conflitto con i politici cattolici; ognuno di questi personaggi aveva un rapporto molto personale con le sue origini, ma altri non omettevano di farglielo pesare; è un capitolo di storia ancora poco studiato. L'importanza del 20 Settembre rimane in ogni caso e gli ebrei come sempre assolvono al compito del mantenimento della memoria cercando, con fatica, dl evitare le derive retoriche; ma non vorrebbero essere delegati e lasciati quasi soli a custodire un patrimonio comune di valori civili e di storia nazionale.

* Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma

(la Repubblica, 20 settembre 2020)


Proteste in Israele contro il nuovo lockdown

Nel giorno del capodanno ebraico

Le proteste hanno riguardato tra l'altro anche le spiagge, l'accesso alle quali è vietato dalle nuove misure
In Israele si festeggia il Rosh ha Shanà, ovvero il capodanno ebraico. Le celebrazioni coincidono tuttavia con la ripresa del lockdown, nella capitale Gerusalemme e nelle altre città maggiori. Sulla spiaggia di Tel Aviv, ieri centinaia di manifestanti hanno protestato contro questa decisione drastica, che «nuoce alla popolazione e all'economia, produce disoccupazione e suicidi», secondo gli organizzatori. I casi finora registrati nel Paese ebraico sono 179.071, e i decessi 1.196.

(LaPresse, 20 settembre 2020)


Il re contro il principe così la pace con Israele divide l'Arabia Saudita

L'erede al trono porta avanti da anni una politica sotterranea di avvicinamento allo Stato ebraico Da tempo fra i reali ci sono divergenze sulla questione palestinese: ora diventano pubbliche

di Francesca Caferri

«Ci hanno abbandonato tutti: i sauditi per primi». Così nel dicembre 2017 i giovani palestinesi di Gerusalemme Est reagivano all'annuncio di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Quell'annuncio era stato preceduto da una trattativa segreta, in cui il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman aveva svolto un ruolo di primo piano, incaricandosi di convincere per conto di Jared Kushner - genero del presidente Trump e da lui nominato inviato per il Medio Oriente - i palestinesi ad accettare il sobborgo di Abu Dis, alla periferia Est di Gerusalemme, come capitale palestinese. Il piano fu poi fermato dall'unico intervento capace di bloccare MBS, acronimo con cui il principe è chiamato: quello del padre, re Salman.
   Il dissenso che spacca la famiglia reale saudita sulla questione palestinese è noto da allora: i vecchi come il re e il suo entourage. contro i giovani come il principe e i suoi. Coloro che hanno vissuto di persona la disfatta palestinese negli ultimi 70 anni contro quelli che vogliono guardare al futuro e non vedono più nella contrapposizione con Israele una chiave di lettura dell'identità araba contemporanea. Oggi che il nuovo Medio Oriente disegnato da Kushner per Trump è diventato realtà con là firma dell'accordo fra Israele da una parte e gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein dall'altra, la divergenza di opinioni assume toni pesanti, capaci di modificare gli equilibri regionali.
   Lo conferma un'inchiesta pubblicata ieri dal Wall Street Journal: secondo la ricostruzione del quotidiano finanziario americano, MBS, a cui l'anziano padre (84 anni) ha delegato la gestione quotidiana degli affari del regno, non avrebbe informato il re delle trattative in corso fra gli Emirati e Israele per la firma del trattato di pace. Il principe era ben consapevole dell'opposizione del padre a qualunque accordo che non comportasse una soluzione reale per la questione palestinese e sapeva che una presa di posizione pubblica del monarca avrebbe potuto far deragliare tutto. Così a Salman - che durante gli anni da governatore di Riad amava definirsi "ambasciatore' dei palestinesi nel regno saudita" - la trattativa sarebbe stata tenuta nascosta fino all'ultimo istante, complice un'operazione che ha subito qualche settimana fa e la convalescenza impostagli dai medici.
   «Furiosa» la reazione del sovrano, secondo il giornale: «Se qualche altro Stato volesse seguire l'esempio degli Emirati Arabi Uniti, dovrebbe chiedere in cambio un prezzo alto», ha scritto poi il principe Turki al-Faisal, ex ambasciatore a Washington e considerato vicino al re. Posizione ribadita dal sovrano in una telefonata a Trump il 6 settembre: il regno, sottolineava allora un comunicato dell'agenzia di stampa saudita, resta convinto che la soluzione al conflitto israelo-palestinese si trovi nelle pagine del piano di pace presentato nel 2002 proprio da Riad.
   Ma, nei fatti, negli ultimi anni la politica saudita si è allontanata da quel piano: come il leader emiratino Mohammed Bin Zayed, MBS ha promosso una cooperazione sotterranea con Israele su cybersicurezza e tecnologia oltre che in chiave anti-iraniana. E ha auspicato il sostegno dei gruppi dell'high tech israeliano per lo sviluppo dl NEOM, la città robotizzata in costruzione sul Mar Rosso e per la rivoluzione economica che sta portando avanti nel regno. Un cambiamento culturale, oltre che strategico, che vede nella contrapposizione all'Iran - nemico comune di Israele e dell'Arabia Saudita - l'asse degli equilibri regionali futuri.

(la Repubblica, 20 settembre 2020)


Ecco come Trump ha rovesciato gli schemi fallimentari di Obama in Medioriente

L'approfondimento di Atlantico Quotidiano dopo l'accordo fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein siglato grazie a Trump

di Dorian Gray

Per comprendere gli Accordi di Abramo firmati a Washington il 15 settembre 2020 non bisogna partire dalla presidenza Trump, ma da quella di Barack Obama. È stato il presidente Obama a creare l'environment che poi, abilmente Trump ha sfruttato per arrivare all'accordo tra Israele e il mondo arabo sunnita moderato del Golfo.
  Ma si badi bene: non è un certo complimento all'ex presidente Usa. Infatti, il contesto lasciato dall'amministrazione Obama è il risultato del fallimento della sua strategia in Medio Oriente, ma ha permesso ad una parte importante del mondo arabo - quella che nel 2002 aveva promosso la proposta di pace della Lega Araba - di comprendere definitivamente che Israele non è il vero nemico e che la questione palestinese non poteva più essere una conditio sine qua non per firmare un accordo con lo Stato ebraico.
  Cosa voleva Obama? È presto detto: 1) un equilibrio del terrore in cui l'Iran fosse praticamente alla pari di Israele, bloccando soltanto parzialmente il programma nucleare di Teheran; 2) un nuovo equilibrio nel
La politica obamiana ha garantito la libertà di movimento agli iraniani in Medio Oriente e il sostegno degli Usa alla Fratellanza Musulmana, perché considerata erroneamente rappresentante delle istanze sociali dell'Islam. Insomma, come direbbero a Napoli "nu papocchio".
mondo sunnita, che de facto abbandonava a loro stesse le vecchie monarchie regnanti, considerate ormai quasi prive di legittimità. Nei fatti, la politica obamiana si è tradotta, stringendo al massimo, nel garantire libertà di movimento agli iraniani in tutto il Medio Oriente e nel garantire il sostegno dell'amministrazione Usa alla Fratellanza Musulmana, perché considerata erroneamente rappresentante delle istanze sociali dell'Islam (con buona pace dei diritti civili, dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali). Insomma, come direbbero a Napoli "nu papocchio".
  Purtroppo per Obama, le forze politiche e le monarchie sunnite moderate del Golfo, che lui tanto disistimava, sono riuscite a tenere il timone, reagendo a quella che percepivano come una diretta minaccia alla loro esistenza. Sono riuscite a bloccare l'espansione dell'islamismo in Paesi come l'Egitto e hanno direttamente reagito alla minaccia iraniana in aree calde come il Libano, dove Hezbollah ormai la faceva da padrone. Se il Libano è fallito, non è solo perché è fallito il suo patto nazionale o perché è fallito l'ancoraggio al dollaro voluto da Rafiq Hariri, ma soprattutto perché le monarchie del Golfo - Arabia Saudita su tutte - hanno disinvestito da Beirut e le rimesse dei libanesi che vivono a Riad e Abu Dhabi sono venute meno. Una reazione costante e silenziosa al potere sciita khomeinista, che di fatto si è rivelata vincente (la crisi del Libano, ricordiamolo, non nasce con le esplosioni di Beirut, ma ben prima).
  Ora veniamo a Trump. Il "cialtrone in chief" Trump, come qualcuno ama definirlo, ha proseguito sulla strada del disimpegno americano dal Medio Oriente, che va avanti da decenni e che era avanzato anche con Obama. Trump però, ha ribaltato il paradigma: ritiro sì, ma ricostruendo le alleanze tradizionali americane in quella regione e rimettendo al suo posto la reale minaccia all'instabilità di quell'area, ovvero l'Iran. In quattro anni, il regime iraniano è stato schiacciato economicamente, con una strategia che - nonostante il mega accordo tra Teheran e Pechino - sta costringendo anche la Cina a condizionare i suoi legami con la Repubblica Islamica in base ad alcuni limiti di rule of law (come per esempio la riforma del settore bancario iraniano richiesta da anni dal Financial Action Task Force).
  La ricostruzione delle alleanze tradizionali americane, quindi, doveva andare di pari passo con la responsabilizzazione degli attori locali (così come Trump sta chiedendo ai partner Nato di avere un ruolo
Probabilmente Trump quando ha presentato "l'accordo del secolo" fra israeliani e palestinesi, sapeva già che l'annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo,
più attivo nella gestione delle spese e degli oneri dell'Alleanza Atlantica). Ovviamente, questa responsabilizzazione passava direttamente per un accordo geopolitico che fosse in grado di mettere insieme l'attore regionale più forte, Israele, con gli alleati sunniti moderati dell'Occidente, Arabia Saudita in testa, aumentando la sicurezza di tutti. Probabilmente, lo stesso Trump quando ha presentato "l'accordo del secolo" fra israeliani e palestinesi, sapeva già che l'annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo, mostrando come la questione palestinese restasse comunque dentro l'accordo (ovviamente i palestinesi hanno espresso il loro ennesimo rifiuto, ma ormai a questo ci siamo tutti abituati).
  Così, pur condividendo con Obama la tendenza al progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente, ma ribaltando la sua fallimentare strategia, che ha prodotto solo destabilizzazione, Trump è riuscito in una impresa storica, che promette di cambiare per sempre il volto del Medio Oriente. È forse l'alba di un nuovo ordine geopolitico regionale che, per l'appunto, ha nell'islamismo politico, di matrice sia sciita che sunnita, il nemico da combattere.
  Se vogliamo, storicamente parlando, il Medio Oriente di oggi ha tradito Ben Gurion, per ritornare ai tempi di Feisal e Weizmann. Ben Gurion sognava una normale alleanza geopolitica tra Israele e i Paesi non arabi, Iran e Turchia in testa. Così è stato dall'inizio della Guerra Fredda, fino a quando è stato valido il Patto di Baghdad (1955). Ma le cose poi sono cambiate, prima con la rivoluzione iraniana del 1979 e poi con l'arrivo al potere di Erdogan ad Ankara. Così, il mondo ebraico è tornato a quell'intesa del 1919 tra l'allora presidente dell'Organizzazione mondiale sionista Weizmann, poi primo presidente di Israele, e il figlio di Hussein lo Sceriffo della Mecca. Un accordo in cui gli arabi, alleati degli inglesi, si dicevano favorevoli alla Dichiarazione Balfour e al progetto sionista in Palestina. Agli inglesi, oggi basta sostituire gli americani e il gioco, brutalizzando al massimo il paragone, è fatto.
  Si badi bene: pensare che quello tra Israele e il mondo arabo sunnita sia un accordo solo contro l'Iran sarebbe una banalizzazione di qualcosa di enormemente più grande. Come già scritto, in ballo c'è la
in ballo c'è la costruzione di un nuovo Medio Oriente e un dialogo stretto fra mondo ebraico e mondo sunnita moderato. Una partnership strategica, che passa per accordi finanziari, nel settore dell'edilizia, nel settore della scienza e dell'hi-tech e nel settore commerciale.
costruzione di un nuovo Medio Oriente e un dialogo stretto fra mondo ebraico e mondo sunnita moderato. Una partnership strategica, che passa per accordi finanziari, nel settore dell'edilizia, nel settore della scienza e dell'hi-tech e nel settore commerciale. Israele, da anni, aveva rilanciato il progetto del "railway for peace", una grande linea ferroviaria che intende collegare il porto di Haifa con l'Arabia Saudita, passando per la Giordania. Oggi, guarda caso, nel porto di Haifa, vogliono investire direttamente gli emiratini (il quotidiano Haaretz parla di un prossimo accordo tra la società israeliana Israel Shipard e l'emiratina DC World). Il volume di scambi calcolato annualmente tra Israele e gli Emirati potrebbe raggiungere la cifra di 4 miliardi di dollari l'anno, mentre da Manama si dicono disposti ad investire nelle infrastrutture israeliane per un valore di almeno 500 milioni di dollari.
  Come ha poi detto Trump, altri Paesi seguiranno (si parla di Marocco, Sudan, Oman e ovviamente Arabia Saudita). Per quanto concerne Riad, non sappiamo quando farà il passo finale verso la normalizzazione, ma è chiaro a tutti che il Bahrein è stato mandato avanti in questa partita con la piena benedizione di Mohammed Bin Salman. I sauditi potrebbero, come pare voler fare il Marocco, avviare prima voli diretti con Israele, per poi normalizzare le relazioni diplomatiche.
  La mossa, dal punto di vista geopolitico, va quindi vista anche in chiave anti-turca. In questo caso, se guardiamo a quello che sta succedendo nel Mediterraneo orientale, l'Accordo di Abramo si potrebbe tranquillamente allungare verso la Grecia e Cipro, con la Francia primo Paese europeo disposto a benedirlo, al fine di contrastare l'attivismo di Erdogan e difendere gli interessi militari ed energetici di Parigi.
  L'Italia, in questo contesto, potrebbe certamente giocare la sua partita, a patto che decida finalmente da che parte stare. Per ora, Roma gioca nel mezzo, consapevole di essere finita nella trappola di Erdogan, ma anche incapace di liberarsene in maniera netta. Quanto questa doppio gioco potrà durare, non è dato saperlo. Resta il fatto che in Italia potrebbe arrivare il gasdotto Eastmed, che permetterebbe all'Ue di diversificare i suoi approvvigionamenti di gas, soprattutto dalla Russia. Eastmed ad alcuni pare non conveniente economicamente, ma va considerato come un progetto geopolitico strategico, che tra l'altro potrebbe tranquillamente essere rivisto per congiungersi nella parte finale con il TAP proveniente dall'Azerbaijan.
  Infine, due parole sui vertici europei: vergognosa la loro assenza alla firma a Washington dell'Accordo di Abramo. Un'assenza figlia dell'ideologia di Oslo, quella che vedeva solo nella questione palestinese la via per risolvere i problemi del Medio Oriente. Una lettura "dalemiana" delle relazioni internazionali, che si è sempre rivelata filosoficamente affascinante, ma praticamente fallimentare. Pochi ricordando, in questo senso, che il conflitto israelo-palestinese, prima di essere tale, è stato arabo-israeliano. L'Europa quindi può scegliere: o segue la via tracciata da chi ha capito che, falliti gli accordi di Sykes-Pikot, è tempo di ricostruire un ordine regionale fondato sulla pace e la convivenza pacifica, o resterà prigioniera della Dichiarazione di Venezia del 1980, quella con cui gli europei riconobbero l'Olp, ma che nei fatti ha reso la diplomazia del Vecchio Continente una macchina burocratica che ormai si è totalmente inceppata.
  Come direbbe Vasco Rossi, "qui si fa la storia!". Chi sarà in grado di salire su questo treno ora ne godrà i frutti, chi se lo lascerà scappare ne pagherà le conseguenze per decenni. Nella seconda categoria, quella che perde costantemente i treni, fino ad oggi ci sono stati i palestinesi…

(Start Magazine, 20 settembre 2020)


Se è vero che Trump "sapeva già che l'annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo" bisogna dire che la mossa dell'accoppiata Trump-Netanyahu è stata un autentico colpo di genialità politica. Donald dice a Bibi: "Tu grida ai quattro venti che vuoi annetterti parti della Cisgiordania, poi entro io invitandoti pubblicamente alla moderazione e intanto parlo con gli arabi. Quelli hanno una voglia matta di fare la pace con noi, ma non possono farlo se tu mantieni l'intenzione di togliere terra ai palestinesi. A questo punto intervengo di nuovo io dicendo agli arabi che loro potrebbero atteggiarsi a salvatori dei palestinesi presentandosi come quelli che sono riusciti a impedire l'annessione. In che modo? Semplice, "limitandosi" a riconoscere ufficialmente lo Stato d'Israele e stabilendo con lui relazioni diplomatiche. Così otterremo tutto senza dare niente, cioè semplicemente dicendo che non farai quello che avevi minacciato di fare". E così è stato. Se prima i palestinesi si prendevano da Israele la terra offrendogli in cambio la "pace" (cioè la promessa di non fare guerra), adesso i palestinesi ottengono da Israele la "pace" (cioè il fatto di non subire annessioni) e Israele si prende la fine dell'isolamento diplomatico nel mondo arabo mediorientale. Che poi Trump e Netanyahu abbiano anche di mira interessi elettorali all'interno dei loro paesi, non cambia in nulla il giudizio politico che deve essere dato sulla loro mossa. M.C.


Qatar: Doha normalizzerà i rapporti con Israele ?

Ci aspettiamo che il Qatar finisca per normalizzare le proprie relazioni con Israele malgrado le forti critiche di Doha agli accordi stretti da Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Lo ha affermato Timothy Lenderking, vice assistente segretario di Stato Usa per i paesi del Golfo, come riferisce il quotidiano saudita «Arab News».
   Durante una videoconferenza, Lenderking ha ricordato che il Qatar è stato il primo paese del Golfo a permettere a Israele l'apertura di un ufficio nella propria capitale, Doha, e ha aggiunto che « il Qatar si interfaccia con Israele e lo fa apertamente da vari anni. Ricordiamo il ruolo del Qatar in un cessate il fuoco tra Hamas e Israele due settimane fa: un eccellente esempio della diplomazia qatariota grazie alla quale Doha può utilizzare la propria influenza per migliorare la situazione ». Lenderking ha aggiunto che il Qatar ha sviluppato relazioni positive con funzionari israeliani, sottolineando che « ciascun paese si muoverà con il proprio passo e secondo propri criteri verso la normalizzazione ».

(MenaNews, 20 settembre 2020)


Gli USA riapplicano le sanzioni all'Iran ma è la Turchia il vero pericolo

di Franco Londei

È più temibile l'Iran scalcinato degli Ayatollah, oppure è più temibile quella formidabile macchina da guerra che è la Turchia del Califfo Erdogan, capo della Fratellanza Musulmana?
   Ieri (sabato) gli Stati Uniti hanno proclamato unilateralmente che le sanzioni Onu contro l'Iran sono tornate in vigore e hanno promesso di punire duramente chi le viola.
   Bisogna tuttavia precisare che solo gli Stati Uniti applicano le sanzioni a Teheran anche se la minaccia di negare l'accesso al sistema finanziario e ai mercati statunitensi a chi viola tali sanzioni appare concreta e formidabile.
   Francia, Gran Bretagna e Germania hanno inviato una lettera congiunta al Consiglio di Sicurezza dell'Onu nella quale si afferma senza tanti giri di parole che la decisione americana è illegale.
   Ora, legale oppure no, Trump ha già dimostrato in passato di non curarsi dei "dettagli" per cui è plausibile che in vista della Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà a ottobre e delle successive elezioni presidenziali americane, decida qualche mossa ad effetto contro l'Iran.
   Bene, Teheran è senza dubbio pericolosa e temibile, minaccia continuamente di distruggere Israele e comanda da remoto un apparato militare e terroristico di tutto rispetto. Ma è veramente il nemico più temibile sia per Israele che per il mondo occidentale?
   Certo, hanno il controllo su Hezbollah che ha migliaia di missili, ma hanno un esercito scalcinato e senza armi, una aviazione praticamente inesistente e una marina che a malapena controlla le coste iraniane.
   L'unico apparato degno di essere considerato pericoloso è quello dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, ma anche quello comincia ad avere i suoi limiti e proprio gli americani hanno dimostrato di poterlo colpire come e quando vogliono.
   Diverso il discorso se andiamo a parlare di Turchia. I turchi hanno la stessa veemenza religiosa degli iraniani, anche se dalla parte sunnita. Hanno lo stesso odio per Israele, anche se non dichiarano apertamente di volerlo distruggere. Come l'Iran hanno forti legami con gruppi terroristici (Hamas e ISIS). La differenza la fa l'apparato militare.
   L'apparato militare turco, a differenza di quello iraniano, è formidabile. Un esercito molto ben armato e giudicato il secondo più numeroso della NATO con 350.000 effettivi e circa 500.000 riservisti. Una aviazione che può godere di tutte le nuove armi e tecnologie in dotazione alla NATO, fatta eccezione per gli F-35. Una marina che non ha nulla da invidiare alle più moderne marine del mondo e che si appresta a dotarsi della prima portaerei leggera.
   Ora, è più temibile l'Iran scalcinato degli Ayatollah, oppure è più temibile quella formidabile macchina da guerra che è la Turchia del Califfo Erdogan, capo della Fratellanza Musulmana?
   Invece di concentrarsi solo sull'Iran, senza dubbio pericoloso, la Casa Bianca non farebbe bene a guardare a quello che sta facendo "l'alleato" turco?
   Erdogan ha un piano, anzi, ne ha diversi e tutti prevedono di spazzare via Israele e di creare un califfato globale.
   Senza lasciar perdere Teheran e i suoi piani distruttivi e pericolosi, è arrivato il momento di fare i conti con quello che è il pericolo più temibile sia per Israele che per l'occidente: la Turchia di Erdogan. Ed è meglio farlo subito perché il califfo turco corre e corre forte.

(Rights Reporter, 20 settembre 2020)



Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi,
    quando l'ira loro ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso,
    il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate
    sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
    --> Predicazione
Marcello Cicchese
31 maggio 2015




Eydar: "In Medio Oriente i sognatori hanno fallito"

L'ambasciatore israeliano a Roma: la realtà è diversa, Trump e Netanyahu l'hanno capito

di Francesca Sforza

 
Dror Eydar, Ambasciatore d'Israele in Italia
ROMA - «Il problema è John Lennon», e quella sua canzone che parlava di un mondo senza nazioni, in cui non ci sono ragioni per uccidere o per morire. «La realtà è diversa, e i politici che come Clinton e Obama si sono ispirati a un sogno, in Medio Oriente non sono riusciti a fare nulla». A parlare è Dror Eydar, Ambasciatore d'Israele, che dopo un anno dal suo arrivo in Italia, ha deciso di rilasciare la sua prima intervista a «La Stampa» in occasione di Rosh Ha Shanà, il Capodanno ebraico, che segna l'inizio del 5781 dalla data della creazione. «Non c'è preghiera al mondo che non ringrazi Dio per il cibo che ci ha dato — racconta dalla sua residenza a Roma — ma solo gli ebrei, nei secoli passati, hanno fatto seguire al ringraziamento la preghiera di ricostruire Gerusalemme». Alla fine è andata così, «lo Stato di Israele è la polizza assicurativa del popolo ebraico, e i palestinesi sapevano che saremmo ritornati, non è scritto solo nella Bibbia, basta leggere la Sura 5 del Corano». Anche per questo è stato durissimo, durante il lockdown, «far capire agli ebrei rimasti in Italia che non si poteva raggiungere Israele, è stato come risvegliare un trauma antico, se non si è ebrei non si può capire».
   Storico, linguista, amico personale di Benjamin Netanyahu, Dror Eydar viene da una famiglia di ebrei iraniani, legge la Bibbia ogni giorno, ragiona con passione sulla stratificazione della lingua ebraica — «è come un grattacielo di cui si possono visitare i molti piani, ci sono parole che datano tremila anni fa e altre nate di recente» — e sulla politica ha idee molto chiare: «Trump e Netanyahu potranno non piacere agli intellettuali, ma sono riusciti là dove gli altri hanno fallito». In un momento oltretutto difficile, con la pandemia ancora in corso, lo smarrimento che l'accompagna, le incertezze che ci ossessioneranno fino alla scoperta di un vaccino.

- Ambasciatore Eydar, l'anno ebraico inizia con Israele costretto a chiudere tutto di nuovo per le festività, crede che anche l'Italia sia a rischio?
  «"Se puoi fare qualcosa fra una settimana, fallo adesso", è questa la lezione che ho imparato dall'Italia e che nei giorni della massima emergenza ripetevo al mio premier e ai ministri. Il problema si sono rivelati soprattutto i ragazzi del liceo — più indisciplinati dei piccoli - e i matrimoni, per questo Israele ha deciso una nuova chiusura, anche se breve. Ma l'Italia mi sembra in grado di gestire questa fase».

- Lei ha vissuto il lockdown a Roma, cosa l'ha colpito di più?
  «Era fondamentale rimanere qui, per non far sentire isolata la comunità ebraica, gli israeliani che erano rimasti bloccati, e anche per dare solidarietà a questo Paese. Quando Attilio Fontana mi ha chiamato per chiedere aiuti da parte del mio Paese, mi sono permesso di dargli due consigli: innanzitutto di rivolgersi alla Nato, che aveva sicuramente la possibilità di mettere a disposizione dei respiratori in tempi brevi, e poi di guardare a imprese di alta gamma come Ferrari o Fca. Lo fecero anche gli americani durante la Seconda Guerra Mondiale quando chiesero alla Ford di convertire la produzione a usi militari».

- Questi sono anche i giorni della nascita di un processo politico importante per Israele, cosa ne pensa?
  «Ciò che è accaduto a Washington ha cambiato il paradigma del Medio Oriente. Non bisogna cedere all'euforia, ma è chiaro che si tratta di un riconoscimento fondamentale per il futuro di Israele e dello sviluppo dell'area. Gli intellettuali liberal hanno sempre pensato che il problema del Medio Oriente fosse Israele, ora penso che molti capiscano che Israele è l'àncora della sua stabilità. I sunniti e i Paesi arabi moderati hanno bisogno di collaborazione sulla sicurezza, sulla tecnologia, sulla finanza, sugli scambi di capitale umano. E con chi, se non con Israele?».

- Che cosa ne è della solidarietà con il popolo palestinese? Siamo di fronte a un cambiamento tattico da parte degli arabi, o ci sono altre ragioni?
  «I cambiamenti che hanno interessato il Medio Oriente hanno generato paura nei Paesi arabi. Dalla Siria all'Iraq, dalla Libia al Libano: troppa instabilità. E i palestinesi hanno sempre scelto la parte sbagliata: prima Saddam Hussein, poi l'Iran. Adesso i popoli arabi hanno cominciato a capire che il loro presente — prima ancora del loro futuro - è prigioniero del costante rifiuto dei palestinesi a un compromesso. Ogni accordo storico ha visto gli ebrei dire sì, e i palestinesi dire no. Dai tempi della Peel Commission del 1937, quando si fece un piano di divisione territoriale, per cui agli ebrei sarebbe andato il 17% del territorio attuale, agli arabi il 75%, e Gerusalemme a metà. Ben Gurion disse sì, gli arabi no. E da allora è stato sempre così».

- Come spiega che due presidenti così impopolari siano riusciti là dove leader di largo consenso hanno fallito?
  «Talvolta nella storia c'è bisogno di leader non troppo sofisticati, che sappiano dire "ok, questi sono i buoni, e questi sono i cattivi". Ci vuole coraggio a non dare sempre ragione a tutti. L'approccio al Medio Oriente deve essere pragmatico. Trump è un uomo d'affari, sa come trattare. Le faccio un esempio: Kerry si trovava in Israele a discutere con Netanyahu dell'accordo con l'Iran, e sarebbe dovuto partire per il Giappone subito dopo. Mentre era in volo venne a sapere che a Ginevra si trovava una delegazione iraniana, e come prima cosa fece cambiare rotta per raggiungere Ginevra. Gli iraniani lo hanno saputo e non hanno più firmato. Ne avevano dedotto che se l'America era tanto interessata, allora potevano alzare il prezzo. Trump non avrebbe mai commesso una simile leggerezza».

- Anche l'assassinio del generale iraniano Soleimani va letto come un'accelerazione del processo politico in corso?
  «No, perché l'Iran era una minaccia già da prima. E poi Soleimani era il capo di tutti i serpenti, ha esportato le guerre in tutto il Medio Oriente con lo scopo di circondare Israele. Si comportava come uno di quei bulli da strada, convinto di essere un intoccabile. E lo era, se fossero stati ancora i tempi della dottrina Obama. Ma Trump ha valutato diversamente, ha capito che era un ostacolo a qualsiasi processo. E quindi Soleimani è stato ucciso».

- Non avete paura di un Iran isolato?
  «E che possono fare, combattere contro di noi?»

- In molti Paesi dell'Islam moderato cresce il timore dell'assalto delle monarchie del Golfo: hanno soldi, costruiscono moschee, sono chiusi in tema di diritti. Che ne pensa?
  «Nessuno si sceglie i propri vicini. Posso dire che per Israele la democrazia è un fatto assodato, ma ho rispetto per Paesi che hanno diverse forme di governo. Sei paesi arabi vogliono vivere in pace con Israele ed entrambi possiamo prosperare, non vedo dove sia il problema».

- Si fida del leader saudita Bin Salman?
  «Sono i tempi e la situazione a scegliere i leader, più che i leader a scegliere i tempi e la situazione. Mohammad bin Salman è espressione di tanti fattori ed energie collettive, guarda alle cose che abbiamo in comune più che a quelle che ci dividono».

- Che cosa si aspetta dall'Unione europea?
  «Non molto, non c'è consapevolezza di quanto le cose siano cambiate in Medio Oriente. Quando sento parlare Borrell mi sembra di ripiombare negli anni Ottanta. Mentre forse dovrebbe chiedersi dove finiscono i fondi europei ai palestinesi. Con tutti quei soldi Gaza sarebbe dovuta diventare come Singapore».

(La Stampa, 19 settembre 2020)


Al Otaiba e i segreti del patto Uae-Israele

di Paolo Lepri

E' lui che rispose «inshallah» quando la moglie del premier israeliano Benjamin Netanyahu, Sara, gli chiese in marzo, durante un incontro casuale al Cafe Milano di Washington, se un giorno avrebbe «visitato Gerusalemme». Una domanda inconsueta questa, se rivolta all'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti, cioè di una nazione che a quell'epoca non aveva rapporti con lo Stato ebraico. Ma Yousef Al Otaiba se la cavò bene, come al solito (è sopravvissuto anche ad uno scandalo legato a mail hackerate, con risvolti pruriginosi), forse perché sapeva quello che bolliva in pentola: l'accordo tra il suo Paese (con l'appendice del Bahrein) e Israele firmato alla presenza di un trionfante Donald Trump. Un accordo, va detto, che cambia lo scenario del Medio Oriente e mette in un angolo la questione palestinese.
   Quarantasei anni, figlio di uno dei fondatori degli Emirati e di una delle sue quattro mogli, Yousef AI Otaiba è un diplomatico e un uomo d'affari che viene descritto ugualmente a suo agio tanto con l'abito scuro quanto con la tunica. E nato ad Abu Dhabi, ha studiato al Cairo e a Georgetown, si è sposato con l'egiziana Abeer Shoukry e ha due figli, Omar e Sarnia. Nella sua qualità di ministro di Stato, oltre che di ambasciatore a Washington, ha unito la sua voce alla celebrazione dell'intesa del 15 settembre, affermando che «abbasserà le tensioni e produrrà nuove energie per cambiamenti positivi».
   Guardando alla realtà con occhi obiettivi, si può veramente sperare che il patto Netanyahu-Emirati sia una svolta fruttuosa? Qualcuno lo crede. Se avrà successo, ha scritto per esempio Thomas Friedman, «creerà un modello alternativo a quello della resistenza permanente di matrice iraniana che ha provocato disastri in Libano, Siria, Gaza, Iraq». E i palestinesi? Il fatto che la loro causa nazionale non rappresenti più una priorità nel mondo arabo non vuol dire certamente che si possa voltare pagina. Un altro grande columnist del New York Times, Roger Cohen, sostiene che quella dei «due Stati» continua ad essere la soluzione «meno impossibile» per uscire dall'impasse. Chissà che ne pensa Al Otaiba. Sarebbe interessante saperlo.

(Corriere della Sera, 19 settembre 2020)


Inizia il secondo lockdown in Israele: blindato il Capodanno ebraico

Reintrodotte tutte le misure di emergenza per il contenimento della pandemia. Regole severe per Rosh haShanà: preghiere all'aperto o nelle sinagoghe divise per compartimenti. Mai a più di un chilometro da casa.

di Fiammetta Martegani

«L'anno prossimo ci metteremo seduti su questi balconi per osservare gli uccelli erranti», recita, per ironia della sorte, uno dei canti tipici di Rosh haShanà, il Capodanno ebraica. Ad aprile i terrazzi israeliani si erano uniti per cantare insieme Ma Nishtana, l'inno di Pesach, la Pasqua. Era il primo lockdown. Adesso siamo da capo: il secondo blocco è entrato in vigore alle 14.00 di ieri, alla vigilia del nuovo anno (cominciato al tramonto), e potrebbe eventualmente essere prolungato fino al 10 ottobre, cioè per tutta la durata delle festività -Yom Kippur, settimana prossima, e Sukkot, a inizio ottobre - a seconda di come andranno i contagi. Nelle ultime settimane avevano superato i 5.000 al giorno, e proprio a causa delle feste, quando ci si ritrova con la famiglia e gli amici o si va in sinagoga a pregare, si temeva un incremento ulteriore. Per questo il governo ha ritenuto indispensabile introdurre nuove restrizioni.
   Durante il discorso per gli auguri di buon anno, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ribadito che potrebbero essere necessarie misure ancora più drastiche, onde evitare che gli ospedali rischino il collasso. Attualmente sono più di 46.000 i casi attivi, e circa 600 i ricoverati in condizioni gravi. Dall'inizio della pandemia sono stati registrati oltre 179.000 contagi e 1.196 decessi. Come sempre, la percentuale più alta di casi è rilevata tra gli ultraortodossi. Molti, in questi giorni, hanno protestato con veemenza contro un blocco che impedisce loro di celebrare una delle cerimonie più importanti dell'ebraismo. I fedeli potranno comunque seguire le preghiere all'aperto oppure nei templi, compartimentati con l'utilizzo di teli di plastica E saranno controllati dalla polizia affinché venga rispettato un numero ridotto di presenze. Anche per questo le strade sono presidiate da più di 7.000 tra agenti e soldati. Per tutti, vale la regola di restare vicino a casa: ci si può allontanare fino a un massimo di un chilometro, e solo per acquistare beni di prima necessità. Nel frattempo, stanno tornando in Israele migliaia di ebrei chassidici che erano rimasti bloccati al confine con l'Ucraina.Volevano recarsi in pellegrinaggio, come ogni anno, a Uman, dove si trova la tomba del rabbino Nachman di Breslov, uno dei luoghi di culto più importanti per questa comunità. Interrotta per il Covid la tratta aerea che normalmente collega Israele con l'Ucraina, hanno cercato di raggiungere il Paese via terra, ma le autorità di Kiev non hanno permesso loro di entrare a causa delle restrizioni.

(Avvenire, 19 settembre 2020)


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Israele si barrica per altre tre settimane. Capodanno e festività senza le sinagoghe

Ogni giorno cinquemila casi: annullate le celebrazioni, prima volta nella storia

di Chiara Clausi

BEIRUT - Un capodanno poco gioioso in Israele, il primo trascorso in lockdown in tutta la sua storia. Ieri sera, un'ora prima del tramonto, è cominciato lo Rosh Hashanah, il capodanno ebraico che dà il via al mese di festività autunnali, e ha fatto entrare lo Stato ebraico nell'anno 5781. Seguirà lo Yom Kippur, il giorno della penitenza, e poi il Sukkot, la suggestiva festa delle «capanne». Nonostante l'ostinata resistenza dei religiosi ultra-ortodossi, le feste saranno al chiuso delle case, e le sinagoghe resteranno sbarrate, come neppure è stato durante le guerre contro gli Stati arabi. Ma le misure di emergenza erano inevitabili dopo l'impennata di contagi. Ieri sono stati 5.238. Le chiusure generalizzate resteranno in vigore almeno tre settimane.
   Le infezioni di ieri hanno anche portato a 577 i malati gravi e, di questi, 153 in rianimazione: un picco rispetto al giorno precedente. Netanyahu ha ammonito che se le restrizioni imposte non verranno rispettate e le infezioni non diminuiranno «non ci sarà altra strada» che prolungare il lockdown. Unica modifica introdotta dall'esecutivo alle regole è stata quella che ha visto aumentare da 500 metri a un chilometro il raggio entro il quale gli israeliani possono allontanarsi da casa. Il coronavirus si è infatti diffuso in ogni fascia della popolazione e in tutto il Paese. Sembra che ora ogni israeliano conosca qualcuno che ha contratto il Covid-19 e lo scetticismo e la sospettosità sono aumentati.
   Molti sono critici nei confronti della gestione da parte del governo della emergenza. Le linee guida sono complicate, spesso contraddittorie e in continua evoluzione. Uno dei motivi della gravità della seconda ondata che da inizio agosto ha fatto oltre 700 vittime e portato il totale a quasi 1.200. I casi sono ormai oltre 170mila, al ritmo di 5mila al giorno. Lo Stato ebraico 9,2 milioni di abitanti, ha un bilancio più pesante rispetto alla Cisgiordania, 225 decessi per 3 milioni di abitanti, o a Gaza, 13 vittime per 2 milioni di persone. Il premier Benjamin Netanyahu è tornato dal viaggio trionfale a Washington in un Paese di nuovo in allarme rosso e dove si sta acuendo la tensione tra gli ultra-ortodossi, gli haredim, e la popolazione laica. Per mesi, tutti gli esperti hanno spiegato che la principale fonte di infezione è nei raduni affollati al chiuso e che cantare e parlare ad alta voce in quegli spazi aumentano considerevolmente i rischi.
   Ora, con questo secondo lockdown, per la prima volta in un Paese dall'inizio della pandemia, un gran numero di restrizioni si applica alle attività meno rischiose all'aperto; mentre le limitazioni alle attività nelle sinagoghe sono relativamente lievi e molti haredim non nascondono la loro intenzione di ignorarle. Nei giorni scorsi il ministro ultra-ortodosso dell'Edilizia Yakov Litzman si è dimesso proprio perché contrario al lockdown. Israele attraverserà un capodanno con il cuore pesante e molte incognite.

(il Giornale, 19 settembre 2020)


Libano - Il governo Adib non decolla e resta ostaggio di Hezbollah

I morti per l'esplosione al porto salgono a 200

Mustafa Adib
Il governo del premier Mustafa Adib sembra morto ancor prima di nascere. Il primo ministro aveva preso l'impegno di formare l'esecutivo in tempi brevi, ma sono già passati quattro giorni in più dalla scadenza e il Libano resta un naufrago alla deriva, immerso nella sua disperazione fatta di proteste sociali e mancanza di servizi primari. A sorvegliare a vista Beirut è la Francia, tanto che ieri il presidente Macron ha sollecitato di nuovo l'omologo Aoun a darsi da fare: in ballo c'è un tesoretto che Parigi ha ancora destinato alle riforme dei Paese dei cedri, ormai ostaggio della peggiore crisi economica e politica degli ultimi 30 anni. Proprio durante l'ultima visita di Macron nella capitale libanese, l'1 settembre, i leader dei vari partiti e lo stesso Aoun avevano assicurato che in due settimane il governo avrebbe preso forma. Ma questo non è accaduto e ora alcuni giornali libanesi - fra cui il Daily Star - ipotizzano che il premier incaricato possa farsi da parte. Il suo nome era stato annunciato come quello della svolta, un tecnico capace di farsi largo fra le invidie e le gelosie della società libanese, ma così non sembra. Innanzi tutto, c'è sempre l'ombra di Hezbollah, il movimento armato sciita che è espressione dell'Iran, e che aspira a controllare alcuni dicasteri di prima importanza, fra cui le finanze, da cui passa la gestione degli aiuti umanitari dopo l'esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut, e dei negoziati col Fondo monetario internazionale che dovrebbe concedere una somma adeguata per uscire dalla crisi economica.
   A proposito della deflagrazione che ha raso al suolo una parte consistente del porto, salgono a 1931 le vittime ufficiali, anche se, calcolando i dispersi, le autorità libanesi indicano un numero complessivo a 200. Tornando al premier Adib, tutta la sua esperienza di diplomatico sembra infrangersi sullo scoglio di chi comanda davvero in Libano. Ambasciatore in Germania dal 2013, Adib aveva ottenuto 90 voti su 119 ricevendo l'appoggio dei principali blocchi politici del Paese, tre settimane dopo che il governo di Diab si era dimesso in blocco sull'onda delle proteste popolari seguite all'esplosione. Ma le buone intenzioni sembrano rimaste tali e la sua dichiarazione subito dopo aver accettato l'incarico - "Il compito che ho accettato si basa sul fatto che tutte le forze politiche sono consapevoli della necessità di formare un governo in tempi record, e di iniziare ad attuare le riforme, partendo da un accordo con il Fondo monetario internazionale" - suona come una nota stonata.

(il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2020)


Esplosivo e armi, i depositi di Hezbollah nei porti Ue

Allarme degli Usa a poco più di un mese dall'esplosione di Beirut: a rischio anche l'Europa

di Chiara Clausi

BEIRUT - Depositi di armi e di nitrato di ammonio in Europa, da utilizzare per attacchi ordinati dall'Iran. È l'accusa formulata dagli Stati Uniti per voce del coordinatore dell'antiterrorismo del Dipartimento di Stato, Nathan Sales, contro Hezbollah. Washington ha chiesto che i Paesi europei adottino una linea più dura nei confronti del movimento islamico sciita libanese. La notizia arriva a sei settimane dall'esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut, causata proprio da nitrato di ammonio che ha provocato 193 morti e 7 mila feriti. «La presenza di Hezbollah in Europa» ha sostenuto Sales, «è radicata dal 2012. Dalle nostre informazioni l'organizzazione paramilitare libanese ha diversi depositi di nitrato di ammonio in tutta Europa, lo ha trasportato nascondendolo in kit di pronto soccorso».
   Sales ha poi continuato, in videoconferenza all'American Jewish Committee: «Importanti depositi di nitrato di ammonio sono stati scoperti o distrutti in Francia, Grecia e Italia. Abbiamo motivo di credere che questa attività sia ancora in corso. Nel 2018, si sospettava ancora la presenza di depositi di nitrato di ammonio in tutta Europa, forse in Grecia, Italia e Spagna». Gli Stati Uniti nel frattempo hanno chiesto un'indagine completa, aperta, trasparente sull'esplosione di Beirut. «Speriamo di vederne presto i risultati» ha commentato Sales.
   L'Unione europea considera soltanto il braccio armato di Hezbollah una organizzazione terroristica, ma non il partito politico. La Gran Bretagna e la Germania considera terroristico l'intero gruppo. E gli Stati Uniti fanno pressione perché anche gli altri Stati europei facciano lo stesso. «Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e attuale per gli Stati Uniti oggi. Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e presente per l'Europa» ha precisato Sales. Per questo Washington ha imposto sanzioni a un funzionario di Hezbollah e a due società con sede in Libano accusate di essere collegate al gruppo sostenuto e foraggiato dall'Iran.
   Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato di aver inserito nella lista nera Arch Consulting e Meamar Construction, due società con sede in Libano che hanno aiutato a nascondere i trasferimenti di denaro sui conti del gruppo, contribuendo ad arricchire la leadership di Hezbollah. Anche Sultan Khalifah Asad, un alto funzionario del Consiglio esecutivo di Hezbollah, è stato colpito dalle sanzioni. «Attraverso lo sfruttamento dell'economia libanese da parte di Hezbollah e la manipolazione di funzionari libanesi corrotti, le società associate all'organizzazione terroristica ottengono contratti governativi», ha affermato il segretario al Tesoro Steven Mnuchin. L'azione statunitense congela tutti i beni americani di coloro che sono stati inseriti nella lista nera e chi si impegnerà in transazioni con questi soggetti rischierà di essere colpito da sanzioni secondarie.

(il Giornale, 19 settembre 2020)


E un ragazzo di 26 anni tenta di far volare di nuovo El Al

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Eli Rozenberg ha 26 anni, è immigrato in Israele da New York cinque anni fa, fino a pochi mesi fa passava le giornate — e soprattutto le notti —piegato sui sacri testi Da studente di una yeshiva, le scuole religiose a Gerusalemme, l'invito a diventare il proprietario della El Al gli sarebbe arrivato da un rabbino: «Compra e non fare domande», avrebbe intimato Pinchas Abuhatzeira a lui e al padre. I 150 milioni di dollari (quasi 130 milioni di euro) necessari a prendere il controllo dell'orgoglio israeliano nei cieli — orgoglio malconcio, non vola da marzo, i conti sono disastrati — li ha messi Kenny Rozenberg, che si è arricchito negli Stati Uniti con le case di cura e di riposo. Ha affidato al figlio l'operazione perché solo un cittadino israeliano può essere l'azionista di maggioranza della società.
   L'El Al ha dovuto lasciare a casa senza stipendio il 90 per cento dei dipendenti ed entro la fine di settembre deve rimborsare ai viaggiatori israeliani 80 milioni di dollari in biglietti cancellati, oltre a 190 milioni di debito verso turisti stranieri. Nel consiglio di amministrazione Rozenberg si è portato Jason Greenblatt, l'ex inviato di Donald Trump per il Medio Oriente, che ha un rapporto stretto con il premier Netanyahu. Il governo garantisce un prestito da 250 milioni di dollari per il salvataggio e ha anche acquistato le azioni della compagnia rimaste sul mercato dopo l'offerta di mercoledì. Così lo Stato rientra nell'El Al, che aveva scelto di privatizzare 15 anni fa: adesso gli analisti riconoscono il buco causato nella casse dalla pandemia di Covid-19, ma accusano anche la gestione di Tamar Mozes-Borovich, che proviene da due delle famiglie più ricche in Israele e ha cercato di fermare la scalata dello studente. Eli Rozenberg ha promesso ai piloti una partecipazione azionaria, anche perché vuole tomare a volare al più presto: il primo cargo dovrebbe decollare entro la fine del mese e le tratte per passeggeri ripartire a ottobre.

(Corriere della Sera, 19 settembre 2020)


Capodanno ebraico 2020: come si festeggia

Il Capodanno ebraico è una festività molto importante nella tradizione ebraica, e la sua data varia ogni anno, infatti per il 2020 si festeggia il 19 settembre. Ma quali sono gli usi e le tradizioni legate all'importante evento? Tutte le curiosità e la storia sul Rosh haShana.

 Capodanno ebraico 2020
Il calendario ebraico è definito come calendario lunisolare. Calcola, perciò, i giorni e i mesi in modo diverso rispetto al calendario gregoriano. Proprio per questo il Capodanno Ebraico cade in giorni e periodi diversi rispetto a quello "occidentale"
Il Capodanno ebraico, meglio noto come Rosh haShana, è uno dei tre capodanno previsti nel calendario ebraico.
Nella Torah vi si fa riferimento definendolo "il giorno del suono dello Shofar" . La letteratura rabbinica e la liturgia descrivono Rosh haShana come il "Giorno del giudizio" ed il "Giorno del ricordo".
Questo è la più importante delle tre festività, proprio perché da questo viene effettuato il calcolo degli anni e delle festività, come l'Anno Sabbatico ed il Giubileo.
In genere, la festività cade intorno ai mesi di settembre e ottobre, ovvero il primo giorno del mese di Tishrì. Una volta conclusi i festeggiamenti, iniziano i 10 giorni di penitenza nel quale i fedeli chiedono perdono a Dio per i peccati commessi durante l'anno.
I 10 giorni terminano con lo Yom Kippur, il giorno che segna l'espiazione finale dei peccati.

 Date del Capodanno
  Quello che si festeggia quest'anno è il capodanno 5781. Il Rosh haShanah cade 162 giorni dopo il primo dei giorni di Pesach.
Nel calendario gregoriano non può cadere prima del 5 settembre. Inoltre, a causa della differenza tra il calendario ebraico e quello gregoriano, dal 2089 di quest'ultimo, Rosh haShana non potrà più cadere prima del 6 settembre.
Per il 2020, il Rosh haShana cadrà il 18 settembre e finirà il 20 settembre. Infatti, la festa dura due giorni.

 La tradizione
  Secondo la tradizione, i festeggiamenti del Rosh haShana sono caratterizzati dal suono della shofar, il piccolo corno tipico degli usi ebraici. In alcune comunità viene suonato tutte le mattine del mese di Elul, l'ultimo prima del nuovo anno. Il significato di questa usanza è quello di risvegliare il popolo ebraico dal torpore e ricordargli che sta per avvicinarsi il giorno in cui verrà giudicato con Yom Kippur. Nei giorni precedenti, vengono recitate le selichot, o preghiere penitenziali.
A seconda della tradizione delle varie correnti, la recitazione delle selichot inizia in momenti diversi, dai 30 ai 10 giorni prima della festività di Rosh haShana. Queste composizioni poetiche sono molto importanti e alcune di queste, chiamate piutim, sono inserite all'interno della normale liturgia. Nel pomeriggio che precede l'inizio della festività si usa fare il tashlikh, un lancio di oggetti su uno specchio d'acqua per liberarsi di ogni residuo di peccato.
La cena della prima sera di Rosh haShana è detta Ser di Rosh haShanà. Durante la cena, assieme alla recitazione di piccole formule di preghiera, si usa consumare sia qualcosa di dolce, come mela intinta nel miele, sia cibi che diano l'idea di molteplicità, come il melograno, per augurarsi un anno dolce e prospero.
Tra i vari piatti che si servono durante questa cena non può mancare qualche parte di animale che faccia parte della testa, a simboleggiare il capo dell'anno. Solitamente viene portata in tavola anche una forma di pane, la challa, tonda, a simboleggiare la circolarità dell'anno.
Nel pasto della seconda sera, col secondo Seder come il primo, vengono servite più varietà possibili di frutta, perché vengano incluse nella benedizione di shehecheyanu. Si tratta della benedizione che si recita la prima volta che si assaggia qualcosa nell'anno.

(Viaggiamo, 18 settembre 2020)


Il Capodanno ebraico e la speranza di serenità

di Ruth Dureghello*

Questa sera gli ebrei si ritroveranno a celebrare l'inizio di un nuovo anno ebraico. Un rito che si ripete da 5781 anni. Seppur con le limitazioni che oggi le norme ci impongono, a causa della pandemia che stiamo vivendo, il popolo ebraico si radunerà nelle case e nelle sinagoghe per celebrare il passaggio dalla fine di un anno terribile a un anno che auspichiamo sarà dolce e prospero.
   Dobbiamo avere la consapevolezza che le nostre preghiere e l'impegno a migliorare i nostri comportamenti sono gli strumenti che possono incidere sugli accadimenti nel mondo. Un tema attuale, quello delle buone pratiche, soprattutto in un periodo in cui assistiamo al preoccupante aumento di contagi, non solo in Italia ma anche in Israele dove si è ripiombati nel lockdown.
   Fede e scienza non sono in contrapposizione: mentre aspettiamo che gli scienziati facciano il loro lavoro per lo sviluppo di un vaccino, noi preghiamo, così come insegnano i nostri maestri, affinché questo anno finisca con le sue maledizioni e inizi con le sue benedizioni. Curiosamente, sono diversi gli spunti e gli insegnamenti che possono derivare dal rapporto tra le festività ebraiche e il periodo che stiamo vivendo. In primo luogo, il Capodanno ebraico si trova nel mezzo di un periodo di quaranta giorni di pentimento e crescita che porta fino allo Yom Kippur, il giorno dell'Espiazione in cui gli ebrei digiunano. Una vera quarantena che serve a riflettere sul rapporto con Dio e con il prossimo. Quaranta giorni in cui invece di isolarci, recuperiamo le relazioni umane, imparando a chiedere perdono ai nostri vicini per gli errori commessi nell'anno che sta per concludersi. Spetta a noi meritarci il mondo in cui viviamo e possiamo farlo solo se ci sentiamo responsabili nei confronti del Creato e del Creatore. In questo senso, i quaranta giorni ricordano il periodo di attesa di Mosè per ricevere le seconde tavole della legge, dopo che le prime erano state rotte a causa del peccato di idolatria commesso dal popolo. Una seconda opportunità in cui impariamo quanto è grande la misericordia di D-o nel perdonare, purché sia sempre presente in noi la forza di volontà di crescere e di cambiare affinché gli errori del passato non si ripetano.

* Presidente della Comunità ebraica di Roma

(Corriere della Sera - Roma, 18 settembre 2020)


Rosh ha Shanà 5781: con il capodanno ebraico parte il nuovo anno ricco di sfide per Israele

di Ugo Volli

 
Questo Sabato e Domenica il popolo ebraico celebrerà Rosh Ha Shanà, il capodanno (o meglio la prima delle quattro date che la tradizione ebraica considera iniziali, con il capodanno degli alberi, quello della liberazione del popolo all'inizio del "primo dei mesi" in cui cade Pesach, la Pasqua ebraica; e quello delle primizie a Shavuot o Pentecoste). Ma il capodanno per antonomasia è proprio questo autunnale, in cui finisce la lunga estate della Terra di Israele, parte un nuovo ciclo agricolo ed è insomma il momento per trarre le somme di quel che è successo e prepararsi al meglio per il futuro. Tant'è vero che in Rosh Ha Shanà coesiste un aspetto festivo (con una cena tradizionale in cui si mangiano cibi di buon augurio e si esprimono speranze per l'anno nuovo), e un aspetto penitenziale, per cui questa data segna l'inizio dei dieci "giorni temibili" in cui ciascun ebreo e il popolo collettivamente sono chiamati a meditare sugli errori fatti, a chiedere scusa per le offese, a volgersi verso il pentimento e il ritorno al giusto comportamento.
  Questo è dunque anche il momento di fare un bilancio politico e di cercare di formulare qualche previsione e qualche augurio per il futuro, almeno per quanto riguarda Israele. Gli eventi principali dell'ultimo anno si possono sintetizzare in quattro filoni. Il primo da citare riguarda purtroppo la pandemia scoppiata a Febbraio. Israele ha retto molto bene alla prima ondata del contagio, anche grazie alla tempestiva chiusura dei viaggi e alla vigilanza elettronica dei contagi. Purtroppo poi l'epidemia ha avuto una seconda fase di forte diffusione, ancora in corso. Complessivamente Israele ha subito quattro volte più contagi in rapporto alla popolazione dell'Italia (17 per mille contro i 4 dell'Italia), ma sei volte meno morti. Questi numeri sono un segno della forte efficienza della sanità israeliana, ma le preoccupazioni dei responsabili sono abbastanza gravi da aver imposto una nuova chiusura del paese nelle prossime settimane. E' difficile fare previsioni su questo tema, possiamo solo sperare che l'epidemia sia sconfitta il primo possibile.
  Il secondo tema è quello della politica interna. Dopo il fallimento delle elezioni di Aprile e Settembre dell'anno scorso vi è stato un terzo scrutinio il 2 Marzo 2020, che come i precedenti non ha dato alla sinistra, anche alleata con i partiti antisionisti arabi, la maggioranza per sostituire Netanyahu come progettava. Quando gli israeliani pensavano di essere avviati a un quarto turno elettorale, il leader degli anti-Bibi Gantz ha rotto il suo partito per costituire il 17 Maggio un governo di unità nazionale con Netanyahu, accettando di essere il suo successore designato a partire da ottobre 2021. La conflittualità in questa maggioranza però non è affatto cessata, perché, al di là dell'ostilità più o meno sepolta per Netanyahu, i Bianco-Blu hanno posizioni effettivamente assai diverse dal Likud. Non è detto che alla turnazione dei primi ministri si arrivi mai, anche perché i sondaggi dicono che nel paese si è consolidata ulteriormente una maggioranza di destra che sarebbe tradita da un governo guidato da Gantz e Ashkenazi. E' dunque prevedibile una nuova crisi politica a Dicembre, quando bisognerà approvare il bilancio e Netanyahu avrà l'ultima occasione per arrivare a nuove elezioni sotto la sua guida.
  Un sotto-filone importante della politica interna è quello della tensione fra apparato giudiziario e poliziesco e sistema parlamentare. Sullo sfondo di tutta la politica israeliana c'è il processo contro Netanyahu, la cui fase dibattimentale inizia a Gennaio. Ma ci sono state alcune sentenze e ordinanze della Corte Suprema in diretta contraddizione con le scelte parlamentari e le decisioni governative, che hanno suscitato forti polemiche, per esempio quella che in mezzo alle trattative per l'unità nazionale ha costretto il presidente della Knesset a mettere in elezione la sua carica prima della formazione del governo, stabilendo un vantaggio per la sinistra, contro una prassi che dura dalla fondazione dello stato; o le altre in materia di diritti di proprietà e di edificazione in Giudea e Samaria, materia incandescente. Insomma, è emerso con grande chiarezza che la Corte Suprema conduce una sua politica, senza sentirsi legata alla sovranità popolare o alle leggi emesse dalla Knesset (che anzi, senza nessuna base legislativa, da un paio di decenni si è arrogata il potere di annullare). E sono emersi alcuni casi molto preoccupanti di collusione fra funzionari di polizia e dell'apparato giudiziario per manipolare le inchieste, comprese quelle delicatissime su Netanyahu. E' probabile che su questo punto Netanyahu possa decidersi a proporre alla Knesset una legge costituzionale che assicurino la prevalenza delle decisioni del parlamento, per esempio la possibilità di restaurare disposizioni annullate dalla Corte Suprema e che su questo si apra uno scontro con Gantz. Ed è proprio su questo punto che potrebbe cadere il governo.
  Finiti i temi preoccupanti, bisogna rendere conto delle grandi vittorie di Israele sul fronte militare e diplomatico della politica estera. Si può partire dall'ultimo grande successo diplomatico: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche, economiche e culturali con gli Emirati Arabi e il Bahrein è stata appena sancita ufficialmente ed è probabile che nuovi stati presto si uniranno. E' una rottura importante del secolare assedio arabo a Israele, la cui importanza non può essere sottovalutata. Salta il presupposto esplicito della politica seguita da tutto il mondo, incluso Israele, nell'ultimo mezzo secolo, e cioè che la pace si può fare solo a partire dai "palestinesi" e col loro accordo. Trump e Netanyahu hanno mostrato che c'è un'altra strada, basata sull'accettazione di Israele nella regione da parte dei suoi vicini, che può portare vantaggi economici e militari a tutti e in prospettiva preparare la pace anche coi palestinesi. Si spiazza così il potere di veto ostinatamente opposto dalla dirigenza dell'Autorità Palestinese a ogni trattativa di pace; ma anche la posizione di ciò che in Israele si chiamava "campo della pace" e che oggi si rivela per un gruppo conservatore alleato alla sinistra internazionale. L'assenza di proteste di piazza nei paesi arabi ha dimostrato che la mossa era matura e che è possibile che cada l'odio seminato da decenni. Per ottenere questo risultato Israele ha dovuto mettere fra parentesi la dichiarazione di sovranità su parti della Giudea e Samaria, di cui si era molto discusso. Anche questa mossa era largamente simbolica, non avrebbe cambiato nulla sul terreno; prima o poi andrà compiuta, ma probabilmente dopo che si saranno consolidati nei fatti i rapporti appena emersi. Non possiamo attenderla per l'anno che si apre.
  Per ora si può prevedere (e sperare) che si sviluppi il cambiamento del panorama geopolitico della regione, con uno schieramento diplomatico, economico e politico che raggruppi i paesi arabi sunniti e Israele, una sorta di Nato del Medio Oriente che contrasti i paesi revanscisti e sovversivi, cioè l'Iran e la Turchia e i loro satelliti. Questo schieramento già si vede in azione nel Mediterraneo Orientale in appoggio alla Grecia minacciata da Erdogan e sostanzialmente abbandonata dall'Unione Europea (ancora una volta schierata dalla parte sbagliata o assente). Tutto ciò deriva, oltre che dalla tela diplomatica pazientemente tessuta da Netanyahu e dal coraggio innovativo di Trump, dalla forza militare israeliana, che da anni ormai conduce un guerra di attrito contro l'espansione iraniana in Siria e non si fa intimidire né dalla presenza russa, né dalle minacce terroristiche di Hamas, Hezbollah, Fatah. Senza i bombardamenti delle basi iraniane da parte dell'aviazione israeliana sfidando le armi dell'Iran e quelle russe della Siria, senza l'eliminazione americana di Soleimani appoggiata da Israele, senza Iron Dome, non vi sarebbe stato questo accordo che fa sperare nella pace. Sul piano interno, progressi dell'esercito israeliano hanno minimizzato l'arma terrorista dei tunnel e dei missili, è pensabile che stiano cominciando a bloccare la minaccia dei palloni esplosivi di Hamas, insomma lasciano ai terroristi spazio solo per attacchi individuali, orribili, sanguinosi, ma privi di impatto strategico. Anche su questi piano è prevedibile che i progressi continueranno.
  Riassumendo, la posizione israeliana nell'anno che si conclude è migliorata negli ambiti fondamentali della diplomazia e della difesa. L'economia è stata ferita dal Covid, ma meno del resto del mondo; è ragionevole pensare che essa possa rapidamente riprendersi alla fine dell'epidemia. I rischi vengono da una politica interna molto nevrotizzata, personalizzata, spesso molto miope; e dalle invasioni di campo nella politica del sistema giudiziario e della polizia. Sono anomalie israeliane che in parte derivano da meriti del sistema, dalla sua capacità di rappresentare le tante minoranze di cui è fatto il paese e dal suo amore per la giustizia e la moralità. La speranza (questa volta solo una speranza, non una previsione) è che anche questa tensione interna si allenti, che torni la fisiologia della divisione dei poteri e della collaborazione fra le forze politiche sui temi fondamentali.
  Noi dalla diaspora non possiamo che ribadire per l'anno prossimo il nostro totale appoggio a Israele, che non è solo amore incondizionato, ma anche stima ragionata per una politica che ha permesso al piccolo stato ebraico di superare tanti ostacoli e difficoltà. L'augurio è dunque di un anno 5781 buono e dolce per i nostri lettori, per gli ebrei italiani e di tutto il mondo, per Israele e per tutta l'umanità.
  Shanà Tovà!

(Progetto Dreyfus, 17 settembre 2020)


"Hezbollah ha depositi di armi ed esplosivo in Europa"

Gli Stati Uniti hanno accusato il movimento islamico sciita libanese di Hezbollah di avere depositi di armi e di nitrato di ammonio in Europa, da utilizzare per attacchi ordinati dall'Iran. A puntare il dito è stato il coordinatore dell'antiterrorismo del Dipartimento di stato, Nathan Sales, che ha chiesto che i Paesi europei adottino una linea più dura nei confronti di Hezbollah. L'accusa arriva a sei settimane dall'esplosione lo scorso 4 agosto nel porto di Beirut, causata proprio da nitrato di ammonio.
   Parlando dei magazzini con le armi di Hezbollah, Sales ha detto in videoconferenza all'American Jewish Committee che ''posso dire che tali depositi sono stati spostati in Belgio, Francia, Grecia, Italia, Spagna e Svizzera. Posso anche rivelare che importanti depositi di nitrato di ammonio sono stati scoperti o distrutti in Francia, Grecia e Italia". Dicendo di avere ''motivo di credere che queste attività siano ancora in corso'', Sales si è chiesto ''perché Hezbollah dovrebbe accumulare nitrato di ammonio sul suolo europeo? La risposta è chiara. Può condurre importanti attacchi terroristici ogni volta che i suoi padroni a Teheran lo ritengono necessario".
   L'Unione europea ha inserito il braccio armato di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, ma non il partito politico. La Gran Bretagna e la Germania ha invece considerato terroristici l'intero gruppo e gli Stati Uniti premono perché anche gli altri stati europei facciano lo stesso. ''Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e attuale per gli Stati Uniti oggi. Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e presente per l'Europa'' ha affermato Sales.
   ''La conclusione è che l'approccio che l'Unione europea sta adottando dal 2013 non ha funzionato. La designazione limitata della cosiddetta ala militare di Hezbollah non ha dissuaso il gruppo dal prepararsi per attacchi terroristici in tutto il continente. Hezbollah continua a vedere l'Europa come una piattaforma vitale per le sue attività operative, logistiche e di raccolta fondi. E continuerà a farlo fino a quando l'Europa non intraprenderà un'azione decisiva, come hanno fatto il Regno Unito e la Germania", ha aggiunto Sales.

(Adnkronos, 18 settembre 2020)


Trump sta facendo la storia, anche se i soliti noti provano a far finta di nulla

di Roberto Penna

Recentemente, e in un lasso di tempo piuttosto breve, Donald Trump ha, per così dire, portato a casa una serie di risultati che non è esagerato considerare d'importanza cruciale e storica. Ebbene sì, proprio colui che è sembrato, all'inizio della propria carriera politica, come un personaggio troppo controverso ed eccentrico per guidare gli Stati Uniti, "unfit" come si dice oltreoceano, oltreché incapace di sconfiggere una veterana del sistema del calibro di Hillary Clinton, ha raggiunto determinati traguardi di portata storica, ritenuti quasi impossibili da conquistare solo fino a qualche tempo fa, che non solo rimarranno nella memoria collettiva, ma andranno a modificare le dinamiche politiche internazionali. In un mondo ancora concentrato perlopiù sulla pandemia, il presidente americano ha dimostrato che si può continuare a vivere, che è possibile fare altro e farlo bene, anche in presenza del Covid-19.
  Il così battezzato Accordo di Abramo, siglato alla Casa Bianca da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, e spinto naturalmente da Trump, non solo permetterà l'avvio di nuove relazioni e di una vera e propria distensione fra lo Stato ebraico e le due monarchie del Golfo, bensì ridisegnerà numerosi equilibri dell'area mediorientale. Altri attori della regione potrebbero aggiungersi ad Abu Dhabi e Manama con il medesimo obiettivo di una svolta profonda nei rapporti con Israele, e non è da escludere neppure un avvicinamento da parte dell'Arabia Saudita, che già non si è rivelata ostile all'Accordo di Abramo del 15 settembre scorso. Le monarchie sunnite del Golfo, già sostanzialmente vicine, pur con qualche contraddizione, all'Occidente, in particolare agli Usa per diverse ragioni, supererebbero così un importante ostacolo che le separa dalle democrazie occidentali, ovvero la questione dell'esistenza e del diritto alla sicurezza dello Stato d'Israele. L'Accordo di Abramo isola tutti coloro i quali non aspirano di fatto ad una vera pace in Medio Oriente, dall'Iran degli ayatollah ai terroristi di Hezbollah e Hamas, e passando per l'ambiguo ed inconcludente Abu Mazen, al quale tutto sommato conviene lo status quo per ragioni anche economiche, vista la corruzione e considerato il facile arricchimento da parte delle dirigenze dell'Anp e del partito Al-Fatah.
  Da Teheran a Ramallah e Gaza è tutto un coro che all'unisono accusa di tradimento quegli arabi che intendono normalizzare le relazioni con Israele, e non mancheranno nuove minacce ed episodi di violenza, ma il clima generato dall'accordo voluto da Trump indebolisce chi persegue la distruzione dello Stato ebraico. Ma l'attivismo trumpiano delle ultime settimane ha prodotto effetti incoraggianti anche nel Vecchio Continente. Quasi contemporaneamente all'annuncio della svolta da parte degli Emirati e del Bahrain, Serbia e Kosovo hanno reso pubblica la decisione di aprire le loro rispettive ambasciate a Gerusalemme, e con questo di dare inizio ad un rapporto diverso e migliore con Israele.
  Anche in questo caso non si tratta di un cambiamento banale e trascurabile perché la Serbia, com'è noto, si è sempre trovata soprattutto nell'orbita russa ed è un bene che Belgrado accetti anche qualche suggerimento proveniente da Washington, mentre il Kosovo, com'è altrettanto risaputo, è un Paese a maggioranza musulmana. L'informazione, in particolare quella in mano ai detrattori del presidente americano, attivi in America come in Europa, non ha volutamente attribuito un valore storico a questi importanti cambiamenti promossi da Donald Trump, perché l'ordine di scuderia è quello di sminuire o criticare a priori questo leader politicamente scorretto, ma, nonostante la faziosità liberal e radical-chic, l'America trumpiana ha già fatto e sta facendo la Storia. La candidatura per il Premio Nobel per la pace, proposta per il tycoon, appare sempre meno come una boutade estemporanea.

(L'Opinione, 18 settembre 2020)


Riportare a casa una delle tribù perdute?

Intervista con il rabbino Michael Freund, fondatore di Shavei Israel

di Tzvi Fishman

 
Il ministro israeliano Aliyah e assorbimento Penina Tamanu-Shata ha detto al rabbino Michael Freund in un recente incontro che sta andando avanti con i piani per il trasferimento in Israele di altri 722 membri della comunità Bnei Menashe [Figli di Manasse, ndr] dell'India nord-orientale.
  Negli ultimi due decenni, Freund - fondatore e presidente di Shavei Israel - è stato in prima linea negli sforzi per aiutare Bnei Menashe, che afferma di discendere da una delle dieci tribù perdute, a tornare nel popolo ebraico. In effetti, grazie soprattutto agli sforzi di Shavei Israel, più di 4.000 Bnei Menashe vivono ora in Israele.
  Freund, cresciuto a New York, si è laureato alla Princeton University, ha conseguito un MBA presso la Columbia University ed è coautore di due libri.

- The Jewish Press: Chi sono esattamente i Bnei Menashe?
  Rabbi Freund: sono discendenti della tribù di Menashe, una delle dieci tribù perdute che furono esiliate dalla Terra di Israele più di 27 secoli fa dall'impero assiro. Attualmente risiedono nella parte nord-orientale dell'India, principalmente nello stato di Mizoram e Manipur, lungo i confini con la Birmania e il Bangladesh.
  Nonostante abbiano vagato in esilio per così tanto tempo, non hanno mai dimenticato chi erano o da dove venivano e non hanno mai dimenticato dove un giorno speravano di tornare: Sion. Incredibilmente, nonostante siano stati tagliati fuori dal resto del popolo di Israele per generazioni, si sono aggrappati alla loro identità, hanno continuato a praticare il giudaismo e non hanno mai perso la fede che alla fine si sarebbero riuniti con il resto del popolo ebraico.

- Quanti Bnei Menashe ci sono e che tipo di giudaismo praticano?
  Finora, abbiamo avuto la fortuna di portare più di 4.000 Bnei Menashe in aliya in Israele, e ce ne sono ancora altri 6.500 in India che aspettano di venire. I Bnei Menashe sono distribuiti in più di 50 comunità in tutto il nord-est dell'India, ognuna con la propria sinagoga.
  Per secoli hanno praticato una forma biblica di giudaismo, osservando il sabato, osservando il kosher, celebrando le feste e seguendo le leggi della purezza familiare. Stavano ancora eseguendo i riti sacrificali anche quando furono scoperti dagli inglesi oltre un secolo fa.
  È interessante notare che non erano a conoscenza né di Purim né di Chanukah, che commemorano entrambi eventi avvenuti secoli dopo che i loro antenati furono esiliati. Negli anni '80, quando entrarono in contatto per la prima volta con il defunto rabbino Eliyahu Avichail di Gerusalemme, abbracciarono l'ebraismo ortodosso contemporaneo, che praticano fedelmente fino ad oggi.
  Ho visitato le loro comunità numerose volte in India ed è davvero uno spettacolo straordinario. Tutti gli uomini indossano yarmulke e molti hanno tzitzit penzoloni da sotto le camicie, mentre le donne si vestono con modestia.

- Come sei stato coinvolto per la prima volta con i Bnei Menashe?
  Ho fatto l'aliya da New York nel 1995, e quando Benjamin Netanyahu è stato eletto premier nel 1996, mi ha nominato suo vice direttore delle comunicazioni nell'ufficio del primo ministro sotto David Bar-Illan, di benedetta memoria.
  Un giorno, nella primavera del 1997, arrivò una piccola busta arancione indirizzata al primo ministro dai leader della comunità di Bnei Menashe. Ha attraversato la mia scrivania, quindi l'ho aperto e ho letto la lettera. È stato un appello molto emotivo, chiedere che ai Bnei Menashe fosse permesso di tornare in Israele dopo 2.700 anni.
  Ad essere onesti, all'inizio ho pensato che fosse pazzesco. Ma c'era qualcosa di molto sincero e sentito nella lettera, quindi ho scelto di rispondere. Poi, una volta che ho incontrato i membri della comunità, ho appreso di più sulla loro storia, tradizioni e costumi, mi sono convinto - per quanto fantasioso possa sembrare - che in realtà sono i nostri fratelli perduti e che dovevamo aiutarli.
  Così ho iniziato a combattere attraverso le barriere della burocrazia e ho organizzato grandi gruppi di Bnei Menashe per fare l'aliya .

- Tutti li accettano come ebrei?
  Mi sono avvicinato al rabbino capo sefardita di Israele Shlomo Amar nel 2004 e gli ho chiesto di studiare la questione. Dopo averlo fatto, in una riunione nel marzo 2005, il rabbino Amar ha dichiarato che i Bnei Menashe sono " Zera Yisrael " - o discendenti di Israele come gruppo collettivo - ma questo perché sono stati tagliati fuori dal resto del popolo di Israele per così a lungo, ogni individuo dovrebbe sottoporsi a un processo di conversione formale, che è esattamente la procedura che viene seguita.
  Tutti i 4.000 Bnei Menashe in Israele sono stati convertiti dal Capo Rabbinato di Israele, quindi sono ebrei quanto te o me.

- È affascinante che un gruppo tagliato fuori per così tanto tempo stia ora tornando in Israele.
  Apri uno dei libri dei Profeti e vedrai che parlano tutti del raduno degli esiliati, inclusi Giuda e Israele, ovvero le Dieci Tribù Perdute di Israele. Isaia dice: "E in quel giorno sarà suonato un grande shofar e verranno quelli che si erano smarriti nel paese di Assiria" (27:13). Questo è un riferimento esplicito alle tribù che furono esiliate dagli Assiri.
  E in Geremia (3:18), Hashem promette: "In quei giorni, la casa di Giuda camminerà con la casa d'Israele e si uniranno da una terra a nord alla Terra che ho dato ai tuoi padri come eredità. "
  Il ritorno dei Bnei Menashe, discendenti della casa d'Israele, è l'inizio dell'adempimento di queste promesse millenarie. Quindi, credo che sia un significativo passo avanti nel processo di redenzione.

- Come descriveresti il loro assorbimento nella società israeliana?
  Grazie a Do, nel complesso, è stato un successo. La maggior parte degli immigrati Bnei Menashe ha almeno un diploma di scuola superiore, alcuni hanno diplomi conseguiti in college e università indiane e molti parlano inglese. Hanno tutti uno smartphone in India, quindi hanno familiarità con i modi occidentali e seguono da vicino le notizie in Israele.
  Tutti i giovani uomini della comunità servono nell'IDF, con molti volontari per le unità di combattimento d'élite. Un numero crescente di giovani nella comunità si è laureato in college israeliani con diplomi che vanno dal lavoro sociale all'ingegneria, e alcuni giovani hanno ricevuto l'ordinazione rabbinica.
  Ovviamente, come nuovi immigrati, devono affrontare molte sfide, ma i Bnei Menashe sono sionisti impegnati ed ebrei osservanti e sono determinati a farlo funzionare.

- Quando il prossimo gruppo di Bnei Menashe farà l' aliya ?
  Nel mio recente incontro con Aliyah e il ministro dell'Assorbimento Penina Tamanu-Shata, ha chiarito che dovremmo iniziare i preparativi per portare il primo gruppo di 250 immigrati sul totale di 722 che sono stati approvati, a novembre. Il resto arriverà nel 2021. Ma dipende, ovviamente, dai finanziamenti.
  Secondo l'accordo con il governo, Shavei Israel deve coprire vari costi, come il biglietto aereo e il trasporto del Bnei Menashe dall'India a Israele, che ammontano a $ 1.000 per immigrato. Quindi dobbiamo raccogliere i fondi necessari.

- Oltre ai Bnei Menashe, lavori anche con altre comunità "perdute". Puoi parlarci un po' di loro?
  Ho fondato Shavei Israel con l'obiettivo di raggiungere le tribù perdute e le comunità ebraiche nascoste e aiutarle a riconnettersi con le loro radici. Oltre al Bnei Menashe dell'India, abbiamo lavorato per molti anni con gli ebrei cinesi di Kaifeng, in Cina; i Bnei Anousim (o "Marranos") di Spagna, Portogallo e Sud America; gli ebrei nascosti della Polonia dall'Olocausto; gli ebrei Subbotnik della Russia, così come altri.
  Lo facciamo perché sento che abbiamo la responsabilità storica, morale e religiosa di aiutare coloro che un tempo facevano parte del nostro popolo a tornare. Come sappiamo, il popolo ebraico è stato perseguitato e torturato, massacrato ed espulso più di qualsiasi altra nazione sulla terra negli ultimi 2000 anni. Lungo la strada, molte persone sono state strappate via da noi, ma in qualche modo sono riuscite a preservare un senso di coscienza o connessione ebraica.
  E negli ultimi decenni, un numero crescente di discendenti ebrei ha bussato alla nostra porta collettiva, cercando di riconnettersi con il popolo ebraico. Dopo tutto quello che hanno sopportato i loro antenati - sia per mano dell'Inquisizione, dei comunisti o dei nazisti - come possiamo voltare loro le spalle?

(Shavei Israel Italia, 14 settembre 2020)


"Vendo il club agli Emirati". Israele, la favola del calcio che sfida gli ultrà anti arabi

La svolta del presidente del Beitar Gerusalemme. La tifoseria è stata spesso accusata di razzismo

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — L'accordo Israele-Emirati sta dando frutti anche sui campi di calcio: Hapoel Beersheva, I campioni in carica, ha già invitato per un'amichevole l'omologa emiratina. Ma è l'interessamento di un uomo d'affari degli Eau a investire nel Beitar Yerushalaim, la storica squadra di Gerusalemme, ad aver spiazzato un po' tutti. «Apprezzo la tifoseria del Beitar, così devota al club. Presto capiranno che la gente degli Emirati cerca pace e coesistenza», ha detto alla tv Kanll l'imprenditore, per ora rimasto anonimo. Eccentrica o coraggiosa, è una scelta decisamente non convenzionale, considerato che Beitar è la squadra che ancora non ha rotto il tabù di reclutare un giocatore arabo, nonostante a Gerusalemme rappresentino il 38% della popolazione. E fa i conti con una tifoseria radicale di ultrà razzisti, che ha scelto di chiamarsi La Familia, «perché tutto deve restare in casa». Non mancano le squadre in cui giocano insieme musulmani, cristiani ed ebrei, ma lui ha scelto proprio i nero-gialli.
   «La proposta rispecchia valori per cui ho deciso di acquistare il Beitar», dice a Repubblica Moshè Hogeg. L'imprenditore 39enne, che si è costruito da solo con una serie di investimenti azzeccati nel bitcoin e in start-up di successo, nel 2018 ha acquistato il club non perché fosse la squadra del cuore - lui che viene dalla periferia di Beersheva - ma per fare "una rivoluzione sociale". Un repulisti. Ha stampato il motto "Amerai il tuo prossimo come te stesso" sulle maglie dei giocatori, «la frase più importante dell'ebraismo. A Beitar c'è chi l'ha infangata». Ha iniziato a citare in giudizio i tifosi estremisti "per diffamazione del club". Con Hogeg, Beitar è anche tornata a giocare alla presenza delle tifoserie avversarie nelle partite contro la squadra a maggioranza araba Bnei Sakhnin, dopo due anni di punizione per via degli scontri violenti tra i rispettivi ultrà.
   Hogeg partirà a breve per gli Eau per concludere la trattativa, sponsorizzata da Sulaiman al Fahim, mediatore nell'acquisto del Manchester City da parte degli Emirati. La Familia ha sbottato: «Stanno svendendo i nostri principi per soldi. Vogliamo una squadra forte, ma non a ogni costo». Hogeg non si lascia impressionare. «Abbiamo condotto un sondaggio tra il nostro pubblico e il 92% è a favore. È fantastico. Se andrà in porto, dovremo confrontarci con quell'8%, ma non ho dubbi che vinceremo: sono dei miseri razzisti oscurantisti, che utilizzano slogan irrazionali come "Beitar pura per sempre"». E lo slogan che esibirono quando nel 2013 la proprietà precedente ingaggiò due giocatori ceceni, musulmani, e qualcuno arrivò pure a dare alle fiamme la sala dei trofei del club. «Quella però fu una scelta forzata. Erano pessimi giocatori. Io non sceglierò mai un calciatore in base alla religione, ma solo perché è il migliore. Per questo ho portato Ali Mohamed, che è stata una scelta vincente». II centrocampista nigeriano ha forse rappresentato anche un banco di prova per Hogeg. Padre musulmano, madre cristiana. I tipi di La Familia hanno stabilito che è cristiano per placare gli spiriti, ma c'era tra loro chi chiedeva che cambiasse il nome: «Un Mohamed da noi non ci sarà». «Investire nel calcio, e in particolare nel Beitar, la squadra di Gerusalemme, città santa per noi e per loro, con la tifoseria più numerosa, è il segnale più netto che c'è la volontà di una pace vera, dal basso. Ed è un passo critico nell'educazione delle nuove generazioni di tifosi».

(la Repubblica, 18 settembre 2020)


Questo è un trattato vero

L'uccisione trumpesca del generale Suleimani doveva far scoppiare la guerra, invece ha portato a una pace non cinica fra Israele e i paesi arabi (e i sauditi sono in attesa).

di Daniele Raineri

L'Amministrazione Trump ha tentato di raggiungere quattro accordi di pace. Uno con il dittatore della Corea del nord, Kim Jong Un, ma la stretta di mano storica non ha portato a nulla e il programma atomico coreano è ancora lì, pericoloso come all'inizio del mandato e forse di più. Un secondo accordo è con i talebani in Afghanistan e sembra molto più a portata di mano, ma più che un accordo di pace storico è un "noi ci ritiriamo, adesso vedetevela fra di voi". Le premesse non sono buone, dieci giorni fa una bomba è esplosa mentre passava il convoglio del vice presidente Amrullah Saleh, ex capo dell'intelligence, un duro della fazione anti talebani, e ha ucciso dieci persone. I talebani hanno negato ogni responsabilità, ma se anche fosse vero vuol dire che è stata una delle fazioni altrettanto violente che loro non controllano. Gli americani firmano e lasciano il paese, non è un accordo di pace. Il terzo tentativo riguarda l'Iran, il presidente americano Donald Trump aveva promesso un accordo sul nucleare con gli iraniani "molto meglio di quello fatto da Obama", che era "il peggior accordo della storia", ma non ci è riuscito, per quanto tenesse molto a essere protagonista di una scena che sarebbe senz'altro stata storica: la stretta di mano tra un presidente americano e un leader dell'Iran. Il quarto tentativo di pace riguardava paesi arabi e Israele e in questo caso il successo è stato pieno e innegabile, anche se le due parti si erano già avvicinate da tempo senza darlo troppo a vedere.
 
  Quando due giorni fa Trump ha firmato i cosiddetti Accordi di Abramo assieme ai ministri degli Esteri degli Emirati arabi uniti e del Bahrein e al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in molti hanno storto il naso, non sono accordi di pace come quelli fra Israele e l'Egitto prima e Israele e la Giordania poi, è una sceneggiata perché si tratta di paesi che non erano in guerra con Gerusalemme. E' vero che non c'era una guerra e che anzi c'era una cooperazione discreta, ma questi nuovi accordi sono molto più profondi e incredibilmente più impegnativi di quelli firmati da Israele in precedenza. Al momento della firma sul prato della Casa Bianca il testo era ancora segreto, ma qualche ora dopo è stato distribuito e si è capito che ha l'ambizione di creare una visione totalmente nuova del medio oriente - e ci sono anche aspetti controversi, come vedremo più avanti. Orde Kittrie, un professore americano che ha lavorato per undici anni al dipartimento di Stato dove si occupava della parte legale nei negoziati nucleari, nota che il patto tra Israele e Giordania del 1994 era intitolato ''Trattato di pace tra lo Stato di Israele e il Regno hashemita di Giordania" e questo è intitolato "Trattato di pace, relazioni diplomatiche e piena normalizzazione tra gli Emirati arabi uniti e lo stato di Israele". Respinge il grande tabù che ha dato forma al medio oriente per decenni, l'odio verso la normalizzazione con Israele, fin dal titolo (e in questi giorni tatbieh, normalizzazione, è diventata una delle parole più frequenti sui siti di notizie in arabo). Secondo l'accordo i due paesi accettano di promuovere la pace "forgiando relazioni più strette tra le persone" e "coltivando programmi interpersonali ... e scambi culturali, accademici, giovani~ scientifici e di altro tipo tra i loro popoli". Inoltre "promuoveranno la cooperazione turistica tra loro come componente chiave ... per lo sviluppo di legami culturali e interpersonali più stretti", inclusi "viaggi di studio reciproci" e l'utilizzo di "budget di marketing nazionali per promuovere il turismo reciproco". Siamo arrivati all'Erasmus tra israeliani e arabi e questo dovrebbe far capire cosa sta succedendo. Non sono più accordi pratici tra vicini che non    no fare la guerra, c'è l'intento di provocare uno choc culturale senza ritorno nelle teste della regione, sia in Israele sia nei paesi arabi.
  C'è anche un aspetto interessante dal punto di vista militare. In un passaggio, Emirati arabi uniti e Israele concordano "di impedire qualsiasi attività terroristica o ostile l'uno contro l'altro sui o dai rispettivi territori, nonché negare qualsiasi supporto per tali attività all'estero o consentire tale supporto su o dai rispettivi territori". In questi anni abbiamo visto come l'Iran sia riuscito in pratica ad arrivare fin sul confine con Israele perché ha preso il controllo della Siria- il regime di Assad deve all'Iran la vittoria nella guerra civile. Oggi gli iraniani sono al confine del Golan, a pochi chilometri dalle prime case israeliane. Con la nuova intesa, Israele oggi ha a disposizione un alleato che - e qui serve guardare una mappa - è come un cuneo dentro al territorio dell'Iran. C'è soltanto l'acqua dello Stretto di mezzo. Viene da pensare che nel giro di qualche anno gli israeliani potrebbero avere una base in quella zona, detta adesso sembra una follia ma è chiaro che stiamo assistendo a una corsa senza precedenti. Alcuni dei problemi che riguardano una possibile operazione israeliana in Iran sono logistici, come la distanza e la necessità di fare rifornimento per gli aerei, e forse il territorio emiratino fornisce la soluzione. L'alleanza in chiave anti Iran è in fondo proprio il motivo principale di questo accordo.
  Tuttavia a leggere il Trattato si vede che non è un "turiamoci il naso e stiamo assieme contro la minaccia comune dell'Iran, poi si vedrà". C'è un cambio di paradigma. C'è una nuova strategia a lungo termine, spiegata con un nuovo linguaggio, dice Kittrie. Se fino a due giorni fa i paesi arabi non riconoscevano nemmeno l'esistenza dello stato di Israele, adesso c'è un primo Trattato che vuole "tracciare insieme un nuovo percorso per sbloccare il vasto potenziale dei loro paesi e della regione". E chiede di concludere il prima possibile accordi bilaterali in tutto un elenco lungo di settori che include finanza, investimenti, aviazione, innovazione, commercio, sanità, scienza, turismo, cultura, sport, energia e ambiente. C'è persino un allegato che parla di esplorazione spaziale condivisa.
  Michael Stephens, un esperto del Golfo persico che lavora al think tank britannico Rusi, due giorni fa parlava di "strategie and emotional shift". La gente dei regni del Golfo - giovane in stragrande maggioranza - in questi anni ha visto la Primavera araba, ha fatto esperienze internazionali, ha cominciato a seguire temi nuovi, non ha più lo stesso interesse di prima alla divisione manichea tra stati arabi e Israele, ai regolamenti bizantini per evitare che merci israeliane finiscano nei paesi arabi e viceversa e a tutta la finzione dello stato di guerra permanente. I dati di Netflix dicono che "Fauda", la serie non agiografica su una squadra dei reparti speciali israeliani che lavora sotto copertura nei territori palestinesi, è stata prima per spettatori in Libano, terza negli Emirati, sesta in Giordania. Lior Raz, protagonista e creatore della serie, dice che negli Emirati ha bisogno di una guardia del corpo non per protezione ma per gestire "gli arabi di tutti i paesi che mi chiedono di fare un selfie assieme".
  Il Trattato è un disastro con i palestinesi, soprattutto se ci sarà come è probabile un effetto domino e altri paesi arabi aderiranno. Stabilisce la pace e la piena normalizzazione ma non pone alcuna condizione, funziona già così a tutti gli effetti. La causa palestinese è menzionata per dire che Emirati e Israele si impegnano a "continuare i loro sforzi per raggiungere una soluzione giusta, globale, realistica e duratura al conflitto israelo-palestinese", che è proprio il minimo che ci si potesse aspettare. Il professor Kittrie nota che l'accordo non menziona il ritiro di Israele dai territori oppure la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede il ritiro e fu inclusa nell'accordo Israele-Giordania e che in pratica è diventata una formula rituale quando si parla di relazioni tra arabi e Israele. E infatti ieri il sito del movimento Bds, che ha come obiettivo il boicottaggio di Israele e dei prodotti israeliani, diceva che l'accordo equivale a "vendere i palestinesi". Per paradosso, adesso il movimento Bds sarà più forte in alcuni paesi dell'Unione europea che in alcuni paesi arabi.
  Questo tipo di effetto domino che cambia il volto della regione è stato aiutato da una delle operazioni più criticate di tutto il mandato di Trump: l'uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani con un drone, avvenuta sulla strada dell'aeroporto di Baghdad, in Iraq, a gennaio. Molti analisti dipinsero quell'evento come la scintilla non necessaria che avrebbe fatto sprofondare l'intera regione e forse il mondo nella follia
  di una guerra (alcuni si spinsero a descrivere Suleimani come un normale diplomatico, come se fosse stato l'ambasciatore svizzero e non il comandante corsaro di tutte le operazioni di guerriglia finanziate dall'Iran in paesi terzi). Invece si trattò soltanto di un aggiustamento dei rapporti di forza tra gli Stati Uniti, che da molti anni segue una linea politica remissiva e non più aggressiva, e l'Iran che invece compie spesso attacchi al di sopra delle proprie possibilità (come quelli delle sue milizie alle basi americane in Iraq). Trump, che aborre le guerre all'estero, si chiese perché mai l'America dovesse tollerare uno stillicidio di aggressioni contro i suoi soldati quando ha la capacità di lanciare raid molto più pesanti. O forse lo convinsero i generali. Fatto sta che dimostrò di nuovo perché ha senso fare accordi con gli americani. Con la morte di Suleimani acquistò in via definitiva il favore e l'attenzione dei regni arabi del Golfo, che dell'Iran sono nemici.
  L'effetto domino è aiutato anche da un'altra decisione di Trump, ancora più controversa dell'assassinio di Qassem Suleimani. L'Amministrazione americana si è schierata a difesa del principe ereditario Mohammed bin Salman anche quando è stato chiaro che era responsabile per l'uccisione di Jamal Khashoggi, un saudita che scriveva sul Washington Post e che fu attirato, ucciso e fatto a pezzi con un seghetto dentro il consolato saudita di Istanbul. Persino i senatori repubblicani, che di solito sono molto obbedienti a Trump, uscirono sconvolti da un briefing a porte chiuse organizzato dalla Cia per parlare della responsabilità del principe saudita. Ma Trump, con la stessa noncuranza strategica che poi dimostrerà davanti al Covid-19, decise di ignorare la faccenda, "Gli ho salvato il culo", dice ai suoi, riferendosi al principe Bin Salman - secondo il libro appena uscito di Bob Woodward,
  L'accordo tra paesi arabi e Israele porta verso un nuovo medio oriente, ma è anche frutto di patti e intese tra interlocutori cinici. Prendiamo per esempio la Libia, dove gli Emirati arabi uniti hanno armato e finanziato il generale Haftar per spazzare via il governo di Tripoli, che è alleato dell'Italia. Per più di un anno l'Amministrazione Trump non ha detto quasi nulla sulla guerra civile in corso e ora si capisce che è possibile non volesse disturbare gli Emirati, perché voleva da loro un accordo storico con Israele. Torniamo al principe saudita Bin Salman, che per un poco è stato il paria del mondo. E' molto ragionevole pensare che tutta questa catena di accordi diplomatici con Israele partita con gli Emirati e il Bahrein e che andrà avanti mediata dall'America - i prossimi saranno probabilmente Oman e Sudan - sia partita soltanto grazie all'assenso dell'Arabia Saudita, che di questa catena sa di essere il pezzo principale e più importante e che quindi si tiene per ultima.

(Il Foglio, 17 settembre 2020)


In politica estera Trump è stato enormemente meglio di Obama

di Pierluigi Magnaschi

Capisco perché i giornali italiani (soprattutto quelli più grandi; quelli provinciali invece sono quasi sempre di un equilibrio esemplare ) siano cosi faziosi nel favorire l'una o l'altra parte dello schieramento politico nazionale. Per gli interessi delle loro proprietà o dei loro direttori, che sono intimamente legati, non è infatti indifferente che, in Italia, vinca uno schieramento politico o un altro. Non capisco invece come mai questi grandi media (che dovrebbero fare dell'oggettività la loro divisa e il loro pregio, se non altro sul piano del marketing) siano quasi tutti cosi pregiudizialmente faziosi nel seguire in genere la politica estera e, nel caso specifico, la competizione politica che è in atto negli Stati Uniti per arrivare alla designazione del futuro inquilino della Casa Bianca.
   Non capisco questo atteggiamento perché solo in Italia i giornalisti, specie quelli gallonati o che si ritengono tali, pensano che i loro articoli sulla nostra stampa (o le loro comparsate nei vari tg) possano influenzare anche per solo lo 0,0001 per mille, il voto a stelle e strisce. Per dare un esempio di questo incomprensibile atteggiamento basta prendere il quotidiano italiano più diffuso che, nella sua edizione di ieri, ha presentato il risultato dell'intesa dell'amministrazione Usa con due paesi musulmani del Medio oriente, come se esso fosse una risibile bazzecola, anche se si tratta, come spiegheremo più avanti, di un accordo assolutamente storico, indipendentemente da chi è riuscito a realizzarlo.
   Ebbene questo grande quotidiano ha presentato in prima pagina l'intesa in Medio oriente con un titolo a una colonna, seguito da un inizio di pezzo di 5 righe. Lo stesso spazio (titolo a una colonna e inizio pezzo da 5 righe) lo ha dedicato alla vicenda del dissidente avvelenato in Russia, Alexei Navalny, sul quale il giornale sta parlando da un mese tutti i giorni, e per di più, in questo specifico caso, si tratta anche di una notizia che non esiste («respiro da solo»), visto che questa notizia era già stata data una settimana fa dai sanitari tedeschi che lo hanno in cura.
   Di fronte a questa enormità della sottovalutazione, i colleghi del giornalone potrebbero essere scusati dalla fretta con la quale tutti i quotidiani sono confezionati. Ma non è questo il caso, visto che l'articolo relativo all'accordo storico è stato relegato, con quindi una doppia decisione, addirittura a pag. 15. Pertanto in questa gerarchia non c'è stato un errore, sempre possibile e sempre comprensibile, ma è stata una scelta deliberata.
   Vediamo, a questo punto, di che cosa si tratta. Gli stati musulmani degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, a seguito di un'azione efficace (efficace nel senso che ha raggiunto l'obiettivo che si poneva) svolta dall'amministrazione Trump, hanno deciso di firmare un accordo di pace e di collaborazione con lo stato di Israele. Il fronte compatto dei paesi musulmani pregiudizialmente avversari di Israele, da loro considerato il nemico assoluto, si sta quindi sgretolando, nel senso che si è ripreso il processo che si era interrotto tanto tempo fa, da quando cioè, nel 1979, l'Egitto riprese le sue relazioni con Tel Aviv e da quando poi, nel 1994, fece questa scelta anche il Regno di Giordania. Ma queste due intese (quanto mai utili, intendiamoci bene) venivano dopo una guerra contro Israele che era stata persa in modo rovinoso da entrambi ì paesi che l'avevano iniziata con la certezza di annientare Israele e che invece, dopo solo pochi giorni, l'avevano conclusa in maniera indignitosa, con la loro armate annientate e la loro faccia nella sabbia.
   Con gli Emirati e il Bahrein invece non c'è stata, prima di questo accordo, una sconfitta militare ma una decisione consapevole, basata sulla reciproca convenienza. Da una parte infatti c'è Israele (un piccolo paese ma anche l'unica democrazia di quest'area, incuneata fra paesi nemici, sostanzialmente dittatoriali e armati fino ai denti). Dall'altra ci sono gli Emirati e il Bahrein. Lo stato di Israele è in guerra da quando è stato creato, cioè ininterrottamente da 72 anni, e adesso, come ha anche detto a Washington il premier Netanyahu, interpretando il desiderio di quasi tutti i suoi concittadini, è «stanco di stare in guerra»,
   Emirati e Bahrein invece hanno capito che il loro sviluppo è basato sugli scambi e la collaborazione con Israele. Essi infatti dispongono di risorse economiche immense che provengono dall'estrazione del petrolio ma hanno anche la necessità di diversificare lo loro economia in vista di una stagione molto più ecologica a livello mondiale che tende quindi a ridimensionare il petrolio come risorsa energetica. Essi già puntano sul turismo che, al netto del Covid, stava sviluppandosi molto bene. Ma puntano anche sullo sviluppo tecnologico soprattutto nei settori elettronici e medicali. In questi settori la collaborazione con Israele diventa la leva più efficace per entrare nel futuro.
   Molto interessanti, per tutti questi tre paesi, sono anche le prospettive turistiche. Per gli israeliani (che distano solo tre ore di volo) Dubai, con le sue magiche notti da favola, diventa adesso una meta interessante e soprattutto possibile (visto che oggi non la è). E Israele, da parte sua, si aprirà al turismo religioso spalancando le porte della Spianata delle Moschee ai fedeli musulmani dei paesi che sono interessati al pellegrinaggio in questo che è considerato il terzo luogo per loro più sacro.
   Trump, nel presentare questo accordo veramente storico, ha detto (forse facendo lo sbruffone) che altri «quattro o cinque paesi mediorientali sono pronti a seguire questi passi». Anche se quest'ultima notizia non fosse vera, è vero però che essa è molto probabile, nel senso che si inserisce in un trend che l'accordo con gli Emirati e il Bahrein ha portato alla luce del sole. Ovviamente, questo trend, che è già robustamente delineato, incontrerà fortissime resistenze, soprattutto quelle pilotate e finanziate dall'Iran. Basti pensare che mentre questo accordo stava per essere firmato negli Usa, dalla Striscia di Gaza sono stati sparati tre razzi (come dice la stampa occidentale sempre minimizzante anche se sarebbe più esatto parlare di missili) sulla città di Ashold, nel Sud di Israele, che hanno colpito sei cittadini. Se poi si pensa che il Libano, a Nord di Israele, è controllato da Hezbollah, un'organizzazione ufficialmente terroristica composta da fanatici che usano le armi contro Israele da tre generazioni e non sanno fare altro, si capisce che il processo di pace in Medio oriente è ancora lungo. Ma è anche vero che con questi ultimi accordi si è superato uno snodo molto significativo.

(ItaliaOggi, 17 settembre 2020)


La strana alleanza tra Israele e Arabia saudita contro l'Iran

Dopo l'accordo Israele-Emirati-Bahrein

di Mario Giro

 
A fini interni il colpo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump è grosso: la foto con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e i due ministri degli esteri di Emirati e Bahrein serve per liberarsi dalle strette del movimento Black Lives Matter e dare un'immagine da leader globale durante la campagna. Per il premier israeliano, a pochi giorni dal secondo lockdown nazionale causa Covid, si tratta di un trionfo: aver snobbato a suo tempo Barack Obama alla fine lo ha favorito. La comunità ebraica americana non potrà che tenerne conto nelle urne. Ma il vero terremoto geopolitico è in Medio Oriente: con questa mossa l'Arabia Saudita avanza le sue pedine per divenire il dominus assoluto tra i paesi arabi. Non c'era più scelta, Siria e Iraq sono distrutti o fuori gioco; l'Egitto in preda a divisioni interne e alle prese con l'interminabile guerra di Libia; Algeria in crisi e i regni moderati Marocco o Giordania sostanzialmente allineati. Israele non ha più nemici se non l'Iran sciita perché dunque proseguire con la linea perdente dei palestinesi? E' la domanda che si sono fatti a Riad e che ha provocato la svolta. I paesi del Golfo sono gli unici paesi arabi efficienti e dinamici, economicamente stabili, senza particolari crisi socio-economiche interne. Il solo neo è l'alleanza del Qatar con la Turchia e ora il presidente turco Recep Tayyp Erdogan dovrà decidere cosa fare. Intanto si è fatta la fila per normalizzare i rapporti con Israele: Oman, Sudan Marocco ecc. Stufa di andar dietro alle velleitarie rimostranze dell'autorità palestinese incapace di scegliere la pace, l'Arabia manda avanti i suoi alleati per andare a vedere le carte. D'altronde tutti sono preoccupati da Teheran: meglio allinearsi.
   Ovviamente il resto del mondo vuole sapere se si tratta di una svolta reale o soltanto di arguzia orientale. Gli Emirati ci hanno da tempo abituato a fuochi d'artificio geopolitici originali e spericolati. Il piccolo Bahrein rappresenta invece una cartina di tornasole: se ha accettato la normalizzazione con Israele significa che c'è stato il via libera di Riad. Quest'ultima prende tempo. Da un punto di vista formale il re Abdallah, predecessore di Mohammed Ben Salman (MBS), aveva già nel 2002 definito la dottrina: due Stati con Gerusalemme est capitale palestinese. Su tale faglia è fissata la linea ufficiale di Riad.
   L'Arabia vuole capire se Washington sarà capace di imporre tale svolta ad Israele. Le normalizzazioni con Emirati e Bahrein mostrano che in cambio si può ottenere la fine della guerra con gli Stati arabi. A impedire la pace non esistono più i blocchi ideologici del passato. Da Israele le monarchie del Golfo desiderano anche altro, per loro più vitale: un impegno a difenderle dall'Iran, ìl comune nemico. Invece di protestare inutilmente contro l'arma nucleare "ebraica" (mai ammessa ufficialmente), a Riad hanno capito che è meglio mettersi sotto il suo ombrello. In questo senso anche da Washington pretende qualcosa per esempio i caccia F35 fino ad ora negati. Il punto non è se tutti gli Stati del Golfo riconosceranno Israele, ma quando. Per ora Netanyahu in cambio ha offerto l'ennesimo congelamento degli insediamenti e soprattutto della paventata annessione. Sembra poco ma è molto: da cosa dipenderà in futuro la sicurezza di Israele? Se l'alleanza con i paesi del Golfo sarà confermata, per la prima volta Gerusalemme potrebbe avere addirittura dei potenziali alleati in zona

 Le incognite per MBS
  Gli esperti definiscono tale situazione come "esercizio di equilibrismo": il corridoio aereo che unisce ora Israele con gli Emirati passa sopra i cieli d'Arabia, roba mai vista prima. Non vi è dubbio che alla protettrice di Mecca e Medina fa anche gola la possibilità di accedere liberamente a Gerusalemme, terzo luogo santo dell'Islam. Tuttavia anche la più ardita geopolitica non basta e Riad rimane prudente: la composizione sociologica del paese è molto diversa da quella dei micro-stati attorno. Non è detto che la popolazione saudita, molto conservatrice e segnata dal wahabismo, accetti la svolta con favore. Pesano moltissimo i decenni passati a odiare l"'entità sionista". il gioco spericolato di MBS può essere ostacolato da uno dei suoi innumerevoli cugini che lui stesso ha fatto mettere agli arresti domiciliare. La famiglia reale è spaccata non è difficile immaginare che qualcuno possa riprendere la vecchia bandiera anti-sionista e far scattare i vecchi riflessi arabi. Di conseguenza l'Arabia Saudita non può mostrarsi alla sequela di Stati più piccoli: deve ottenere da Israele qualcos'altro, di convincente e definitivo. Intanto ha bisogno di un sostegno di intelligence e tecnologia nella guerra in Yemen che si trascina da tempo senza vittoria.
   Intanto MBS ha dichiarato che Neom, la futurista città ecologica del suo programma Vision 2030, sarà costruita davanti a Eilat un altro modo per tendere una mano agli ex nemici. Cosa farà ora Ankara? Erdogan ha appena ricevuto Ismail Haniyeh, il leader di Hamas che si poi è recato a Beirut da Hassan Nasrallah, il capo degli Hezbollah filo-iraniani Ciò che resta del fronte del rifiuto ha ricominciato a parlarsi. Ma l'avvicinamento tra Iran e Turchia è il modo migliore per spingere Riad e Gerusalemme ad intendersi.

(Domani, 17 settembre 2020)


La guerra dopo la pace: razzi di Hamas su Israele, Tel Aviv bombarda Gaza

Due feriti per il lancio di missili. Il premier Netanyahu: «Colpiremo chi ci fa del male»

Il leader dell'Anp
Abu Mazen: «Niente sicurezza senza uno Stato palestinese»
Gli accordi di Abramo
Il leader della Jihad islamica contro l'intesa: «Troppa arroganza»

di Chiara Clausi

Due razzi sono stati lanciati contro due città israeliane meridionali proprio mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu e i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein erano sul prato della Casa Bianca, per firmare storici accordi di normalizzazione dei rapporti tra i tre Stati con la mediazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Le sirene hanno suonato nella città portuale di Ashdod e nella città costiera di Ashkelon, a nord di Gaza. L'offensiva di Hamas è poi continuata ieri all'alba con altri tredici ordigni lanciati sempre verso il Sud di Israele. Due persone sono state ferite dai detriti di vetro ad Ashdod. Un uomo di 62 anni è stato moderatamente ferito al torso e un ventottenne agli arti. Sono stati portati in un vicino ospedale. Altre quattro persone sono sotto shock
   È un nuovo ciclo di violenze tra i militanti palestinesi di Gaza e Israele. L'esercito israeliano ha precisato che otto dei tredici razzi sono stati intercettati con successo dal sistema di difesa missilistica Iron Dome.L'esercito israeliano ha poi risposto con raid su obiettivi di Hamas nel nord e nel centro di Gaza in risposta. Gli aerei ed elicotteri da combattimento di Tel Aviv hanno colpito «una fabbrica di armi ed esplosivi», «una postazione di lancio di razzi» e una «infrastruttura sotterranea» del movimento islamista. Tuttavia, sembra che Israele abbia scelto di utilizzare una risposta relativamente moderata per evitare una escalation e stabilizzare la situazione a Gaza.
   Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato chiaro e ha affermato senza giri di parole: «Colpiremo tutti coloro che alzano una mano per farci del male e tenderemo la mano a tutti coloro che ci porgono la mano della pace». Mentre il presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen ha avvertito che «la pace, la sicurezza e la stabilità non saranno raggiunte nella regione fino alla fine dell'occupazione israeliana e la creazione di uno Stato palestinese».
   Anche l'esercito israeliano si è espresso con durezza. «L'organizzazione terroristica di Hamas è responsabile di ciò che accade a Gaza e di ciò che emana dal suo territorio, e sopporterà le conseguenze degli atti di terrorismo contro i cittadini israeliani». Così come l'ala militare di Hamas, le Brigate Ezzedin al-Qassam, ha ribadito che «Israele pagherà un prezzo molto alto se continuerà con la sua aggressione contro il popolo palestinese». In una dichiarazione congiunta, le fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza hanno affermato che «non permetteranno a Israele di continuare la sua aggressione», aggiungendo che sono «preparate per qualsiasi scenario».
   Mustafa Barghouti, leader della Palestine National Initiative e membro del Consiglio centrale dell'Olp, invece ha sostenuto che l'evento a Washington era una mera esibizione utile solo a Trump e Netanyahu. Secondo Barghouti, la presenza alla cerimonia della firma dei ministri degli esteri degli Emirati e del Bahrein piuttosto che dei leader dei Paesi è stata la prova che anche gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein ritengono che era tutto soltanto uno spettacolo.
   Circa tre ore dopo gli attacchi, il capo dell'ufficio politico della Jihad islamica, Mohammad al-Hindi, ha detto che il lancio del razzo era un messaggio da Gaza contro l'arroganza dimostrata da Stati Uniti e Israele alla cerimonia della firma degli accordi di Abramo, e che i palestinesi sapranno come sconfiggere quell'arroganza. Hamas invece ha affermato che «gli accordi tra Israele e Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti non valgono l'inchiostro versato o la carta su cui sono stati firmati. Il popolo palestinese è determinato a continuare la lotta per ottenere tutti i suoi diritti e tratterà questi accordi come se non esistessero».

(il Giornale, 17 settembre 2020)


Cellulari calati da drone per carcerati palestinesi: cinque arresti

Con un drone tentavano di far calare su una prigione israeliana cellulari a detenuti palestinesi. Questa è la motivazione per l'arresto di tre presunti miliziani della Jihad islamista palestinese, accusati assieme a due esponenti del gruppo già detenuti, come riferiscono questa mattina media israeliani.
"Tre membri della Jihad islamica sono stati arrestati dopo aver tentato di introdurre telefoni cellulari nella prigione di Gilboa (Nord dello Stato ebraico) usando un drone", ha riferito il sito News israeliano Ynet.
Il drone e altre attrezzature sono state sequestrate durante l'arresto. Anche due prigionieri coinvolti sono stati arrestati, secondo quanto riportato dal sito web.

(askanews, 17 settembre 2020)



The Loft. La nuova aula autogestita dagli studenti del liceo ebraico 'Renzo Levi'

di Giorgia Calò

 
The Loft
Con l'inizio del nuovo anno scolastico, gli studenti del Liceo Ebraico Renzo Levi introducono un'importante novità: l'inaugurazione di un'aula ricreativa interamente gestita dagli studenti che prende il nome di "The Loft".
Uno spazio di svago, ma anche di incontro, riflessione e confronto; un centro ricreativo, ma soprattutto un centro di comunicazione: è proprio sui divani di The Loft che avverrà il restyling del Renzo Levi Journal, lo storico organo di comunicazione dei ragazzi del Liceo, e tanti altri progetti che la Rappresentante d'Istituto Martina Pavoncello ha deciso di raccontarci.

- Avete recentemente inaugurato questa nuova aula autogestita del Liceo Renzo Levi. Di cosa si tratta?
  "L'iniziativa è nata circa due anni fa, quando Educating for Impact, un'associazione che collabora con la scuola e che ha realizzato diverse iniziative con altre scuole d'Europa, ha proposto il progetto che ovviamente la Comunità ha immediatamente abbracciato e Alfie Tesciuba, il responsabile Change Manager si è subito interfacciato con la rappresentanza degli studenti, che ha collaborato affinché fosse possibile avere questa aula autogestita.
Nonostante alcuni intralci a livello burocratico, siamo riusciti ad avere quest'aula, che inizialmente avrebbe dovuto essere inaugurata a Marzo, ma a causa del Covid è stato tutto rimandato.
Questo sarà uno spazio autogestito dagli studenti: già una settimana prima dell'inizio della scuola noi stessi siamo andati a sistemare i mobili (ovviamente ci siamo interfacciati con un architetto): lì dentro si respira quella che da un po' di tempo a questa parte è l'aria del Renzo Levi, un clima di unione e desiderio di realizzare grandi cose per questa scuola".

- Come mai avete sentito il bisogno di realizzare quest'aula?
  
"Non parliamo tanto di bisogno, quanto di necessità: la dirigenza scolastica ci ha sempre permesso grandissima libertà creativa nella realizzazione delle cose, ma ad un certo punto abbiamo sentito la necessità di avere uno spazio tutto nostro dove dare sfogo ai nostri spunti creativi; The Loft, il nome che abbiamo scelto sarà il fulcro di tutta la comunicazione del Renzo Levi: le riunioni del giornalino scolastico si terranno lì, stiamo inoltre dando vita al progetto di un podcast, in cui inviteremo ospiti e tratteremo di argomenti di ogni genere e taglio".

- Il progetto del Renzo Levi Journal esiste da tanti anni, ma voi lo avete sviluppato, se non addirittura migliorato. Come avete fatto crescere questo giornale? E come utilizzerete questo spazio per la Comunicazione?
  "Il Renzo Levi Journal è un progetto che esiste da tanti anni: crediamo sia davvero un prodotto di qualità, apprezzato anche da componenti esterni alla scuola, ma ci siamo posti un dubbio: il nome canalizza il giornale ad una nicchia specifica, perché Renzo Levi Journal significa "Il Giornale del Renzo Levi", e vorremmo invece dargli un nuovo nome, "The Skool", che possa abbracciare tematiche per tutti; il prodotto sarà sempre lo stesso: di qualità, realizzato con dedizione, però crediamo che la nostra scuola sia pronta per allargarsi a nuovi orizzonti e a nuovi progetti di livello più ampio, che vengano indirizzati a persone non necessariamente della scuola.
Per quanto riguarda la collaborazione tra The Loft e il giornalino, questo punto creativo accoglierà le riunioni. Ogni anno quando all'assemblea d'istituto vengono eletti i nuovi rappresentanti, viene sempre presentato un piano: quest'anno per via del Covid abbiamo dovuto anche reinventare il concetto di rappresentanza: non sarà più possibile fare le storiche assemblee d'istituto, quindi vogliamo comunque dar voce ai nostri bisogni, di parlare con ospiti e argomentare tematiche, perciò speriamo che il nuovo podcast sia il mezzo giusto per farlo. Apriremo un canale Youtube, inviteremo persone a parlare. Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto ma in maniera alternativa e creativa".

- Cosa vi aspettate da tutti questi cambiamenti e dai nuovi progetti? Quali sono gli obbiettivi che vorreste raggiungere?
  
"La quarantena ci ha messo a dura prova: abbiamo subito sentito un'urgenza di fare nuove cose. Il cambiamento è solo il risultato di un lavoro che va avanti da anni e speriamo possa fare quel salto di qualità e permettere tante cose nuove, belle e positive per la scuola. L'Aula è stata dedicata alla memoria di Roberto Di Veroli z.l. , una persona che si è sempre dedicata agli altri: oggi Rav Carucci ha ripreso un suo vecchio post su Facebook, che Roberto aveva scritto in vista delle Elezioni UCEI, in cui ribadiva l'importanza delle scuole ebraiche; quindi quello che ci auguriamo è che questo posto possa prendere il concetto di bene che lui aveva sempre fatto per le persone e che possa essere un centro che accolga le persone come faceva Roberto quando era in vita".

(Shalom, 17 settembre 2020)



Israele, Emirati, Bahrein: nuovo asse in Medio Oriente

La firma alla Casa Bianca. Salgono a quattro i Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con lo Stato israeliano.

Anche Trump lo sa bene. Nel travagliato Medio Oriente avere un nemico comune da combattere insieme è la strada principe per forgiare alleanze e creare amicizie a prima vista impensabili. Gli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein rispondono anche, e forse soprattutto, a creare un asse comune, compatto e coeso, contro l'Iran e la minaccia poste dalle milizie sostenute da Teheran nella regione.
   Ieri è stato dunque il gran giorno. Tanti sorrisi. Non troppe mascherine e il circolo Trump al completo. Con una cerimonia festosa, verrebbe da dire più a uso e consumo interno, alla Casa Bianca è stato sancito quello che il presidente Donald Trump ama definire «uno storico giorno per la pace in Medio Oriente». «Siamo qui per cambiare il corso della Storia», ha dichiarato con una certa enfasi.
 
Trump consegna una chiave d'oro della Casa Bianca a Benjamin Netanyahu, come "segno di amicizia" verso il premier israeliano
   In presenza del presidente americano, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ufficializzato con i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein i due accordi che segnano la ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche e commerciali. Nello Studio Ovale Trump ha consegnato una grande chiave d'oro contenuta in una scatola di legno descrivendola come «la chiave per la Casa Bianca, per il nostro Paese». «Tu hai la chiave per aprire il cuore del popolo israeliano», ha replicato Netanyahu.
   I Paesi arabi che ora riconoscono ufficialmente Israele sono così saliti a quattro. L'ultima cerimonia di questo tipo avvenuta a Washington risale al 1994, quando, davanti all'allora presidente americano Bill Clinton, un altro primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, firmò una dichiarazione con il re di Giordania Hussein, che spianò la strada per uno storico accordo di pace qualche mese più tardi. Una firma che costò la vita al premier israeliano. Prima ancora, nel 1979 a Washington, a firmare un altro storico accordo di pace, davanti a un altro presidente democratico, Jimmy Carter, furono il capo di Stato egiziano, Answar Sadat (anche lui assassinato due anni dopo proprio per quella coraggiosa pace) ed il primo ministro israeliano Menachem Begin.
   A meno di due mesi dal voto per le presidenziali, ancora in difficoltà e in netto svantaggio nei sondaggi rispetto allo sfidante democratico Joe Biden, Trump sta cercando di recuperare consensi finalizzando una serie di successi diplomatici di notevole portata. Una mossa per rafforzare il consenso soprattutto tra gli influenti gruppi cristiani evangelici, vicini ad Israele.
   Nessuno mette in dubbio che un accordo di normalizzazione tra due monarchie sunnite del Golfo con Israele sia un evento molto importante. Ma quella che vuole essere venduta come una svolta storica è decisamente meno simbolica e importante di quanto accadde in passato. Giordania e soprattutto Egitto erano due nemici di Israele. Con cui Israele aveva combattuto più guerre. In quel caso si trattò di storici e duraturi accordi di pace tra due nemici, che durano ancora. Oggi non si tratta di guerra o pace. Ma di una ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche che, nella fattispecie di questi due Paesi arabi sunniti, andavano comunque avanti sotto traccia. Senza contare l'aspetto, potenzialmente importante, delle relazioni economiche e commerciali.
   Per Netanyahu quella di ieri è una piccola boccata di ossigeno nel periodo forse più difficile della sua interminabile carriera politica. Il premier più longevo di Israele (al quinto mandato, anche se stavolta in un Governo "a rotazione") continua ad essere contestato da centinaia di migliaia di israeliani per quella che è considerata una pessima gestione della pandemia di coronavirus e per il processo penale che lo vede imputato per tre casi di corruzione. Mai nella storia di Israele si erano viste proteste così diffuse, trasversali, e soprattutto così lunghe. Sono ormai 12 settimane che i manifestanti invocano le dimissioni del premier, leader del partito conservatore Likud.
   Al ritorno da Washington, alle 14 di venerdì prossimo, Israele si chiuderà in un totale lockdown nel tentativo di ridimensionare la recrudescenza dell'epidemia di Covid 19, che nell'ultima settimana ha toccato punte di quasi 5mila contagi al giorno (in un Paese con nove milioni di abitanti). Sembra quasi uno scherzo del destino; ma i due "nuovi" amici - Israele e Bahrein - sono rispettivamente anche i primi due Paesi al mondo con il più alto numero di contagi in rapporto al numero di abitanti. Le tre settimane di chiusura totale, si tratta del primo Paese al mondo a reimporla, rischiano di costare all'economia israeliana oltre cinque miliardi di dollari Cifra che si aggiunge ad una crisi economica senza precedenti, con la disoccupazione vicina al 20 per cento e l"inflazione che vola a livelli impensabili. Il lockdown si preannuncia molto difficile. Anche perché copre tutte le festività ebraiche che cominciano proprio venerdì con il Capodanno. L'accordo di normalizzazione vorrebbe andare in aiuto all'immagine di Bibi, "il premier dalle sette vite". Ma gli israeliani sono molto più preoccupati, ed in parte furenti, per la gestione della pandemia e per la crisi economica.
   Fonti vicine alle trattative sostengono che l'accordo con gli Emirati, annunciato il 13 agosto, sia stato fortemente voluto dal loro potente principe reggente Mohammed bin Zayed, alleato degli Usa e dei Sauditi (in chiave anti-iraniana). In cambio Netanyahu avrebbe sospeso il piano di annettere la Valle del Giordano ad Israele entro l'estate. In verità Emirati e Israele da tempo hanno avviato contatti sotto traccia, in funzione antiiraniana. Lo stesso dicasi per il Bahrein, la cui leadership è sunnita ma la popolazione per due terzi sciita. Inoltre entrambi I Paesi ospitano basi militari e flotte della marina americana. Se vi erano Paesi più disposti ad altri a normalizzare le relazioni con Israele, erano proprio questi due.
   Trump è fiducioso che altri Paesi arabi, a suo avviso almeno cinque, seguiranno gli Emirati e il Bahrein. Già corre voce, non ufficiale, di iniziative simili da parte di Oman, e forse di Sudan e Marocco. Ma il vero peso massimo, la cui normalizzazione dei rapporti con Israele sconvolgerebbe gli equilibri mediorientali, resta l'Arabia Saudita. Che ora non è pronta. Non ancora. Come gli altri suoi predecessori, anche Trump voleva passare alla storia come il presidente che aveva messo fine al conflitto più incancrenito degli ultimi 100 anni: quello israelo-palestinese. Il suo "accordo del secolo" è strato accolto da Israele con entusiasmo, ma rigettato dalla controparte palestinese. «Stiamo dialogando con i palestinesi, anche loro lo faranno», ha detto Trump. Dichiarazione che non convince. Non potendo fare la pace con i palestinesi, Trump ha voluto così spostare l'attenzione su altri Paesi arabi, facendo accordi con Israele. Non è tuttavia la stessa cosa.

(Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2020)


Emirati e Bahrein rivoluzione in Medioriente. «Una nuova alba di pace»

Trump esulta alla firma sull'intesa: «Presto altri cinque o sei Paesi arabi si uniranno. I leader arabi chiedono "la soluzione a due Stati». Apertura pure sugli F 35»

di Fiamma Nirenstein

 
Le quattro sigle storiche. Da sinistra il ministro degli Esteri del Barhein Khalid bin Ahmed Al Khalifa, il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu, il presidente americano Donald Trump e il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed, rotagonisti del 'patto di Abramo' alla Casa Bianca
Altri cinque o sei Paesi « presto si uniranno a questo grande slancio di pace». Saranno l'Oman? II Sudan? I loro rappresentanti erano alla cerimonia. Non si sa. Ma Trump ieri alla firma di pace è stato grandioso, ha promesso che più avanti l'Iran e finalmente anche i palestinesi capiranno che è tempo di pace e di prosperità. Vittorioso nonostante le consuete critiche, questa volta non è stato né sbruffone né bugiardo come lo vuole la lettura classica, ha invece portato a casa, poco prima delle elezioni, un risultato impensabile, la pace fra Israele e due Paesi arabi importanti come Emirati e Bahrein alla Casa Bianca. Costata uno sforzo ulteriore dopo mesi di lavorio incessante, concessioni, rinunce, voli notturni, segreti; quello di non darsi la mano in tempi di coronavirus.
   Lo slancio entusiasta dei partecipanti, senza mascherina, li ha quasi gettati gli uni nelle braccia degli altri durante l'incontro sulla porta dove li attendeva il presidente americano, poi nel corso dei colloqui preventivi e alla firma. Gli accordi sono brevi, specie quello col Bahrein, ancora da definire in molte parti, ma carichi di un futuro rivoluzionario. Trump è fiducioso persino sulla fornitura degli F-35 agli Emirati, sarebbe «una cosa facile» dice, nonostante le resistenze di Netanyahu.
   La cronista, che ha visto con lacrime di gioia anche la stretta di mano fra Rabin e Arafat sotto l'ala di Clinton (con Shimon Peres, che Rabin non voleva assolutamente portare con sé e poi dovette arrendersi, al contrario di Bibi che ha insistito per andare da solo fino in fondo, ed è stato criticato per questo) sul prato della Casa Bianca il 13 settembre '93, ricorda come le mani si strinsero ma tutto il linguaggio corporeo di Rabin, una persona intera e un patriota senza ombre, espresse la perplessità, il dubbio, persino la contrarietà verso il corpo fisico del nemico giurato del popolo ebraico, del terrorista armato. In effetti, dopo Oslo, il maggiore sforzo dei palestinesi è stato quello di negarlo tramite gli attentati.
   Qui ieri è stato provato che, pur mantenendo anche la prospettiva di una pace coi palestinesi richiamata dal ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed, il desiderio di equilibrio di pace di progresso di tanti Paesi mediorientali va molto al di là. Antonio Guterres, il segretario generale dell'Onu, ha detto che il conflitto israelo-palestinese rimane la chiave della questione mediorientale. Niente di più falso: chi oggi fuma la pace sa che i milioni di morti, dispersi, profughi, le rivoluzioni interne e le repressioni spietate, l'Isis, l'imperialismo iraniano, la politica di Erdogan, niente hanno a che fare con la vicenda palestinese. Ed è da questa maledizione che il Medioriente positivo vuole emanciparsi: non dimentica i palestinesi, ha anche ottenuto di bloccare la sovranità sui «territori» del primo piano Trump, ha spinto di nuovo a offerte e profferte di Israele e americane, ma se si guarda la sua stampa si capisce che per i palestinesi la porta si sta chiudendo, che tutte le accuse di tradimento di cospirazione rivolte ai Paesi arabi sono ritenute inaccettabili, i giornali arabi pubblicano articoli di dura critica ai palestinesi.
   Trump a fianco di Melania, prima della firma, accanto a Netanyahu, si è slanciato fino a prevedere che sia i palestinesi che perfino l'Iran alla fine accetteranno l'ingresso tramite «la porta intelligente», come l'ha chiamata. «Pace» ha ripetuto Trump con i rappresentanti degli Emirati e del Bahrein (Khalid bin Ahmed Al Khalifa) che hanno caldeggiato la soluzione «due Stati». E Netanyahu di nuovo ha parlato del «circolo della pace» e fa molto pensare che oggi questo circolo possa essere individuato a destra. Il mondo liberal o le istituzioni che ne sono dominate, come l'Onu o soprattutto come l'Ue, non sanno più festeggiare la pace, anche quando è storica. Fa male che non ci fossero rappresentanti europei alla cerimonia, solo l'Ungheria era presente. Come lo si può spiegare?

(il Giornale, 16 settembre 2020)


Gli errori strategici dell'Europa che resta irrilevante

di Yossl Klein Halevl

L'accordo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain si scontra con le convinzioni fondamentali sul processo di pace in Medio Oriente condivise dai capi di Stato europei sin dagli anni Settanta.
   La prima è che la chiave di volta della pace sia da ricercarsi nella costituzione di uno Stato palestinese. Oggi, invece, gli Emirati e il Bahrain stanno normalizzando le relazioni con lo Stato ebraico senza che la regione abbia fatto passi avanti sulla questione. E uno scenario diverso dagli esiti ipotizzati dai leader europei: anziché arrivare alla pace con il mondo arabo tramite la creazione di uno Stato palestinese, le speranze oggi si appuntano sull'alleanza tra Israele e il mondo arabo, per arrivare a uno Stato palestinese. A questo avrebbero dovuto puntare gli europei sin dall'inizio.
   La seconda convinzione errata dell'Europa riguarda Israele, ritenuto cardine della questione della pace in Medio Oriente. Si è sempre sostenuto che occorreva esercitare pressioni sullo Stato ebraico per ottenere concessioni nei confronti del palestinesi. L'accordo tra Israele e gli Stati del Golfo rappresenta un argomento formidabile a sostegno della tesi opposta. Ancora a giugno, il primo ministro israeliano Netanyahu minacciava l'annessione del 30% della Cisgiordania, una mossa che avrebbe inferto un colpo tremendo alla soluzione del due Stati. I leader europei pensavano a sanzioni economiche, ma il governo israeliano non si è lasciato smuovere. Solo quando gli Emirati Arabi Uniti hanno offerto di normalizzare i rapporti con Israele in cambio della sospensione dell'accorpamento territoriale, Israele ha fatto un passo indietro. L'unica strada per convincere gli israeliani che la soluzione dei due Stati è nell'interesse del loro Paese sta nella rinuncia, da parte dei leader palestinesi, a rivendicare il diritto di «ritorno» per i rifugiati, il rientro in Israele dei discendenti dei profughi che dovettero lasciare il Paese dopo la guerra del 1948.
   La terza convinzione errata dell'Europa è che la stabilità della regione dipende da un atteggiamento conciliante nei confronti dell'Iran, quando in realtà è stata la volontà condivisa di arabi e israeliani nell'opporsi all'Iran ad aver spianato la strada all' accordo. Il consenso — ignorato dall'Europa — è che l'Iran debba essere arginato, non ingraziato.
   L'Europa ha ragione quando parla dell'esigenza di uno Stato palestinese, ma ha travisato la realtà mediorientale e così non è stata d'aiuto alla causa palestinese: finché non ammetterà i suoi insuccessi, resterà irrilevante nel processo di riconciliazione tra arabi e israeliani.

(Corriere della Sera, 16 settembre 2020 - trad. Rita Baldassarre)


Saeb Erekat: "Ma non trattino per noi palestinesi"

"Siamo adirati con gli arabi perché hanno violato il loro impegno nei nostri confronti Noi siamo in guerra non certo loro".

Saeb Erekat
GERUSALEMME — «L'hanno chiamato 'accordo di pace' ma non ricordo guerre tra Israele ed Emirati o Bahrein. Il conflitto è tra israeliani e palestinesi». Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp, è risoluto nel ripudio del "nuovo Medioriente" inaugurato a Washington. Storico capo negoziatore dell'Autorità palestinese, fu stratega degli accordi di Oslo, firmati il 13 settembre di ventisette anni fa sullo stesso prato della Casa Bianca in cui oggi a stringersi la mano sono Israele, Emirati e Bahrein.

- È la morte della solidarietà araba, ha detto il premier Shtayyeh.
  «Siamo arrabbiati con gli arabi. Hanno violato il loro impegno nei confronti dei palestinesi: non c'è normalizzazione senza la fine dell'occupazione. Invece di 'pace per territori' hanno fìrmato'pace per protezione'».

- Cioè?
«Credono che Israele li difenderà dall'Iran. Un'illusione. I problemi di sicurezza degli arabi, palestinesi inclusi, vanno trattati in seno al mondo arabo».

- Emirati e Bahrein hanno ribadito il loro impegno per lo Stato palestinese. Sostengono che ora hanno più possibilità di spingere Israele a rinunce, come è successo con l'annessione.
  «Non hanno diritto di negoziare a nostro nome. Hanno minato la nostra posizione e premiato il governo israeliano più estremista di sempre. Devono smettere di utilizzare palestinesi per giustificare un accordo che ha più a che fare con la rielezione di Trump che con la liberazione di Gerusalemme».

- Nell'ultima sua visita Pompeo ha detto che il Presidente Abu Mazen ha rifiutato una proposta di coinvolgimento in una conferenza dl pace, senza precondizioni.
  «Pompeo sa che quando hanno deciso di introdurre il cosiddetto 'Accordo del Secolo' e spostato l'ambasciata a Gerusalemme, hanno dettato i risultati delle trattative. I confini, Gerusalemme, i rifugiati e le risorse idriche sono i punti cardine concordati in accordi passati. Da lì deve partire qualsiasi dialogo».

- Qual è la strategia ora? Si arriverà alla riconciliazione Fatah-Hamas?
  «Chiediamo una conferenza di pace internazionale basata sugli accordi passati, il diritto internazionale e le risoluzioni Onu. La riconciliazione è un processo in corso in cui riponiamo fiducia. Il nostro obiettivo è andare a elezioni affinché la popolazione decida».

- Cosa vi aspettate dalla Ue?
  «La Ue è il primo partner commerciale di Israele e ha molti mezzi per fare pressione su Israele. Ci aspettiamo che i consoli generali a Gerusalemme non siedano solo in prima fila alla messa di Natale alla Natività, ma adottino un approccio proattivo contro il tentativo di ebraicizzare i quartieri occupati di Gerusalemme Est». La Lega Araba non sembra più essere un punto di riferimento.

- Cina, Turchia, Iran sono nuovi partner?
  «Con la Cina abbiamo da sempre ottime relazioni. La Turchia è uno dei nostri principali sostenitori, l'Iran vota con noi nelle istanze internazionali. Ma contiamo anche su Russia, Sud Africa, Irlanda, Lussemburgo, Svezia, tra gli altri».

(la Repubblica, 16 settembre 2020)



La furia palestinese per l'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele è solo uno "spettacolo mediatico"

"La leadership palestinese vive di inganni, imbrogli e menzogne. È leader e madre della normalizzazione. Vogliono che la Lega Araba condanni quello che stanno già facendo. Questo è solo uno spettacolo mediatico."

di Motasem A. Dalloul

Prima della riunione della Lega Araba di mercoledì, il ministro degli Esteri dell'Autorità Palestinese (AP) Riyad Al-Maliki ha invitato i suoi omologhi arabi a rifiutare l'accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti (EAU) e Israele.
   L'accordo è stato dichiarato da Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele il 13 agosto, sorprendendo i palestinesi e la popolazione araba e creando invece soddisfazione tra i funzionari e la popolazione israeliana.
   Rivolgendosi ai suoi omologhi, Al-Maliki ha dichiarato: "Di fronte all'accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele, è diventato necessario per noi assumere una posizione per rifiutare questa mossa; altrimenti, il nostro incontro sarà considerato come una benedizione o una complicità della normalizzazione".
   Successivamente, i ministri degli esteri arabi si sono incontrati in videoconferenza e hanno discusso per tre ore la questione dell'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele, mediato dagli Stati Uniti, che sarà celebrato ufficialmente a Washington il 15 settembre. L'incontro virtuale ha portato alla conclusione che ogni Paese arabo è libero di esercitare come desidera la propria politica estera , ha detto ai media il segretario della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit.
   "La discussione su questo punto è stata seria ", ha detto a un giornalista Hossam Zaki, Segretario Generale aggiunto della Lega Araba, dopo l'incontro. "È stata completa e ha richiesto del tempo. Ma alla fine non ha portato ad un accordo sulla bozza di risoluzione che era stato proposta dalla parte palestinese".
   Parlando ai media palestinesi, l'ambasciatore palestinese presso la Lega Araba Muhannad Al-Aklouk ha confermato che l'Autorità Palestinese ha compiuto molti sforzi per convincere la Lega Araba a condannare la normalizzazione con l'occupazione israeliana, ma gli sforzi sono stati purtroppo vani. "In risposta, la Palestina ha presentato una bozza di risoluzione che condanna l'accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele". "I Paesi arabi, tuttavia, hanno votato contro il progetto e alcuni hanno fatto del loro meglio per legittimare la normalizzazione con Israele.
   Parlando all'Agenzia Anadolu, il membro del Comitato Esecutivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Ahmed Majdalani, ha dichiarato: "Quello che è successo è chiaro e prevedibile. La coalizione che sostiene gli Emirati Arabi Uniti è la più forte e influente nella Lega Araba. L'incapacità di condannare gli Emirati Arabi Uniti significa che è stata adottata una nuova politica nella Lega Araba che consente a qualsiasi Paese arabo di stabilire relazioni con Israele e aggirare l'Iniziativa di pace araba del 2002 ".
   Dati gli sforzi compiuti dalla leadership palestinese per delegittimare la normalizzazione, gli osservatori della questione palestinese potrebbero ritenere che vi sia un cambiamento nella posizione ufficiale palestinese di lunga data rispetto all'occupazione israeliana. Ma ci sono molte ragioni che dimostrano il contrario.
   Ad esempio, come possiamo spiegare la rabbia palestinese per l'accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele e il ritiro dell'ambasciatore palestinese da Abu-Dhabi, quando Egitto e Giordania hanno accordi di pace e buoni rapporti con Israele, e ciascuno di questi Paesi arabi ha un ambasciatore a Tel Aviv, e Israele ha ambasciatori ebrei nelle loro capitali?
   In aggiunta a questo, molti funzionari palestinesi e dell'OLP hanno case ad Amman e detengono la cittadinanza giordana, tra cui l'AP, l'OLP e il presidente di Fatah Mahmoud Abbas, che possiede due appartamenti, una villa e altri immobili in Giordania, secondo il capo redattore di Rai Al-Youm, Abdel-Bari Atwan.
   Come possiamo spiegare il continuo coordinamento della sicurezza tra AP e Israele quando a maggio la leadership palestinese aveva ufficialmente dichiarato che avrebbe cessato tale collaborazione, come parte della rinuncia a tutti gli impegni palestinesi ai sensi dell'accordo di Oslo?
   Naturalmente, il Ministro degli Affari Civili dell'AP Hussein Al-Sheikh lo ha spiegato al New York Times, quando ha dichiarato che i servizi di sicurezza palestinesi avrebbero continuato a: "Mantenere la legge e l'ordine e combattere il terrorismo". L'AP definisce la resistenza palestinese "terrorismo" e combatterla come "mantenere la legge". Ha sottolineato: "Preverremo la violenza e il caos. Non permetteremo spargimenti di sangue. Questa è una decisione strategica. " L'AP si riferisce alle manifestazioni anti-israeliane e alle attività pacifiche come "violenza" e "caos", al fine di giustificare la repressione.
   Il New York Times non ha risparmiato alcuno sforzo per fornire esempi di queste spiegazioni, citando un incidente avvenuti fuori dalla città di Jenin in Cisgiordania, quando la sicurezza dell'AP ha sventato un potenziale atto di resistenza palestinese contro le truppe israeliane che pattugliano l'area palestinese occupata. Questo unitamente a quando un grande convoglio di truppe israeliane ha scortato centinaia di fedeli ebrei alla tomba di Giuseppe, nella città occupata di Nablus in Cisgiordania, e gli ufficiali dell'Autorità Palestinese a guardia del sito, nel veder arrivare gli israeliani, se ne sono andati per poi riprendere i loro posti solo dopo che questi se ne erano andati..
   A parte questo, il tentativo dell'AP di convincere la Lega Araba a condannare l'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele è inutile, e la leadership palestinese riconosce chiaramente che un tale sforzo è impossibile da realizzare, perché la Lega Araba prende le sue decisioni all'unanimità. "Se uno Stato non supporta una determinata decisione, viene automaticamente abbandonato", riferisce il professore di scienze politiche Abdul-Sattar Qasem. "Quindi , come poteva la Lega Araba condannare gli Emirati Arabi Uniti per questo accordo, essendo un membro dell'organizzazione? In aggiunta a ciò, ci sono due Stati membri che mantengono accordi con Israele e molti altri Stati che hanno già accolto l'accordo ".
   Giustificando le azioni dell'Autorità Palestinese, Qasem ha affermato: "La leadership palestinese vive di inganni, imbrogli e menzogne. È leader e madre della normalizzazione. Vogliono che la Lega Araba condanni quello che stanno già facendo. Questo è solo uno spettacolo mediatico. "
   Qasem ha sottolineato: "L'Autorità Palestinese ritirerà la sua opposizione all'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele e si getterà di nuovo nelle braccia dell'occupazione israeliana. In seguito, in cambio di un po' di soldi, potrebbe addirittura chiedere scusa ad Abu-Dhabi ".
   Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all'autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Middle East Monitor, 11 settembre 2020 - trad. Lorenzo Poli, Invictapalestina.org)


Il rifiuto palestinese degli accordi tra paesi arabi e Israele. E della pace

Se la dirigenza palestinese continua a rifiutare ogni occasione di pace, il popolo palestinese dovrebbe rifiutare questa dirigenza.

Con la cerimonia di martedì alla Casa Bianca Israele ha firmato un trattato con gli Emirati Arabi Uniti e uno con il Bahrein che solo il venerdì precedente aveva annunciato la decisione di normalizzare i rapporti. Domenica l'Oman ha elogiato i due accordi e sembra probabile che altri paesi arabi seguiranno prima o poi l'esempio.
Tutto questo merita d'essere festeggiato. Non solo pone fine a una situazione di relazioni ostili, ma offre a tutti i paesi l'opportunità di operare insieme e condividere conoscenze, tecnologie e risorse a beneficio di tutti. Si possono facilmente intravedere possibili rapporti in una vasta gamma di settori, dalla sanità all'agricoltura, all'ambiente, al turismo, alle telecomunicazioni, alla cultura e persino nella ricerca spaziale....

(israele.net, 16 settembre 2020)


Medioriente, Netanyahu: "Colpiremo chi ci fa male"

GERUSALEMME- L'esercito israeliano ha colpito obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza in risposta al lancio di razzi verso Israele la notte precedente, coinciso con la firma degli accordi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e Bahrein ed Emirati Arabi alla Casa Bianca. Al suo ritorno da Washington, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto di non essere sorpreso dall'attacco missilistico né dalla tempistica scelta. "Vogliono riportare indietro la pace ma non ci riusciranno", ha sottolineato specificando che "colpiremo duramente tutti coloro che cercano di farci del male e tenderemo una mano in pace a tutti coloro che ci tendono la mano".

 I fatti
  Il lancio di missili contro Israele è iniziato ieri sera mentre era in corso la cerimonia a Washington ed è continuato durante la notte, con le sirene che hanno continuato a suonare nel sud del Paese. I militari hanno riferito che cinque missili sono atterrati in aree aperte, mentre altri sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistico israeliano. In risposta, l'esercito ha fatto sapere di aver colpito circa 10 postazioni di Hamas a Gaza, tra cui una fabbrica di armi ed esplosivi, infrastrutture sotterranee e un complesso di addestramento militare.
  Il recente lancio di razzi da entrambe le parti ha offerto un duro promemoria che gli ultimi sviluppi ottenuti a Washington probabilmente serviranno a poco per cambiare il conflitto tra israeliani e palestinesi. Oltre agli accordi bilaterali firmati da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, tutti e tre hanno firmato un documento soprannominato gli 'Accordi di Abramo'. I palestinesi sono contrari agli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, considerandoli un tradimento della loro causa da parte dei Paesi arabi, che hanno accettato di riconoscere Israele senza assicurarsi concessioni territoriali. Né il presidente Donald Trump né il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno menzionato i palestinesi nelle loro osservazioni alla cerimonia della firma, ma sia i ministri degli esteri degli Emirati Arabi Uniti che quelli del Bahrein hanno parlato dell'importanza di creare uno stato palestinese.

(LaPresse, 16 settembre 2020)


Israele, Emirati e Bahrein da Donald: la pace cambia il volto al Medioriente

Lo storico incontro alla Casa Bianca. Ma dall'Oman al Kuwait, tutto il mondo arabo guarda con interesse ai nuovi equilibri, invece al tradimento Hamas, Hezbollah, Iran e Turchia.

di Fiamma Nirenstein

Chiamiamola pace, chiamiamola normalizzazione, non è molto importante: l'accordo che viene siglato oggi da Israele, Emirati, Bahrein con la mallevadoria del presidente americano segna una transizione storica che rispecchia il grande mutamento delle società arabe, travolge le vecchie dinamiche, può cambiare il mondo. C'è molta difficoltà a riconoscerla per quella che è perché Trump e Netanyahu non raccolgono i consensi della stampa internazionale, e perché i palestinesi hanno ricevuto persino un rifiuto della Lega Araba alla richiesta di condannare la pace. Ma è storia, è finalmente il ponte fra religioni monoteiste quello che vediamo oggi: Israele si integra finalmente nella narrativa positiva del luogo, fra sorrisi e strette di mano diventa uno stato mediorientale riconosciuto, viene integrato fra le dune dei deserti, le montagne, le coste mediterranee, i boschi, le città. Gli aerei potranno volare, i cittadini viaggiare, le acque scorrere, la medicina essere condivisa con l'high tech e l'agricoltura.
   Gli spazi geografici investiti dalla speranza del cambiamento sono vasti, il fatto che l'Arabia saudita abbia aperto lo spazio aereo accorcia la distanza fra Israele, il Mondo Arabo, l'Oriente, il resto del mondo. L'Oman manda un messaggio di soddisfazione come l'Egitto. L'Arabia Saudita è soddisfatta, il Kuwait sempre molto cauto si affaccia, perfino il Qatar, amico dell'Iran e di Hamas, gioca su due tavoli. È una pace che cambia le carte in tavola. In lista per una prossima pace ci sono già oltre all'Arabia Saudita, l'Oman, il Marocco, e anche il Sudan, il Ciad, e persino il Kosovo, paese musulmano, vuole aprire un'ambasciata a Gerusalemme.
   Tutti i comunicati ufficiali di soddisfazione che promettono una prossima adesione al trattato invocano la speranza che i palestinesi alla fine torneranno a essere parte del gioco. Di fatto quando Mohammed bin Zayed principe della corona degli Emirati ha deciso per l'accordo, lo ha fatto dopo la rinuncia israelo-americana a parlare di sovranità israeliana come prevede il primo piano Trump. Ancora si aspetta un ovvio segno di soddisfazione di Abu Mazen, che invece seguita a parlare di tradimento e di abbandono in coro con Iran, Hezbollah, Turchia e chiunque sia pronto a disegnare uno schieramento bellicoso. Il capo di Hamas Ismail Hanije è andato in Libano a dichiarare guerra al piano insieme agli Hezbollah, ha annunciato la costruzione in loco di missili intelligenti di Hamas, e i giornali libanesi hanno denunciato il suo tentativo di «distruggere il Libano» facendone la sede di una guerra che i cittadini non vogliono. Non è tardi per i palestinesi e per uscire dal comodo e disastroso guscio che li ha resi padroni di tutti i veti, che nel Medio Oriente nazionalista e poi islamista che li ha resi signori di ambedue le tradizioni che oggi stanno tramontando. Il Medio Oriente è vissuto di miti e leggende, ma ormai sono finiti per una grande parte di questo mondo il panarabismo, le tensioni tribali e settarie, la corruzione e la violenza cariche di minaccioso silenzio, l'islamismo usato come arma sostitutiva del panarabismo sconfitto, tutto questo castello subisce una sonora sventola dall'evidente entusiasmo per un futuro normale, e anche per più conoscenza di questo marziano relegato sul pianeta «Malvagità» che Israele è diventato nella fantasia comune. Adesso dunque da una parte c'è la normalizzazione, riconosciuto da nuove leadership asiatiche e africane (anche fra i palestinesi ne cresce una nuova che odia la corruzione e l'incitamento terrorista) e dall'altra l'asse Teheran-Ankara e i loro amici, squadre, soldati, «proxy» che sono pronti alla guerra. Solo alla guerra, e certo non per salvare i palestinesi. Ma noi europei dovremmo sapere riconoscere la pace dalla guerra, e invece sembra proprio che non sia così, se è vero che saranno poche le nostre delegazioni.

(il Giornale, 15 settembre 2020)


Le "Leggi di Norimberga" 85 anni dopo:

Furono promulgate da Hitler il 15 settembre 1935

Fabio Camillacci

Sono passati 85 anni da quel drammatico 15 settembre 1935, quando in Germania, con l'avvento al potere del partito nazionalsocialista (avvenuto nel gennaio del 1933), cominciò la terribile persecuzione antiebraica in Europa; e non solo. Un punto programmatico del nazionalsocialismo, come scritto da Adolf Hitler nel "Mein Kampf", prevedeva infatti la lotta contro gli Ebrei considerati "subumani", cioè: di diversa e inferiore natura razziale e responsabili della sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale.

 L'inizio
 
  Con una prima serie di "leggi razziali" (aprile 1933) gli Ebrei furono esclusi da impieghi civili e dalle libere professioni (insegnanti, avvocati, medici, editori). Fu introdotto inoltre il "numero chiuso" nelle scuole, che successivamente doveva essere ridotto a zero. Inizialmente, alcune eccezioni furono fatte solo per gli ex-combattenti e gli orfani di guerra. Da quel momento, moltissimi Ebrei cominciarono ad abbandonare la Germania.

 Le "leggi di Norimberga" poi privarono gli Ebrei della cittadinanza e dei diritti conseguenti. Furono vietati anche i matrimonî misti
  In precedenza si era stabilita invece l'esclusione dal servizio militare. In particolare, una legge del 14 novembre 1935 specificava che si consideravano Ebrei: i discendenti da almeno tre avi ebrei puri e i discendenti da due avi ebrei puri, se appartenenti alla comunità ebraica, o sposati con ebrei, o discendenti da rapporti extraconiugali con ebrei.

 Altri provvedimenti razziali
  Tra il marzo ed il novembre del 1938 fu revocato il riconoscimento legale alle comunità israelitiche e venne ordinato il censimento delle proprietà come preparazione alla confisca. Ulteriori misure di separazione disposero contrassegni per i documenti personali degli Ebrei e stabilirono nomi caratteristici obbligatorî.

 Il 7 novembre 1938, l'uccisione a Parigi del diplomatico tedesco Ernst Eduard vom Rath da parte dell'ebreo polacco Herschel Grynszpan, suscitò violenze in tutto il Reich.
  Il 12 novembre 1938 una forte tassa fu quindi imposta alla comunità ebraica ed emanato un decreto per la completa eliminazione degli Ebrei dalla vita economica tedesca.

 Le proprietà degli ebrei furono messe a disposizione delle autorità per utilizzarle (era il 3 dicembre 1938).
  Fu ordinata la consegna degli oggetti preziosi il 21 febbraio 1939. Intanto, oltre all'imposizione di un segno di riconoscimento, era stata limitata agli Ebrei nel tempo e nei luoghi la facoltà di mostrarsi in pubblico. Il 4 marzo 1939 fu infine imposto il lavoro obbligatorio, a condizioni durissime.

 L'annessione della Saar nel 1935 e dell'Austria nel 1938, estese a queste regioni la legislazione razziale tedesca.
  Con l'invasione tedesca della Cecoslovacchia, nel marzo 1939, e l'istituzione del protettorato di Boemia e Moravia, si ebbe in quelle regioni una serie di persecuzioni, culminate nella legge del 21 giugno 1939. Modellandosi sugli editti di Norimberga nella definizione di Ebrei, essa limitava la proprietà ed ordinava il censimento dei beni. Le leggi furono ulteriormente aggravate dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

(Tag24 - Radio Cusano Campus, 15 settembre 2020)


"La ricerca della felicità che supera le disegualianze"

di Rory Cappelli

Ebraica, il Festival internazionale della cultura, alla sua tredicesima edizione, quest'anno ha riservato non poche sorprese. A cominciare dal tema, scelto alla fine dell'edizione dello scorso, che oggi in un tempo di (quasi) forzata impossibilità di comunicare, la spezia principe proprio della felicità, è davvero attuale. A conversare di felicità ieri sera sono stati la scrittrice Catena Morello e il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari. A fare da filo rosso, il Mediterraneo, con i tanti popoli che vi si affacciano. «Ho l'impressione che il Mediterraneo» ha esordito Morello, «a grande vocazione di scambi di merci, certo, ma anche culturali e di ideologie, stia diventando più che un mare un lago fermo, un cimitero, dove non succede niente di bello. La cultura ebraica» ha continuato la scrittrice, «che ho sentito come mia dal giorno in cui - avevo 14 anni - lessi per la prima volta Isaac Bashevis Singer, mi ha insegnato che quel mondo era il mio mondo e che l'Italia con le sue sponde, da sempre aperte a qualunque cultura, proprio in questa apertura trovava la sua felicità. Ora ho come l'impressione che il Paese si sta chiudendo: gli italiani guardano con sospetto chi sta più a sud. Certo, ci sono sempre state tante guerre in questo mare, tanta crudeltà: ma c'è sempre stata una scintilla che ora riesce con difficoltà a restare accesa».
   Una difficoltà che nasce anche, ha spiegato Molinari, «dalle diseguaglianze economiche. Le persone che oggi si sentono diseguali, lo si sentono non solo per i beni ma perché le loro speranze sono sacrificate». E poi, ha sottolineato il direttore di Repubblica, «la scelta del festival Ebraica di dedicare uno spazio alla felicità ha certo a che vedere con l'identità del Mediterraneo, fatto da popoli diversi, molto spesso in conflitto tra loro. Ma che hanno caratteristiche simili: una di queste è il forte senso di comunità, di famiglia. Che ci si trovi nel mercato di Tunisi, in quello di Palermo, nel mercato coperto di Istanbul o nella Città Vecchia di Gerusalemme o di Damasco, c'è sempre un elemento comune: la capacità di ritrovarsi intorno a cibi, costumi, usanze, teatri, arti. E il senso profondo della famiglia, comunque la si voglia declinare. Dal Covid esce un'esperienza che richiama questo punto» ha concluso Molinari: «Quali sono i popoli che hanno saputo resistere meglio, come l'Italia? Quelli che hanno un alto senso della famiglia perché come unità basica è capace dell'autoconservazione che non si fonda solamente su una serie di prassi quotidiane, ma su un elemento che accomuna tutti i componenti di una famiglia: la felicità di stare assieme». All'incontro è seguito quello con Oxana Corso: nei prossimi giorni, tra gli altri, Luca Verdone e Massimo Wertmuller.

(la Repubblica - Roma, 15 settembre 2020)


Ora sai se piange per il sonno o la fame

Arriva il sensore smart che decifra ogni bebé

di Fabiana Magrì

Ora che i Millennials hanno messo su famiglia, molto sta cambiando nel modo di accudire e crescere i figli. La start-up israeliana LittleOne si è messa nei panni della Generazione Alpha per dare voce ai neonati e decifrare i loro messaggi, analizzandone suoni e movimenti.
   «Nei primi giorni di vita ogni bambino ha un pianto preciso per indicare se ha fame, se vuole essere cambiato o, semplicemente, se ha un prurito. Quando un neo-genitore non riesce a interpretare le sfumature, al bebè resta un ultimo appello: il pianto della frustrazione». E questa frustrazione, Ami Meoded, uno dei tre fondatori dell'azienda, tende a prenderla molto sul serio. «Un tempo - spiega - si diceva che con il pianto il bambino sviluppava la capacità polmonare. Oggi sappiamo che quel tipo di reazione indebolisce il sistema immunitario. Oltre a innervosire i genitori che non sanno come placarlo».
   Migliorare il benessere dei bambini nella fascia 0-3 anni, e quello dei neo-genitori, è la missione di LittleOne e degli altri soci fondatori, Evgeni Machavariani e Shauli Gur Arieh. I due ex-soldati, arruolati nel programma Talpiot e nell'Unità 81 (il reparto più tecnologico dell'intelligence militare israeliana), si sono trovati a sviluppare software d'Intelligenza Artificiale e sensori, da applicare a dispositivi indossabili, così da tenere d'occhio l'obiettivo più sensibile: i figli.
   Elaborare un prodotto per monitorare il comportamento dei bebè è questione delicata, anche in una società abituata a condividere ogni aspetto della sfera privata. Nel lancio di LittleOne Machavariani, Gur Arieh e Meoded hanno coinvolto 30 famiglie. Altre 50 prenderanno parte alla fase successiva, ma ce ne sono centinaia che hanno già contattato l'azienda. E sono stati i genitori a imporre il veto sull'esposizione dei neonati a qualsiasi tipo di radiazioni, tanto che il dispositivo LittleOne - 30 grammi, grande come una saponetta, si aggancia ai vestiti del bambino sopra la linea del pannolino, senza contatto con la pelle - non trasmette dati, né via Bluetooth né wifi.
   Funziona come un registratore vocale. E, con un piccolo accelerometro, cattura i movimenti del bambino. È soltanto quando si collega alla presa di corrente che LittleOne trasferisce i dati alla app e l'Intelligenza Artificiale li trasforma in un diario «smart» che si autocompila e tiene traccia di tutto: misura, confronta e aiuta a interpretare progressi e cambiamenti. Ma l'apprendimento della rete neurale dell'IA inizia anche prima della nascita del bebè. «Suggeriamo di installare in casa LittleOne almeno una settimana prima del parto - spiega ancora Meoded -, così che possa capire tutte le caratteristiche dell'ambiente domestico. Nel giro di una settimana dalla nascita, se indossato sempre, il software saprà già interpretare i versi del bambino».
   Finché LittleOne si trova agganciato al neonato, oltre a registrare, è in grado di comunicare con gli adulti attraverso segnalazioni luminose e sonore che indicano se un pianto dipende dalla stanchezza o dalla fame, dal fastidio o da un dolore. In caso di uno scuotimento eccessivo o, al contrario, di un'anomala immobilità, è un suono a dare l'allarme. «Siamo già la banca dati più fornita al mondo per la classificazione delle tipologie di pianto dei bambini e per la connessione tra suoni e movimenti», afferma Ami Meoded. A questo proposito - assicura - la riflessione sulla privacy e la conservazione dei dati è stata presa in considerazione e il prodotto rispetta le norme del Gdpr europeo. Sono i genitori che scelgono se condividere le informazioni.
   «Quando usi Waze - porta come esempio Meoded - rinunci alla privacy per il beneficio di evitare il traffico. Quando si tratta di medici, e lo scopo è migliorare il benessere dei bambini, sono tutti propensi a mettere a disposizione i dati raccolti». Fa notare che un pediatra deve affidarsi alle osservazioni dei genitori o ai racconti per interposta persona, che sia la babysitter, il personale dell'asilo o un nonno. «In questo senso - precisa - diamo voce ai bambini». E aggiunge che un altro obiettivo di LittleOne è migliorare il rapporto tra genitori e neonati: «Non vogliamo "spegnere" i genitori. Li invitiamo a osservare meglio, a prestare più attenzione. Sapere cosa fa stare meglio il loro bambino li può guidare verso attenzioni più mirate».
   L'azienda stima che una prevendita del prodotto possa iniziare tra meno di un anno. Il dispositivo costerà 50 dollari e l'abbonamento all'app sarà di 8 al mese, con aggiornamenti costanti. Il primo LittleOne, nato in tempi di Covid-19, ha otto mesi. Il team è molto eccitato nell'attesa che muova i primi passi. «Ci ha già aiutato a capire - racconta il co-fondatore della start-up - che i bambini tenuti a casa durante la pandemia, al contrario di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, hanno registrato più movimenti della media. Trascorrendo più tempo in casa, i genitori li hanno presi in braccio, li hanno cullati e hanno giocato con loro molto più del solito».

(La Stampa - Tuttosalute, 15 settembre 2020)


Enel accelera l'innovazione reti

In Israele accordo con l'energetica Iec per le startup

Enel X, con il fondo Ardian, accelera sulla innovazione delle reti per l'efficienza energetica nel mercato in Canada e per crescere ulteriormente nella regione nordamericana. Ardian investe in nuove tecnologie e forme di energia pulita con l'obiettivo di realizzare un mercato dell'energia più sostenibile. Inoltre, per la digitalizzazione delle imprese, in Israele, Enel si è alleata con Iec (Israel Electric Corporation) società statale che produce e distribuisce elettricità a 2,9 milioni di clienti in Israele. E lo ha fatto con un accordo strategico siglato tra Infralab, il laboratorio per l'innovazione specializzato creato attraverso la joint venture tra Enel e Shikun e Binui, con lo scopo di selezionare start-up e sviluppare soluzioni innovative nel campo delle infrastrutture e delle reti (IeN). La partnership è stata annunciata ieri nel corso di un evento che si è svolto a Haifa, in Israele cui hanno partecipato anche Ernesto Ciorra, direttore Innovability di Enel e Livio Gallo, direttore della Business Line Globale Infrastrutture e Reti di Enel. «Questo accordo segna un traguardo importante nel percorso di Enel verso il modello di Open Innovation», ha dichiarato Ciorra.
   Intanto, Enel X, business line del gruppo Enel dedicata ai prodotti innovativi e soluzioni digitali, e Ardian, società privata leader mondiale nel settore degli investimenti, hanno lanciato una joint venture per gestire i progetti di accumulo di energia a batterie di Enel X in Canada e favorire l'accelerazione dello sviluppo di progetti simili nel Paese. I sistemi di accumulo di energia a batteria sono in rapida crescita: consentono agli utenti di immagazzinare l'elettricità nel momento in cui costa di meno e di consumarla quando i costi dell'energia prelevata dalla rete sono più elevati. «I sistemi di accumulo di energia a batterie rappresentano un elemento fondamentale nella transizione verso un sistema energetico sostenibile in quanto favoriscono la flessibilità e la stabilità delle reti', ha detto Francesco Venturini, ceo di Enel X. Questo investimento rafforza la posizione di Ardian come leader nel settore delle energie sostenibili in America», ha sottolineato Stefano Mion, senior managing director e co-responsabile di Ardian Infrastructure US.
   In base all'accordo è stata costituita una società veicolo ad hoc, all'80% di proprietà di Ardian Infrastructure (gestore di fondi infrastrutturali che si occupa in particolare del settore dell'energia e dei trasporti) e per il 20% di proprietà di Enel X, per gestire i progetti di accumulo di energia a batterie in Canada attualmente inclusi nella joint venture, per circa 30 Mw di capacità.
   Il portafoglio di sistemi di accumulo di energia a batterie include dieci località in tutta la regione dell'Ontario e comprende due progetti da 10 Mw/20 Mwh che dovrebbero entrare in esercizio nel 2021. Con questa collaborazione, Enel X continuerà a costruire, gestire e mantenere questi progetti, rimanendo responsabile anche dello sviluppo di quelli futuri.

(ItaliaOggi, 15 settembre 2020)


Anniversario della liberazione di Roma dallo Stato Pontificio

Riportiamo il discorso pronunciato domenica in modalità telematica dall'Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, al convegno che si è tenuto a Saluzzo in occasione del 150esimo della Presa di Porta Pia.

Amiche e amici carissimi,
Gentili Autorità presenti,
Grazie per avermi invitato a questo significativo evento.

 
La famosa Breccia
La distanza e le ben note circostanze mi impediscono di partecipare personalmente, ma ci tengo a farvi pervenire, grazie alla tecnologia, alcune mie riflessioni sull'interessantissimo tema in oggetto.
  Per questo, ringrazio il Gruppo Sionistico Piemontese e il suo Presidente Emanuel Segre Amar, per la pregevole iniziativa e per l'opportunità datami.
  Quando gli intellettuali ebrei in Europa guardarono al processo di unificazione dell'Italia e al Risorgimento, a metà del XIX secolo, ne trassero ispirazione a beneficio della sorte del popolo ebraico.
  L'intellettuale ebreo franco-tedesco Moses Hess, che si era allontanato dal suo popolo, si riavvicinò proprio in seguito a quanto vide accadere in Italia. Fu influenzato dalla rinascita del nazionalismo italiano, in particolare dalle teorie di Giuseppe Mazzini, profeta del nazionalismo liberale italiano. L'Italia moderna fu fondata nel 1861, ma mancava ancora il cuore. Roma era allora sotto lo Stato Pontificio.
  Hess vide anche questo e, nel 1862, pubblicò il suo libro "Roma e Gerusalemme", in cui scriveva: "Con la liberazione della Città Eterna sulle sponde del Tevere, comincia la liberazione della Città Eterna sul Monte Moria (cioè Gerusalemme); con il rinascimento dell'Italia comincia quello della Giudea".
  Oggi, a distanza di oltre 150 anni dalla pubblicazione di quel libro, dopo la liberazione di Roma e dopo la liberazione di Gerusalemme, dopo la rinascita dell'Italia e la rinascita della Giudea con lo Stato di Israele, quelle parole suonano come una profezia.
  Come l'Italia, anche Israele fu fondato senza il cuore del suo popolo, senza Gerusalemme. Per il popolo italiano ci vollero 9 anni per ricongiungersi a Roma, mentre nel nostro caso ci sono voluti 19 anni perché Gerusalemme fosse riunificata. Ma questo lasso di tempo, in prospettiva storica, non è neanche una virgola.
  Gli ebrei sono stati parte integrante naturale del processo di unificazione dell'Italia, perché sono qui da quasi 2200 anni. Nel 161 a.C., dopo aver purificato Gerusalemme e il Tempio dalla presenza pagana dell'impero seleucide, Giuda Maccabeo inviò una delegazione diplomatica a Roma, per stringere un'alleanza di difesa.
  Da allora, la presenza ebraica in questo Paese è rimasta ininterrotta e ha spaziato in tutti i settori: dalla cultura all'economia, dalla sicurezza alla politica.
  La Roma dell'impero distrusse Gerusalemme, e, diversi secoli dopo, fu a sua volta distrutta e svanì dal mondo. La coscienza nazionale italiana iniziò a crescere nel Medioevo, fino a esplodere con grande clamore, a metà del XIX secolo, con l'unità d'Italia.
  La coscienza nazionale del popolo ebraico è entrata in un torpore per circa un millennio e mezzo, e ha cominciato a risvegliarsi negli ultimi secoli.
  L'unità d'Italia e il ruolo degli ebrei nella rivoluzione e nella costruzione della nuova nazione qui in questo Paese, hanno influenzato il nostro risveglio nazionale da quel lungo sonno.
  Si racconta che, quando il nuovo esercito italiano si presentò alle porte di Roma, nel settembre 1870, i soldati avessero qualche timore a entrare. Il Papa aveva minacciato di scomunica chiunque avesse osato aprire il fuoco.
  Così il Capitano Giacomo Segre si offrì volontario, per sparare il primo colpo di cannone. Probabilmente, in quel colpo di cannone, il Capitano Segre racchiuse tutte le umiliazioni che il suo popolo ha subito nel corso delle generazioni.
  Ma io credo che in questo atto vi fosse anche speranza. La stessa speranza che Moses Hess aveva espresso 9 anni prima: la redenzione di Roma sarebbe stato un grande segno verso la redenzione di Gerusalemme e della Terra d'Israele.
  Otto anni dopo la Breccia di Porta Pia e la liberazione di Roma, nel 1878, in Terra d'Israele fu fondata la città di Petah Tikva, che fu probabilmente il primo nuovo centro abitato ebraico, fondato dopo la distruzione del Paese, dove gli ebrei dimostrarono di poter vivere in modo indipendente. Petah Tikva in ebraico significa letteralmente Porta di Speranza. Anche Petah Tikva è stata come una breccia di speranza nella coscienza nazionale del nostro popolo, e infatti, 70 anni dopo, fu fondato lo Stato di Israele.
  Oggi il legame tra Israele e Italia è molto stretto. I due paesi cooperano profondamente in molti settori. La politica e la diplomazia svolgono un ruolo significativo nella costruzione di questo rapporto; Ci sono anche interessi comuni, ovviamente. Ma questa conferenza ci ricorda che queste relazioni poggiano su radici molto più profonde: una storia comune, una visione e valori condivisi, che hanno dato vita a un'alleanza condivisa di destino.
  Sabato prossimo celebreremo Rosh Hashana, il Capodanno dell'anno ebraico 5781. Colgo dunque l'occasione per augurare a tutti noi un anno buono e in buona salute.
  Dio vi benedica.
  Viva l'Italia! Viva lo stato d'Israele!

(Notizie su Israele, 14 settembre 2020)


Normalizzazione tra arabi e israeliani, il Marocco sarà il prossimo?

Dopo l'Arabia Saudita, il Bahrain apre lo spazio aereo per i voli israeliani

ROMA - Come hanno fatto gli Emirati Arabi Uniti un mese fa, ora anche il Bahrein ha accettato di normalizzare le relazioni con Israele, grazie ad un accordo mediato dell'amministrazione Trump, ma i leader palestinesi si sentono delusi ed abbandonati.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, successivamente, ha condiviso una lettera firmata da Stati Uniti, Bahrein e Israele. L'accordo degli Emirati Arabi Uniti, così come quello tra Bahrein-Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali e di sicurezza tra i due Stati.
   Il Bahrein, come l'Arabia Saudita, ha revocato il divieto ai voli israeliani, permettendo di utilizzare il proprio spazio aereo, facilitando i collegamenti diretti tra i due Paesi, nonché i sorvoli, precedentemente vietati.
   Potrebbe nascere un altro accordo tra arabi e israeliani e questa volta coinvolgerebbe il Marocco. Oggi i due Paesi non hanno relazioni formali, ma ai turisti israeliani è consentito entrare nel Paese. Tuttavia, ciò potrebbe presto cambiare se gli sforzi dell'amministrazione Trump daranno frutti e le due si stringeranno la mano. Tra gli obiettivi dell'accordo, entrambi i Paesi elencano l'apertura di voli diretti tra Tel Aviv e Rabat.
   Secondo il Jerusalem Post, circa 3.000 ebrei vivono in Marocco, in proporzione è ancora la più grande comunità israeliana nel mondo arabo.
   Il rapporto afferma anche che Washington continua a spingere l'Oman e il Sudan a creare legami diplomatici con Israele, come parte integrante di uno sforzo che serve per raggiungere il maggior numero possibile di risultati nello scenario internazionale, prima delle elezioni del 3 novembre.
   Il mese scorso, il Premier marocchino Saad-Eddine El Othmani aveva affermato che Rabat non avrebbe normalizzato le relazioni con Israele. Ma, giorni dopo, è sembrato ribaltare quelle affermazioni, dicendo che i suoi commenti, in opposizione ai legami più forti, sono stati fatti in qualità di leader del partito e non in veste di Primo Ministro.
   Il Marocco è stato visto come un successivo candidato per regolamentare i legami, dal momento che aveva già relazioni turistiche e commerciali con Israele. Nel rapporto si cita anche la protezione del Paese nordafricano alla sua piccola comunità ebraica.
   Stabilire relazioni diplomatiche formali con Israele può anche migliorare le relazioni del Marocco con gli Stati Uniti. Gli analisti affermano che, in cambio dell'accordo, Rabat potrebbe ottenere il riconoscimento americano della sua sovranità sul territorio conteso del Sahara occidentale, occupato nel 1975, quando la Spagna si ritirò dall'area. Il movimento Fronte Polisario non è ampiamente riconosciuto a livello internazionale.
   
(Kmetro0, 14 settembre 2020)


Netanyahu in Usa per la firma degli accordi con Emirati e Bahrein

Premier partito nella notte: "Sarà pace calda"

 
ROMA - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è partito nella notte per Washington per firmare i recenti accordi di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain. Lo riferiscono media israeliani.
   Prima di prendere il volo su un aereo con la scritta "Pace", il premier israeliano ha tenuto una conferenza stampa all'aeroporto sottolineando la natura storica del viaggio, in cui è pronto a firmare accordi di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, solo quattro giorni dopo che quest'ultimo ha annunciato venerdì legami ufficiali con Israele.
   I ministri degli Esteri dei due paesi del Golfo dovrebbero unirsi a Netanyahu per la cerimonia in programma per il mezzogiorno di domani alla Casa Bianca, come ha riportato il Jerusalem Post.
   Nelle sue osservazioni prima della riunione di governo di domenica, Netanyahu ha detto che la sua conversazione con il re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa venerdì è stata "molto calda" e che hanno deciso di stabilire la pace ufficiale e pieni legami tra i paesi.
   "Ora abbiamo due storici accordi di pace con due paesi arabi entro un mese", ha detto Netanyahu ai ministri del governo. "Sono sicuro che tutti lodiamo questa nuova era … Voglio promettervi che ognuno di voi, attraverso i vostri ministeri, ne farà parte, perché questa sarà una pace diversa. Sarà pace calda, pace economica oltre alla pace diplomatica, pace tra le nazioni", ha detto.
   All'entusiasmo che gli israeliani hanno mostrato per questi nuovi legami ha fatto eco nelle popolazioni degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, ha detto Netanyahu. "Questo è davvero un cambiamento enorme", ha detto.
   Le bozze degli accordi non erano ancora state completate domenica sera e non è stato chiaro se il documento che Israele e gli Emirati Arabi Uniti firmeranno sarà chiamato "trattato di pace" o semplicemente "normalizzazione", ha riferito sempre il quotidiano israeliano.
   Poiché c'era meno tempo per prepararsi, l'accordo Bahrein-Israele sarà più dichiarativo e non sarà dettagliato come quello con gli Emirati Arabi Uniti.
   Il primo ministro supplente e ministro della Difesa Benny Gantz, che è stato informato in anticipo dell'accordo con il Bahrein, a differenza di quello con gli Emirati Arabi Uniti, ha elogiato Netanyahu prima del suo viaggio a Washington.
   Parlando alla cerimonia del Premio per la sicurezza israeliana, Gantz ha detto agli ufficiali di sicurezza che "faranno leva sulla normalizzazione e la promozione dei legami con i diversi paesi della regione per creare un fronte contro le minacce comuni e portare la cooperazione economica che rafforzerà la sicurezza e aiuterà l'economia di Israele per uscire dalla sua crisi. Faremo tutto questo preservando i vantaggi di sicurezza di Israele nella regione".
   Il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha parlato con i giornalisti sulla pista dell'aeroporto Ben Gurion pochi istanti prima di salire sull'aereo diretto a Washington. "Questo è un viaggio molto emozionante .. molte persone hanno lavorato molto duramente nel corso degli anni per rendere possibile questo momento", ha detto.

(askanews, 14 settembre 2020)


Riparte la scuola ebraica. Fortissima adesione per studenti e personale ai test sierologici

di Giorgia Caló e Luca Spizzichino

Rientro a scuola anche per i bambini e i ragazzi della comunità ebraica di Roma: la mattinata del 14 settembre riprende la didattica nel rispetto delle norme di sicurezza per il contenimento del virus; agli studenti infatti è stata misurata la temperatura all'ingresso dell'istituto, e grazie alla collaborazione della Comunità Ebraica di Roma con L'Associazione Medica Ebraica e L'Ospedale Israelitico, "sono state allestite circa 16 postazioni per effettuare test sierologici a circa 700 ragazzi", come ha spiegato il Presidente dell'AME Roma Fabio Gaj.
   "L'iniziativa è partita per proteggere al massimo la nostra scuola", ha detto il Dott. Massimo Finzi, "mentre nelle altre scuole italiane si è registrata un'adesione ai test di 1 su 4, nella nostra scuola abbiamo avuto un'adesione quasi del 100%. Dopo aver fatto il test sul personale, abbiamo deciso di farlo anche ai ragazzi".
18 medici e 4 infermieri volontari ad effettuare i test.
   "Siamo la prima scuola in Italia in cui docenti, personale e studenti si sottopongono spontaneamente al test. La scuola ha fatto un grande investimento, perché crede che la prevenzione sia molto più intelligente che trattare uno stato di malattia", ha raccontato la Dott.sa Elvira Di Cave.
   A salutare i ragazzi al loro rientro a scuola, anche i vertici della Comunità: il Presidente Ruth Dureghello, Il Vice Presidente Ruben Della Rocca, l'Assessore alle scuole Daniela Debach e il Rabbino Capo Di Segni.
   "Finalmente questa mattina i ragazzi sono tornati a scuola: un traguardo che pensavamo difficile da raggiungere, ma grazie al personale e a tutto lo staff e alla sicurezza, lo abbiamo trasformato in essere. Vedere i ragazzi felici fuori dalla scuola è stata una grande gioia, ci appelliamo al senso di responsabilità di tutti, a partire dai genitori e dagli insegnanti e che questo clima così sereno possa continuare e che questi ragazzi beneficino della scuola quanto più possibile" ha dichiarato la Presidente Dureghello.

(Shalom, 14 settembre 2020)


La riscoperta. Angelo Donati, nella storia di un singolo quella di tutti gli ebrei italiani

di Furio Colombo

Ugo Pacifici Noja e Andrea Pettini hanno scritto un libro più importante del loro progetto. E evidente che gli autori, efficaci scrittori ed esperti ricercatori di fatti veri, intendevano colmare un vuoto: raccontare la storia di un grande personaggio del secolo scorso, Angelo Donati, che attraversa l'interventismo, l'imprenditoria, il fascismo, la persecuzione, l'esilio, il ritorno, e si sono trovati di fronte a una realtà raramente visitata e poco nota: il ruolo, spesso molto grande, degli ebrei come cittadini italiani, in molti casi ai piani alti della società italiana. Angelo Donati, che si riconosce ebreo senza assimilazioni e abbandoni, ma altrettanto fermamente italiano di risorse e prestigio e dunque responsabile, come altri grandi italiani del suo ceto, del presente e futuro di questo Paese, diventa per i due autori del libro, uno straordinario punto di riferimento per offrire al lettore un testo che, pur con rigore storico e accademico, racconta un romanzo finora non narrato. Chi erano e come vivevano gli ebrei italiani, spesso cittadini eminenti, che la Shoah, approvata e voluta da leggi italiane, avrebbe poi tentato, con la firma del re, di annientare?
   Ecco che lungo il percorso di una sola vita che i due autori affrontano, dimostrando talento nello scrivere (il racconto diventa romanzo) quanto nel ricercare (il rigore della ricerca garantisce la storia), ci offrono un frammento di storia contemporanea italiana attraverso la storia mancante dell'ebraismo italiano. I punti originali della loro scoperta sono tre. Il primo è un carattere unico dell'ebraismo italiano: non c'è alcuna corsa a un fenomeno di assimilazione, in un Paese che appare accogliente e amico, e non c'è alcuna distanza dall'Italia e dalle sue istituzioni (generali e alti burocrati, non solo accademici e intellettuali). Sono grandi ebrei italiani religiosi o no, gli ebrei italiani restano ebrei, ma sono profondamente italiani, al punto da formare, come si è detto e come il libro Pacifici Noja-Pettini dimostra, parti illustri della classe dirigente (è il caso e la storia di Donati). Il secondo punto nella lealtà profonda che lega gli ebrei italiani (a cominciare dai più rappresentativi) al Paese senza contraddizioni con l'identità ebraica, che resta il chiaro e saldo riferimento della loro vita. Infine l'Italia non appare mai il Paese ospite ma il Paese patria, e l'immagine di Israele (molto prima che esista), perché un vento di sionismo, inteso come sentimento e stato d'animo, percorre l'ebraismo italiano, così italiano, molto di più che nel resto d'Europa. Il libro di cui sto parlando, dunque, mentre appare la rigorosa ricostruzione di una vita e di alcuni, anche drammatici, decenni italiani, è un saggio, organico e rigoroso sull'ebraismo italiano come parte importante, a momenti cruciale, della storia italiana.
   
(il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2020)
   
   

Lo sviluppo dell'AI in Israele: dalla lotta al Covid-19 all'urbanistica "intelligente"

in Israele sono numerose le aziende e le start up che sviluppano progetti basati su big data e intelligenza artificiale. Fra queste, da segnalare ZenCity, che aiuta i governi locali a tradurre ciò che le persone vogliono nelle loro città in modo più efficace

di Alberto Stefani

Negli ultimi anni Israele ha compiuto sforzi significativi per utilizzare l'intelligenza artificiale a favore delle esigenze dei cittadini aumentando gli studi e gli sforzi in vari settori tra cui la sicurezza informatica, la medicina, i servizi bancari o i trasporti.
  Mensilmente numerose start up si affacciano sul mercato con nuove idee e nuovi servizi il tutto a beneficio dello sviluppo economico del paese, dei posti di lavoro nell'ambito della ricerca e sviluppo di nuovi servizi nel rispetto di un'economia sostenibile e vantaggiosa per tutta la comunità.
  Israele promuove lo sviluppo delle nuove startup grazie a un tessuto economico basato su una forte interazione tra università, governo centrale, mondo del lavoro e investitori privati attratti da idee innovative che custodiscono una forte possibilità di sviluppo e guadagno.

 Israele e AI: il progetto Timna e il contrasto all'epidemia di Covid-19
  Volendo fare alcuni esempi sui progetti che hanno preso parte a questa fase di sviluppo possiamo ricordare ad esempio il progetto Timna.
  Timna è una piattaforma nel settore medico di ricerca sui big data, è un archivio di dati che consentono agli scienziati di generare intuizioni e identificare modelli che possono essere implementati nei sistemi di supporto decisionale. Strumenti per big data come Timna consentono la medicina di precisione, la diagnosi precoce e la cura della malattia attraverso modelli predittivi.
  L'iniziativa di medicina denominata Mosaic, cerca di abbinare il trattamento più efficace per ciascuno paziente migliorando drasticamente il tasso di successo evitando cure mediche superflue.
  Il Ministero della Salute israeliano sta lavorando anche alla creazione di depositi di campionamento genetico e biologico dei propri cittadini per monitorare e prevenire la diffusione di malattie.
  Durante la pandemia di Covid-19 alcuni ospedali del Paese si sono organizzati per gestire i malati attraverso l'uso della teleterapia intensiva a distanza associata all'uso dell'intelligenza artificiale.

 Israele e AI: difesa, navigazione stradale, trasporti
  Analizzando l'uso dell'intelligenza artificiale in altri settori e considerata la collocazione geopolitica di Israele in luoghi "complessi" le forze di difesa utilizzano questi strumenti nel campo dell'intelligence per analizzare enormi quantità di dati allo scopo di individuare potenziali minacce sul web e sui social media.
  Nei settori invece più legati ai servizi destinati al benessere dei cittadini nella vita quotidiana va ricordato che Israele è la patria di tecnologie come Waze, un'applicazione mobile gratuita di navigazione stradale per dispositivi mobili basata sul concetto di crowdsourcing sviluppata dalla start-up israeliana Waze Mobile e rilevata poi da Google, oppure Mobileye, una consociata israeliana della società Intel che sviluppa auto a guida autonoma basate sulla visione e su sistemi avanzati di assistenza alla guida che forniscono avvisi per la prevenzione e la mitigazione delle collisioni.
  La salute dei cittadini passa anche attraverso una migliore vivibilità delle città in un mix molto complesso di servizi efficienti, trasporti sicuri, spazi verdi e tante altre peculiarità tali da aumentare il benessere di tutti gli interlocutori. Vediamo come una startup israeliana abbia pensato di dare un contributo al raggiungimento del benessere collettivo delle città attraverso l'intelligenza artificiale.

 La piattaforma di ZenCity
  Esempio di applicazione dell'AI in Israele, ZenCity è una azienda che ha sviluppato uno strumento per il governo locale finalizzato al benessere e alla soddisfazione dei cittadini. Vediamo di capire meglio come funziona questa importantissima applicazione.
  Fondata a Tel Aviv nel 2015, ZenCity aggrega feedback e commenti da più fonti, inclusi social network, siti web di notizie e form di contatto dei canali di comunicazione delle istituzioni locali e applica l'intelligenza artificiale (AI) per aiutare a estrarre dati "strutturati" significativi in modo tale che gli urbanisti, i dirigenti e i responsabili delle aziende al servizio del territorio possano affrontare le questioni più pertinenti per i residenti nella loro zona. In effetti, l'AI garantisce che il feedback sia organizzato automaticamente per argomento, categoria, posizione e numerosi altri parametri tali da ridurre il più possibile le lungaggini burocratiche e i tempi morti.
  La piattaforma può essere utilizzata per qualsiasi apparato relativo ai servizi o alle infrastrutture della città, come il monitoraggio del sentiment riguardo a nuove misure di riduzione del traffico o iniziative di car sharing, o l'identificazione di problemi come la manutenzione dei marciapiedi o lo standard dell'istruzione locale.
  La piattaforma ZenCity utilizza una tecnologia AI all'avanguardia per raccogliere i commenti pubblici online in tempo reale, estrarre automaticamente i punti e gli argomenti principali discussi e analizzare il sentimento che li circonda.
  La capacità di monitorare rapidamente più canali pubblici contemporaneamente, inclusi social media, media locali e canali di assistenza ai cittadini come call center e app, consente di rispondere senza indugio scongiurando ritardi e preoccupazioni dei residenti.
  Analizzando sia i canali gestiti dal governo locale che quelli non direttamente gestiti dalle istituzioni, che rappresentano oltre l'80% dei discorsi pubblici, gli amministratori di città ed enti locali sono in grado di ottenere un quadro completo dell'opinione dei residenti.
  Il sistema di ZenCity invia automaticamente agli organi competenti avvisi in tempo reale tramite e-mail o notifiche push per aumentare la visibilità e non perdere mai un aggiornamento. Inoltre, la provenienza dei dati viene geolocalizzata ed è in grado di individuare il discorso in base a quartieri specifici e allocare in modo efficiente le risorse localizzate e il raggio d'azione da considerare.
  La piattaforma, basata sull'intelligenza artificiale, aiuta i governi locali a tradurre ciò che le persone vogliono nelle loro città in modo più efficace ed elimina le lungaggini dal processo decisionale.
  Quindi si forniscono insight (termine che in psicologia indica la percezione netta e immediata di fatti esterni o interni) affidabili, in tempo reale che aiutano i governi locali a dare priorità alle risorse, monitorare le prestazioni e connettersi con le loro comunità.
  Alla luce degli sviluppi dei mesi passati, la diffusione della pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown si è avuto un aumento esponenziale dei discorsi e delle opinioni online dei residenti ai massimi storici in tutti i paesi del mondo. Internet e i social network sono diventati la bacheca ufficiale per esprimere i propri pensieri, domande e preoccupazioni. Ora, con la riapertura dei governi locali e delle attività, in un clima di incertezza sul futuro, i residenti cercano sempre più informazioni e comunicazioni precise dalle istituzioni.
  Questa nuova realtà inesplorata sottolinea la necessità di comprendere le richieste, le preoccupazioni e le priorità dei cittadini in tempo reale e su vasta scala, in modo che i governi locali possano ottenere un rapido ciclo di feedback mentre definiscono le loro politiche, le loro azioni e le strategie di messaggistica rivolte ai residenti.
  L'intero team di ZenCity ha effettuato un lavoro enorme all'interno di numerose città degli U.S.A. per supportare i passaggi fondamentali nella gestione agile del ripristino delle attività bilanciando il contenimento dei virus e i servizi a supporto della popolazione.
  Questa metodologia è attualmente attiva in oltre 150 enti governativi locali e in 26 stati di tutto il territorio statunitense. L'obiettivo è sfruttare facilmente i discorsi della comunità pubblica per rafforzare le comunicazioni del governo locale, dare priorità ai servizi che i residenti apprezzano di più, contrastare la disinformazione e ottimizzare gli sforzi per la riapertura delle attività.
  La rapida crescita di ZenCity è frutto anche di continui investimenti nel capitale da parte di multinazionali come Microsoft, che nell'ottobre 2017 lanciò il concorso Innovate.AI da 3,5 milioni di dollari per startup di intelligenza artificiale.
  ZenCity fu il vincitore per la regione di Israele e parte del suo premio ha costituito un investimento azionario di 1 milione di dollari da parte di M12 e Vertex Ventures. Il duo è stato chiaramente impressionato da ZenCity a tal punto da garantire che la prossima iniezione di denaro della startup fosse del 600% più grande del solo premio promesso.

 L'importanza dei big data
  I big data sono emersi come una forza chiave nella cosiddetta rivoluzione della "città intelligente" e il traffico in particolare gioca spesso un ruolo fondamentale. In Cina, ad esempio, Didi Chuxing sta prestando i suoi dati di ride sharing alle autorità come parte di un programma per alleviare la congestione del traffico, mentre anche Uber ha precedentemente lavorato con le città per aiutare a gestire la crescita urbana, alleviare la congestione del traffico ed espandere i trasporti pubblici.
  Altrove, la piattaforma di gestione del traffico Waycare sfrutta più fonti di dati storici e in tempo reale, tra cui piattaforme di auto connesse, telematica, telecamere stradali, progetti di costruzione e servizi meteorologici per aiutare gli urbanisti a migliorare la sicurezza e le infrastrutture.
  ZenCity si inserisce perfettamente in un ambito più ampio proponendosi come un'alternativa moderna ai dati, alle riunioni e ai sondaggi.
  "La rapida crescita di ZenCity negli Stati Uniti è una testimonianza dell'impegno che le città hanno nel connettersi e comprendere i propri cittadini", ha affermato Eyal Feder-Levy, CEO e cofondatore di ZenCity. "Riflette anche una crescente domanda da parte delle città statunitensi di essere più guidate dai dati".
  Un'ultima caratteristica particolarmente degna di nota su cui lavorerà la startup sarà la funzionalità di sintesi vocale. Per ora si basa su appunti presi dai lavoratori del contact center che vengono aggiunti manualmente al loro sistema online, ma in futuro ZenCity potrebbe essere in grado di "ascoltare" il feedback verbale e trasformare l'audio in dati di testo significativi da utilizzare per il bene di tutta la comunità.

(Al4Business, 14 settembre 2020)


Israele, nuovo lockdown. Si dimette il ministro dell'Edilizia ultraortodosso Yakov Litzman

A pochi giorni dal Capodanno ebraico e dal Kippur, il governo prende una decisione osteggiata dai partiti religiosi al governo e da chi teme le ricadute economiche. Il Paese è il primo al mondo per numero di nuovi contagi per milione di abitanti, ma terzo per tamponi effettuati ed è in fondo alle classifiche per mortalità.

di Sharon Nizza

 
Yakov Litzman
GERUSALEMME - Il governo israeliano ha deciso di proclamare un nuovo lockdown per arginare l'epidemia. Durerà tre settimane a partire dalle 14 di venerdì 18. Il secondo confinamento sarà articolato in tre fasi e conterrà misure molto rigide. La riunione di governo che doveva stabilire se confermare il nuovo lockdown generale è stata lunga e difficile per via dell'opposizione di diversi ministri, in primis quello del Tesoro Israel Katz. Ma la decisione è arrivata, in tempo per consentire al primo ministro Benjamin Netanyahu di volare a Washington questa sera alle 23:00, per firmare martedì mattina alla Casa Bianca lo storico accordo di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein.
  A confermare la spaccatura nel governo, le dimissioni presentate in mattinata dal ministro dell'Edilizia Yakov Litzman, esponente di uno degli influenti partiti religiosi che formano la coalizione di governo. Litzman, ministro della Salute per diversi anni, compresa la prima fase della pandemia, si era già dimesso a fine aprile dall'incarico, per ottenere il dicastero dell'Edilizia con il giuramento del nuovo governo Netanyahu a maggio.
  Litzman è contrario al lockdown perché impedirebbe le preghiere nel periodo delle festività più solenni del calendario ebraico, Rosh Hashanà (il Capodanno), il digiuno del Kippur e Sukkot (la festa della Capanne), un periodo di circa tre settimane che inizia venerdì 18 settembre. Il lockdown generale arriva proprio in coincidenza di quel periodo, caratterizzato da grandi assembramenti durante i pasti tradizionali e le funzioni religiose, ma anche nei luoghi di intrattenimento, in quanto si tratta di un periodo di ferie. Litzman aveva chiesto con forza di applicare il lockdown ad agosto - quanto già il trend di aumento dei contagi era visibile - per evitare di arrivare alla chiusura durante le festività.
  Il ministero del Tesoro, che insieme a quelli della Scienza, Turismo, Economica e Welfare guida la fronda interna, stima che un nuovo lockdown implica perdite di 1,2 miliardi di euro a settimana e lascerebbe nuovamente a casa altri 300.000 lavoratori.
  Durante l'acceso dibattito tra i ministri - in cui peraltro tutti i dirigenti del ministero della Salute intervenivano in videoconferenza perché in isolamento preventivo, come circa 90 mila israeliani in questo momento - l'unica significativa deroga che è stata fatta è che gli esercizi commerciali nel settore privato potranno continuare a lavorare nella formula attuale, ma senza ricevere il pubblico.
  La proposta era stata già approvata (6 contro 4) giovedì dal gabinetto ristretto per il coronavirus e oggi è arrivata al plenum del governo che ha deciso misure simili a quelle dello scorso aprile: per tre settimane vi sarà il divieto di spostarsi oltre 500 metri dall'abitazione, se non per motivo comprovato, limitazione degli assembramenti a 10 persone in spazi chiusi, attività economiche chiuse salvo esercizi vitali, lavoro remoto, chiusura del sistema scolastico che aveva ripreso il primo settembre dopo la pausa estiva, solo consegna a domicilio per i ristoranti.
  Dopodiché si entrerebbe in una seconda fase con limitazioni meno serrate fino a tornare, dopo un mese e a seconda dei risultati ottenuti dalle misure precedenti, al "Piano semaforo", il programma del Commissario per l'emergenza Covid, Ronni Gamzu, che stabilisce le restrizioni in base al tasso di contagio nell'area di residenza (verde - arancione - rossa).
  Ma non solo la politica è divisa. Nella comunità medica vi sono pareri contrastanti circa l'efficacia del nuovo lockdown generale. Nel comitato degli esperti che supporta il lavoro di Gamzu, molte voci premevano per misure più rilassate. Gli esperti sostengono che si debba tenere conto del prezzo economico e psicologico di un nuovo lockdown. Inoltre c'è chi, in primis tra i ristoratori e gestori di palestre e piscine - che secondo i dati finora non sono stati epicentri di contagio - minaccia di non rispettare le misure.
  La decisione di applicare un nuovo lockdown arriva dopo che i contagi la scorsa settimana hanno superato i 4.000 giornalieri. Israele a oggi risulta il primo Paese al mondo per numero di nuovi contagi per milione di abitanti, ma anche terzo per tamponi effettuati (oltre 30 mila al giorno in un Paese di 9 milioni di abitanti). Inoltre, con 1,108 deceduti dall'inizio della pandemia, è in fondo alle classifiche per la mortalità. Parte dei direttori di ospedali sostengono che, se non si chiudesse ora, le terapie intensive arriverebbero a saturazione nel giro di un mese. Diversi medici invece sostengono che i numeri, e soprattutto la crescita non esponenziale dei pazienti intubati (a oggi 139, a inizio agosto erano 95), non giustifichino una misura così drastica come una nuova chiusura totale.
  La grande confusione nella gestione della crisi e la convinzione da parte del pubblico che le decisioni siano motivate da considerazioni politiche per non alterare gli equilibri di governo, hanno portato la fiducia della popolazione nell'operato dell'esecutivo al 45% secondo i sondaggi, praticamente dimezzando il consenso di aprile che aveva raggiunto anche picchi dell'85%. Il Likud invece, il partito del premier Netanyahu, risulta sempre il primo partito (31 seggi) con oltre 10 punti di distacco rispetto a tutti gli altri rivali.

(la Repubblica, 13 settembre 2020)


Pace in Medio Oriente. Ora Trump accelera

Il presidente americano punta sulla politica estera in vista delle presidenziali per far dimenticare il Covid e le tensioni razziali.

di Francesco Semprini

NEW YORK - Alle prese con le difficoltà interne legate alla gestione della pandemia e le tensioni razziali, Donald Trump punta alla politica estera per rafforzare i consensi e rilanciare la candidatura ad un secondo mandato alla Casa Bianca. È questa la strategia, secondo gli osservatori, che il presidente adotterà nel dibattiti con lo sfidante Joe Biden, il primo dei quali è previsto per il prossimo 29 settembre. E lo farà partendo dal più recente risultato messo a segno, ovvero la decisione del Bahrein di firmare un accordo di pace con Israele, sulla scia di quello già siglato dagli Emirati Arabi Uniti meno di un mese fa, ribattezzato "Accordo di Abramo", la cui ufficializzazione avverrà martedì con una cerimonia solenne alla Casa Bianca. «Un'altra nuova svolta storica oggi» ha esultato su Twitter Trump venerdì all'annuncio giunto da Manama. «I nostri grandi amici, Israele ed il regno del Bahrein, hanno concordato un Accordo di Pace». L' "Accordo di Abramo" è stato patrocinato in particolare dal genero del presidente, Jared Kushner, nell'ottica della risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Al netto del rifiuto palestinese, per Trump la firma di questo accordo è un importante traguardo tanto che per alcuni suoi sostenitori il presidente meriterebbe la candidatura al premio Nobel per la Pace. Con questa mossa, assieme all'eliminazione del califfo Abu Barr al Baghdadi e a quella del potente generale iraniano Qasem Soleimani, Trump punta a mettere in secondo piano i problemi interni, virus e ricadute economiche in testa, per presentarsi all'appuntamento del 3 novembre come il giustiziere che fa trionfare il bene sul male in tutto il mondo.

(La Stampa, 13 settembre 2020)


L'Oman accoglie con favore l'accordo tra Bahrein e Israele

 
La visita di Netanyahu in Oman (2018) ha costituito la prima visita di un leader israeliano al sultanato in oltre due decenni
GERUSALEMME - L'Oman accoglie con favore l'istituzione di relazioni diplomatiche tra il Bahrein e Israele. A riferirlo è l'emittente televisiva nazionale "Oman Tv" in un post su Twitter. "Il Sultanato accoglie con favore l'iniziativa intrapresa dal fraterno regno del Bahrein", si legge nel testo. L'auspicio è che "questa nuova direzione strategica, scelta da alcuni paesi arabi, contribuisca in modo concreto al raggiungimento di una pace basata sulla fine dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi e sulla creazione di una Palestina indipendente con capitale Gerusalemme est". L'Oman ribadisce la propria adesione alla risoluzione della questione israelo-palestinese basata "sul principio dei due Stati, come stipulato nelle decisioni arabe e internazionali". Il Bahrein è il quarto paese arabo e il secondo del Golfo a riconoscere Israele, dopo l'Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994 e gli Emirati Arabi Uniti quest'anno. Secondo un rapporto del ministero israeliano dell'Intelligence, gli "stretti legami" dell'Oman con l'Iran renderebbero difficile la firma di accordi tra Mascate e Israele in materia di armi, ma ci sarebbero potenzialità per la cooperazione in materia di lotta al terrorismo e sicurezza interna. Secondo il rapporto, gli omaniti sarebbero interessati alle tecnologie civili israeliane, per esempio in ambito idrico, agricolo e in tecnologie legate a informatica e comunicazione. Nel 2018 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visitato l'Oman per colloqui sulle iniziative di pace in Medio Oriente con l'allora sultano Sultan Qaboos. In una regione turbolenta, l'Oman ha sempre mantenuto una posizione di neutralità e relazioni amichevoli con una serie di attori regionali, Iran incluso.

(Agenzia Nova, 13 settembre 2020)


La pace con Israele è una presa d'atto della realtà

Lo capiscono tutti, meno che i palestinesi

di Ugo Volli

C'è un aspetto della recente politica mediorientale che non è stato sottolineato abbastanza dalla stampa e che invece è molto significativo. Dopo i recenti accordi fra Israele e gli Emirati (più il Malawi e il Ciad, più Serbia e Kossovo, ma queste sono altre storie) e le concessioni che sono venute da Bahrein e Arabia (il permesso di utilizzare lo spazio aereo, sempre negato a Israele, probabilmente come segnali di analoghi accordi futuri), insomma dopo i grandi progressi diplomatici di Israele sulla via della normalizzazione con realtà musulmane e anche arabe, non ci sono state manifestazioni di protesta. La mitica "piazza araba" non si è manifestata e neppure si sono fatti sentire i religiosi musulmani - con l'eccezione naturalmente di quelli legati a Turchia, Iran e ai loro satelliti come Hamas, Hezbollah, Siria, Houtis. Anche i sudditi dell'Autorità Palestinese non si sono mobilitati, nonostante le dichiarazioni di fuoco della loro burocrazia politica. E' un dato molto significativo. Non che di improvviso, dopo mille e trecento anni di indottrinamento antiebraico dell'Islam, gli arabi si siano trovati a voler bene e a stimare gli ebrei. Molto più probabilmente sono stanchi di guerra, disposti a prendere atto della realtà dello Stato di Israele, come hanno dovuto prendere atto nella storia che la loro espansione è stata respinta in vari tempi nei Balcani, in India e (almeno fino a che non prevalesse l'invasione silenziosa in corso, in Europa). E' un segnale forte, vuol dire che si intravvede finalmente la fine del conflitto arabo-israeliano, che è la vera guerra in corso in Medio Oriente. La pace vera nasce così, dall'accettazione dei fatti, dal commercio, dalla coesistenza, dagli interessi comuni, non dai grandi sentimenti. Di fronte a questo grande sviluppo, è forse caduto il potere di veto attribuito una volta dai paesi islamici e ora quasi solo dall'Europa ai "palestinesi". Il cosiddetto "movimento palestinese" è stato solo un'arma diplomatica e militare in questa guerra, inventato dai servizi segreti sovietici e arabi. Ma come quel soldato che era già morto ma non lo sapeva, così i palestinisti continuano la loro "lotta" contro Israele, a Ramallah e a Gaza come a Bruxelles. Finché, speriamo, si accorgeranno dell'inutilità storica dei loro sforzi, del sangue versato, dei boicottaggi.

(Shalom, 13 settembre 2020)


"E' ora di normalizzare, Abu Mazen e Hamas si decidano a cedere"

L'intervista all'ex ministro dell'Anp Abu Zaida. Se gli Eau mandano un aereo a Tel Aviv con aiuti umanitari per i palestinesi, l'Anp lo respinge. Mentre il Qatar ogni mese si accorda con Israele per dare soldi a Gaza.

di Sharon Nizza

Mohammed Dahlan
«Non entro a Gaza da quando è iniziato il coronavirus. Non posso vivere senza il mare». Sufian Abu Zaida osserva le onde dal lungomare di Tel Aviv, mentre parla del momento critico che sta affrontando la leadership palestinese. In passato più volte ministro dell'Anp, oggi fa parte dell'opposizione più agguerrita contro Abu Mazen: è uno dei punti di riferimento in Palestina di Mohammed Dahlan, l'ex uomo forte di Fatah a Gaza, la vera spina nel fianco di Abu Mazen, che lo espulse dal partito nel 2011. Dahlan da allora vive ad Abu Dhabi, dove è una voce ascoltata a palazzo. Anche Abu Zaida è stato cacciato da Fatah nel 2014. Hanno costituito la Corrente Democratico-Riformista di Fatah, non riconosciuta dal movimento. Sorride alla domanda se Dahlan sia coinvolto - come sostengono le voci infuriate alla Muqata - nell'accordo Israele-Emirati che verrà firmato a Washington martedì insieme a quello con il Bahrein. «La vera domanda è perché esiste una normalizzazione halal (permessa) e un'altra haram (vietata). Se gli Emirati mandano un aereo a Tel Aviv con aiuti umanitari per i palestinesi, l'Anp lo rimanda indietro, mentre l'inviato del Qatar ogni mese si accorda con Israele per portare i soldi nella Striscia di Gaza».

- Ramallah dice che è una violazione del principio «non c'è normalizzazione senza uno Stato palestinese nel confini del '67».
  «La normalizzazione l'abbiamo iniziata noi con Oslo, aprendo la strada agli accordi sottobanco tra Paesi arabi e Israele. Eau e Bahrein hanno deciso di giocare a carte scoperte».

- La Lega Araba ha rifiutato dl sostenere la risoluzione di condanna degli Emirati presentata dafl'Anp.
  «Ogni Stato fa i propri interessi. Inserire la questione palestinese nell'accordo, sostenendo che gli Eau abbiano fermato l'annessione, è stato solo un pretesto».

- Quanto sta accadendo influisce sulla questione della successione ad Abu Mazen?
  «Abu Mazen non è più legittimo. È stato eletto per 4 anni e ne sono passati 14. Dopo di lui ci devono essere almeno tre successori: Olp, Fatah e Anp. Basta con la concentrazione del potere».

- Che probabilità ha Dahlan come candidato in esilio negli Emirati?
  «Le accuse infondate contro di lui l'hanno rafforzato, è l'unico ad avere sostegno popolare. I sondaggi gli danno tra il 7 e il 14% dei consensi, i 99 membri dell'attuale establishment rasentano il 2%. E questo mentre sta all'estero ed è continuamente diffamato».

- I palestinesi sono isolati?
  «Oggi ci sono tanti problemi nell'area che mettono in secondo piano la causa palestinese. In questi anni avremmo potuto fare dell'Anp un gioiello, basato sulla separazione dei poteri, sulla trasparenza. Avremmo potuto essere la consolazione per le sofferenze dell'occupazione. Invece siamo riusciti a fare peggio, ci siamo sparati l'un l'altro. Parliamo dell'iniziativa araba del 2002, ma siamo nel 2020! Pensiamo al rifiuto di Arafat di Camp David nel 2000: chi crede che oggi potremmo ottenere quanto ci hanno proposto allora?».

- Che cosa si può fare in questa situazione?
  «Unità. Nel 2011 l'accordo del Cairo definiva tutto, basta implementarlo. Ma Abu Mazen e Hamas vogliono ricevere tutto senza rinunciare a nulla».

- La settimana scorsa c'è stata la videoconferenza tra Abu Mazen da Ramallah e Hanlyeh da Beirut ed è entrata a Gaza la ministra della Salute dell'Anp. Un cambio di rotta?
  «Non sarei così ottimista. La crisi del virus a Gaza è una priorità ora. Un accordo comporta elezioni. E i vertici dell'Anp non sono interessati ora a una gara tra più candidati».

- Come sono vissute le sue posizioni?
  «Pago un prezzo. Ma nessuno mi toglierà la libertà di dire quello che penso».

(la Repubblica, 13 settembre 2020)


Israele - Paesi arabi: gli unici che si oppongono alla pace sono i pacifisti

Davvero potete credere che il loro obiettivo sia la nascita di uno Stato Palestinese? Ormai non ci credono più nemmeno gli arabi

di Franco Londei

Se gli unici che si oppongono alla pace tra Israele e Paesi Arabi sono quelli che più ne dovrebbero gioire, cioè i pacifisti, un motivo ci deve pur essere.
   Se Israele è l'unico paese democratico dove operano direttamente centinaia di ONG (qui la lunghissima lista) e associazioni come non succede nemmeno nei peggiori teatri di guerra, un motivo ci deve pur essere.
   Se prendiamo una zona come l'Africa dei Grandi Laghi, dove sono in corso centinaia di micro-conflitti con stragi quotidiane, dove la povertà è endemica e le malattie di ogni tipo sono un fatto normale e la paragoniamo con Israele, possiamo notare subito la sproporzione del numero di ONG operanti sul territorio tenendo conto della situazione locale (non di guerra in Israele), delle condizioni sanitarie (Israele è un paese moderno con una sanità di eccellenza), dei valori della povertà e dello sviluppo locale.
   Insomma, se in Israele ci sono molte più ONG che in Congo (tenuto conto delle debite proporzioni) un motivo ci deve pur essere.
   Voi direte che il motivo sono i poveri palestinesi senza terra e senza Diritti. Direte che a Gaza stanno peggio che in Congo e che in Cisgiordania (in realtà Giudea e Samaria) la povertà non sarà come quella in Congo ma ci si avvicina parecchio.
   Beh, vi sbagliate. Sempre tenendo conto delle debite proporzioni, la cosiddetta Palestina ha ottenuto dieci volte di più degli aiuti internazionali destinati al Congo o a uno qualsiasi dei tanti paesi africani in via di sviluppo. Con il denaro destinato alla cosiddetta Palestina ci si sviluppavano una quindicina di paesi africani. Invece i "poveri palestinesi" sono ancora li a prendersela con gli israeliani invece che con chi tutti quei soldoni se li è mangiati.
   Ecco, i soldoni, il fiume di denaro che scorre verso la cosiddetta Palestina è il motivo per cui ci sono tutte quelle ONG e, soprattutto, il motivo per cui queste ONG di pacifisti si oppongono a qualsiasi forma di pace. Con la pace il fiume di denaro si fermerebbe e addio soldoni.
   Pensate solo a cosa succederebbe se dovesse nascere uno Stato Palestinese. Fine delle erogazioni di denaro a fondo perduto. I soldi li prendi in prestito e quindi li devi restituire. Poi devi creare tutta la struttura statale, la sanità, l'economia, una moneta nazionale, devi creare infrastrutture ecc. ecc.
   Davvero qualcuno può credere che i cosiddetti pacifisti e la dirigenza palestinese possano rinunciare a tutto quel denaro in cambio della pace e di tutte le "beghe" che immancabilmente porta la fine di un conflitto, seppure a bassa intensità? Davvero potete credere che il loro obiettivo sia la nascita di uno Stato Palestinese? Ormai non ci credono più nemmeno gli arabi, per questo uno dietro l'altro abbandonano la "causa palestinese" e fanno pace con Israele.
   Rimangono loro, i pacifisti, gli indefessi difensori della causa palestinese purché porti denaro (e fama, qualche volta). Ma ormai, temo, è finita anche per loro.

(Rights Reporter, 13 settembre 2020)



Beitar, da club "senza arabi" a una possibile proprietà di Abu Dhabi

La notizia ha del clamoroso. Tra i tanti effetti che l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti potrebbe sortire c'è anche il cambio di proprietà di uno dei club più importanti ma anche più discussi del calcio israeliano. Un facoltoso imprenditore di Abu Dhabi, di cui non è stata ancora resa nota l'identità ma che ha già rilasciato alcune dichiarazioni ai media locali, sarebbe infatti interessato all'acquisto del Beitar Gerusalemme. "Un accordo è possibile" ha detto l'uomo, la cui proposta è stata veicolata da un membro della famiglia reale.
   Per il club capitolino, costretto da anni a confrontarsi con la violenza e il razzismo anti-arabo di una parte significativa del proprio tifo organizzato, si tratterebbe di una svolta storica. Una possibilità che sembra quasi fantascienza, se si pensa all'orgoglio esibito dai membri de La Familia, l'ala più estrema dei supporter del Beitar, di essere l'unica squadra del campionato a non aver mai avuto un giocatore arabo tra le proprie fila. Sono gli stessi che nel 2008 offendevano dagli spalti Maometto o che nel 2012 si opponevano all'acquisto di due calciatori ceceni perché "colpevoli" di essere musulmani. Proteste in curva che in molti casi sono dilagate in gravissime violenze pubbliche. Un clima denunciato come intollerabile anche dal più autorevole tifoso del Beitar: il presidente d'Israele Reuven Rivlin.
   Si prospetta adesso un incredibile cambio di passo. Un'ipotesi sorprendente, che dovrà però vincere molti ostacoli. L'attuale proprietario, Moshe Hogeg, si dice comunque fiducioso: "Se ci sarà uno spirito di tolleranza, potremo creare un'atmosfera di pura amicizia".

(moked, 13 settembre 2020)


La minaccia iraniana contro il Bahrein dopo l'accordo con lo Stato ebraico

Alla Fatwa della comunità locale sciita si aggiungono gli attacchi dei pasdaran e di Hezbollah.

di Vincenzo Nigro

Un altro Paese arabo, il quarto, fa la pace con Israele. E l'Iran scatena una guerra di parole come non aveva ancora fatto.
   Il Paese è il più piccolo del Golfo Persico, l'isola del Bahrein governata dal re Hamad al Khalifa. Sembrerebbe quasi insignificante, un mini arcipelago con una popolazione di 1 milione 300mila arabi e 200mila stranieri, fra cui molti immigrati asiatici. E invece la mossa del governo che martedì prossimo a Washington si accoderà con Benjamin Netanyahu sotto gli occhi di Donald Trump, sta provocando una tempesta poderosa nel Golfo.
   Gli sciiti dell'area si stanno scatenando contro la dinastia sunnita (minoritaria) che governa l'isola. Una sequela di attacchi come non era accaduto pochi giorni fa con l'annuncio dell'intesa fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.
   I più duri nell'attaccare il re Hamad sono i pasdaran iraniani e l'Hezbollah libanese. Le Guardie della rivoluzione iraniana minacciano: «Il sovrano del Bahrein deve aspettarsi una dura vendetta da parte dei Mujahiddin di al-Quds (al Quds è Gerusalemme, ndr) e della nazione musulmana orgogliosa di questo Paese». La dichiarazione dei pasdaran quasi preannuncia un'azione militare, e segue le critiche durissime del ministero degli Esteri iraniano guidato da Mohammad Javad Zarif: «I dirigenti del Bahrein ormai sono complici dei crimini del regime sionista, sono una minaccia costante per la sicurezza della regione e per il mondo musulmano». Per gli Hezbollah libanesi l'accordo Israele-Bahrein è «una pugnalata alle spalle dei palestinesi».
   Ma ecco che emerge la differenza con gli Eau: la federazione guidata dallo sceicco Mohammad bin Zayed è uno Stato a maggioranza sunnita, con un fortissimo controllo di polizia e un esercito relativamente potente. Ci sono fra Abu Dhabi e Dubai migliaia di espatriati iraniani, ma in gran parte lavorano e pensano solo agli affari, non seguono le direttive politiche di Teheran. E sono tutti sotto stretto controllo. Infine, nessuno, o quasi, dei cittadini degli Emirati ha criticato Trump alla vigilia della firma.
   In Bahrain circa il 70 per cento della popolazione è sciita, sono sottoposti al durissimo regime poliziesco dei sunniti della dinastia Khalifa. Dalla fallita "primavera delle perle" del febbraio del 2011, gli sciiti sono vittime di arresti, torture, vessazioni di ogni tipo. E loro, sostenuti e sobillati dall'Iran, si organizzano sempre meglio.
   Ieri il leader religioso degli sciiti dell'isola ha pronunciato una "fatwa" per dire che la normalizzazione con Israele è "haram", è proibita dalla legge islamica. Sheikh Isa Qassim sostiene che «qualunque normalizzazione dei rapporti con il regime sionista rappresenta un tradimento della nazione islamica». Un'altra condanna interna arriva da "Al Wafaq", il primo partito di opposizione sciita nel Paese (il leader è un carcere). Per loro l'accordo è «un golpe contro la volontà popolare, un tradimento nei confronti di tutti i musulmani».
   In sintesi: se l'Iran vorrà reagire alle mosse di Israele, degli Stati Uniti e dei regni sunniti, in Bahrein potrà farlo con grande efficacia. E ha già minacciato di agire.

(la Repubblica, 13 settembre 2020)



Il segno distintivo di Israele: vita che scaturisce dalla morte

di Marcello Cicchese

In verità, in verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto (Giovanni 12:24).

Nel suo libro "Viva Israele" lo scrittore arabo Magdi Cristiano Allam ha espresso il suo pieno convincimento che oggi più che mai la difesa del valore della sacralità della vita coincide con la difesa del diritto all'esistenza di Israele. Si nasconde dunque in Israele il senso profondo della "sacralità della vita"? Qualcuno potrebbe osservare che certe religioni pagane esaltanti la fertilità e la fecondità esprimono meglio dell'ebraismo l'amore in senso lato per la vita. Non si difende Israele contrapponendo a morbose ideologie esaltanti la morte euforiche ideologie esaltanti la vita, perché anche queste ultime possono rivelarsi come seducenti vie che conducono alla morte.
   In realtà, quello che conta non è l'esaltazione unilaterale dell'uno o dell'altro dei due termini "vita" e "morte", ma il modo in cui vengono collegati fra di loro. Si può dire che nella maggior parte delle ideologie di stampo nazi-fascista o islamico-terroristico, la forza della vita viene esaltata e messa a disposizione della morte in vista di un traguardo glorioso da raggiungere in un futuro più o meno lontano. Si pensi ai "sani e forti" giovani fascisti e nazisti preparati alla guerra di conquista nazionale, o ai "sani e belli" bambini islamici preparati a farsi saltare in aria insieme a tanti ebrei con l'obiettivo di raggiungere uno stato di paradisiaca beatitudine.
   Per l'Israele della Bibbia le cose sono diverse: morte e vita sono entrambe presenti, ma a differenza delle ideologie pagane le vie bibliche non partono dalla vita per finire nella morte, ma incontrano la morte per giungere a una nuova vita.
   Le cose sono cominciate con Abramo. All'età di settantacinque anni, quindi non più nel pieno vigore della vita ma già piuttosto attempato, il patriarca viene chiamato da Dio a "morire socialmente" separandosi dai suoi familiari e da tutto il suo mondo per andare in un luogo ignoto. Lì Dio promette che lo benedirà, lo farà diventare una grande nazione e farà sì che in lui tutte le nazioni della terra saranno benedette. Passano gli anni e non succede niente. Quando Dio si rifà vivo Abramo glielo fa notare: "Tu non m'hai dato progenie" (Genesi 15:3), dice al Signore, e premurosamente chiede se il suo erede sarà Eliezer, il suo servo di Damasco. No, risponde il Signore, non sarà un siriano a portare la benedizione al mondo, ma "colui che uscirà dalle tue viscere sarà erede tuo" (Genesi 15:4). Per fugare i comprensibili dubbi di Abramo, Dio lo porta fuori (evidentemente si trovavano in casa) e gli dice: "Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare. Tale sarà la tua progenie" (Genesi 15:4).
   Dopo di che accade uno dei fatti più importanti della storia dell'umanità:
    "Ed egli credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia" (Genesi 15:5).
Che cosa aveva fatto di tanto straordinario Abramo per essere considerato giusto davanti Dio? Quali opere meritorie aveva compiuto? Quale superiore stile di vita aveva esibito? Quali precetti della Torà aveva diligentemente osservato? Sta scritto soltanto che "Egli credette all'Eterno". Questa è stata l'opera sua. Tutto il resto è stata ed è opera dell'Eterno.
   Il premio però non arriva subito. Gli era stato detto che dai suoi lombi sarebbe uscita una grande nazione, e poiché la sua progenie avrebbe dovuto essere innumerevole come le stelle del cielo, Abramo poteva pensare che sarebbe stato molto meglio per lui se fosse stato avvertito prima, quando era più giovane e più forte. Anche la moglie scelta per lui da Dio avrebbe potuto essere un po' più adatta: fosse stato in lui, forse avrebbe scelto una prolifica donna come quelle che hanno oggi gli ebrei ultraortodossi, capaci di sfornare un figlio all'anno per la durata di vent'anni. Abramo invece era già in età avanzata e sua moglie Sarai si poteva considerare morta dal punto di vista della fertilità: era sterile. I due coniugi non obiettano, ma certamente si saranno chiesti come sarebbe potuto avvenire tutto quello che Dio aveva promesso. E' la donna allora che prende l'iniziativa, e fa quello che fanno spesso quasi tutti i credenti, anche i più pii: elabora una teoria interpretativa della Parola di Dio del tipo "aiutati che Dio t'aiuta". Non dice: "Io sono sterile", ma "L'Eterno m'ha fatta sterile" (Genesi 16:2). Dunque - avrà pensato - se è Dio che m'ha fatta sterile, vuol dire che si aspetta la nostra collaborazione nell'affrontare questa realtà. Poiché io sono prolificamente morta, prenderò tra le mie serve egiziane una forte, gagliarda e prosperosa giovane da offrire a mio marito affinché possa avere da lei un figlio. Partorirà sulle mie ginocchia, e questo significherà che il bambino che nascerà sarà giuridicamente figlio mio, e quindi anche di Abramo. Davanti all'importanza del progetto dinastico voluto da Dio - avrà sempre pensato Sarai -, anche i sentimenti di gelosia devono essere messi a tacere. E ai suoi occhi forse questo sarà sembrato il doloroso sacrificio che si chiedeva a lei per collaborare all'attuazione del piano di Dio.
   "Abramo dette ascolto alla voce di Sarai" (Genesi 16:3), ma non sembra che in questo abbia ricevuto l'approvazione di Dio. Anche Adamo aveva fatto una cosa simile con sua moglie, e come risultato si era sentito dire da Dio:
    "Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie... mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai" (Genesi 3:17,19).
Le conseguenze però furono diverse nei due casi, perché non sono le sole azioni dell'uomo a determinarne gli effetti, ma il rapporto tra le azioni e la Parola di Dio. Ad Adamo Dio aveva dato un ordine e una promessa precisi: "... non ne mangiare, perché nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17). Adamo non ha ascoltato una precisa Parola di Dio, e con la sua disubbidienza ha mostrato di non credere a quella Parola. Ed essa si è puntualmente avverata: dalla vita in cui si trovava Adamo è caduto nella morte, come Dio aveva preannunciato. Ad Abramo invece Dio aveva dato un altro ordine e un'altra promessa:
    "Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione" (Genesi 12:1-2).
Abramo ha ascoltato quella Parola, e con la sua ubbidienza ha mostrato di credere alla Parola di Dio, ed essa ha cominciato a compiersi nella sua vita. Se nel caso di Adamo la Parola di Dio disubbidita ha prodotto un passaggio dalla vita alla morte le cui conseguenze continuano a sentirsi ancora oggi, nel caso di Abramo la Parola di Dio ubbidita ha compiuto e continua a compiere un'opera di passaggio dalla morte alla vita le cui conseguenze valgono ancora oggi e continueranno a valere per l'eternità. La colpa di Abramo non è di non aver ascoltato una precisa Parola di Dio, ma di aver ascoltato le parole della moglie. Le conseguenze sgradevoli ci sono state, ma non potevano essere tali da annullare la promessa di Dio. E l'aspetto fondamentale di questa promessa, come si manifesterà chiaramente in seguito, consiste proprio nell'annuncio di una nuova vita che Dio farà sorgere là dove il peccato dell'uomo ha prodotto la morte. Per questo, ovunque interviene l'azione salvifica di Dio la morte compare per prima, affinché sia evidente che il Dio in cui l'uomo è invitato a credere è Colui che può e vuole vincere la morte in tutti i suoi aspetti: nelle sue cause, nella sua potenza e nei suoi effetti.
   Nella coppia Abramo-Sarai l'elemento prolificamente morto era la donna. Sarai ha tentato di rimediare alla cosa con umana razionalità, cioè sostituendo il pezzo difettoso con uno perfettamente funzionante: la sterile Sarai è stata rimpiazzata dalla fecondissima Agar. Ed è nato Ismaele, da cui è scaturito un mare di guai. La "morte prolifica" di Sarai, espressione della morte presente nella natura come conseguenza della morte spirituale causata dal peccato, è stata aggirata ricorrendo alla "vita prolifica" di Agar, espressione della vita naturale ancora presente dopo il peccato. Ma non poteva essere questo il modo in cui Dio si proponeva di vincere la realtà profonda della morte provocata dal peccato.
   Il Signore non è intervenuto immediatamente per vanificare sul nascere quel tentativo umano di modificare la sua opera di redenzione: ha permesso che Ismaele nascesse e ha lasciato passare nel silenzio altri tredici anni, fino a quando Abramo non era più in grado di generare. Se l'intervento dell'uomo aveva mirato a sostituire il pezzo morto con uno vivo, il non intervento di Dio aveva fatto sì che anche il pezzo vivo arrivasse a morire: all'età di novantanove anni Abramo era ormai prolificamente morto, come Sarai, e proprio per questo era ormai convinto che l'erede promesso da Dio non poteva che essere Ismaele.
   Ma è a questo punto che Dio si rifà vivo con Abramo e gli cambia il nome:
    "Quanto a me, ecco il patto che faccio con te; tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni; non sarai più chiamato Abramo [patriarca], ma il tuo nome sarà Abraamo [padre di una moltitudine], poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni" (Genesi 17:4-5).
Poi, inaspettatamente, Dio nomina per la prima volta sua moglie:
    "Dio disse ad Abraamo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei»" (Genesi 17:15-16).
A questo punto il venerando patriarca ha una umana e molto comprensibile reazione:
    "Allora Abraamo si prostrò con la faccia a terra, rise, e disse in cuor suo: «Nascerà un figlio a un uomo di cent'anni? E Sara partorirà ora che ha novant'anni?» E aggiunge: «Oh, possa almeno Ismaele vivere davanti a te!»" (Genesi 17:17-18).
Ma Dio risponde:
    "No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli metterai il nome di Isacco. Io stabilirò il mio patto con lui, un patto eterno per la sua progenie dopo di lui" (Genesi 17:19).
La difficoltà di Abraamo sta nel credere che la vita promessa da Dio possa scaturire da due corpi prolificamente morti. Proprio questo invece era il proposito di Dio: far sorgere la vita dalla morte. E Abraamo, sia pure dopo qualche esitazione, alla fine crede. Di questo rende testimonianza l'apostolo Paolo quando di lui scrive:
    "Egli è padre di noi tutti (com'è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all'esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». Senza venir meno nella fede, egli vide che il suo corpo era svigorito (aveva quasi cent'anni) e che Sara non era più in grado di essere madre; davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella sua fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli ha promesso, è anche in grado di compierlo. Perciò gli fu messo in conto come giustizia." (Romani 4:16-22).
Anche Sara partecipò a questa fede:
    "Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare" (Ebrei 11:11-12).
La nascita prodigiosa di Isacco doveva significare che la vita promessa da Dio è una vita che sorge dalla morte, e proprio per questo la vince.
   La fede, o è fede in Dio "che fa rivivere i morti" o non è fede.
   La fede di Abraamo però viene ancora una volta messa a dura prova quando Dio gli chiede di restituirgli proprio quel figlio che così miracolosamente gli aveva donato:
    "Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abraamo e gli disse: «Abraamo!» Egli rispose: «Eccomi». E Dio disse: «Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e va' nel paese di Moria, e offrilo là in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò»." (Genesi 22:1-2).
Senza esitare Abraamo parte per il monte Moria, e durante i tre lunghi giorni di viaggio nel cuore del padre il figlio Isacco era già morto. Abraamo era pronto a uccidere suo figlio, come Dio gli aveva ordinato. Aveva forse smesso di credere nella Parola di Dio, che da quel figlio gli aveva promesso di avere un'innumerevole progenie? No, al contrario: Abraamo era pronto a uccidere Isacco proprio perché aveva fede in Dio "che fa rivivere i morti", come la Scrittura attesta:
    "Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: «É in Isacco che ti sarà data una discendenza». Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione" (Ebrei 11:17-19).
Se nelle persone di Abraamo e Sarai la morte era presente come fatto biologico, conseguenza storica del peccato dell'uomo, nella persona di Isacco la morte annunciata era presente come destino storico predisposto da Dio per la salvezza dell'uomo. Isacco fu ridonato ad Abraamo "come per una specie di risurrezione", anticipazione di una risurrezione che rappresenterà la benedizione per "tutte le famiglie della terra", come promesso da Dio fin dall'inizio.
   L'esperienza di Abraamo è tutt'altro che unica nella storia d'Israele. Al contrario, la realtà di una vita che scaturisce dalla morte è una caratteristica ricorrente del popolo di Dio.
   Giuseppe dovette fare l'esperienza di una morte civile nelle carceri di Potifar prima di assurgere ai più alti livelli della vita sociale diventando vicerè d'Egitto. E sarà proprio questa specie di risurrezione a permettere alla sua tribù familiare di rimanere in vita. La Bibbia presenta con parole commoventi il momento in cui Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli:
    "Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Vi prego, avvicinatevi a me!» Quelli s'avvicinarono ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto" (Genesi 45:4-8).
Qui interviene un elemento nuovo. In questo caso l'esperienza di morte, cioè la prigionia di Giuseppe nelle carceri d'Egitto, pur essendo guidata dalla volontà di Dio non avviene come conseguenza naturale dell'originaria caduta di Adamo, ma come conseguenza di un preciso peccato commesso dai discendenti di Abraamo. E questo fa vedere che Dio usa anche e proprio il peccato dell'uomo come strumento di salvezza per fargli giungere la sua grazia.
   E' in Egitto che la tribù patriarcale di Abraamo diventa popolo. Il processo si svolge nell'arco di più di quattrocento anni e non avviene nella terra promessa, ma in un paese pagano. Il popolo non fiorisce sotto la spinta di autonome e brillanti iniziative di formazione delle strutture sociali, come per esempio è avvenuto nell'Israele di questi ultimi decenni, ma languisce sotto una mortale schiavitù. La Bibbia non dice che gli ebrei in Egitto abbiano invocato l'aiuto divino, anche perché nei quattro lunghi secoli di sofferenze subite nel silenzio di Dio avranno probabilmente fatto in tempo a dimenticare che esisteva un Dio che un giorno era intervenuto nella vita dei loro antenati. Le grida che lanciavano erano gemiti di dolore, non invocazioni di aiuto.
   Ma se gli ebrei si erano dimenticati di Dio, Dio non si era dimenticato di loro.
    "Durante quel tempo, che fu lungo, il re d'Egitto morì. I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d'Israele e ne ebbe compassione" (Esodo 2:23-25).
Dio allora sceglie Mosè per liberare il suo popolo e farlo diventare una nazione. E questo difficile ingresso in una nuova vita avviene con ripetuti passaggi attraverso esperienze di morte. Mosè, insieme a tutti i maschi ebrei, era destinato alla morte, ma viene salvato dall'intervento provvidenziale di Dio. Da adulto Mosè si presenta al faraone per chiedergli di lasciare andare il suo popolo, e come primo risultato ottiene che l'oppressione del popolo aumenta fino a diventare insopportabile.
    "Uscendo dal faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli, e dissero loro: «Il Signore volga il suo sguardo su di voi e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano una spada per ucciderci»" (Esodo 5:20-21).
La morte invece si abbatte sugli uomini in Egitto, ma non sugli ebrei. I loro primogeniti, al contrario di quelli degli egiziani, restano in vita.
   Anche poco dopo l'uscita degli israeliti dall'Egitto, Dio fa passare il popolo attraverso un'altra esperienza di morte sicura. Avevano già fatto un po' di strada quando Dio dice in sostanza a Mosè: falli tornare indietro e mettili in una posizione senza via di uscita, in modo che i loro nemici pensino che ormai il popolo non ha più una via di scampo:
    "Il Signore parlò così a Mosè: «Di' ai figli d'Israele che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, fra Migdol e il mare di fronte a Baal-Sefon. Accampatevi davanti a quel luogo presso il mare. Il faraone dirà dei figli d'Israele: "Si sono smarriti nel paese; il deserto li tiene rinchiusi". Io indurirò il cuore del faraone ed egli li inseguirà. Ma io sarò glorificato nel faraone e in tutto il suo esercito, e gli Egiziani sapranno che io sono il Signore». Ed essi fecero così" (Esodo 14:1-4).
Davanti a loro il mare, alle spalle gli egiziani che stavano arrivando, gli ebrei si trovavano ancora una volta in una specie di tomba. Ma proprio questo voleva Dio: dare loro la vita facendoli passare per un'esperienza di morte. Il popolo d'Israele giunge alla vita attraversando miracolosamente il mar Rosso, e la morte attraverso cui erano passati indenni si abbatte sugli egiziani che li inseguivano.
    Tutta la storia successiva del popolo d'Israele, anche dopo la lunga esperienza biblica, può essere letta seguendo l'intreccio sempre ripetuto di morte e nuova vita. Al contrario della pagana esaltazione della vita, che necessariamente deve ignorare o sminuire o addolcire la tetra realtà della morte, la storia e la cultura ebraica, fino a che restano nel quadro biblico, inglobano la morte senza minimizzarne la gravità, ma indicando la possibilità del suo superamento in una nuova vita. "Prigionieri della speranza" è un'espressione biblica (Zaccaria 9:12) che ben si presta a rappresentare sinteticamente la situazione in cui è "costretto" a vivere il popolo eletto.
   Non deve sembrare strano allora che per la salvezza di Israele, e quindi di tutto il mondo, il Re d'Israele, che è anche il Re del mondo, sia dovuto passare attraverso un processo di morte e risurrezione. La realtà di una nuova vita che nasce dalla morte rappresenta la chiave di comprensione del fenomeno ebraico, in tutte le sue espressioni: storiche, sociali e individuali. Di morte e risurrezione parla il profeta Isaia quando scrive:
    "Ma piacque all'Eterno di fiaccarlo coi patimenti. Dopo aver dato la sua vita in sacrifizio per la colpa, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni, e l'opera dell'Eterno prospererà nelle sue mani. Egli vedrà il frutto del tormento dell'anima sua, e ne sarà saziato; per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti, e si caricherà egli stesso delle loro iniquità" (Isaia 53:10-11)
Questo servo dell'Eterno che passa attraverso la morte per vincerla, e non solo per sopravvivere ad essa, dopo la morte fisica e la morte sociale dell'umiliazione e del disprezzo conoscerà la gloria dell'elevazione politica al di sopra di ogni altro potere della terra:
    "Ecco, il mio servo prospererà, sarà elevato, esaltato, reso sommamente eccelso. Come molti, vedendolo, son rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante sì da non parer più un uomo, e il suo aspetto si da non parer più un figlio d'uomo), così molte saran le nazioni, di cui egli desterà l'ammirazione; i re chiuderanno la bocca dinanzi a lui, poiché vedranno quello che non era loro mai stato narrato, e apprenderanno quello che non avevano udito (Isaia 52:13-15)
Questo servo dell'Eterno è il Re de giudei, che è risorto dai morti perché ha vinto la morte. E poiché non si può pensare che un Re esista senza una nazione e un popolo, è evidente che il popolo dei giudei, cioè Israele, vivrà in eterno (Geremia 31:35-37). O meglio, passerà attraverso una traumatica e conclusiva esperienza di morte da cui risorgerà a nuova e immortale vita. Proprio questo è il messaggio lasciato dall'apostolo Paolo, quando parlando degli ebrei aveva predetto che la loro "riammissione" sarà come "un rivivere dai morti" (Romani 11:15).
   Non la generica "sacralità della vita", ma il binomio "morte e risurrezione" è la caratteristica di Israele come realtà storica. Caratteristica che è nello stesso tempo un messaggio rivolto al mondo. E se qualcuno chiede: perché il popolo degli ebrei è sempre riemerso dopo ogni tentativo di sterminio? perché si poteva essere certi che la nazione di Israele sarebbe riapparsa sulla sua terra? perché si può essere certi che Israele sopravviverà a tutti i tentativi di distruggerlo? La risposta è semplice: perché Gesù Cristo, il Re dei giudei, è risuscitato dai morti, e "la morte non ha più potere su di lui" (Romani 6:9).

 


Dopo gli Emirati c'è anche il Bahrein Storico accordo di pace con Israele

È il secondo Paese del Golfo a stabilire relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico

di Sharon Nizza

 
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo con il principe ereditario del Bahrein Salman bin Hamad Al Khalifa durante la sua visita a Manama, Bahrein, il 26 agosto
GERUSALEMME - «Non c'è migliore risposta all'odio generato dall'11/9 che questo accordo». Così, a 19 anni dall'attentato alle Torri Gemelle, Trump ha annunciato un altro storico passo verso il «nuovo Medioriente» delineato dal suo piano "Pace per prosperità", convincendo anche il Bahrein a uscire allo scoperto e a normalizzare i rapporti con Israele, dopo aver ottenuto lo stesso risultato con gli Emirati Arabi Uniti meno di un mese fa. Alla Casa Bianca, quindi, questo martedì si firmerà un doppio accordo di pace. II Bahrein diventa il secondo Paese del Golfo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, il quarto Paese arabo con Egitto e Giordania.
   L'Amministrazione Usa ha trasformato in fatti le molte dichiarazioni più o meno sibilline che prefiguravano un effetto domino dopo la scelta di Abu Dhabi di aprire a Israele. «Un altro Paese dell'area si accoderà presto alla scelta coraggiosa di Mohammed bin Zayed», hanno ripetuto più volte il Segretario di Stato Mike Pompeo e il genero-consigliere di Trump Jared Kushner, visitando, a distanza di pochi giorni, i principali candidati: Oman, Sudan, Arabia Saudita. E il Bahrein, che d'altro canto non aveva tenuto le carte troppo nascoste in questi mesi: era stato il primo Paese arabo a complimentarsi con gli Emirati per l'accordo con Israele. Ma soprattutto, fu proprio Manama a ospitare nel giugno 2019 la conferenza per la presentazione della parte economica del "Piano del Secolo" di Trump, che fu poi rivelato nella sua interezza alla Casa Bianca a gennaio, alla presenza degli ambasciatori a Washington di Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Oman — che non a caso è dato come il prossimo Paese che potrebbe unirsi allo storico disgelo.
   Abu Mazen, come con gli Emirati, ha subito richiamato l'ambasciatore palestinese a Manama. In una dichiarazione ufficiale della Muqata si legge che l'accordo è una «pugnalata alle spalle, un tradimento nei confronti di Gerusalemme, di Al Aqsa e della causa palestinese», esattamente la stessa terminologia usata per condannare l'accordo con Abu Dhabi. Solo mercoledì i palestinesi avevano subito una sconfitta significativa quando la Lega Araba aveva rifiutato di sostenere una risoluzione di condanna degli Emirati. A Ramallah avevano previsto quel giorno che il rifiuto fosse il segnale più concreto del fatto che presto sarebbero arrivate altre dichiarazioni di apertura di Paesi arabi verso Israele, confermando il cambio di rotta rispetto al paradigma «non c'è normalizzazione senza il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini del '67». II presidente egiziano Al Sisi si è affrettato a complimentarsi per l'accordo, definendolo «un passo importante verso il raggiungimento della stabilità e di una pace giusta in Medioriente. Anche per i palestinesi».
   L'Iran — che ora si trova ufficialmente gli israeliani dall'altra parte del Golfo Persico, peraltro in un Paese a maggioranza sciita — condanna i dirimpettai per essersi arresi ai sionisti. In questo scenario, in cui l'alleanza anti-iraniana prende il sopravvento rispetto ai vecchi schemi nello scacchiere mediorientale, il Cairo potrebbe avere un ruolo determinante nel convincere i palestinesi a tornare al tavolo delle trattative.

(la Repubblica, 12 settembre 2020)


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Pace tra Israele e Bahrein. Trump: «Un'altra svolta»

La storica intesa annunciata dal tycoon via Twitter. È il secondo Paese arabo dopo gli Emirati

Un mese dopo lo storico accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Emirati Arabi Uniti, mediato da Donald Trump, il presidente Usa e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno annunciato la pace tra lo Stato ebraico e il Bahrein.
   In un tweet, Trump ha annunciato un'«altra svolta storica» con «l'accordo di pace» tra Israele e il piccolo Paese del Golfo Persico che allacceranno relazioni diplomatiche. «Si tratta del secondo Paese arabo, in 30 giorni, a fare la pace con Israele», ha esultato il capo della Casa Bianca. Subito l'annuncio di Netanyahu: «Cittadini di Israele, sono commosso di potervi dire che abbiamo raggiunto un altro accordo di pace con un altro Paese arabo, il Bahrein. Questo accordo si aggiunge alla storica pace con gli Emirati Arabi Uniti». Il presidente Usa ha anche pubblicato una dichiarazione congiunta su Twitter, in cui si legge che Trump, il re del Bahrein, Hamad bin Khalifa, e Netanyahu, hanno accettato di stabilire relazioni diplomatici tra i due Paesi. «E un traguardo storico verso una pace più forte in Medio Oriente. L'apertura di un dialogo diretto e relazioni tra società dinamiche ed economie avanzate contribuirà alla trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione», si legge in una nota. Lo Stato insulare del Bahrein, retto da una monarchia sunnita ma a maggioranza saudita, è un alleato di ferro degli Stati Uniti e dell'Arabia Saudita che lo sostengono anche in funzione di contenimento dell'Iran. Gli Stati Uniti hanno ringraziato il regno arabo per aver organizzato il forum economico del giugno 2019 a Manama «per promuovere la causa della pace, della dignità e delle opportunità economiche per il popolo palestinese». A questo proposito, la dichiarazione aggiunge che le parti continueranno i loro sforzi per «una soluzione giusta, completa e duratura del conflitto israelo-palestinese che consentirà al popolo palestinese di raggiungere il suo pieno potenziale». Ma, come accadde ad agosto, l'Autorità nazionale palestinese e Hamas, il movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza, hanno condannato l'intesa.
   «E' una pugnalata alle spalle della causa palestinese e del popolo palestinese», ha sottolineato il ministro palestinese per gli Affari sociali, Ahmad Majdalani, mentre Hamas ha denunciato una «aggressione» che causa «gravi danni» alla causa palestinese. Nella nota pubblicata da Trump, il presidente Usa ha aggiunto che Israele ha assicurato che «tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al Aqsa e che i luoghi santi di Gerusalemme rimarranno aperti a credenti pacifici di tutte le fedi». il Bahrein diventa il quarto Paese arabo a stabilire piene relazioni diplomatiche con Israele, dopo Emirati Arabi Uniti (l'accordo sarà firmato il 15 settembre alla Casa Bianca), Egitto (1979) e Giordania (1994).

(il Giornale, 12 settembre 2020)


Israele è il primo Paese al mondo a tornare al blocco totale (per le feste)

Superati i 4 mila casi al giorno per 48 ore di fila: è il numero più alto per milione di abitanti. L'opposizione attacca Bibi.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Riuniti a cena in famiglia per celebrare Rosh Hashana, il Capodanno ebraico. Il prossimo fine settimana avrebbe dovuto essere una festa per gli israeliani. Invece a tavola si ritroveranno seduti in pochi, chi fa parte del nucleo ristretto di parenti: da venerdì diventerà il primo Paese al mondo a imporre una seconda chiusura totale per cercare di rallentare l'epidemia. Il blocco di due settimane è stato definito dal gruppo di ministri che coordina la risposta all'emergenza sanitaria, deve ancora essere approvato domani dal resto del governo: coincide con le festività più importanti nel calendario ebraico, fino a Yom Kippur e Sukkot. Le scuole, i servizi e i trasporti pubblici, tutte le attività commerciali (esclusi supermercati e farmacie) si fermeranno, i ristoranti possono solo preparare piatti da portar via, gli spostamenti sono limitati a 500 metri dall'abitazione. Dopo questa fase ne sono previste altre tre con gradi diversi di limitazioni.
   Tutto ricomincia con la quarantena nazionale. Eppure a maggio sembrava che la crisi fosse sotto controllo, che la start-up nation avesse vinto anche questa guerra. Invece il virus ha infranto il mito della nazione tutta tecnologia e creatività: il numero di infettati ha superato i 4 mila al giorno per 48 ore di fila, i morti sono più di mille, oltre la metà da agosto in avanti. Ormai Israele registra il più alto numero di casi per milione di abitanti, è però uno dei Paesi che esegue più test (terzo al mondo).
   L'opposizione accusa il premier Netanyahu di aver malgestito la crisi, di aver avuto la testa immersa nel processo per corruzione. Anche la scelta di rinviare l'isolamento a settimana prossima è stata criticata: permette al primo ministro e capo della destra di viaggiare tra martedì e mercoledì a Washington per partecipare alla cerimonia di firma dell'accordo con gli Emirati Arabi, Netanyahu ha voluto evitare di trovarsi in volo mentre il resto degli israeliani resta bloccato a terra e in appartamento. Ia comunità più colpita resta quella degli ultraortodossi (16 per cento di positivi ai test), seguita dagli arabi israeliani (11 per cento), con gli altri al 6. Questi numeri avrebbero dovuto legittimare il piano preparato da Ronni Gamzu, che i giornali chiamano lo Zar del coronavirus: per settimane ha proposto di applicare il sistema a semaforo e di chiudere solo una quarantina di città rosse (le altre identificate come gialle e verdi) dove vivono in maggioranza haredim (i timorati di Dio) e arabi.
   È diventata una questione politica: i partiti ultraortodossi sono parte della coalizione al potere e hanno minacciato Netanyahu di fargli saltare il governo se avesse imposto una quarantena mirata alla comunità. Perché fin dall'inizio dell'epidemia i rabbini si sono ribellati a qualunque regola che limitasse lo studio nelle scuole religiose o gli assembramenti dei fedeli. Adesso proclamano di non voler ridurre il numero di partecipanti — anche 10mila — alle preghiere la sera di Rosh Hashana.
   Il virus ha esacerbato le divisioni tra quelle che lo scrittore Etgar Keret chiama le «tribù» israeliane: gli ultraortodossi temono di essere ghettizzati, allo stesso tempo si rifiutano di seguire le norme generali e ascoltano solo le indicazioni dei rabbini; gli abitanti di città come Tel Aviv non vogliono che le autorità religiose estendano la loro influenza sulla quotidianità laica.

(Corriere della Sera, 12 settembre 2020)


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Israele richiude per Covid. Ma tanti pensano di imitarlo

Lo Stato ebraico è il primo Paese a tornare al lockdown (però gli industriali sono contro Netanyahu). II virologo Fauci vuole imporre il blocco anche negli Stati Uniti.

di Carlo Nicolato

Israele sarà il primo Paese a tornare in lockdown per la seconda volta dall'inizio della pandemia di coronavirus. La decisione verrà probabilmente confermata domani dal governo che firmerà il piano in tre fasi messo a punto dal comitato scientifico. La prima fase di due settimane, a cavallo del Rosh haShanah (il Capodanno ebraico) e del digiuno di Kippur, prevede la chiusura delle scuole e il divieto per cittadini di allontanarsi dalle proprie case per più di 500 metri. Rimarranno aperti i negozi essenziali e le attività produttive più importanti. Nella fase due le scuole continueranno a rimanere chiuse, mentre sarà possibile riunire fino a 20 persone all'aperto e 10 all'interno. Si potrà tornare al lavoro ma gli spostamenti tra le città saranno ancora vietati. La terza fase invece si svilupperà a livello regionale, dipendendo dai contagi locali e dall'evoluzione della pandemia. Il piano ha già provocato la durissima reazione delle principali aziende che hanno avvertito il primo ministro Benjamin Netanyahu del rischio di un "coronavirus economico" più distruttivo di quello medico. Le misure però, fanno sapere dal governo, sono necessarie dopo che per quasi una settimana si sono registrati record su record di casi, fino ai 4429 contagi di giovedì (ieri 4038). Per la verità Israele ha cominciato a registrare una crescita costante a iniziare da luglio, con oltre mille casi al giorno, mentre a marzo ed aprile non si era mai andati oltre i 700 giornalieri. Lo stesso dicasi per i decessi, fino a fine aprile poco oltre i 200 in totale, mentre da luglio a oggi se ne contano più di 700, per una somma di 1077 attuali. In Israele dunque la prima ondata è stata molto più blanda di quanto non sia attualmente la seconda.

 Il calo negli Usa
  Negli Usa invece la curva dei contagi è da qualche settimana in calo, si è passati dai 70mila casi giornalieri di luglio ai 38mila registrati il 10 settembre, tanto che il presidente Trump si è azzardato a dire che il Paese sta uscendo dal tunnel. Secondo il virologo Anthony Fauci però i numeri sono ancora troppo alti e con l'arrivo dell'autunno sarebbe il caso di chiudere ancora. A meno di accelerazioni inaspettate sarà molto difficile se non impossibile che Trump accetti un altro lockdown, ma non è detto che ciò possa accadere tra poco più di un mese e mezzo dopo le elezioni, a seconda dei risultati. Per tutti comunque una seconda chiusura prolungata sarebbe una catastrofe da un punto di vista economico e sociale e per questo, nonostante i numeri dei contagi in forte crescita, almeno in Europa si sta pensando a piccole chiusure, a misure ponderate a seconda delle zone e della situazione. La Francia sta registrando contagi che sfiorano le 10mila unità giornaliere e anche se come ha detto il presidente del Comitato scientifico Delfraissy «l'aumento della circolazione del virus ha scarso impatto attuale sul sistema sanitario», le cifre sono però tali che «ci può essere un aumento molto rapido ed esponenziale in una seconda fase».

 La Francia frena
  Per questo Macron aveva lasciato capire che qualcosa di simile a un nuovo lockdown fosse in arrivo, ma ieri il premier Jean Castex ha invece riferito che i francesi devono imparare a convivere con il virus «senza entrare di nuovo in una logica di contenimento generalizzato». Richiamando il popolo al "senso di responsabilità individuale" Castex ha annunciato che molte delle misure di contenimento verranno demandate alle autorità locali, le quali in funzione della situazione specifica avranno per esempio il potere di chiudere le aziende interessate o cambiarne l'orario di apertura. Il premier ha comunque confermato la riduzione per la quarantena dei positivi a 7 giorni. Situazione simile in Gran Bretagna, dove comunque la crescita dei contagi è minore, 3mila circa giornalieri (3539 casi ieri, con 6 morti), a fronte di numeri record di tamponi (175mila giovedì). Boris Johnson si è limitato per ora a una stretta sugli assembramenti che non possono superare le sei persone, in pubblico e in privato, con minaccia di provvedimenti di polizia per i trasgressori. Ma anche qui, come in Francia, è stata lasciata ampia autonomia di azione a livello regionale, tanto che ieri il consiglio comunale di Birmingham, seconda città del Regno, ha deciso che «a partire da martedì 15 settembre, i residenti della città non potranno più socializzare con altre famiglie, al chiuso o nei giardini privati». "Smart lockdown" in vista per l'Olanda che ancora ieri, con 1270 casi registrati, ha confermato il trend in crescita. Numeri simili a quelli italiani ma con una popolazione di un quarto rispetto alla nostra. In attesa di conoscere i particolari "smart" del nuovo stop olandese, arrivano invece le misure di contenimento annunciate dal cancelliere Sebastian Kurz in Austria: da lunedì saranno nuovamente obbligatorie le mascherine in tutti i negozi e nei luoghi pubblici chiusi e il numero di spettatori ammessi a spettacoli o eventi sportivi sarà ridotto a 1.500 al coperto e 3.000 all'aperto. Niente birra al bancone, bisognerà sedersi al tavolo.

(Libero, 12 settembre 2020)


Stoudemire con Bibbia e canestri trascina gli israeliani del Maccabi

di Adam Smulevich

Amar'e Stoudemire
A quasi 38 anni Amar'e Stoudemire, uno dei più grandi cestisti del ventunesimo secolo, continua a sorprendere. Per sei volte All Star e per due volte nel miglior quintetto stagionale della Nba, il "lungo" originario di Lake Wales, Florida, ha da poco trascinato gli israeliani del Maccabi Tel Aviv al terzo titolo nazionale consecutivo (il 54esimo nella storia di questo glorioso club, più volte vincitore anche in Eurolega).
   Quando infiammava i palazzetti d'America era conosciuto come "Stat", acronimo che stava per "Standing Tall And Talented". Da qualche giorno, negli ambienti ebraico ortodossi, è per tutti non Amar'e e neanche Stat ma Yahoshafat Ben Avraham. Il nuovo nome che ha assunto da quando è stata ufficialmente annunciata la sua conversione all'ebraismo (l'ha fatto lui stesso, con un post su Instagram). Per raggiungere questo obiettivo l'ex stella di Phoenix Suns e New York Knicks ha dovuto non solo studiare giorno e notte, ma anche cambiare in modo radicale il proprio stile di vita. Adattandosi cioè ad agire nel pieno rispetto delle regole etico-comportamentali che questo popolo si trasmette da millenni. Dall'alimentazione kasher al rispetto delle solennità festive, dall'osservanza dello Shabbat a quella delle 613 "mitzvot", i precetti che scandiscono non solo la quotidianità ma l'intera esistenza ebraica.
   Per Amar'e/Yahoshafat un percorso iniziato due anni fa, anche se era da un po' che ci stava pensando. Almeno dal 2010, quando per la prima volta raccontò ai media di possibili origini ebraiche della madre. Sull'onda di quella suggestione Stoudemire scelse di recarsi una prima volta in visita a Gerusalemme. E poi di tornarci più volte, decidendo persino di investire nel basket locale (nel 2013 è a capo di una cordata che acquista la squadra capitolina del Beitar). Tra le nuove amicizie che nascono in quel periodo quella con l'allora Capo di Stato israeliano, il Premio Nobel per la pace Shimon Peres, grande appassionato di sport.
   Stoudemire non smette di fare quello che sa far meglio: andare e far andare gli altri a canestro. Ma comincia a interessarsi anche ad altro, di più profondo. Alla scoperta/riscoperta di quelle radici che sono poi la radice stessa dell'umanità. Legge, studia, si confronta con alcuni rabbini disposti ad appagare le sue molte curiosità. Resta affascinato da un mondo che non è più solo suggestione ma incontro reale e stimolante con temi vivi. Agli allenamenti alterna così ore trascorse sulla Torah, sul Talmud, sui commentari biblici. Solo allora matura una scelta più consapevole e determinata.
   In carriera ha affrontato situazioni ad altissimo livello di pathos e adrenalina. Ma il momento più emozionante della sua vita, raccontano, è stato poco più di una settimana fa. Quando, cioè, si è presentato davanti al Beth Din, il tribunale rabbinico incaricato di valutare la sua candidatura. E quando soprattutto, al termine dell'esame, si è sentito dire: "Benvenuto nel popolo d'Israele".

(Avvenire, 12 settembre 2020)


In occasione deli'anniversario della Breccia di Porta Pia

Riceviamo da Emanuel Segre Amar e volentieri pubblichiamo

Mi permetto di segnalare a chi fosse interessato il convegno che si terrà a Saluzzo domenica 13 alle ore 16.30 italiane nel quale, in occasione del 150esimo della Breccia di Porta Pia, si parlerà non solo di Giacomo Segre, ma anche del ruolo di tanti italiani di religione ebraica dal Risorgimento alla I guerra mondiale.
La storia che Giacomo Segre avrebbe sparato il primo colpo è falsa come verrà dimostrato.
Si parlerà anche del figlio di Giacomo, il generale Roberto, figura straordinaria che visse una specie di vicenda Dreyfus in Italia. E anche del nipote di Roberto, Dan, morto il 5 giugno 1967 nel cielo nei pressi di Damasco, mentre comandava uno stormo di aerei israeliani.
Chi lo desidera potrà seguire in diretta su YouTube
Infine domenica 20 settembre verrà inaugurata la lapide in via Nomentana 33 a Roma in memoria di Giacomo Segre. Purtroppo essendo moed le istituzioni ebraiche non potranno essere presenti. Io sarò quindi presente solo a titolo personale. Il ministro della difesa non ha ancora confermato la propria presenza. La sindaco di Roma sarà rappresentata.
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 12 settembre 2020)


Addio a Roberto Finzi, storico dell'antisemitismo

Aveva 79 anni. Con "Cosa hanno mai fatto gli ebrei?" ha raccontato ai ragazzi le origini della Shoah

di Ilaria Zaffino

Il suo ultimo libro è un curioso e appassionante dialogo tra nonno e nipote che si interrogano su Cosa hanno mai fatto gli ebrei? (questo ll titolo), uscito per Einaudi Ragazzi l'anno scorso. Proprio per rispondere alla domanda della nipote Sofia che chiede al nonno, grande studioso e autore di libri e articoli, in Italia e all'estero, «per quale motivo in tanti li odiassero a tal punto da permettere che fossero perseguitati», questo libriccino guida in poco più di 150 pagine la ragazzina — e con lei tutti noi — in un viaggio attraverso la Storia per capire l'origine e il significato dell'antisemitismo e di un odio tanto antico e mai sopito. SI perché Roberto Finzi, scomparso a Bologna a 79 anni — a dame la notizia proprio la nipote Sofia — negli ultimi decenni si è occupato soprattutto di persecuzione contro gli ebrei in Italia e di "questione antisemita": non ebraica, la «questione ebraica non esiste, sono gli antisemiti che l'hanno creata», sostiene nel suo saggio più recente che si intitola Breve storia della questione antisemita, pubblicato da Bompiani sempre nel 2019.
   Non solo antisemitismo, però. Nella sua lunga carriera è stato anche insegnante, alle scuole medie e superiori prima e all'università poi, dove ha tenuto le cattedre di Storia economica, Storia del pensiero economico e Storia sociale tra gli atenei di Bologna, Ferrara e Trieste.
   Nato a Sansepolcro (Arezzo) nel 1941, Roberto Finzi ha spaziato dalla storia dell'agricoltura e delle condizioni di vita nelle campagne tra il XVII e il XX secolo alla storia del pensiero economico — in particolare nel Settecento e del movimento socialista. Ed è stato uno studioso attento anche dei pregiudizi e delle discriminazioni. Per esempio, nei confronti delle donne. Come denuncia nel saggio Il maschio sgomento. Una postilla sulla questione femminile (Bompiani, 2018). Oltre che in Italia, dove i suoi lavori sono stati pubblicati da alcune tra le maggiori case editrici e apparsi in numerose riviste, Finzi è stato tradotto molto anche all'estero: negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia, Spagna, sino all'Argentina, il Brasile, la Cina o il Giappone. E' stato inoltre tra i fondatori dei periodici Storia del pensiero economico e Passato e presente, la rivista di storia contemporanea che, da quando è nata agli inizi degli anni '80, ha cambiato più volte pelle ed editore.

(la Repubblica, 12 settembre 2020)


Israele è orientata a imporre un nuovo lockdown in tutto il Paese dal prossimo 18 settembre

di Giuseppe Ballerini

In Israele l'andamento del contagio da coronavirus sta progressivamente peggiorando, tanto che i dati attuali sono nettamente peggiori rispetto a quelli della scorsa primavera, con nuovi record giornalieri sia per quanto riguarda il numero di nuovi casi, sia per quanto riguardo il numero di nuovi decessi.
  Attualmente, in Israele sono oltre 146mila le persone risultate contagiate dal coronavirus e 1.086 quelle decedute a causa della Covid-19, con 34.731 persone che ad oggi risultano positive al virus.
  Grave la situazione del contagio anche a Gaza e in Cisgiordania, dove il numero complessivo di contagiati finora è stato finora di quasi 30mila, con 224 decessi. Inoltre, le persone attualmente positive sono 10.080 in Cisgiordania e 1.427 a Gaza.
  Numeri che paragonati a quelli della scorsa primavera illustrano una situazione che, oggettivamente, pare essere fuori controllo. Nel solo Stato di Israele, il numero di nuovi casi nelle ultime 24 ore è stato di 4.429 su una popolazione che non raggiunge i 9 milioni.
  Dati che dimostrano quanto seria sia la situazione in quell'area in relazione alla pandemia. Inoltre, ai dati sopra riportati, è da aggiungere che il numero di persone ricoverate è aumentato, tanto da mettere a rischio la sostenibilità del sistema sanitario, a partire dalle terapie intensive dove il numero di malati è intorno ai 150, mentre solo nelle ultime 24 ore circa 1.500 persone hanno avuto necessità di ricorrere alle cure ospedaliere.
  Quella in Israele è una situazione grave a cui il Governo Netanyahu ha ritenuto di dover rispondere con un nuovo lockdown a livello nazionale, a partire dal 18 settembre. Almeno questo è quanto è stato proposto dall'esecutivo. La decisione definitiva sarà presa domenica.
  Nelle intenzioni del Governo si prevede un periodo di isolamento di due settimane con una limitazione degli spostamenti, la chiusura di bar, ristoranti e attività non indispensabili...
  La percentuale di positivi tra gli israeliani ultraortodossi negli ultimi giorni è stata del 16%, tra gli arabi israeliani dell'11%, mentre del 6% nel resto della popolazione di appena il 6%.
  Il coordinatore nazionale della lotta contro il coronavirus nominato poco tempo fa da Netanyahu, il prof. Ronni Gamzu, aveva suggerito di imporre delle zone rosse limitate alle località dove il contagio da coronavirus è maggiore. Ma gli ultraortodossi non hanno gradito l'ipotesi, minacciando una ritorsione nei confronti di Netanyahu al prossimo appuntamento elettorale, così il premier israeliano ha annunciato di voler chiudere, di nuovo, tutto il Paese.
  La decisione finale e le modalità le conosceremo alla fine di questa settimana.

(Fai informazione, 11 settembre 2020)


Palestina, volano parole grosse alla Lega araba

II Bahrain dice no alla risoluzione di condanna chiesta dall'Anp. «Siamo sorpresi»

di Michele Giorgio

 
GERUSALEMME - Invitati, con ogni probabilità, dall'Autorità nazionale a non calcare la mano, i tre giornali nei Territori occupati - Al Quds, Al Ayyam e Al Hayat Al Jadida - ieri titolavano con moderazione sulla batosta subita mercoledì dalla causa palestinese alla riunione dei ministri degli esteri della Lega araba.
   Più che la clamorosa bocciatura della risoluzione di condanna della normalizzazione dei rapporti tra Emirati arabi e Israele avanzata dal ministro degli Esteri dell'Anp Riad al Malld, i tre quotidiani hanno scelto di evidenziare i pochi aspetti positivi di una giornata che avrà riflessi importanti: il no dalla Lega araba ai piani di annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania e l'appoggio confermato dal consesso arabo al piano saudita del 2002 che condiziona la normalizzazione con Israele al suo ritiro dai territori arabi e palestinesi che occupa dal 1967. Ma non è bastato per nascondere sotto al tappeto quanto è accaduto mercoledì, peraltro ampiamente commentato e condannato dai cittadini palestinesi sui social.
   I retroscena emersi sulle fasi che hanno preceduto il meeting parlano di scontro aperto tra i palestinesi e alcuni dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) che riunisce le sei petromonarchie sunnite.
   «L'Oman e il Bahrain hanno stretto i ranghi con gli Emirati e hanno fatto forti pressioni su Riad al Malli, sono volate parole grosse. Anche loro intendono normalizzare al più presto le relazioni con Israele e vedono come un ostacolo i diritti dei palestinesi e l'iniziativa saudita del 2002», ci spiegava ieri un giornalista palestinese con buoni contatti ai vertici dell'Anp. Circostanze confermate indirettamente dallo stesso Al Malli.
   «Siamo rimasti sorpresi che un Paese arabo si sia opposto alla nostra richiesta. Lo Stato di Palestina si è spinto troppo oltre nel chiedere di tenere una riunione di emergenza?» ha detto il ministro degli Esteri palestinese riferendosi con ogni probabilità al Bahrain, indicato come il più disposto a seguire le orme degli Emirati. L'8 settembre il giornale AI Quds Al Arabi - di proprietà del Qatar da anni in rotta con Arabia saudita ed Emirati - aveva scritto di una «guerra nascosta» ai palestinesi scatenata da «chi cercava di salire sul carro degli Emirati». Il Segretario generale del Ccg, Nayef al-Hajraf, avrebbe usato parole di fuoco, intimando ai palestinesi di scusarsi con le monarchie del Golfo pronte a normalizzare le relazioni con Israele.
   Indiscrezioni e rivelazioni a parte, quanto è accaduto mercoledì - a pochi giorni dal 15 settembre in cui alla Casa Bianca Israele ed Emirati firmeranno l'accordo di pace - è la rappresentazione corretta di quel mondo arabo diviso di cui parla spesso con palese soddisfazione il premier israeliano Netanyahu. Più di tutto completa l'isolamento dei palestinesi, che non riescono più a tenere compatti gli arabi dietro al principio della pace in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati.

(il manifesto, 11 settembre 2020)


Accordo Israele-Emirati: un rovesciamento di paradigma

Nessuna meraviglia che gli odiatori di Israele siano furibondi. La loro grande menzogna sta franando: il terribile stato sionista si sta rivelando fonte di soluzioni e speranze, non di odio e disgrazie

Coloro che odiano Israele non devono essere molto allegri, di questi tempi. Tutt'a un tratto, va svanendo la grande menzogna che ha nutrito il loro veleno anti-sionista per così tanto tempo. Per più di mezzo secolo i geni della diplomazia hanno continuato a dire al mondo che "la chiave per la pace in Medio Oriente è risolvere il conflitto israelo-palestinese". Il corollario, molto conveniente, era che la soluzione di ogni guaio mediorientale ricadeva tutta sulle spalle di Israele, il che manteneva costantemente lo stato ebraico nel mirino della condanna globale.
Questo brillante stratagemma cercava di mascherare la semplice verità che i mali più profondi del Medio Oriente non hanno assolutamente nulla a che fare con Israele o il conflitto palestinese. Vediamone solo alcuni: secoli di conflitti tra musulmani sciiti e sunniti, feroci dittature che hanno portato disperazione e miseria generale, un regime iraniano predatorio che persegue il dominio sulla regione, sanguinose guerre civili in Libano Siria e Yemen, ascesa di gruppi terroristici come al-Qaeda e Isis, colossale carenza di garanzie e libertà civili con regolare persecuzione delle voci dissidenti...

(israele.net, 10 settembre 2020)


Sveglia Ue: Erdogan è una minaccia globale. Parla Nirenstein

Conversazione di Mondogreco.net con la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein: vi racconto il pericolo di Erdogan per Grecia e Cipro, e la tragedia guerrafondaia dell'Iran.

di Francesco De Palo

Fiamma Nirenstein
Secondo la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, tra le altre cose membro del Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa), già vicepresidente della commissione per gli affari esteri della Camera dei Deputati per la XVI legislatura (sino a marzo 2013), è giunto il momento che l'Europa guardi meglio alle mosse turche, intrise di violenza e prevaricazione: l'invasione della Siria, la penetrazione in Libia, le provocazioni contro Grecia e Cipro. Per cui la nuova cooperazione militare (ma non solo) tra Israele, Grecia e Cipro si pone come punto di caduta di una più ampia strategia che investe l'intera macro regione euromediterranea, ma che va letta anche alla luce del nuovo accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, che verrà siglato martedì prossimo a Washington. "Stiamo attenti a questa cultura neo-ottomana che disprezza gli europei".

- Atene, Tel Aviv e Nicosia uniscono le Forze Armate conducendo esercitazioni congiunte e attività operative in un momento di fortissime tensioni geopolitiche causate dalla Turchia. E' nata una nuova visione comune contro le policies di Erdogan?
  Penso di sì, è una strategia molto larga che comprende anche l'importantissima pace che verrà siglata martedì prossimo a Washington tra Emirati e Israele. Da una parte abbiamo la tendenza a creare una nuova situazione progressiva di pace, di rapporti rinnovati e diversificati rispetto al passato. Dall'altra invece c'è un fronte che non esito a definire guerrafondaio, formato da Iran e Turchia: è chiaro che Israele in questo suo rapporto mediterraneo con Grecia, Egitto e Cipro svolge un ruolo primario, contro la strada di una guerra al mese intrapresa da Ankara e Teheran. Turchia e Iran, tramite i relativi fiancheggiatori, agiscono solo per fini agitatori. E' contro questa deriva che agisce un orizzonte impegnato in collaborazione, pace e nuove relazioni che porteranno ad un futuro migliore per l'intera area. Si tratta di uno scontro verticale fra due blocchi.

- L'accordo di pace degli Emirati Arabi Uniti con Israele può essere visto anche alla luce dell'ultra-espansionismo turco nel Mediterraneo orientale?
  Non c'è dubbio. Sono sicura del fatto che i paesi sunniti moderati hanno come nemico l'universo sciita guidato dall'Iran con il suo proxy più pericoloso rappresentato da Hezbollah, senza dimenticare il ruolo di Qatar e Hamas nella Fratellanza Musulmana che preoccupano enormemente gli Emirati. Non va dimenticato come il Qatar sia stato oggetto di una vera e propria messa fuori legge da parte di questi paesi: quindi all'interno di questo fronte sunnita c'è una forte spaccatura. E' di pochi giorni fa la visita di una delegazione di Hamas prima da Erdogan e dopo a Beirut: non importa che il primo sia convintamente della Fratellanza Musulmana. Il tutto va letto sapendo che il piano di pace di Trump ha fatto saltare i grandi nemici dell'occidente, ovvero iraniani e turchi. Osservo che la Lega Araba ieri si è rifiutata di condannare l'accordo di pace, come da richiesta dei palestinesi: per cui siamo in presenza di una situazione molto promettente creata dalla Casa Bianca. Non a caso Trump è stato proposto per il Nobel, che invece fu dato gratuitamente a Obama, il quale fu il vero protagonista non solo dell'arrampicata iraniana verso la bomba atomica ma anche della tragedia siriana. Non credo che Trump potrà vincerlo, per come è costruito oggi quel premio. Io però glielo darei senz'altro.

- La forte relazione sul gasdotto Eastmed tra Tel Aviv, Atene, Nicosia e Il Cairo come impatta sulla presenza turca in Libia e con l'imbarazzo della Nato?
  La Turchia è ovviamente un attore significativo in questa fase, soprattutto per le sue mosse scomposte, ma in cima alle preoccupazioni dei paesi arabi resta l'Iran perché ha investito moltissime energie nel prevedere la costruzione della bomba: sono state infatti rimesse in moto le centrifughe. Erdogan mette a rischio l'equilibrio mediorientale e mediterraneo.

- Come giudica la reazione europea?
  Se c'è una cosa spiacevole in tale vicenda è che l'Ue a fronte di questa storica occasione rappresentata dall'accordo tra Israele e gli Emirati, a cui seguiranno anche Barhain e Sudan, non è riuscita a dire nemmeno un bravo a chi ha ispirato quell'accordo. Dove sono le pulsioni europeiste verso la pace? Qualcuno vuole continuare a inseguire la guerra terroristica che per anni hanno fatto i palestinesi, nonostante Israele abbia avanzato svariate offerte di pace? L'ennesima beffa di questo finto pacifismo si ritrova nel fatto che Serbia e Kosovo vogliono portare le rispettive ambasciate a Gerusalemme, ma l'Ue le minaccia di tenerle fuori dall'allargamento degli stati membri.

- Dal possibile ingresso nell'Ue alla profondità strategica neo-ottomana: come è cambiata la politica di Erdogan?
  Non solo Trump, ma tutto il mondo si era illuso sulla possibilità di recuperare Erdogan in un discorso che lo portasse all'interno di un dialogo con il mondo occidentale. Stiamo parlando di un grande paese islamico che ha attraversato un periodo di forte occidentalizzazione, per cui era naturale che si valutasse il suo desiderio di essere ammessa nell'Ue. Il fatto che la Turchia sia un membro della Nato rappresenta però al momento un problema di non piccola dimensione: dal 2016 Erdogan persegue tutti i suoi dissidenti, mette in galera i giornalisti, ha invaso la Siria, ha messo in fuga 160mila curdi, è penetrato in Libia, ricatta l'Europa sui migranti, ordina altri S-400 dalla Russia, trasforma Aghia Sophia in moschea e adesso punta a Kastellorizo. Insomma, un'aggressione continua. Ricordo una frase del ministro degli esteri turco Cavosoglu: "Gli europei sono bambini razzisti e viziati, che devono sapere quale è il loro posto". Stiamo attenti a questa cultura neo-ottomana che disprezza gli europei.

(Mondogreco, 11 settembre 2020)


Daimler Buses conclude un ordine di 415 autobus in Israele

 
Daimler Buses ha ricevuto uno dei suoi più grandi ordini di sempre. In particolare, la divisione autobus di Daimler Truck AG ha presentato un'offerta di successo per una grossa gara d'appalto in Israele e si è aggiudicata l'ordine per un totale di 415 autobus urbani e interurbani.
   I veicoli andranno a Egged, la più grande compagnia di autobus privata presente in Israele. Oltre a questo, l'ordine è il risultato di una proficua collaborazione tra Daimler Buses e Colmobil che è responsabile sia della vendita che dell'assistenza degli autobus Mercedes.
Till Oberwörder, responsabile di Daimler Buses, ha dichiarato: ""Siamo lieti che Egged abbia scelto gli autobus urbani e interurbani del marchio Mercedes-Benz per il loro alto livello di affidabilità e l'ottimo chilometraggio. L'ordine dei 415 autobus è una delle più grandi nella storia della nostra azienda. Inoltre è la prima volta in oltre 15 anni che Daimler Buses vince la gara nel segmento altamente competitivo degli autobus urbani in Israele".
   Il grosso ordine comprende 156 unità del telaio interurbano OC 500 RF 1939 e 259 del telaio urbano OC 500 LE 1830. Gli autobus urbani sono modelli con ingresso ribassato che permettono ai passeggeri di salire a bordo più facilmente.
   I telai vengono prodotti nello stabilimento di Daimler Buses presente a Sàmano (in Spagna) mentre le carrozzerie saranno montate in loco in quanto prodotte dai costruttori israeliani Haargaz e Merkavim. Tutti i veicoli saranno consegnati quest'anno ed entro la fine del prossimo.

(Mbenz.it, 11 settembre 2020)


Hezbollah e Iran non dimenticano: continua lo stato di allerta nel nord Israele

Hassan Nasrallah vuole la sua vendetta anche contro il parere iraniano e a costo di scatenare una guerra con Israele

di Sarah G. Frankl

Più di un mese e mezzo di massima allerta nel nord Israele. I media e la popolazione, sopraffatti da una enorme mole di notizie diverse, se ne dimenticano ma i militari, gli ufficiali, i membri della intelligence israeliana sanno che prima o poi la vendetta di Hezbollah per l'uccisione di un importante agente avvenuta a luglio a Damasco e attribuita a Israele, arriverà.
   Anzi, a dire il vero ci hanno già provato almeno due volte. La prima quando Hezbollah ha inviato tre combattenti oltre il confine per aprire il fuoco su un avamposto ad Har Dov (Shaba Farms), Israele ha lanciato un "attacco di avvertimento" aereo, quindi gli intrusi si sono affrettati a tornare oltre il confine. La seconda quando alcuni cecchini hanno preso di mira un gruppo dell'intelligence israeliana vicino al kibbutz di Manara, anche in quel caso messi in fuga dalla reazione dei militari di Gerusalemme.
   Ma il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, vuole la sua vendetta a costo di scatenare una guerra. Vuole uccidere almeno un soldato israeliano prima di ordinare il ritorno alla calma al confine tra Libano e Israele.
In un breve discorso via radio tenuto ieri Nasrallah ha negato che gli israeliani avessero sventato i due tentativi di vendetta. Tuttavia si è detto molto felice del fatto che lungo il confine i militari di Gerusalemme siano costretti a vivere in costante allerta.
   Ed effettivamente la vita dei militari israeliani lungo il confine nord non è affatto facile. Costantemente in stato di allerta e senza un attimo di respiro.
   Secondo un noto giornale israeliano l'Iran avrebbe vivamente sconsigliato a Nasrallah di andare verso una escalation con Israele, ma sembra che il leader di Hezbollah non voglia sentire ragioni e ha ricordato agli alleati iraniani che anche loro stanno tramando la loro tremenda vendetta contro gli Stati Uniti per l'uccisione di Qassem Soleimani. Iran ed Hezbollah non dimenticano.

(Rights Reporter, 11 settembre 2020)



Milioni dall'Europa all'Ong accusata di aiutare terroristi e odiare gli ebrei

I responsabili di Islamic Relief si sono dimessi in massa dopo i post antisemiti dei dirigenti svelati dal «Times». Più volte sospettata di legami con i fanatici, ha ricevuto fondi per anni.

di Francesco Borgonovo

 
Islamic Relief Worldwide è una delle Organizzazioni non governative più grandi e potenti del mondo, di sicuro la più famosa tra quelle di orientamento musulmano. Ha sede a Birmingham, nel Regno Unito, e ha aperto succursali in 40 Stati. È molto influente a livello sovranazionale, è nota ad esempio la sua azione di lobbying alle Nazioni Unite. Soprattutto, può contare su un notevole patrimonio. Nel solo 2018, per dire, ha ricevuto fondi per la bellezza di 140.657.648,74 euro. Nelle ultime settimane, tuttavia, Islamic Relief ha avuto vari problemi non del tutto irrilevanti. I guai sono cominciati alla fine di luglio, quando Heshmat Khalifa, membro del consiglio di amministrazione e presidente della Ong, ha dovuto dare le dimissioni. La stampa inglese ha scoperto che, sui suoi profili social, aveva pubblicato alcuni post diciamo... poco edificanti. In uno di questi definiva il presidente egiziano Al Sisi un «magnaccia sionista». E ancora un «magnaccia figlio di ebrei» e un «criminale sionista». Giusto per non farsi mancare niente, il simpatico Khalifa ha pensato bene di chiarire le sue posizioni riguardo al popolo ebraico. Sempre nei post sui social ha definito gli ebrei «nipoti di scimmie e maiali».
   Come facile immaginare, dalle rivelazioni mediatiche è scaturito uno scandalo, e Khalifa ha dovuto lasciare l'incarico, che occupava con soddisfazione da parecchio tempo, precisamente dal 1999. Subito dopo, Naser Haghamed, il chief executive di Islamic Relief, si è molto scusato pubblicamente per le orrende uscite del suo collega, e ha promesso che si sarebbe dato da fare affinché cose del genere non avvenissero mai più. Purtroppo, non gli è andata molto bene. A distanza di un mese quasi esatto, un'altra ondata di vergogna si è abbattuta sulla Ong islamica.
   Al posto di Khalifa, nel board dell'organizzazione umanitaria è entrato Almoutaz Tayara. Piccolo problema: costui condivide con il suo predecessore il vizio di pubblicare commenti antisemiti sui social network. Il Times ha scoperto che Tayara ha postato sulla Rete vignette antisemite ed elogi ad Hamas. Inoltre «ha glorificato gli attacchi terroristici contro Israele e condiviso una immagine in cui l'ex presidente americano Barack Obama appariva in abiti marchiati con la Stella di David». Questi delicati commenti risalivano al 2014 e al 2015, anni in cui Tayara era al vertice della filiale tedesca di Islamic Relief.
   In questo caso, tuttavia, le scuse e le promesse non sono bastate. Dopo l'ennesima rivelazione, l'intero board di Islamic Relief Worldwide ha dovuto rassegnare le dimissioni, trascinando l'Ong in un polverone senza pari. In realtà che le posizioni dei capoccia di Islamic Relief nei confronti di Israele e degli ebrei non fossero proprio delle migliori era noto. Nel corso degli anni, la Ong è stata ripetutamente accusata di avere legami con l'estremismo islamico. Nel 2014, Israele l'ha dichiarata illegale sulla base di rapporti di intelligence che parlavano di finanziamenti ad Hamas. Nel gennaio 2016, la banca britannica Hsbc ha annunciato che avrebbe rotto ogni rapporto con l'associazione, preoccupata dal fatto «che il denaro per gli aiuti potesse finire a gruppi terroristici all'estero». Per motivi simili la banca americana Usb, nel 2012, ha chiuso il conto di Islamic Relief. Nel 2016, invece, sono stati ricercatori svedesi ad accusare l'Ong di avere rapporti molto stretti con la Fratellanza musulmana. Nel 2014, addirittura, gli Emirati Arabi hanno inserito Islamic Relief in una lista nera di organizzazioni legate al terrorismo.
   Ovviamente Islamic Relief ha sempre respinto ogni accusa. Resta che, anche alla luce dei recenti avvenimenti, l'associazione si può considerare parecchio discussa. Tutto questo, però, non sembra avere molto preoccupato l'Unione Europea che - come mostra l'elenco di cui pubblichiamo oggi la seconda parte - tra il 2015 e il 2018 ha ripetutamente finanziato l'Ong, per altro senza sapere esattamente per quali scopi utilizzasse il denaro ricevuto. Nel 2015 Islamic Relief ha ottenuto 1.100.000 euro di denari provenienti dalle casse europee. Nel 2016 altri 912.263 euro. Nel 2017 ancora più soldi: 1.800.000 euro e poi altri 400.000 e altri 100.000 ancora da fondi diversi. Davvero interessante: mentre sui «benefattori» islamici piovevano accuse pesantissime, l'Ue continuava a sganciare, e non si preoccupava nemmeno troppo di sapere dove sarebbero andati a finire i suoi denari. Chissà se ora, dopo l'ultima esibizione di antisemitismo, a Bruxelles cambieranno idea.

(La Verità, 11 settembre 2020)


Israele-Emirati: l'accordo di pace con Abu Dhabi può essere un ponte verso l'Asia

GERUSALEMME - Una delle sfide che impediscono alle compagnie israeliane di raggiungere l'Asia orientale è che "non possono volare sopra l'Arabia Saudita e tutti i paesi del Golfo", ma l'accordo fra Israele ed Emirati e la conseguente apertura dello spazio aereo da parte di Riad e del Bahrein potrebbero avere "un impatto importante sui collegamenti di Israele con il mondo, inclusa l'Asia". Lo ha dichiarato Edouard Cukierman, investitore franco-israeliano, secondo il quotidiano finanziario "Nikkei Asian Review". "Ora", prosegue Cukierman, "gli israeliani saranno in grado di prendere più spesso rotte dirette, raggiungendo più rapidamente l'Asia".
   D'altra parte, se le compagnie aeree emiratine Etihad ed Emirates cominceranno a volare a Tel Aviv, sarà anche più semplice per gli uomini d'affari asiatici raggiungere Israele, Europa e Turchia e "questo è un grande vantaggio", secondo l'investitore. "Singapore è diventata una solida base per lo sviluppo delle attività israeliane in tutta l'Asia", ha aggiunto Cukierman, sottolineando che gli Emirati potranno svolgere un ruolo simile e agevolare l'ingresso delle imprese israeliane in altri paesi asiatici. "Siamo molto attivi in Cina ma non siamo attivi in India", ha ricordato l'investitore. Poiché la Cina, che pure ha coinvolto sia gli Emirati sia Israele nel progetto della nuova Via della Seta, sembra al contempo stringere rapporti più solidi con l'Iran, alcuni osservatori hanno ritenuto che gli Stati Uniti abbiano fatto da mediatori fra Abu Dhabi e Tel Aviv per indebolire l'influenza di Pechino. Cukierman non condivide questa lettura: "Israele è parte dell'iniziativa cinese, e se permettiamo ai cinesi di andare in Israele grazie al sostegno dei paesi confinanti questa è una svolta per noi e per gli sviluppi delle relazioni con la Cina".
   Altri investitori dello Stato ebraico elogiano le potenzialità dell'accordo per l'economia di entrambi i paesi. Secondo l'imprenditore Eldad Tamir la complementarità fra i due Stati è "praticamente perfetta", perché Israele "è povero di risorse naturali e ricco di alta tecnologia e biotecnologie, ma l'innovazione richiede di investire sempre più denaro in ricerca e sviluppo e i centri tech israeliani richiedono nuovi investitori per continuare a svilupparsi", mentre gli Emirati "vogliono migliorare la propria economia oltre il petrolio, diversificare le esportazioni e progredire nell'era digitale".

(Agenzia Nova, 10 settembre 2020)


Il coprifuoco «limitato» ha riportato le vecchie paure in Israele

Prima notte di blocco in 40 località. Interessate soprattutto le aree arabe e degli ebrei ultraortodossi. Netayahu respinge le critiche: «La priorità è fermare le infezioni, poi scenderanno».

di Fiammetta Martegani

L'altra sera è calato un insolito silenzio a Nazareth, a Bnei Brak - la cittadina con prevalenza di ortodossi vicino a Tel Aviv- e a Gerusalemme, in molti quartieri. Il coprifuoco notturno in 40 località israeliane considerate "zona rossa" a causa dell'elevato tasso di contagio al Covid-19 era appena stato annunciato.
   Era atteso. Lo stesso, quella calma si è allungata come un'ombra di paura sul Paese che durante i primi mesi della pandemia era diventato il simbolo mondiale nella lotta al virus e che questa settimana si è ritrovato al primo posto nel mondo per il rapporto tra numeri di contagi e popolazione. Nella sola giornata di lunedì sono stati registrati oltre 3.400 casi. Che portano il totale da inizio epidemia oltre quota 139mila. I decessi sono di poco oltre i mille. La ragione di questo incremento esponenziale è stata attribuita, soprattutto, alla tendenza, tipica degli ebrei ultraortodossi e degli arabi, di aggregarsi per pregare, per celebrare matrimoni e funerali, superando di gran lunga i numeri previsti dalle restrizioni.
   Il coprifuoco, infatti, interessa soprattutto aree in cui sono insediate le due comunità. La fascia oraria scelta (dalle 19 alle 5 del mattino successivo) è proprio quella in cui abitualmente famiglie e amici si riuniscono per celebrare le feste: stanno per iniziare quelle legate al Capodanno ebraico. Mentre l'alba e il tramonto sono due dei principali momenti di raccolta per i musulmani. Le nuove misure straordinarie vietano ogni tipo di assembramento. Compresi la preghiera di gruppo e i matrimoni: richiesta formulata con insistenza, già da settimane, da Ronni Gamzu, commissario nazionale per la lotta al coronavirus (che in questo momento si trova in isolamento, dopo aver scoperto di essere entrato in contatto con una persona risultata positiva).
   «Ora la priorità è fermare il forte aumento di contagi. In seguito vedremo anche di farli scendere», ha dichiarato il premier Benjamin Netanyahu. Mentre l'opposizione, su tutti i media, non fa che accusarlo per l'incostanza nella gestione delle misure di contenimento della pandemia.

(Avvenire, 10 settembre 2020)


Addio ad Amos Luzzatto intellettuale, leader ebraico e voce forte del dialogo

È morto nella sua Venezia. Il Patriarca: «Figura luminosa». Paolo Gnignati: Israele era un modello, difendeva la specificità dell'ebraismo italiano.

di Paolo Coltro

Nato a Roma il 3 giugno del 1928 da una storica famiglia ebrea veneta. ha trascorso la sua adolescenza a Gerusalemme e Tel Aviv dopo la fuga dall'Italia delle legge razziali. Tornato nel 1946, diventa medico ma accanto all'attività professionale unisce quella di studioso, filologo. Presidente della comunità ebraica veneziana, nel 1998 viene eletto a capo di tutte le comunità ebraiche italiane, incarico che terrà fino al 2006.

 
Amos Luzzatto
Se n'è andato sommessamente, in quell'appartamento in campo della Lana, ma dopo una vita tutt'altro che sommessa: anzi, piena e sfolgorante di impegno, iniziative, idee. Amos Luzzatto ha lasciato ieri la vita e Venezia, ma ha lasciato una traccia lunga quasi tutti i suoi 92 anni.
   Grande famiglia ebrea, la sua, nel Veneto da secoli: ha scritto di suo pugno nel libro «Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra», scritto a 80 anni e pubblicato da Mursia: «II mio nome esatto è Amos Michelangelo Luzzatto, figlio di Leone Michele e di Emilia Lina Lattes. I Luzzatto sono originariamente ebrei veneti, giunti dalla Lusazia, rintracciabili alla fine del XV secolo fra Venezia, il Friuli e il veneto orientale. La lapide della tomba sul punto più alto del cimitero ebraico di Conegliano appartiene ad un Luzzatto». E con lo stemma: un gallo che tiene tre spighe in una zampa, sormontato da una mezzaluna e da tre stelle a cinque punte. Una storia lunga e antica, che con Amos ha aggiunto un capitolo importante nel presente.
   Da bambino frequenta molto il nonno Dante Lattes, rabbino e figura centrale dell'ebraismo italiano del secolo scorso; e suo padre è un socialista perseguitato dai fascisti. Arrivano nel '38 le leggi razziali e poco dopo la famiglia lascia l'Italia, si trasferisce nella Palestina mandataria, ovvero il futuro Stato d'Israele. Torneranno solo nel `46, e Amos si iscrive a medicina. Ma fare il medico (sarà chirurgo ad Asti, in altri ospedali, al Civile di Venezia, fino a concludere la carriera a Dolo) è solo la professione, non esaurisce la sua curiosità intellettuale. Lo affascina l'ebraismo verso il quale ha però un approccio laico. Studia i testi antichi, «era un filologo — ricorda Paolo Gnignati, attuale presidente della Comunità ebraica veneziana — ma di una profondità tale da essere in grado di discutere con i rabbini». Fuori dalla sala operatoria, Luzzatto studia e scrive, ma da subito con un piglio diverso, da progressista diremmo oggi. E un socialista autentico, tanto che si iscrive al Psiup, farà anche il consigliere comunale a Mira. E suoi libri respirano e fanno respirare: «Ebrei moderni», «Sinistra e questione ebraica», entrambi dell'89; e poi «Oltre il Ghetto» e testi di storia ebraica, di esegesi («Leggere il Midrash»), fino a «Hermann» pubblicato 10 anni fa da Marsilio. Le idee di fondo sono sempre di apertura: il dialogo interreligioso, la difesa del pluralismo e della libertà di tutti.
   Un impegno civile che non si esaurisce nelle pagine scritte: Amos Luzzatto è anche presidente della comunità ebraica veneziana, e poi di tutte le comunità ebraiche italiane, per due mandati, dal 1998 al 2006. Dice a Pagine Ebraiche: «Rappresentare politicamente gli ebrei italiani ha significato per me difendere e valorizzare l'Intesa con lo Stato. Ma anche dare significato al nostro essere minoranza, e con altre minoranze offrire concretezza al pluralismo democratico». Concretezza: non sono solo parole quelle che, davanti a Carlo Azeglio Ciampi, pronuncia contro il razzismo. Erano di 15 anni fa, potrebbero essere ripetute oggi: «Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere fra la lotta di sopraffazione e la convivenza civile nel rispetto dell'altro?». Anche concretezza politica: è Amos Luzzatto che nel novembre porta Gianfranco Fini in Israele, con abiura pubblica dei misfatti del fascismo.
   Talmente poliedrico, Luzzatto, che nelle sue biografie le definizioni si inseguono: medico, scrittore, saggista, intellettuale, storico, filologo... Riassume Riccardo Calimani: «Aveva una cultura enciclopedica». Aggiunge Gnignati: si interessava di matematica, filosofia. Raccontano, i suoi amici, di conversazioni condite di grande umanità e di capacità di ascolto, e di una schiettezza totale. Anche politica: «Vedeva in Israele un modello — dice Gnignati — e difendeva la specificità dell'ebraismo italiano». Di suo, Luzzatto scriveva che bisognava mantenere «uno stretto rapporto con la realtà di Israele, religiosa e laica, senza atteggiarsi a rappresentanti della politica israeliana».
   Arriveranno i figli, per i funerali oggi alle 14.30 in Ghetto a Venezia. Sono tre: Gadi Luzzatto Voghera, che è uno storico; Michele, lavora alla Bollati Boringhieri; Misa, insegnante a Milano, con la loro madre Laura Voghera. Arriveranno gli ebrei veneziani, sono circa 500, che l'hanno avuto come guida; ma ci saranno i molti veneziani e non che per decenni hanno respirato il suo prestigio. II cordoglio ufficiale accomuna il ministro Dario Franceschini, Luca Zaia, il patriarca Francesco Moraglia («luminosa figura»), la presidente Ucei Noemi Di Segni, Gianfranco Bettin, Andrea Ferrazzi.
   Amos Luzzatto verrà domani sepolto nel cimitero ebraico di Padova, accanto alla tomba del nonno Dante Lattes, in quel pezzo di terra donato addirittura dai Carraresi e rimasto lì da allora, inviolabile e quasi invalicabile. Oltre al molto che ha dato, c'è una cosa in più che potrebbe rimanere di Amos Luzzatto: un libro sulla professione medica, scritto ma ancora nel cassetto. La curiosità di Luzzatto, questa volta medico, non si fermava mai. E magari gli sopravviverà.

(Corriere del Veneto, 10 settembre 2020)


Bonhoeffer, essere testimoni contro gli «altari laterali»

di Alessandro Zaccuri

Non sempre stupidi si nasce. Più spesso lo si diventa: per convenienza, per assuefazione, per capitolazione davanti a un potere dal quale si finisce per essere posseduti e come occupati interiormente. A sostenerlo, nel buio del totalitarismo, era Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo luterano la cui figura è stata ricordata ieri al Festivaletteratura presso il Chiostro del Museo Diocesano in un dialogo tra la pastora battista lidia Maggi e don Roberto Fiorini, autore per Gabrielli di un puntuale profilo sull'autore (Dietrich Bonhoeffer. Testimone contro il nazismo, pagine 168, euro 15,00). «Nella prospettiva biblica - ha sottolineato Maggi - "testimone" è una parola che indica qualcosa di diverso e di molto più impegnativo rispetto al semplice fatto di assistere a un determinato avvenimento. La testimonianza, come ci ha mostrato Bonhoeffer, comporta una responsabilità radicale, che induce a prendere su di sé la realtà in tutta la sua complessità e con tutte le sue contraddizioni».
   E' questa l'origine della "teologia della Croce" nella quale culminano il pensiero e la vita stessa di Bonhoeffer, sinteticamente ripercorsa da Fiorini attraverso una serie di tappe che dalla nascita nel 1906 all'interno di un'agiata famiglia della colta borghesia tedesca arrivano all'impiccagione il 9 aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della guerra, nel lager di Flössenburg, dove Bonhoeffer era recluso per aver partecipato al fallito attentato contro il Führer. «Mi sono imbattuto nei suoi scritti all'inizio degli anni Settanta - racconta Fiorini, alludendo anche alla sua esperienza di prete operaio -. Era un periodo fortemente segnato dal conflitto, in ambito sia sociale sia ecclesiale. Le prime traduzioni italiane dei testi di Bonhoeffer, curate da don Italo Mancini, mi avevano molto colpito, inducendomi poi a studiare, ad approfondire. Bonhoeffer ci ha insegnato, tra l'altro, che opporsi alla guerra non significa rinunciare alla lotta, e che non ci può essere vera pace senza piena giustizia». La parola della pace è, non a caso, il titolo scelto per l'incontro. Innegabile, ancora una volta, la risonanza biblica. «Nella Scrittum - insiste Maggi - la pace è tutt'altro che assenza di guerra. L'immagine che meglio rappresenta l'ideale di shalom è il ventre di una donna incinta, in un presente gravido di futuro».
   L'analogia tra il martirio di Bonhoeffer e le inquietudini dei nostri anni corre sottotraccia. Fiorini, per esempio, insiste sul pericolo che la mitologia dell'uomo forte torni a fare presa sui giovani, mentre Maggi ribadisce la necessità di coltivare un atteggiamento di complessità a dispetto di ogni tentativo di semplificazione. «Per il credente- dice - non esistono parole d'ordine alle quali adeguarsi». Del resto, la pensava così anche Bonhoeffer, quando contestava l'appoggio delle confessioni cristiane al nazismo avvertendo che nelle chiese non possono esserci «altari laterali per l'adorazione di uomini».

(Avvenire, 10 settembre 2020)


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Bonhoeffer, gli ebrei e la testimonianza a Cristo

di Marcello Cicchese

Da diverse parti si ricorda ogni tanto la figura di Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti il 9 aprile 1945. Certamente Bonhoeffer è da iscriversi fra le non molte figure pubbliche del mondo cristiano tedesco che seppero riconoscere per tempo la natura perversa del regime hitleriano e assunsero un atteggiamento di opposizione. Purtroppo però anche lui non può essere incluso tra gli amici degli ebrei. Dopo il boicottaggio ai negozi ebrei dell'aprile 1933, Bonhoeffer fece la seguente dichiarazione:
    «Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze» (S. Friedländer, La Germania Nazista e gli Ebrei, Garzanti, p.53).
Anche nella famosa «Confessione di Barmen» del maggio 1934, ispirata in gran parte dal teologo Karl Barth, la «Chiesa Confessante» si oppose pubblicamente al «paragrafo ariano» soprattutto perché tra i pubblici ufficiali di provenienza non ariana che avrebbero dovuto essere messi a riposo comparivano anche i pastori ebrei convertiti delle chiese protestanti di Stato, e questo era visto come un'indebita ingerenza dell'autorità statale nelle questioni ecclesiastiche. Vale la pena di riportare un brano del libro di Friedländer.
    «Il paragrafo ariano venne applicato soltanto a ventinove pastori su ottomila; di questi, undici vennero esclusi dall'elenco perché avevano combattuto nella prima guerra mondiale. Fino alla fine degli anni trenta il paragrafo non venne mai applicato a livello centrale; la sua messa in atto dipese dalle autorità ecclesiastiche locali e dai funzionari locali della Gestapo. Dal punto di vista delle chiese, il vero dibattito era incentrato su questioni di principio e di dogma, il che escludeva gli ebrei non convertiti. Allorché, nel maggio del 1934, si svolse a Barmen il primo congresso nazionale della Chiesa confessante, non si udì una parola sulle persecuzioni, e questa volta non furono menzionati neanche gli ebrei convertiti.»
Quindi la presa di posizione antinazista, che pure fu chiara e coraggiosa, restò una condanna ideologica: allo Stato non fu riconosciuto il diritto di intromettersi in questioni che riguardavano Dio, la salvezza e la chiesa. Fu condannata l'ideologia, non la politica. Il conflitto che per diversi mesi occupò l'attenzione pubblica in Germania col nome di "Kirchenstreit" fu vissuto soprattutto come un contrasto interno alle istituzioni dello stato, ma non fu mai una reale, concreta lotta di opposizione al regime in quanto tale. Per il suo carattere di conflitto istituzionale, la disputa si trasferì all'interno delle chiese protestanti ufficiali, generando una divisione fra pro-governativi e anti-governativi, ma non coinvolse le chiese evangeliche libere, che pure ebbero le loro indiscutibili colpe morali. Si può quasi dire che quel contrasto fu la riedizione in forma moderna della medioevale contrapposizione tra Papato e Impero. Dopo l'avvento di Hitler, il papato vero e proprio si accordò immediatamente con l'impero, mentre una parte degli ecclesiastici di stampo luterano rivendicò la propria ecclesiastica autonomia. Forse è per questo che l'opposizione della Chiesa confessante al nazismo, oltre ad essere ampiamente celebrata dalle chiese protestanti storiche, è oggetto di grande considerazione anche da parte dei cattolici. Sperano sempre di poter dire che anche loro, sia pure in modi diversi, fecero una qualche forma di opposizione alla follia hitleriana.
   Bisogna invece riconoscere, con tristezza e umiliazione, che in campo cristiano gli oppositori al regime nazista per motivi di coscienza e di giustizia furono molto pochi. Quasi tutti i pastori della chiesa confessante andarono poi a combattere nell'esercito tedesco; e della persecuzione degli ebrei in quanto tali non sembra che fossero molti a preoccuparsene. Quanto a Bonhoeffer, che da un certo momento in poi si distanziò dalla Chiesa confessante, perfino il suo amico, parente e biografo Eberhard Bethge fu costretto ad ammettere che nei suoi scritti era presente un certo «antiebraismo teologico». «Antiebraismo teologico» che del resto non era difficile trovare neppure negli altri membri della Chiesa confessante.
   E' giusto dunque onorare la memoria di un uomo come Bonhoeffer, ma purtroppo bisogna dire che agli ebrei la sua figura non può suscitare sentimenti di particolare gratitudine.
   Bisogna aggiungere inoltre che Bonhoeffer non è stato messo a morte come cristiano confessante, ma come partecipante ad una congiura fallita, alla pari di tutti gli altri congiurati. Questa grave carenza dell'aspetto squisitamente evangelico nella morte di Bonhoeffer non è stata adeguatamente messa in risalto. Come Salvator Allende, Dietrich Bonhoeffer è morto col fucile in mano. E questa non è testimonianza cristiana.

(Notizie su Israele, 10 settembre 2020)


Trump candidato al Nobel per la pace per l'accordo Israele-Emirati

NEW YORK - Per il suo merito nel raggiungimento di un accordo di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato candidato al Nobel per la pace da Christian Tybring-Gjedde, deputato del parlamento norvegese. "Credo che abbia fatto più di ogni altro candidato per creare la pace tra i Paesi", ha osservato in un'intervista all'emittente "Fox News" Tybring-Gjedde, che è anche presidente della delegazione norvegese all'Assemblea parlamentare della Nato.
   Nella sua lettera al Comitato per il Nobel, il deputato ha ricordato come l'amministrazione Trump abbia avuto "un ruolo cruciale" nell'apertura di relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati. "Dal momento che ci si attende che altri Paesi mediorientali seguano i passi degli Emirati, questo accordo potrebbe trasformare la regione in una terra di cooperazione e prosperità", ha scritto Tybring-Gjedde, sottolineando inoltre il ruolo del capo della Casa Bianca nel "facilitare contatti e creare nuove dinamiche in conflitti protratti, come quello tra India e Pakistan nel Kashmir e quello tra le Coree".
   Il parlamentare norvegese ha anche elogiato Trump per aver ritirato un gran numero di militari statunitensi dal Medio Oriente. "Trump - ha osservato - è stato il primo presidente in 39 anni a non avviare una nuova guerra e a non portare gli Stati Uniti in un altro conflitto armato internazionale. L'ultimo presidente a riuscirci era stato Jimmy Carter, che vinse il premio Nobel".

(Agenzia Nova, 9 settembre 2020)


La cultura in Israele: un lusso superfluo? Una storia di scelte, tra influenze d'Europa e d'Oriente

Durante una delle sue conversazioni con David Ben Gurion, il pittore Marc Chagall cercò di convincere il fondatore di Israele dell'importanza della cultura in un'epoca in cui la priorità assoluta del movimento sionista e del giovane Stato di Israele era di creare una nazione di soldati-agricoltori.

di Cyril Aslanov

Poco entusiasmato dalla cultura agricola del kibbutz, Chagall usò una metafora, paragonando la cultura al filo rosso dei tappeti persiani: pur tenue e discreto che sia, questo filo rosso è ciò che dà la sua coerenza ai motivi decorativi dell'artigianato iraniano. Come quel filo rosso, la cultura, pur essendo un lusso in un paese sottomesso a delle scelte esistenziali urgenti, ha la sua importanza come fattore strutturante della
 
Marc Chagall, "I colori della vita"
nazione emergente. Ben Gurion, che era una persona colta (benché autodidatta), voleva creare un "uomo nuovo", rompendo il legame con la cultura diasporica alla quale gli ebrei europei erano stati abituati e nella quale eccellevano prima di immigrare in quel piccolo angolo del Mediterraneo orientale.
   Per creare la cultura pionieristica del nuovo paese, Ben Gurion si ispirò alla cultura sovietica del primo decennio della Rivoluzione russa, una cultura che Chagall conosceva bene, essendo stato uno dei protagonisti del Futurismo sovietico all'inizio degli anni '20. Ma Chagall, appunto, non rimase nella Russia sovietica e la lasciò nel 1922. Non volle neanche stabilirsi negli Stati Uniti, dove passò sette anni (1941-1948). E in quanto ad emigrare in Israele, non era disposto a farlo, con il pretesto che, dopo duemila anni di esilio, lui, come molti ebrei ashkenaziti, non era più abituato al clima del paese.
   La sua patria intellettuale era la Francia che, da buon ebreo russo, considerava come il faro della cultura europea. Così si spiega la sua apologia della cultura presso il leader sionista che pensava di creare una cultura senza radici per un "uomo nuovo" che, dalle sue radici, era stato tagliato via.
   Che Chagall abbia avuto un'influenza su Ben Gurion o no, non importa. Fatto sta che la realtà sociologica e umana fu più forte del volontarismo del fondatore dello Stato di Israele. Durante i decenni successivi, Israele sviluppò degli altissimi standard culturali che facevano percepire lo Stato ebraico come un prolungamento della vecchia Europa. Questo paese, fondato nel Medioriente da ebrei est-europei, rivendicava per sé lo status di paese occidentale localizzato sulle sponde del Mediterraneo. Nei primi decenni dell'esistenza dello Stato, i teatri, le università, le biblioteche, i conservatori di musica erano generosamente sovvenzionati. Tuttavia, l'establishment ashkenazita che aveva trasposto a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme le abitudini culturali di Varsavia, Berlino e Vienna dimenticava che il "Secondo Israele" sefardita ed orientale aveva anche la sua propria cultura. Da Baghdad a Oran, i migliori rappresentanti della musica classica araba erano stati ebrei e in molti casi, gli ebrei dei paesi arabi erano stati attivi nella modernizzazione dell'orizzonte politico e culturale del mondo arabo.
 
Miri Regev
   Questo, l'élite ashkenazita non lo riconosceva e pensava che gli ebrei orientali in Israele fossero soltanto capaci di produrre la musica tonitruante dei matrimoni orientali. Le cose non cambiarono molto dopo la vittoria del Likud nel 1977. Nel campo culturale la crisi di identità della società israeliana scoppiò nel 2015 quando la marocchina Miri Regev fu nominata Ministro della Cultura. Odiata dalla bohème telaviviana, Regev volle riequilibrare la bilancia fra la cultura del centro economico e culturale del paese (Tel Aviv) e le periferie dove Ben Gurion e i continuatori della sua politica avevano emarginato gli immigrati venuti dai paesi arabi. Tagliò le sovvenzioni statali a molti rappresentanti della cultura elitaria di sinistra e dispensò la manna del sostegno istituzionale alle periferie, spesso identificate con ebrei non-ashkenaziti. Nel nuovo governo instaurato in maggio 2020, Miri Regev riceve il Ministero dei Trasporti. Comunque, oggi, la politica culturale dello Stato non deve più pensare alla questione "quale cultura" si debba sostenere: la cultura di stampo occidentale, favorita dall'establishment di origine ashkenazita, o la cultura orientale delle periferie? Oggi il Covid-19 ha falsificato i termini del dibattito: nessuno riceve più niente dallo Stato, i teatri e le sale da concerto sono chiusi e i professionisti dello spettacolo sono spesso costretti a diventare fattorini di pizze e sushi.

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2020)


Il 15 settembre alla Casa Bianca la firma dell'accordo Israele-Emirati

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ospiterà una cerimonia alla Casa Bianca il 15 settembre per firmare l'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Lo ha annunciato un funzionario americano. Stabilire relazioni diplomatiche tra Israele e gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, comprese le ricche monarchie del Golfo, è un obiettivo chiave della strategia regionale di Trump per contenere la minaccia rappresentata dalla repubblica islamica dell'Iran. Questo accordo renderà gli Emirati il terzo Paese arabo a stabilire legami diplomatici con Israele, dopo i trattati di pace conclusi con Egitto (1979) e Giordania (1994).
Dopo l'annuncio, a metà agosto, di questo accordo, i palestinesi hanno accusato Abu Dhabi di tradimento e di violare il consenso arabo che ha reso la soluzione del conflitto israelo-palestinese una 'conditio sine qua non' per la normalizzazione con lo Stato ebraico. Otto giorni fa, una delegazione israelo-americana, guidata da Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, si è recata ad Abu Dhabi con il primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati. Aveva ricevuto l'autorizzazione a sorvolare l'Arabia Saudita sebbene Riad non avesse rapporti con lo stato ebraico.

(Shalom, 9 settembre 2020)


Pigiami e biancheria intima nella prima campagna pubblicitaria di Israele negli Emirati

 
GERUSALEMME - La normalizzazione dei rapporti commerciali tra Israele ed Emirati Arabi Uniti potrebbe avere come punto di partenza il settore dei pigiami e della biancheria intima. Secondo quanto riferisce il sito di informazione "Middle East Eye", un noto marchio israeliano di biancheria intima ha organizzato un servizio fotografico a Dubai in quella che si ritiene essere la prima campagna di questo tipo da quando Stato ebraico ed Emirati hanno annunciato la storica intesa per la normalizzazione delle relazioni il 13 agosto scorso. Fix, un'etichetta di indumenti intimi e pigiami per giovani donne, ha lanciato la sua nuova collezione di pigiami con un servizio fotografico in cui figurano la modella israeliana May Tager e Anastasia Bandarenka, indossatrice di origine russa residente negli Emirati. "Una storia in divenire - scrive su Instagram l'agenzia Yuli Model - ecco la prima campagna pubblicitaria israeliana a Dubai con protagonista la nostra May Tager".
L'intesa annunciata il 13 agosto scorso tra Israele ed Emirati prevede la piena normalizzazione delle relazioni tra i due paesi, la sospensione dell'annessione dei territori della Cisgiordania prevista dal piano di pace per il Medio Oriente proposto dagli Stati Uniti e la futura firma di accordi bilaterali nel campo degli investimenti, turismo e sicurezza tra Gerusalemme ed Abu Dhabi. Come annunciato il 13 agosto in conferenza stampa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, è dal 2009 che Israele sta lavorando per normalizzare i rapporti con i Paesi arabi. Negli ultimi anni tali relazioni sono più o meno giunte allo scoperto con un cambio di passo da parte delle monarchie del Golfo nelle relazioni con lo Stato ebraico dall'economia alla cooperazione nel contrasto all'espansionismo dell'Iran nella regione. Il prossimo 15 settembre Netanyahu e il principe ereditario Mohammed bin Zayed saranno a Washington per firmare lo storico accordo che normalizzerà le relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti alla presenza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

(Agenzia Nova, 9 settembre 2020)


La normalizzazione di Israele, in attesa del voto americano

di Francesco Petronella

Sono quasi le 4 del pomeriggio quando le ruote dell'aereo LY-971 della compagnia israeliana El Al toccano l'asfalto della pista di atterraggio. La destinazione raggiunta, dopo un viaggio iniziato a Tel Aviv alle 11.30 del 31 agosto 2020, è l'aeroporto di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. A bordo del velivolo due delegazioni di Israele e Stati Uniti, guidate da Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, e dal consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Meir Ben Shabbat. L'apparecchio espone come insegne le bandiere delle tre nazioni - USA, Israele ed Emirati - e la parola "pace" stampata in inglese, ebraico e arabo sul finestrino laterale del pilota. Il volo viene salutato dai media locali come un momento storico che suggella la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati, primo Paese del Golfo a compiere questo passo e terzo del mondo arabo dopo Egitto e Giordania.
  Il percorso di questa distensione tra lo Stato ebraico e il piccolo (ma importante) Paese del Golfo nasce da lontano. Israele ed Emirati cooperano da tempo nello scambio di informazioni per quello che concerne la sicurezza e la difesa, sebbene Dubai e Abu Dhabi abbiano sempre mantenuto una retorica filopalestinese, almeno pubblicamente. Uno dei temi più discussi, anche se le parti sono molto reticenti sul tema, è la vendita agli Emirati dei caccia statunitensi F-35 di quinta generazione. Si tratterebbe di una mossa che, secondo alcuni esperti, minerebbe la superiorità militare di Israele nella regione, tanto è vero che un regolamento degli Stati Uniti richiede esplicitamente che l'amministrazione si consulti con lo Stato ebraico prima di vendere armi a qualsiasi Paese arabo.
  Fonti coperte riferiscono al New York Times che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe dato all'amministrazione Trump il nullaosta per vendere armi (e aerei) agli Emirati, ma sull'affaire F-35, un tema molto sensibile per gli equilibri regionali, si susseguono le smentite da entrambe le parti. Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan (Mbz per i media occidentali) sottolinea ad ogni occasione possibile che l'accordo con Israele annunciato il 13 agosto "non andrà a scapito della causa palestinese" e che, al contrario, l'impegno assunto dallo Stato ebraico di sospendere le annessioni in Cisgiordania è da salutare come una conquista positiva.
  Quelli dopo lo storico viaggio Tel Aviv-Abu Dhabi del 31 agosto, a cui il 16 settembre farà seguito il primo aereo cargo in volo dallo Stato ebraico agli Emirati, sono giorni di annunci, indiscrezioni e speculazioni su quale sarà il prossimo Paese dell'area ad aprirsi a Israele. Molti osservatori internazionali, confortati dall'insistenza della stampa israeliana, sono pronti a scommettere sul Bahrein. A Manana, capitale della monarchia del Golfo, è stata infatti presentata a giugno 2019 la parte economica del "Piano del secolo" messo a punto dall'amministrazione Trump per la pace tra israeliani e palestinesi. I regnanti del Bahrein, appartenenti alla dinastia Al Khalifa, sono monarchi sunniti in uno Stato a maggioranza sciita (70% della popolazione). Un fatto che mette spesso il Paese al centro della contesa regionale tra Iran e Arabia Saudita. Nonostante la reticenza bahreinita, per i media di Gerusalemme come il portale israeliano Kan 11, l'annuncio di un accordo tra lo Stato ebraico e la monarchia araba ormai non è questione di se, ma di quando.
  Altri ipotizzano che il prossimo Paese a tendere una mano a Israele possa essere l'Oman, importante snodo diplomatico per il Medio Oriente, rimasto orfano a inizio anno dell'ottuagenario sultano Qabus bin Said Al Said, definito da Netanyahu «un grande uomo» in occasione della sua dipartita. Il ministero degli Affari esteri omanita commenta il nuovo accordo tra Emirati e Israele dicendo che «soddisferà le aspirazioni dei popoli della regione nel sostenere i pilastri della sicurezza e della stabilità». Decisamente ostile invece è l'atteggiamento del Kuwait, le cui autorità fanno sapere dalle colonne del giornale locale Al Qabas che «La nostra posizione su Israele non è cambiata, saremo gli ultimi a normalizzare le nostre relazioni» con lo Stato ebraico.
  L'impressione generale, oltre i proclami e la retorica che contraddistinguono eventi simili, è che gli altri Paesi dell'area mantengano una certa cautela rispetto a possibili distensioni con Israele. C'è da aspettarsi che questa reticenza rimanga tale fino al più importante appuntamento in programma nei prossimi mesi, ossia le elezioni presidenziali americane a novembre 2020. Trump punta molto sulla politica mediorientale e sulla distensione con Israele in chiave propagandistica. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha suscitato non poche critiche in patria, intervenendo in videoconferenza alla convention repubblicana direttamente da Gerusalemme, nel corso di una missione che lo ha condotto in Libano, Israele e Kuwait. L'accusa dei democratici è quella di aver usato, cosa mai successa prima, un impegno ufficiale all'estero per meri scopi elettorali. I Paesi del Medio Oriente, però, sembrano rimanere attendisti. Probabilmente aspettano di sapere chi la spunterà nel rush finale della corsa alla Casa Bianca tra l'attuale presidente Trump e lo sfidante Joe Biden. Certamente non ci si aspetta che il candidato democratico, qualora eletto, cambi in modo radicale la politica americana nell'area. Ma al contempo è poco prudente impegnarsi a fondo nelle trame diplomatiche dell'attuale amministrazione - volte alla strategia della "massima pressione" sull'Iran - se alla fine sarà Biden a vincere le presidenziali.
  Ciononostante, l'immobilismo non è uguale ovunque. A quasi un mese dall'accordo Israele-Emirati e a pochi giorni dallo storico volo Tel Aviv-Abu Dhabi, i primi movimenti verso Israele arrivano da un'area apparentemente remota e inaspettata, quella dei Balcani. Il 4 settembre, infatti, Trump ha annunciato che Serbia e Kosovo hanno raggiunto un'intesa per la normalizzazione dei rapporti economici. Parte dell'accordo prevede che il Kosovo riconoscerà Israele, mentre la Serbia sarà il primo Paese europeo a spostare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come fatto dagli USA a maggio 2018. La parte dell'accordo che conta, in una regione dove gli USA vogliono contrastare la penetrazione russa e cinese, riguarda soprattutto gli aspetti economici. Ma l'inserimento del dossier israeliano nella partita ha comunque la sua importanza, facendo parte della corsa di Trump ad accumulare risultati diplomatici da usare in campagna elettorale contro Biden. Se l'esempio di Emirati, Kosovo e Serbia fosse seguito da un altro Paese arabo-islamico, o magari da più di uno, questo costituirebbe un vantaggio non indifferente per l'attuale inquilino della Casa Bianca.

(Atlante, 9 settembre 2020)


Il console eroe che salvò ebrei e Ponte Vecchio

La lapide per Gerhard Wolf

di Marco Vichi

 
Sotto gli archi del Ponte Vecchio c'è una lapide che commemora il console del Terzo Reich che «si adoperò con ruolo decisivo per la salvezza del Ponte Vecchio (1944) dalla barbarie della II guerra mondiale e fu determinante per il rilascio di perseguitati ed ebrei nella drammatica occupazione nazista». Il Console si chiama Gerhard Wolf (1896-1971) ed è andato contro a tutti i «doveri nazisti». Con la collaborazione di Carlo Steinhauslin, console svizzero, ha salvato ebrei fornendo loro documenti falsi, ha salvato partigiani che erano finiti a Villa Triste nelle mani di quello spietato assassino di Mario Carità (mai cognome fu meno appropriato), si è impegnato a salvare le opere d'arte e i monumenti di Firenze.
   A riprova di ciò c'è un libro, «Il Console di Firenze» di David Tutaev, stampato in Germania nel '67 e uscito poi in Italia per AEDA nel '71 (adesso è fuori catalogo, ma mi auguro che presto un editore lo riporti in vita, anche come esempio di quanto il mondo possa regalare sorprese). Nel libro, che ricostruisce bene l'atmosfera dell'Occupazione di Firenze, troviamo anche una bellissima lettera di ringraziamento scritta a Wolf da Bernard Berenson, il famoso storico dell'arte ebreo americano di origini russe, ricercato dai tedeschi, che lo avrebbero acciuffato assai volentieri. Berenson si è salvato dalla cattura grazie al Console, che sapeva bene dove si era nascosto, e che invece di fare il «proprio dovere» per i nazisti, ha fatto il proprio dovere per la giustizia umana.
   La lapide sul Ponte Vecchio è stata messa per commemorare il 50esimo anniversario dell'attribuzione della cittadinanza onoraria a Wolf, conferita nel '55 dal sindaco La Pira, che dopo un lungo discorso per onorare quanto aveva fatto Wolf per Firenze, consegnò al console le chiavi della città. Poi, chissà come, la memoria di questo uomo coraggioso si è perduta, sia in Italia, sia in Germania. Ma Gianmarco D'Agostino, regista di Firenze - a cui prestai il libro di Tutaev, che mi era stato prestato da Lorenzo Cinatti - si è innamorato della sua storia e da anni sta lavorando a un documentario che riporti alla memoria le azioni di Wolf.

(Nazione-Carlino-Giorno, 9 settembre 2020)


L'ayatollah Khamenei lancia una fatwa contro Charlie Hebdo

Non si fermano nel mondo islamico le condanne contro Charlie Hebdo. Dopo le accuse di Turchia e Pakistan, è la Guida suprema iraniana Ali Khamenei a scagliarsi contro la scelta della rivista satirica francese di ripubblicare le caricature del profeta Maometto, che l'avevano resa un obiettivo dei jihadisti. Un "peccato imperdonabile", l'ha definito la massima autorità della Repubblica islamica, dopo che il ministero degli Esteri aveva già bollato le vignette come "una provocazione e un insulto" al mondo islamico. Ma la 'fatwa' pronunciata alcuni giorni fa è ancora più dura. Secondo l'ayatollah Khamenei, la scelta del giornale "ha rivelato l'ostilità e l'odio del sistema politico e culturale occidentale verso l'islam e la comunità musulmana". Nel suo numero della scorsa settimana, Charlie Hebdo aveva replicato le caricature in occasione dell'apertura del processo per le stragi del gennaio 2015 nella sua redazione e al supermercato ebraico Hyper Cacher, che fecero 17 vittime. Un'iniziativa cui ha fatto scudo lo stesso presidente francese Emmanuel Macron, parlando di "una libertà di blasfemia che è legata alla libertà di coscienza". Nel suo messaggio, Khamenei parla invece di "pretesto della libertà di espressione", denunciando come "sbagliato e demagogico" l'atteggiamento dell'Eliseo. "In una congiuntura simile - ha ipotizzato poi la Guida di Teheran - questa mossa potrebbe essere mirata a distrarre l'opinione pubblica dei Paesi dell'Asia occidentale dai malvagi complotti degli Stati Uniti e del regime sionista", riferendosi tra l'altro agli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, che aveva già denunciato come un "tradimento" dell'islam.

(Shalom, 9 settembre 2020)

Coprifuoco in Israele per il boom di contagi

Il governo impedisce assembramenti di religiosi

 
Il Covid avanza in Israele. Così, in un ulteriore tentativo di contrastare la diffusione del coronavirus una commissione interministeriale ha confermato oggi la imposizione di un coprifuoco notturno da oggi, per la prossima settimana, in 40 località di Israele considerate rosse, ossia con un elevato tasso di contagio. Il coprifuoco inizierà alle 19 locali e terminerà alle 5 del giorno successivo.
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Nelle località a popolazione araba, secondo la radio pubblica, il provvedimento si prefigge in particolare di impedire lo svolgimento di matrimoni non autorizzati. In quelle popolate da ebrei ortodossi, il governo vuole impedire assembramenti di religiosi che, in questo particolare periodo dell'anno, si radunano all'alba per recitare preghiere di gruppo. Fra le aree interessate vi sono una decina di rioni (ortodossi o arabi) di Gerusalemme, la città ortodossa di Bnei Brak (presso Tel Aviv), rioni delle città di Ashdod e Ashkelon, nonch´ le città arabe di Nazareth ed Um el-Fahem.

(Il Messaggero, 8 settembre 2020)



UE contro la Serbia: contrari a che sposti l'ambasciata a Gerusalemme

Ennesimo grave atto ostile dell'Unione Europea nei confronti di Israele, ormai diventato l'ossessione dei burocrati di Bruxelles

di Maurizia De Groot Vos

BRUXELLES - L'Unione Europea ha espresso "sconcerto, seria preoccupazione e rammarico" per l'impegno preso dalla Serbia di spostare la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme.
   Secondo i negoziatori europei una tale decisione potrebbe compromettere in modo serio i colloqui tra Serbia e Kosovo in quanto quest'ultimo, di fede musulmana e attualmente aiutato pesantemente dalla Fratellanza Musulmana (Turchia), potrebbe ritirarsi dai suddetti colloqui se Belgrado proseguirà su questa linea.
   In realtà questa è una paura tutta ed esclusivamente europea. Solo pochi giorni fa il presidente serbo, Aleksandar Vucic, e il primo ministro del Kosovo, Avdullah Hoti, si sono incontrati a Bruxelles per finalizzare al meglio le decisioni prese in un precedente incontro a Washington, incontro che ha portato alla firma di un accordo volto a migliorare le relazioni economiche tra i due stati, primo passo per un reciproco riconoscimento.
   Al Kosovo non importa nulla di quello che fa la Serbia con la sua ambasciata in Israele, è l'Unione Europea a non volere questa decisione.
   "La UE si aspetta dai potenziali membri come la Serbia che si allineino con le sue posizioni in politica estera"
   "In questo contesto, qualsiasi passo diplomatico che possa mettere in discussione la posizione comune dell'UE su Gerusalemme è motivo di grave preoccupazione e rammarico", ha detto ai giornalisti a Bruxelles il portavoce dell'UE per gli affari esteri Peter Stano.
   A Stano risponde a stretto giro di posta Sharren Haskel, membro della commissione parlamentare israeliana per gli affari esteri il quale ha detto che "i tentativi della UE di educare la Serbia e il Kosovo sono scioccanti", e ha accusato l'Unione Europea "di criticare ripetutamente lo stato di Israele e di mettere in discussione la sua stessa esistenza".
   E poi Sharren Haskel ha lanciato un appello agli altri Stati: "chiedo ad altri paesi … di trasferire le loro ambasciate a Gerusalemme, l'eterna capitale del popolo ebraico" ha detto Haskel.
   Siamo quindi di fronte all'ennesimo gravissimo atto dell'Unione Europea contro Israele. Forse a Bruxelles farebbero meglio a guardare dove finiscono le centinaia di milioni di euro che ogni anno l'Europa dona a fondo perduto alle casse di Abu Mazen e dei boss palestinesi.

(Rights Reporter, 8 settembre 2020)


Israele-Emirati: successo Usa, ma gli F-35 agitano le acque

Dopo l'annuncio dello storico accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati arabi uniti e il primo volo diretto tra Tel Aviv e Abu Dhabi della settimana scorsa (con sorvolo dello spazio aereo saudita, un altro primato), si sta organizzando la prima visita ufficiale. Come ha riferito la Reuters, da Abu Dhabi una delegazione dovrebbe partire alla volta dello Stato ebraico il prossimo 22 settembre per consolidare l'intesa raggiunta grazie alla mediazione dell'amministrazione americana di Donald Trump. La conferma ancora non c'è, si attende di conoscere la data per la cerimonia di firma dell'intesa che si terrà probabilmente a Washington a metà settembre.

 Israele pensa ai risvolti economici dell'intesa
  Intanto il ministro per l'Intelligence israeliano, Eli Cohen, ha puntato l'attenzione sui risvolti economici dell'intesa, sostenendo che "entro 3-5 anni l'interscambio raggiungerà i 4 miliardi di dollari" annui; i settori interessati sono difesa, energia, salute, turismo, tecnologia e finanza. Già questo mese è prevista la visita negli Emirati dei responsabili delle due principali banche israeliane.

 Gli Usa annunciano "svolta diplomatica storica"
  Gli accordi di Abramo sono stati annunciati dalla Casa Bianca con una nota congiunta il 13 agosto come una "svolta diplomatica storica che farà avanzare la pace" e al contempo "sbloccherà il grande potenziale nella regione". La speranza di Washington, e di Gerusalemme, è che al passo rivoluzionario di Abu Dhabi segua quello degli altri Paesi del Golfo. A spingere in questa direzione c'è la comune opposizione verso l'arcinemico Iran e la sfida posta dall'atteggiamento sempre più aggressivo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan nella regione. I più papabili sono Bahrein e Oman, ma anche il Sudan: in quest'ottica si è inserito il viaggio del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che alla fine di agosto ha visitato Abu Dhabi, Gerusalemme, Manama, Muscat e Khartoum. Caute aperture verso una normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico ce ne sono state, l'accordo è stato accolto con favore da diversi Paesi, ma altri passi ufficiali ancora no.

 Riad frena e ricorda la causa palestinese
  La stessa Arabia Saudita, il pilastro sunnita delle regione, feroce oppositore di Teheran, ha mostrato una certa disponibilità, concedendo il suo spazio aereo ai voli commerciali che uniscono i due Paesi. Tuttavia, nella telefonata di ieri sera con Trump, il re Salman è tornato a ribadire la centralità della causa palestinese per il via libera a futuri rapporti: senza "una soluzione giusta e durevole che porti la pace", non ci sarà normalizzazione. Una puntualizzazione necessaria per non essere accusati di tradire i palestinesi.

 Trump incassa un atout per le elezioni
  Tutti, tranne loro, hanno (già) guadagnato qualcosa dall'annunciato accordo: Trump ha messo a segno un grosso colpo in vista delle elezioni di novembre, gli Emirati possono dire di aver fermato i piani israeliani di annessione della Cisgiordania e Israele allarga la sfera di alleanze, scavalcando Ramallah.

 Gli F-35 agitano le acque
  Un percorso dalle grandi potenzialità, ma ancora pieno di incognite: ad agitare le acque è il piano di vendita di F-35 americani agli Emirati, che minaccia la politica di sicurezza israeliana basata sul 'quantitative military edge', un vantaggio qualitativo militare che nessuno nella regione deve superare. In occasione della recente visita in Israele, Pompeo ha ribadito che gli Usa forniranno armi agli Emirati, stando però attenti a non penalizzare la supremazia israeliana nella regione. Una posizione contro la quale il premier Netanyahu si è espresso duramente in pubblico, anche se - secondo la stampa - ne era a conoscenza e in privato avrebbe dato il via libera per raggiungere l'accordo con Abu Dhabi.

(AGI, 8 settembre 2020)


Dopo l'intesa con Israele gli Emirati puntano di nuovo sull'F-35

 
Il consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, Jared Kushner, accompagnato dal Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Robert O'Brien, hanno incontrato presso la base aerea di al-Dhafra, vicino ad Abu Dhabi, il maggiore generale Falah al-Qahtani dell'Aeronautica degli Emirati Arabi Uniti (EAU).
   L'incontro, tenutosi il 1° settembre, ha rafforzato le indiscrezioni sulla ripresa dei colloqui per l'acquisizione di aerei Lockheed Martin F-35A da parte delle forze aeree emiratine come conseguenza dello storico accordo del 13 agosto scorso che ha portato alla normalizzazione dei rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Israele con la mediazione degli Stati Uniti.
   Kushner e O'Brien hanno trascorso due giorni negli EAU con una delegazione israeliana per colloqui con il governo di Abu Dhabi legati allo sviluppo di numerosi accordi bilaterali e la visita alla base aerea emiratina che ospita un reparto dell'USAF di F-35A ha rinnovato il dibattito che vede da tempo Abu Dhabi, da 30 anni alleato degli Stati Uniti, rivendicare la possibilità di acquisire i Joint Strike Fighter che le intese tra Washington e Gerusalemme hanno finora riservato alle sole forze aeree israeliane nell'area Medio Oriente/Nord Africa.
   Finora Israele si è opposto all'ipotesi che Stati arabi potessero ottenere il velivolo in base alle leggi statunitensi che impegnano Washington a condizionare le forniture di equipaggiamenti militari "made in USA" agli Stati della regione al mantenimento della superiorità militare israeliana sui suoi potenziali avversari.
   Abu Dhabi ha da tempo espresso interesse per l'acquisizione dell'F-35A che Israele ha già utilizzato in operazioni nei cieli siriani e forse iraniani. Il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash ha affermato che la normalizzazione dovrebbe rimuovere "qualsiasi ostacolo" per gli Stati Uniti alla vendita dei velivoli "stealth" agli Emirati Arabi Uniti.
   Un funzionario del governo emiratino ha detto all'agenzia Reuters che la visita alla base aerea di Kushner e O'Brien non era correlata alla questione degli F-35 agli EAU. Il comandante dell'Aeronautica emiratina ha evidenziato gli ottimi rapporti bilaterali affermando che "il nostro rapporto è stato costruito sulla fiducia e sul sostegno reciproco.
   Ci siamo uniti per combattere l'estremismo in tutte le sue forme". Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione con cautela precisando che la fornitura degli F-35 non faceva parte dell'accordo con gli Emirati Arabi Uniti, sottolineando la volontà di Israele di non rinunciare a un accesso prioritario nella regione ai sistemi d'arma americani più avanzati.
   Il premier israeliano ha aggiunto che "gli americani hanno riconosciuto che la nostra posizione non è cambiata" precisando che il Consigliere per la sicurezza nazionale O'Brien ha chiarito durante l'ultima recente visita in Israele che gli Stati Uniti sono impegnati a preservare il vantaggio militare di Israele nella regione.
   Assicurazioni che non verrà penalizzata la supremazia israeliana nella regione sono state fornite a Israele anche dal Segretario di Stato, Mike Pompeo, anche se non si può escludere un compromesso per ora tenuto segreto a Gerusalemme (e di cui ha riferito il quotidiano Yedioth Ahronoth) in cui Israele riceva, oltre alle garanzie di Washington, ulteriori sofisticate forniture militari statunitensi e gli Emirati Arabi Uniti possano ottenere gli F-35, probabilmente con dotazioni meno avanzate rispetto a quelli israeliani che imbarcano sistemi "made in Israel".
   "La questione degli F-35 è una richiesta di vecchia data degli Emirati Arabi Uniti e non è in alcun modo uno strumento chiave ("driver") per raggiungere questo accordo" con Israele, ha detto ai giornalisti Jamal Al-Musharakh, capo della pianificazione politica e della cooperazione internazionale presso il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti.
   In ogni caso la questione è tornata al centro del dibattito e per convincere gli Stati Uniti a concedere la commessa degli F-35 Abu Dhabi non ha esitato in passato a ventilare anche l'ipotesi di acquisire aerei da combattimento russi quali i Sukhoi Su-35.

(Analisi Difesa, 8 settembre 2020)


La pace economica fra Serbia e Kosovo arriva a Gerusalemme

Un piccolo miracolo firmato Trump

di Ugo Volli

Diceva Ben Gurion che chi non crede ai miracoli non può capire niente di Israele. Magari sono miracoli laici, frutto di duro lavoro e non di gratuita benevolenza del cielo, ma è chiaro che questa è davvero una stagione di miracoli politici per Israele. L'ultimo, un po' occultato dalla stampa europea, ma certamente stupefacente, è questo: due paesi nemici, che si sono ferocemente combattuti e si mettono d'accordo per una mossa diplomatica parallela e per nulla banale: l'apertura di ambasciate a Gerusalemme. I due paesi sono la Serbia e il Kosovo, ortodossa la prima e musulmano il secondo. Nel quadro di un accordo economico propiziato da Trump (dopo lunghi anni di fallimenti europei nel sanare la ferita balcanica) hanno deciso anche questa mossa: il Kosovo di riconoscere Israele e scambiare gli ambasciatori, con sede a Gerusalemme; la Serbia di spostare l'ambasciata già aperta a Tel Aviv nella vera capitale di Israele. Naturalmente la Turchia ha protestato e l'Unione Europea ha mascherato nel silenzio l'impotenza che le deriva dalla sua linea filo-palestinista e filo-islamista.
   Certo, la protezione americana in questo accordo c'entra (anche se gli Usa non sono considerati grandi amici di Belgrado, dai tempi della guerra del Kosovo, coi bombardamenti dell'ambasciata cinese e della sede tv). C'entra la grande capacità di Trump di pensare fuori dagli schemi ideologici, puntando a soluzioni concrete, da buon businessman; e per quanto riguarda Israele la sua volontà di estendere il suo progetto di pace a nuovi partner, come è successo con gli Emirati del Golfo. Questa è un'altra prova di quanto sia stata stupidamente sottovalutata dalla stampa internazionale la presidenza Trump. Ma c'entra anche l'attrattiva di Israele come "start-up nation", centro scientifico e tecnologico, modello di piccola economia capace di svilupparsi in un contesto non facile. E certamente Serbia e Kosovo sono, per ragioni complementari, entrambe piuttosto isolate nell'Europa d'oggi . Vi è infine una tradizionale amicizia nei confronti del popolo ebraico, che ha basi storiche sia fra i serbi che fra gli albanesi: entrambe le nazioni durante la Shoah, benché invase dai nazifascisti, hanno evitato di unirsi ai "volonterosi carnefici di Hitler".
Tutte buone ragioni, ma parziali. Resta il piccolo miracolo di due nemici che, al loro primo accordo, si uniscono nel riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, di un nuovo stato musulmano che apre relazioni diplomatiche con Israele, insomma di una dinamica che conferma le grandi linee diplomatiche di Netanyahu: che la pace va fatta in cambio della pace e non di concessioni territoriali; che non bisogna farsi fermare dai ricatti dei palestinisti, perché il loro potere di blocco si è eroso proprio per l'abuso che ne hanno fatto; che Israele può farsi amici nel mondo per quello che è, autonomamente, senza accettare l'egemonia neo-coloniale dell'Europa.

(Progetto Dreyfus, 8 settembre 2020)


Il fronte del rifiuto rifiutato

Il linguaggio usato contro l'accordo Israele-Emirati ricorda da vicino quello del 1977 contro l'Egitto, e il precedente non promette nulla di buono per i nuovi interpreti dell'intransigenza anti-israeliana.

Nel 1977, poco dopo lo storico discorso di Anwar Sadat alla Knesset di Gerusalemme in cui l'allora presidente egiziano delineò le sue proposte di pace con Israele, l'Olp e cinque paesi arabi formarono un blocco il cui unico scopo era rifiutare qualsiasi compromesso con lo stato ebraico.
Definendosi pomposamente il "Fronte della fermezza e dello scontro", gli stati del rifiuto si erano organizzati attorno a un programma in sei punti. I loro obiettivi principali erano "opporsi a tutte le soluzioni provocatorie progettate dall'imperialismo, dal sionismo e dai loro strumenti arabi" e creare uno "stato nazionale palestinese indipendente su qualsiasi parte della terra palestinese, senza riconciliazione né riconoscimento o negoziati, come obiettivo transitorio della rivoluzione palestinese". Quattro decenni dopo, mentre Israele ed Emirati Arabi Uniti annunciano un accordo di pace di importanza politica e commerciale ancora maggiore, può essere utile ricordare i rispettivi destini di ciascun membro di quel "Fronte della fermezza e dello scontro"....

(israele.net, 8 settembre 2020)


Un programma per le startup italiane in Israele

Nuovo bando "Accelerate in Israel" che offre a start-up innovative italiane l'opportunità di un periodo di accelerazione di dieci settimane nell'ecosistema dell'innovazione israeliano.

di Robert Hassan

L'Ambasciata d'Italia in Israele e Agenzia ICE hanno unito le proprie forze per il nuovo bando "Accelerate in Israel" che offre a start-up innovative italiane l'opportunità di un periodo di accelerazione di dieci settimane nell'ecosistema dell'innovazione israeliano, sicuramente uno dei più dinamici al mondo. A questa seconda edizione collaborano il Ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Intesa Sanpaolo Innovation Center, già a bordo lo scorso anno, la Camera di Commercio e Industria Israele-Italia e acceleratori israeliani.
Il programma è stato migliorato e intensificato rispetto alla prima edizione e il finanziamento che verrà concesso alle start-up selezionate è stato sensibilmente incrementato. Compatibilmente con le restrizioni in vigore per il contrasto al Coronavirus, il periodo di accelerazione di 10 settimane avrà inizio a gennaio 2021.
Il termine di presentazione delle domande di partecipazione alla selezione di cui al bando n. SCI01-20 per il finanziamento della mobilità in Israele delle giovani start-up italiane sulla base dell'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica è stato prorogato e fissato al 30 settembre 2020 ore 17:00, ora di Tel Aviv.
Le domande di partecipazione alla selezione dovranno essere presentate esclusivamente tramite posta elettronica certificata all'indirizzo amb.telaviv.archivio@cert.esteri.it entro e non oltre le ore 17.00 del giorno 30 settembre 2020, utilizzando l'apposito modello di domanda e la scheda informativa. Il testo del bando, il modello di domanda e la scheda informativa possono essere scaricati dal sito dell'Ambasciata d'Italia in Israele .

(Il Corriere Israelitico, 8 settembre 2020)


Che bello il nuovo medio oriente. Ai soliti detrattori non piace e vogliono lo scontro

!l volo Tel Aviv-Abu Dhabi può inaugurare una stagione diversa. Perché è auspicabile che altri paesi adottino questa linea di normalizzazione.

Scrive Yedioth Ahronoth (1/9)

Spesso ci preoccupiamo di dettagli banali mentre facciamo fatica a vedere il quadro più ampio" scrive Ben Dror Yemini. "La visita ufficiale della delegazione israeliana negli Emirati Arabi Uniti - giunta su un aereo El Al che ha sorvolato l'Arabia Saudita con il permesso del Regno - è un giorno di festa per Israele. Volevamo un nuovo medio oriente ed ecco che sta prendendo forma davanti ai nostri occhi. Certo, saremmo stati ben felici se anche i palestinesi si fossero uniti a noi. Saremmo stati ben felici di vedere le bandiere israeliane issate anche a Ramallah, come ad Abu Dhabi. Questo non è ancora successo, ma non c'è motivo di lamentarsi del fatto che la bandiera israeliana ha `solo' sorvolato il territorio saudita senza poter scendere su di esso.
   I critici insistono a dire che non è successo niente di così eccezionale dal momento che Israele intrattiene già da parecchi anni rapporti più o meno clandestini con vari stati del Golfo. Personalmente ho visitato due stati del Golfo (Bahrain e Qatar) negli anni 90 e sono persino andato nello Yemen. Ma poi scoppiò la seconda intifada, l'intifada delle stragi suicide, e tutto si è bruscamente fermato. Tutti i rapporti palesi divennero segreti o semplicemente cessarono di esistere. I fautori della normalizzazione hanno rialzato la testa, e non per amore di Israele ma per i loro propri interessi. Il che è meraviglioso. Quanto vorrei che anche i palestinesi potessero aderire e agire nel loro interesse. Ma preferiscono di gran lunga agire contro se stessi. E' diventata per loro una seconda natura: danneggia noi, ma danneggia molto di più loro. Abbiamo invece bisogno di altre svolte come quella odierna anche con il Sudan e l'Arabia Saudita, con il Bahrain e l'Oman. Forse anche con il Marocco, dove i turisti israeliani già si recavano senza difficoltà prima che si scatenasse il coronavirus. Questo nuovo accordo con gli Emirati non allontanerà la pace con i palestinesi più di quanto non sia già lontana. Al contrario, renderà chiaro ai palestinesi che anche loro devono cambiare corso. Vi sono molte persone di buona volontà sul versante palestinese che capiscono quanto hanno bisogno di un cambiamento, e la loro posizione viene rafforzata da questo accordo con gli Emirati Arabi Uniti e dalle relazioni con altri paesi. Quindi, in termini storici, la visita israeliana negli Emirati di lunedì e martedì è sicuramente una cosa da festeggiare e c'è solo da augurarsi che arrivino altri giorni come questo".

(Il Foglio, 7 settembre 2020)


Il capo di Hamas in Libano contestato dai libanesi

Salutato come un eroe dai palestinesi di Sidone, fortemente contestato dai libanesi che giudicano la sua visita "inopportuna" e persino dannosa per il Libano.

di Sarah G. Frankl

 
Il presidente del Parlamento libanese Nabih Berri (sin.) riceve il leader del movimento islamista palestinese di Hamas Ismail Haniyeh
Una accoglienza da eroe quella riservata al capo di Hamas, Ismail Haniyeh, nell'agglomerato urbano palestinese di Sidone, in Libano.
Il leader dei terroristi che tengono in ostaggio la Striscia di Gaza è stato portato in trionfo in mezzo alla folla urlante alla quale ha promesso «missili su Tel Aviv».
  Ismail Haniyeh è il primo leader di Hamas ad andare in Libano dopo 27 anni e il suo viaggio nella terra dei cedri è volto unicamente a riunire le fazioni palestinesi e ad incontrare il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, con il quale decidere strategie comuni contro Israele.
  Dall'incontro con i capi delle fazioni palestinesi ne è emerso un comunicato nel quale gli stessi palestinesi si impegnano a non interferire nelle questioni libanesi e dove si afferma che i "campi" sono un simbolo di stabilità.
Nulla si sa invece sull'incontro con i vertici di Hezbollah, nemmeno se c'è stato.

 Le reazioni in Libano
  Non proprio amichevoli le reazioni dei libanesi al viaggio di Ismail Haniyeh nel Paese dei Cedri. I social si sono riempiti di commenti del tipo "il Libano ha già abbastanza problemi per avere anche Hamas" oppure altri che lo invitavano a minacciare Israele da Gaza o dalla Cisgiordania. In molti hanno ricordato che i palestinesi in Libano sono solo ospiti e che se vogliono fare la guerra a Israele sarebbe più giusto farla da casa loro.
  In ogni caso ai libanesi non piace la visita del capo di Hamas, non sembra "opportuna" tanto più se il capo terrorista palestinese viene in Libano per parlare di Guerra con Israele quando il Libano è in una situazione davvero spaventosa.

(Rights Reporter, 7 settembre 2020)


Israele dà la stretta. Coprifuoco notturno in quaranta città

Il governo israeliano ha deciso nella tarda serata di ieri di imporre il coprifuoco notturno su quaranta città del Paese, dichiarate zone rosse, per contenere il contagio da coronavirus. A partire da oggi le persone dovranno restare a casa dalle 19 alle 5 del mattino. Lo ha anticipato il sito del Jerusalem Post. Il comitato ministeriale ha deciso inoltre - scrive il giornale - che le scuole saranno chiuse tranne alcuni istituti. Gli assembramenti di oltre 10 persone sono vietati al chiuso, di 20 all'aperto. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, citato dal giornale, ha dichiarato che le soluzioni adottate sono considerate «responsabili e realistiche».

(Nazione-Carlino-Giorno, 7 settembre 2020)


Finkielkraut insegna: il popolo ha bisogno di radici e tradizioni

L'esaltazione della migrazione perpetua cancella l'identità La comunità smarrita riscopre così il valore di patria e storia.

Le posizioni critiche del filosofo francese verso l'immigrazione gli hanno procurato feroci attacchi dai partigiani dell'accoglienza senza limiti. L'ex sessantottino torna sul tema dell'antisemitismo. Da quando gli ebrei hanno un proprio Stato, sono diventati bersaglio anche della Sinistra.

di Francesco Borgonovo

Il nuovo libro del filosofo francese Alain Finkielkraut, In prima persona, una sorta di autobiografia intellettuale appena pubblicata da Marsilio, è sottile ma denso, e come sempre accade con questo autore contiene una marea di spunti interessanti. Dopo tutto, Finkielkraut è uno degli intellettuali più celebri d'Europa, sull'immigrazione e sul cosiddetto «scontro di civiltà», che gli hanno procurato ben più di un attacco da sinistra. E dire che lui proviene da li, la sua vocazione alla militanza è esplosa durante il Sessantotto francese. Lui la sintetizza in un pugno di frasi: «All'inizio fu il conformismo. Nel maggio del '68, come la maggior parte di coloro che si cominciava a chiamare, con una tenerezza da cui già traspariva la deferenza, "i giovani", sono stato investito e in seguito trascinato dall'onda», racconta. «Ho manifestato rumorosamente, ho protestato con coraggio, ho corso a perdifiato; ho attinto, per i miei primi interventi, a un lessico che nel mese di aprile mi era ancora estraneo; come tutti, dall'oggi al domani, ho iniziato a utilizzare la parola compagno, sono stato fedele alla mia epoca attraverso la mia stessa ribellione contro le diverse forme di autorità».
   Il punto fondamentale di tutto il volume è questo: come è possibile che un attivista sessantottino sia diventato un punto di riferimento per il pensiero conservatore? In che modo agiscano altri gruppetti francesi scaturiti da quella stagione lo sappiamo: basta leggere le banalità di Bernard Henry-Levy, nemico supremo dei populisti con la passione per le guerre umanitarie, filosofetto di tendenza impegnato ad attaccare «le destre», e per questo funzionale al pensiero dominante, di cui è servo fedele.
   Finkielkraut, invece, si è mosso nella direzione opposta. Ha avuto il fegato di esporsi ad accuse feroci per le sue idee sul multiculturalismo. «Penso che la parola "migrante" sia rivelatrice in sé», ha detto in una recente intervista a Figaro. «Agli occhi dei partigiani dell'ospitalità incondizionata, dell'apertura infinita delle frontiere, l'uomo che arriva non viene definito né per la sua origine né per la sua destinazione, ma solo per il suo essere in viaggio. Non si vuole vedere in lui altro che l'homo migrator. Questo accecamento è evidentemente problematico e pericoloso, perché l'antisemitismo di cui l'Europa è oggi teatro non è più endogeno, ad esempio. È legato all'immigrazione. Questo deve essere detto con il maggior tatto possibile, perché non si possono certo descrivere i migranti come invasori pogromisti. Ma questo problema dovrebbe perlomeno poter essere evocato. Ora se usiamo la parola "migrante" è impossibile. L'immigrazione è l'ultimo rifugio dell'antirazzismo ideologico. È una fortezza che sembra difficile da espugnare».
   Anche nel nuovo libro Finkielkraut ritorna sul tema dell'antisemitismo. Mostra quanto sia diffusa a sinistra l'ostilità verso Israele, e nota un'inversione di tendenza: gli ebrei, quando erano «senza patria», sradicati, suscitavano l'astio di un certo tipo di destra, che li accusava di essere sostanzialmente gli ideatori di questa figura dell'homo migrator. Oggi che la patria finalmente l'hanno ritrovata, subiscono assalti dalla parte opposta.
   Ed eccoci al nodo centrale della questione, alla grande battaglia ora incorso. Il radicamento - di cui tanto ha parlato Simone Weil ne La prima radice - è un bisogno fondamentale di ogni uomo, ma la civiltà occidentale lo respinge. A lungo l'ideologia dello sradicamento ha funzionato. Finkiellkraut, parlando dei suoi connazionali, scrive che «quando era saldamente consolidata, la componente francese della civiltà europea non significava nulla per loro. Ora che la sua esistenza è messa in discussione, si riaffaccia alle loro menti. Scoprendola precaria, diventa per loro preziosa».
   Questo ragionamento vale anche per noi. Se le destre guadagnano consensi, non è per via di un ritorno delle «forze oscure della reazione», e nemmeno c'entra la famigerata «paura del diverso» sempre chiamata in causa. E' come se gli europei, a un certo punto, avessero lasciato parlare il cuore. Immersi nel caotico mondo liquido della globalizzazione, senza certezze né appigli, si sono resi conto dell'importanza del passato, della tradizione, dell'identità. «Nel momento in cui si rivela deperibile», scrive Finkielkraut, «smettono di trattare questa identità con disprezzo o di prenderla per oro colato. Ne riconoscono l'importanza vitale, e i bambini viziati che erano diventano grati a essa».
   Meglio di chiunque altro, Finkielkraut spiega il sorgere di quello che volgarmente viene chiamato sovranismo. Chiarisce - senza pregiudizi né superiorità morale - perché in tanti oggi si spostino a destra: «Se sono diventati conservatori», dice, «senza che nulla li predisponesse a esserlo, non è perché invecchiando considerino nefasta ogni novità, e nemmeno perché abbiano aderito miseramente al partito dell'Ordine e della difesa dei privilegi; è perché rifiutano di veder scomparire l'ambiente che li ha nutriti e di essere sradicati dalla propria terra». Non sono nemmeno diventati «di destra», in fondo: «La verità è che si preoccupano per la sopravvivenza della comunità storica in cui assume un senso e può svilupparsi il grande scontro tra destra e sinistra».
   Se l'intera cultura europea viene distrutta, e la comunità si sregola, perde di senso tutto, anche la divisione politica. Se i pensatori liberal di casa nostra dessero uno sguardo a queste parole, forse riporrebbero almeno per un po' la superiorità morale e la fissazione per la migrazione a tutti i costi. E si renderebbero conto della granitica verità a cui è giunto Finkielkraut: senza patria e senza radici, i popoli muoiono.

(La Verità, 7 settembre 2020)


Maariv: Israele sta cercando di ripristinare il coordinamento attraverso incontri tra le due parti

Secondo il quotidiano Maariv, Israele sta silenziosamente e segretamente lavorando con i palestinesi al rinnovo dei piani di coordinamento della sicurezza, programmi che l'Autorità palestinese aveva fermato quando il primo ministro, Benjamin Netanyahu, aveva cercato di promuovere l'annessione di alcune aree in Cisgiordania.
   Nell'arco di diverse sollecitazioni, nelle ultime due settimane si sono tenuti incontri ad alto livello tra le due parti con la partecipazione di Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore. Un altro incontro ha visto la partecipazione di alti ufficiali del comando centrale dell'esercito di occupazione, tra cui il comandante Tamir Yadai, il coordinatore delle operazioni governative nei Territori Occupati, Kamil Abu Rokon, e altri ufficiali, con alti funzionari palestinesi vicini al presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen.
   Un funzionario della sicurezza israeliana ha dichiarato a Maariv che l'obiettivo di questi incontri è proprio quello di spingere la ripresa dei piani di coordinamento della sicurezza attraverso figure ben note e centrali nella società e nell'economia palestinese; la personalità palestinese che Kochavi ha incontrato non ricopre una posizione all'interno dell'Autorità palestinese, ma è un dirigente di alto rango, conosciuto e vicino alla leadership dell'Autorità.
   Ad ogni modo, Abbas non ha ancora mostrato segnali di cambiamento nella sua decisione di interrompere il coordinamento e difatti, una fonte politica israeliana, ha dichiarato che quest'ultimo formalmente si aspetterebbe prima un impegno o una dichiarazione ufficiale da parte di Netanyahu e dagli americani riguardo l'annullamento del piano di annessione, anche se "si tratterebbe di qualcosa di inaspettato".

(Infopal, 7 settembre 2020) - trad. Alice Bondi)


Territori occupati ... esercito di occupazione, il riferimento all’occupazione non deve mai mancare nel frasario palestinese ogni volta che si nomina qualcosa che ha a che vedere con Israele. La notizia comunque è interessante.


Dirigenti di banche israeliane si recheranno negli Emirati Arabi

GERUSALEMME - I dirigenti delle due maggiori banche israeliane si recheranno negli Emirati Arabi Uniti questo mese. Si tratta delle prime visite del genere da quando i due paesi hanno concordato di normalizzare le relazioni, lo scorso 13 agosto. Lo rende noto il quotidiano israeliano "Haaretz". Una delegazione guidata dalla Bank Hapoalim partirà l'8 settembre e visiterà Abu Dhabi e Dubai, dove incontrerà funzionari governativi e commerciali, nonché i dirigenti delle più grandi banche degli Emirati Arabi Uniti. Oggi, il Ceo di Hapoalim, Dov Kotler, ha definito la visita "un'opportunità unica per stabilire relazioni economiche e una cooperazione tra i nostri paesi e i loro sistemi finanziari, che produrranno una crescita economica per entrambe le parti". Kotler ha aggiunto che c'era un "desiderio bilaterale immediato" di stabilire forti legami economici. Il presidente e amministratore delegato della Bank Leumi, Hanan Friedman, guiderà una seconda delegazione il 14 settembre. Leumi auspica di dare il via alla cooperazione in materia di finanza, tecnologia, salute, turismo, agricoltura e industria.

(Rassegna Stampa News, 6 settembre 2020)


L'accordo fra Israele e Emirati Arabi Uniti è una vera svolta?

di Antonio Armellini

II faro dell'attenzione mediatica sull'accordo di pace fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti si è attenuato e sono cresciute le interpretazioni e i dubbi: accordo fatto più per dividere che per unire il mondo arabo, soffiando sulla rivalità sunnita-sciita; abile manovra per colpire l'Iran e le sue ambizioni di potenza regionale; mossa propagandistica di Trump in chiave elettorale, e così analizzando.
   Ci sono elementi di verità in queste letture, ma resta il fatto che l'intesa annunciata segna un passo concreto — dopo molti anni — verso l'unica soluzione possibile; quella del riconoscimento della mutua legittimazione per israeliani e palestinesi a coesistere in un territorio che appartiene a entrambi. Una soluzione sfuggita a Oslo nel 1993, per la quale Sadat ha probabilmente pagato con la vita e che, a detta di molti, solo un nazionalista israeliano intransigente potrebbe imporre. Ieri Begin, oggi Netanyahu. Era l'unica soluzione anche per Moshe Dayan.
   Nel marzo 1971, al termine di una complessa visita in Israele del ministro degli Esteri Moro, venimmo invitati per il Shabbat nel kibbutz Gesher, come all'epoca di prammatica; era quello del potere e vi si ritrovava in pratica l'intero governo. Nel clima rilassato delle conversazioni serali Dayan, forse incuriosito dal fatto che ero di gran lunga il più giovane della delegazione di Moro, mi prese da parte per chiacchierare. Era il fresco vincitore della prima delle guerre che si sarebbero succedute e l'eroe incontrastato del momento; mi aspettavo che esaltasse il suo successo. Invece si dichiarò pessimista per il futuro e deluso dell'atteggiamento del suo governo, che non capiva come l'essenza della vittoria non risiedesse nel rafforzamento di un dominio territoriale comunque fragile, bensì nell'opportunità di fare da posizioni di forza un'offerta di pace generosa, da cui Israele per primo avrebbe tratto il maggior vantaggio. Siamo un Paese — disse — che in termini di solidità democratica e sviluppo economico non ha eguali in una regione nella quale siamo assediati, ma che rappresenta invece il nostro naturale mercato di sbocco. La combinazione positiva fra la nostra superiorità tecnologica e capacità produttiva da un lato, e l'abbondanza di manodopera unita alla domanda potenziale della regione dall'altro, rappresenterebbe la vera garanzia di sicurezza a lungo termine per Israele. Temo che non succederà, aggiunse, perché il vento sta cambiando e l'intolleranza rischia di prevalere sul ragionamento. Sono passati più di cinquant'anni: che sia la volta buona?

(Corriere della Sera, 6 settembre 2020)


A parte che pare discutibile il collegamento della morte di Sadat con gli accordi di Oslo, di molti anni successivi, il giornalista vanta una sua chiacchierata a due con Dayan in un momento di massima popolarità del generale, che oggi non può evidentemente spiegare che cosa disse veramente. Ma quanto viene raccontato ai lettori del Corriere è in totale contrasto con l'offerta israeliana agli arabi, al termine della vittoria nella guerra dei 6 giorni, di restituire tutti i territori conquistati (all'epoca i "palestinesi" erano appena nati, da due anni, e non avevano ancora voce in capitolo); ma tale offerta venne rifiutata a Khartoum coi ben noti 3 no. Emanuel Segre Amar


Accordo tra Kosovo e Serbia per la normalizzazione dei rapporti. mediato dagli Usa

Le ambasciate di Serbia e Kosovo saranno a Gerusalemme.

di Alberto Galvi

 
Il presidente degli Usa Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca il primo ministro del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic per normalizzare le relazioni politico-economiche tra i due Paesi balcanici, ed in serata, dopo due giorni di colloqui, è arrivato l'annuncio del raggiungimento di un accordo.
   Il vertice a Washington era originariamente previsto per giugno, ma il presidente del Kosovo Hashim Thaci, che doveva guidare la delegazione del suo Paese, è stato formalmente accusato di crimini di guerra dal tribunale internazionale con sede all'Aia e quindi il vertice era stato in un primo momento annullato.
   Tra gli argomenti discussi nel corso delle trattative ci sono lo spostamento dell'ambasciata Serba in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme entro luglio 2021 e il riconoscimento da parte del Kosovo di Israele. Fino ad oggi non vi sono stati legami diplomatici ufficiali tra Israele e Kosovo, in quanto Israele rifiutava di riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ma con l'accordo di Washington le cose sono destinate a cambiare.
   In questi giorni il Kosovo e la Serbia sono stati in grado di fare un vero passo avanti nella cooperazione economica su una vasta gamma di accordi come quelli sui transiti stradali, ferroviari e aerei.La questione più importante è sicuramente quella della creazione di un mercato unico con tra Serbia e Kosovo, garantendo un libero flusso di persone, servizi e capitali. Non è chiaro quando sarà attuato questo accordo, ma i funzionari di entrambi i Paesi hanno affermato che l'attuazione e la tempistica potrebbero dipendere dal fatto che Trump venga rieletto.
   Dopo l'incontro alla Casa Bianca i due leader dei paesi balcanici si sono incontrati separatamente con il segretario di Stato Usa Mike Pompeo al Dipartimento di Stato.
   Le tensioni tra i due Paesi balcanici continuano ormai dal 2008, da quando il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia, ma quest'ultima ha rifiutato di riconoscerla.
   A livello internazionale gli Usa di George W. Bush sono stati il primo Paese a riconoscere il Kosovo come Stato indipendente. Con questa mossa il presidente Usa voleva in qualche modo cercare di allontanare la Serbia dall'influenza russa.
   La Serbia è da sempre sostenuta dalla Russia per via della sua origine slava e cristiano ortodossa, ed oltre Mosca anche Pechino non ha mai riconosciuto l'indipendenza del Kosovo. Tuttavia il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia è una precondizione per la futura adesione di Belgrado all'Unione Europea e alla Nato.
   Tra le ragioni che spinsero il presidente Usa George W. Bush a volere a tutti i costi l'indipendenza del Kosovo è stata quella di smussare i difficili rapporti degli Usa con le comunità islamiche di tutto il mondo dopo l'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre 2001 e le due conseguenti guerre in Afghanistan e in Iraq.
   Una volta il Kosovo era una provincia serba, ma dopo lo scioglimento della Jugoslavia è diventato terreno di scontro tra la maggioranza della popolazione albanese e le forze serbe. Per fermare la pulizia etnica contro gli albanesi a maggioranza musulmani del Kosovo la Nato lanciò nel 1999 una campagna di bombardamenti contro la Serbia.
   A livello internazionale l'indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta da più di 100 Paesi membri delle Nazioni Unite.
   In seguito a questo vertice il Kosovo riuscirà sempre di più a trovare adesioni nelle organizzazioni internazionali in modo da migliorare il suo status quo.

(Notizie Geopolitiche, 5 settembre 2020)


A chi giova l'accordo Israele-Arabia Saudita

di Alessandro Orsini

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi del Golfo potrebbe essere il primo vero successo di Trump in politica internazionale. Dopo gli Emirati Arabi Uniti, anche il Bahrein annuncia di voler abbracciare Netanyahu. Nessuno cada in inganno: la vera posta in gioco è la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, a cui il mondo islamico deve abituarsi un po' alla volta perché è cosa dirompente sotto il profilo emozionale, capace di destabilizzare un regno intero.
   Astuti, i sauditi mandano avanti gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, satelliti riconoscenti: il 14 marzo 2011, i soldati sauditi si sono recati in Bahrein per schiacciare la primavera araba e salvare la casa regnante. Ma quando toccherà al re saudita di stringere la mano di Netanyahu, la fitta sarà dolorosa. L'intesa è un'operazione di palazzo, senza seguito tra le masse musulmane. Però sarebbe un successo "assoluto" per Trump, nel senso che non avrebbe termini di paragone con nessun altro suo successo in politica internazionale, visto che non ne ha riportato nemmeno uno. Sui fronti caldi, non vi è questione che Trump possa rivendicare come un "successo". In Corea del Nord, Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Mar Cinese Meridionale, Hong Kong, Ucraina dell'est e curdi, Trump non ha migliorato la posizione degli Stati Uniti. Semmai l'ha peggiorata, se pensiamo che la Corea del Nord è diventata una potenza nucleare sotto il suo sguardo e che il parlamento dell'Iraq ha votato l'espulsione dei soldati americani, dopo che Trump ha liquefatto il generale Soleimani con un missile nel traffico di Baghdad del 3 gennaio 2020.
   Ma con riferimento al conflitto israelo-palestinese, le cose non potrebbero andare meglio, anzi peggio, dipende dai punti di vista. Peggio, perché i palestinesi hanno perso la speranza di vedere riconosciuti i loro diritti sanciti dalle risoluzioni dell'Onu, che dovrebbero costituire il diritto internazionale, quel materiale plastico modellabile, a cui i grandi della Terra conferiscono la forma a loro più gradita con disinvolte digitopressioni. Meglio, perché Israele ha vinto in modo totale la guerra iniziata nel 1948. Immaginando che si arrivi a un'amicizia tra Israele e Arabia Saudita, nessuno potrebbe negare il successo di Trump: è lui l'artefice di questa operazione, anche se l'avvicinamento tra sauditi e israeliani è iniziato prima che conquistasse la Casa Bianca. Chi pub dimenticare le dichiarazioni rilasciate, il 19 novembre 2017, da Yuval Steinitz, ministro israeliano dell'Energia? Steinitz rivelò che israeliani e sauditi tessevano, da anni, intese segrete contro l'Iran.
   L'avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita risale almeno al 28 marzo 2002, quando la Lega Araba, riunita a Beirut, offri un'amicizia completa agli israeliani, se avessero concesso ai palestinesi uno Stato con capitale a Gerusalemme est e si fossero ritirati dalle alture siriane del Golan. Figuriamoci: oggi Netanyahu vuole annettere il Golan e tanta terra altrui, Cisgiordania inclusa. Per cui adesso le richieste sono altre: basta che Israele, così dicono gli Emirati Arabi Uniti, non conquisti anche l'ultimo mezzo metro di terra palestinese. Tutto qui. La resa dei Paesi del Golfo è totale e mostra il ruolo enorme della forza in politica internazionale giacché il trionfo di Israele è militare e non politico.
   In Medio Oriente, quasi tutto viene deciso con la forza e la politica riconosce le situazioni di fatto. E così in Libano, Yemen, Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria e Libia. Il problema è che l'abbraccio tra Israele e i Paesi del Golfo non porrà fine al conflitto israelo-palestinese. Trump può negare che il conflitto esista, ma sarebbe come negare l'esistenza del sole, che infiamma chiunque si avvicini. Sotto la guida di Trump, l'Arabia Saudita otterrebbe un effetto e un contro-effetto: l'effetto di indebolire l'Iran grazie a un'alleanza con Israele, e il contro-effetto di rafforzare l'Iran e la Turchia in seno al mondo musulmano, che diventerebbero gli unici paladini dei palestinesi.
   Hamas, ancora a Gaza, assicurerebbe la prosecuzione del conflitto. Senza considerare le fiamme dell'inferno jihadista: l'Isis e al Qaeda userebbero la normalizzazione per ribadire che l'Arabia Saudita è asservita agli americani e pure agli israeliani. Per una pace vera, occorre il diritto. Però la forza va benissimo per una pace finta.

(Il Messaggero, 6 settembre 2020)


Netanyahu non ha da annettere il Golan, che fa già parte del territorio di Israele dal 1980, e che gli USA hanno già riconosciuto come Facente parte della terra di Israele, e quanto alla "tanta terra altrui" intende annettere solo il 30% dell'area che, secondo gli accordi di Oslo, è già sotto il totale controllo, militare ed amministrativo, di Israele; si tratterebbe soltanto di applicare, a quel 30%, il codice civile anziché quello militare. Emanuel Segre Amar



Israele: Malawi, piani per ufficio diplomatico a Gerusalemme

 
Il presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, è un cristiano evangelico con una laurea in teologia ed è da tempo un sostenitore dello Stato ebraico
Il nuovo presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, ha annunciato piani per aprire un ufficio diplomatico a Gerusalemme.
Lo riferiscono i media israeliani sottolineando che la mossa segue quelle di Serbia e Kosovo di venerdì sull'apertura di proprie ambasciate a Gerusalemme.
Chakwera, 65 anni, è un cristiano evangelico con una laurea in teologia ed è da tempo un sostenitore dello Stato ebraico, che ha anche visitato l'anno scorso.
Eletto lo scorso 6 luglio, ha annunciato una serie di riforme che coinvolgono le ambasciate del Paese nel mondo. Se il Malawi aprirà l'ufficio diplomatico a Gerusalemme, diventerà la prima nazione africana con una rappresentanza nella città.

(swissinfo.ch, 6 settembre 2020)


Il piano di Trump si allarga ai Balcani, palestinesi isolati

II fronte Usa dal Medio Oriente all'Europa: dopo gli Emirati, tocca a Kosovo e Serbia

di Michele Giorgio

Gerusalemme - «Non mi sorprende che i riflessi dell'accordo di cooperazione tra Serbia e Kosovo arrivino fino in Israele. È un nuovo capitolo, successivo alla normalizzazione tra Emirati e Israele (annunciata a metà agosto, ndr), del piano dell'Amministrazione Trump per il Vicino oriente e il Mediterraneo». Analista esperto della regione mediorientale, Ghassan al Khatib, ha una lettura lucida dell'ultima «sorpresa» partorita da Donald Trump. La Serbia, ha annunciato due giorni fa il presidente Usa, sarà il primo Stato europeo che sposterà dal luglio 2021 l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme (violando le risoluzioni internazionali).
   E così farà il Kosovo, primo paese a maggioranza musulmana che aprirà la sede diplomatica nella città santa e non a Tel Aviv. Comprensibile la soddisfazione del premier israeliano Netanyahu. Qualche giorno fa aveva celebrato l'accordo con Abu Dhabi — di grande rilievo strategico — e applaudito all'apertura a Israele dei cieli di Arabia saudita e Bahrein.
   «Il coinvolgimento di Israele (nelle intese tra Belgrado e Pristina, ndr) è centrale nella strategia di Washington nell'area tra il Mediterraneo e il Medio Oriente — spiega Khatib — Trump sta formando un fronte con i suoi alleati, nuovi e vecchi, nel mondo arabo e nei Balcani. Gli Emirati, l'Arabia saudita e una parte delle monarchie sunnite, facendo capo a Israele, pilastro a difesa degli interessi statunitensi nella regione, potranno fronteggiare il loro nemico comune, l'Iran».
   Serbia e Kosovo, prosegue l'analista, «si aggiungono agli Stati (dell'Europa orientale) che si oppongono alle ambizioni di Mosca. Anche in questo caso Israele è la potenza regionale che garantisce un ombrello protettivo per conto di Washington». Questa analisi si rafforza se si tiene conto dell'appoggio di Tel Aviv alla coalizione Grecia-Cipro-Egitto schierata contro la Turchia nella disputa per lo sfruttamento dei giacimenti di gas (nel Mediterraneo orientale). I palestinesi, sottolinea Khatib, «sono il sacrificio che Trump offre sull'altare di questo nuovo ordine. Il riconoscimento di Israele e di Gerusalemme come sua capitale è una sorta di condizione che Trump pone agli alleati». Il rinvio dell'annessione (prevista a luglio) di ampie porzioni di Cisgiordania è un prezzo che Netanyahu paga volentieri di fronte agli sviluppi in atto. In ogni caso quel territorio sotto occupazione militare è già nelle mani di Israele.
   I palestinesi ingoiano un altro boccone amaro. «Trump continua a violare il diritto internazionale — ha protestato Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp — La Palestina è vittima delle sue ambizioni elettorali. Questo sviluppo nei Balcani, come l'accordo Emirati-Israele, non porta la pace in Medio Oriente». I palestinesi si aspettano altri annunci di Trump nelle prossime settimane. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salina' sarà a Washington poco prima delle presidenziali e potrebbe ufficializzare la normalizzazione tra Riyadh e Tel Aviv. È la fase più negativa da un punto di vista diplomatico e politico che i palestinesi affrontano nella loro storia recente. Una sfida di eccezionale difficoltà che affrontano con leadership litigiose e deboli in Cisgiordania e a Gaza. A metà settimana i capi di tutte le formazioni politiche palestinesi, fuori e dentro i Territori occupati, si sono parlati in videoconferenza tra Ramallah e Beirut. All'incontro presieduto da Abu Mazen ha preso parte anche il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
   Dagli interventi però non è emersa un'immagine di unità e determinazione. Piuttosto di debolezza e inadeguatezza. I palestinesi hanno visto dirigenti politici ottantenni, rare le eccezioni, che ripetevano frasi rituali. Soprattutto hanno visto un presidente, Abu Mazen, stanco, privo della freschezza necessaria per difendere i diritti del suo popolo.

(il manifesto, 6 settembre 2020)


"Tre sorelle" Mafai per tutte le bimbe ebree

La donazione della scultura di Raphaël


di Lorenzo Madaro

 
Le "Tre sorelle" del 1936, qui nella fusione del 2005,
da oggi alla Casina dei Vallati a Roma

ROMA - È un momento intimo, di grande concentrazione; come in uno scatto fotografico, l'artista ha eternato la complicità e l'affetto, ma anche la bellezza celata dietro a un gruppo di fanciulle intente nella lettura. Sono le sue figlie: le Tre sorelle, opera del 1936 della lituana Antonietta Raphael Mafai, uno dei capolavori del Novecento. La fusione in bronzo dell'opera — eseguita nel 2005 — è stata donata dalla figlia Giulia al Museo ebraico, in ricordo delle bambine ebree morte nei campi di sterminio. La presentazione è in programma alle 13.15 alla Casina dei Vallati.
   L'originale, conservato in Galleria nazionale, fu realizzato in cemento nel 1936. Per Giuseppe Appella, autore del catalogo generale della scultura di Raphael, quest'opera è «simbolo della sua ricerca e della sua provenienza, poiché al centro della cultura ebraica c'è la famiglia. Queste tre ragazze guardano con il sorriso il futuro, insieme rappresentano i valori della fratellanza».
   L'artista ritrae quindi un brano del suo teatro quotidiano: Myriam, la più grande di dieci anni legge un libro ad alta voce e le sue sorelle, Simona (8 anni) e Giulia (6) la ascoltano. «Un gesto semplice e sereno, ripetuto chissà quante volte nelle case ebraiche», racconta Giulia Mafai, costumista oggi novantenne. «La storia potrebbe finire qui, invece il dramma è alle porte: nel 1938 vengono emanate le leggi razziali e in tutte le case ebraiche viene distrutta ogni certezza, ogni dolcezza, il sogno di un futuro. Al ricordo delle vite distrutte prima ancora di incominciare a vivere — sottolinea Mafai — , alla memoria di tutto quello che poteva essere e che per crudeltà umana è stato distrutto, poniamo questo ricordo». L'iniziativa è resa possibile grazie alla collaborazione con la Sovrintendenza capitolina, presso il cui Museo della Scuola Romana a Villa Torlonia l'opera è stata esposta (in comodato) per alcuni anni.
   Moglie di Mario Mafai, Raphael per Appella ha rappresentato un «ponte tra la tradizione e il moderno. Infatti, tutti i grandi critici del passato l'hanno rispettata». Morta nel 1975, a ottant'anni, nonostante la sua fondamentale importanza nella storia dell'arte, avrebbe bisogno oggi di una mostra in un grande museo per riaccendere un faro sulla sua straordinaria arte.

(la Repubblica, 6 settembre 2020)




Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
   --> Predicazione
Marcello Cicchese
novembre 2016


 


Dal prossimo anno Serbia e Kosovo avranno ambasciate a Gerusalemme

L'accordo di cooperazione economica tra Belgrado e Pristina, mediato dall'Amministrazione Usa con la giornata di ieri che ha visto anche la partecipazione di Trump, si riflette fino in Israele. Nell'ambito dei colloqui in corso a Washington, il presidente Trump ha fatto sapere che la Serbia - primo Stato del Continente europeo a farlo - sposterà dal luglio 2021 la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. E che lo farà anche il Kosovo, Paese balcanico a maggioranza musulmana, che avvierà relazioni con Israele. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha salutato «con soddisfazione» l'annuncio arrivato dalla Casa Bianca.

(Avvenire, 5 settembre 2020)


Gerusalemme, scoperti i resti di un antico palazzo dell'epoca dei re della Giudea

Rinvenuti dagli archeologi nel quartiere di Armon Hanatziv. La costruzione viene datata dagli esperti nel periodo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a.C., tra il regno di Ezechia e di Giosia

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - L'Autorità israeliana per le antichità ha rivelato ieri al pubblico i resti di un palazzo monumentale dell'epoca dei re della Giudea (età del ferro, X - VI sec. a.C) rinvenuti nel quartiere di Armon Hanatziv, dove si trova oggi una promenade da cui si gode una spettacolare vista sulla città vecchia di Gerusalemme.
   Tra i reperti rinvenuti dagli archeologi vi sono i resti di sontuosi infissi di finestre e tre capitelli proto-ionici perfettamente conservati. Lo stile proto-ionico è tipico della costruzione monumentale del periodo del Primo Tempio di Gerusalemme. Ne sono stati trovati numerosi esempi negli scavi della Città di Davide - il nucleo originario della città ebraica di Gerusalemme risalente al 1000 a.C. - e anche a Ramat Rachel, alle porte sud della città. Per la sua identificazione con il territorio, il capitello fu scelto anche come simbolo della moneta da 5 sheqel del moderno Stato d'Israele.

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La costruzione del palazzo viene datata nel periodo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a.C., tra il regno di Ezechia e di Giosia. Secondo Yaakov Billig, il direttore degli scavi, potrebbe essere indice della ripresa della città a seguito della devastazione causata dall'assedio di Gerusalemme da parte dell'esercito di Sennacherib, nel 701, dopo il quale il Regno della Giudea fu sottoposto all'autorità assira, pur mantenendo l'autonomia. "Negli anni abbiamo rinvenuto sempre più costruzioni imponenti fuori dal perimetro delle mura della città vecchia e questo potrebbe testimoniare la ripresa dello sviluppo urbano di Gerusalemme superata la minaccia assira, quando la gente si sentiva più sicura di vivere anche in altre zone".
   Secondo lo storico Eyal Meron, tra i massimi esperti di Gerusalemme, il luogo del ritrovamento invece rispecchierebbe l'apparato burocratico dell'autorità locale. "La sua posizione, oltre alla maestosità dei reperti, indica che probabilmente si trattava di un palazzo con funzione amministrativa, come quelli rinvenuti ad Arnona in recenti scavi e a Ramat Rachel: palazzi costruiti fuori dalle mura della città vecchia, in posizioni strategiche rispetto alle vie del commercio" ci dice Meron.
   Il luogo dei ritrovamenti, su una collina circa 3 km a sud rispetto alle mura della città vecchia, fu considerato strategico anche dagli inglesi che durante il Mandato britannico stabilirono qui la casa del Governatore di Gerusalemme, che oggi ospita il quartier generale dell'UNTSO, l'organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione dell'Armistizio.
   Secondo la ricostruzione di Billig, il palazzo fu distrutto nel 586 a.C., con la conquista babilonese di Gerusalemme e la distruzione del tempio salomonico. Due dei capitelli, in pietra calcarea, sono stati rinvenuti sepolti in maniera ordinata, segno che furono nascosti intenzionalmente. "Per quale motivo e da chi, sono domande che caratterizzano di certo questo ritrovamento molto particolare e a cui proveremo a rispondere, considerando anche che si tratta dei capitelli proto-ionici più belli e imponenti che abbiamo scoperto fino a oggi" dice Billig.

(la Repubblica, 5 settembre 2020)


Israele-Emirati: il ministro Peretz lancia un'iniziativa di cooperazione

GERUSALEMME - Il ministro per gli Affari e il patrimonio di Gerusalemme israeliano, Rafi Peretz, ha lanciato un'iniziativa di cooperazione con gli Emirati Arabi Uniti per far giungere in Israele migliaia di turisti, aziende hi-tech e studenti. L'iniziativa di cooperazione in diversi settori si inserisce nell'accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche raggiunto il 13 agosto scorso tra i due paesi. "La pace per la pace è il concetto giusto. Stiamo aprendo la città e invitando gli investitori, i turisti e gli abitanti emiratini a venire a Gerusalemme", ha affermato Peretz. Secondo il ministro, "l'iniziativa porterà prosperità e forza alla nostra capitale e sarà un vero ponte verso la pace".

(Agenzia Nova, 5 settembre 2020)


Recensione Final Account, l'olocausto raccontato dagli ultimi nazisti

La recensione di Final Account, nell'ultimo film documentario di Luke Holland l'Olocausto viene raccontato dal punto di vista dell'ultima generazione di nazisti ancora in vita.

di Umberto Stentella

Presentato fuori concorso in questa atipica 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Final Account cambia le carte in tavola, raccontando la Seconda Guerra mondiale attraverso le parole e i ricordi di chi si è trovato dalla parte sbagliata della Storia, diventando esecutore materiale della follia di Adolf Hitler.
  Non possiamo iniziare questa recensione di Final Account senza prima definire brevemente chi era Luke Holland. L'imperfetto purtroppo è d'obbligo, perché il regista è morto poco prima che venisse terminato il montaggio del suo film, a cui aveva iniziato a lavorare ben 12 anni fa, nel 2008. Discendente di una famiglia ebrea dalla parte della madre, originaria di Vienna ma emigrata per scappare dagli orrori della guerra, Holland ha dedicato grossa parte del suo lavoro da documentarista agli orrori del nazismo. Suoi sono Good Morning Mr.Hitler (1993), ritratto atipico del Führer reso possibile da una serie di filmati del 1939 all'epoca ancora inediti, e anche Ich war Hitlers Sklave (2000), documentario per la TV sull'esperienza agghiacciante di una ragazza sequestrata dei nazisti a 13 anni e costretta a lavorare in una delle fabbriche del III Reich.
  Con questo bagaglio alle spalle, oltre che un ottimo tedesco imparato in giovanissima età in una comunità cristiana del Paraguay, gli ultimi suoi anni Holland gli ha spesi intervistando oltre 250 tedeschi e austriaci, tutti membri dell'ultima generazione di uomini e donne che hanno vissuto in prima persona gli orrori del III Reich, dalla parte dei nazisti.
  In Final Account non troviamo volti o nomi noti, i ricordi non sono quelli dei gerarchi che hanno piegato la Germania al loro giogo. I protagonisti di questo racconto sono gli uomini che, poco più che ragazzini e spesso senza l'approvazione dei genitori, hanno prestato giuramento ad Hitler arruolandosi nelle legioni combattenti delle SS. Sono i testimoni passivi dello sterminio che abitavano a pochi chilometri dai campi di lavoro ma hanno scelto di girarsi dall'altra parte davanti alle sofferenze dei prigionieri, o che ne hanno tratto diretto beneficio, come chi a distanza di decenni racconta compiaciuta di quando andava a farsi curare i denti dai dentisti del lager costretti dai nazisti a servire la popolazione locale: «Erano dei prigionieri molto gentili» ricorda con un'affettuosità disturbante una delle signore intervistate dal documentarista. Ognuno di loro viene presentato con il suo nome e con il suo ruolo all'interno del regime nazista.
  The Final Account si prende il suo tempo, parte dai ricordi della primissima gioventù degli intervistati. Le marce all'aria aperta, le attività fisiche quasi da boyscout della Gioventù Hitleriana e perfino le sinistre canzoncine e i cori che dovevano cantare a memoria: «Affila il lungo coltello nel marciapiede, così entra meglio nel ventre dell'ebreo», canticchia uno degli anziani intervistati. «Per noi era normale cantare una cosa del genere, ti immagini?», chiede cercando l'indulgenza dell'intervistatore.
  Nella sua seconda parte il documentario entra presto nella parte più cupa del racconto, mettendo gli ex sostenitori del Reich davanti alla tragedia dell'Olocausto, salvo trovarsi spesso davanti ad un muro di omertà e autocommiserazione.
  Holland non si perde in virtuosismi, mette al centro la testimonianza degli ex nazisti intervallandola di tanto in tanto con immagini d'epoca e schermate di testo utili allo spettatore per contestualizzare le mezze verità degli intervistati.
  Nel corso dei 90 minuti del docufilm, sono tantissimi i "non sapevo" e i "non potevo intervenire, mi avrebbero arrestato", poche le prese di posizioni nette, anche meno (solo uno) i "non rinnego nulla".
  Alla fine della guerra un soldato americano chiese ad un ufficiale delle SS che giaceva nella mia stessa branda se fosse un nazista. Rispose «certamente». L'americano allora gli prese la mano e gliela strinse. «Sei il primo tedesco che conosca che abbia ammesso di essere un nazista da quando sono qui. Piacere di conoscerti».
  racconta con imbarazzo uno dei pochi ex militari di Hitler a dimostrarsi vivacemente critico del III Reich e dispiaciuto per il suo, seppur marginale, ruolo nella Seconda Guerra mondiale.

 Il volto (dis)umano del Male
  Rassicurati dalle rappresentazioni spesso macchiettistiche hollywoodiane e da meccanismi inconsciamente autoassolutori, ci viene facile pensare ai nazisti come mostri inumani: demoni fisicamente e spiritualmente distanti da noi. Final Account ci mette davanti ad una verità più scomoda.
  Le Waffen SS che radevano al suolo intere città obbedendo all'ordine terra bruciata del Führer e quegli stessi nazisti che sono diventati esecutori materiali della soluzione finale di Himmler rendendo possibile lo sterminio di 6 milioni di ebrei sono proprio qui, davanti ai nostri occhi, a raccontare alla telecamera com'è potuto succedere che per dodici anni l'intera Germania venisse sedotta dall'odio totalizzante di Hitler e del suo nazionalsocialismo.
  I nazisti di Final Account non indossano divise, non portano la svastica, l'unico legame con il passato è il minuscolo tatuaggio con il gruppo sanguigno sul braccio sinistro - un privilegio dato solo ai combattenti delle Waffen SS, spiega uno degli intervistati. Hanno le ciglia folte e increspate, il volto scavato dalle rughe, lo sguardo stanco ma non incapace di momenti di vispezza dei nostri nonni.
  Nella loro voce spesso (ma non sempre) c'è vergogna, l'umiliazione di dover trovarsi a giustificare l'ingiustificabile
  Nella loro voce spesso (ma non sempre) c'è vergogna, l'umiliazione di dover trovarsi a giustificare l'ingiustificabile, l'imbarazzo di non poter ammettere nemmeno a loro stessi di essere stati complici, o anche semplici testimoni omertosi, dello sterminio e delle persecuzioni politiche. «Non lo sapevamo», «lo si diceva a bassa voce», «quello che succedeva lì era un segreto» provano a replicare alcuni degli intervistati parlando dei forni crematori e dei campi dove i prigionieri venivano annientati di lavoro. «Chi dice che non sapeva mente, l'odore dolciastro si sentiva da chilometri», sostiene un altro intervistato parlando di uno dei centri di eutanasia del III Reich.
  Un altro uomo racconta di quando da bambino aveva assistito all'incendio della Sinagoga proprio durante la famigerata Notte dei Cristalli, un episodio che ritorna in più occasioni nei ricordi degli intervistati. Holland cerca di estorcergli un minimo senso di empatia, gli chiede se almeno considera quell'evento un crimine. «Da un punto di vista del diritto bruciare la proprietà degli altri è un reato, quindi si potrebbe dire che chi ha bruciato la Sinagoga fosse un criminale», commenta con il rigore logico che ci si aspetta da un tedesco. «Ma io non provavo nulla, non mi interessava. Gli ebrei erano un'etnia separata dalla nostra»

 La minaccia degli uomini comuni
  «Una volta vennero a nascondersi da noi dei fuggitivi, il giorno dopo le guardie del campo vennero a ricatturarli». Ricorda un intervistato che durante la guerra viveva in una piccola fattoria a pochi passi dal campo di lavoro di Bergen-Belsen salvo ammettere, davanti alle sollecitazione dell'intervistatore, che i nazisti li aveva chiamati lui stesso per paura di ritorsioni. «Non ho idea di che fine abbiano fatto».
  I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere, ecita la citazione di Primo Levi con cui Holland ha deciso di aprire il suo documentario.
  È questa la vera potenza del testamento di Luke Holland: se quelle legioni di Hitler non erano composte da mostri, ma da uomini comuni, meri "funzionari pronti ad obbedire senza discutere" storditi dalla propaganda e accecati dal terrore, allora significa che nessuno di noi, con poche, pochissime, eccezioni, sarebbe stato immune.
  L'opera di Holland non assolve nessuno. L'intervistatore incalza gli ex nazisti, chiede come facessero a sapere di alcuni episodi e allo stesso tempo negare di avervi avuto un ruolo, li mette continuamente davanti alle loro colpe cercando costantemente segni di pentimento.
  Dando un volto umano ai nazisti, Final Account rende il nazionalsocialismo un'ideologia ancora più tossica, virulenta e terrificante di quanto già non ci apparisse prima.
  Holland non ci ricorda gli orrori dell'olocausto, se non in senso marginale, li conosciamo già, li abbiamo già assimilati e condannati. Piuttosto, ci rivela quanto sia semplice diventare esecutori del Male. Ci mostra con prepotenza quanto i principi etici e l'empatia che consideriamo parti inscindibili della nostra identità siano molto più fragili di quello che ci piace pensare. Basta poco per disinnescare ogni traccia di umanità da una persona. Il monito di Final Account è chiaro e allo stesso tempo terrificante: pensare che tutto questo non possa ripetersi rischia di essere un'altra ingenua e pericolosa illusione.
  Concludendo la nostra recensione di Final Account, il film documentario di Luke Holland si presenta come un'opera estremamente efficace e dal fortissimo potere pedagogico che, seppur raccontandoci orrori all'apparenza lontani (ma non abbastanza da non aver lasciato superstiti) lancia un avvertimento tragicamente attuale. Una visione straniante, disturbante ma necessaria per poter capire fino in fondo uno dei più spaventosi capitoli della storia del nostro continente.

(Lega Nerd, 5 settembre 2020)


La cucina israeliana

Un melting pot di culture, etnie e tradizioni che rende la cultura gastronomica israeliana ricca e tutta da conoscere

di Elena Stante

 
Non è facile descrivere la cucina israeliana, dal momento che, essendo Israele uno stato relativamente giovane, ha subìto nel tempo influenze sia dalla tradizione gastronomica ebraica dell'Oriente che da quella di altri Stati d'Europa e del mondo. Per questo nei piatti tipici di questa cucina si trovano affiancate la radicata tradizione ebraica e la forte influenza della cucina araba, il tutto infarcito di abitudini culinarie multietniche.
  La tradizione alimentare ebraica si fonda storicamente sul Kosherut, che indica quello che secondo le prescrizioni della Torah è corretto mangiare. Qui si distinguono i cibi puri e commestibili (il kosher) da quelli impuri e vietati (il taref). Mangiando gli alimenti impuri si danneggia l'anima perché questi cibi, una volta digeriti, entrano nel sangue e "il sangue è anima". Tra gli animali "puri" ci sono i ruminanti con lo zoccolo diviso in due parti e quindi ovini, caprini, bovini ,antilopi e anticamente anche le giraffe; tra quelli impuri i conigli e le lepri, i non ruminanti, i suini e gli equini che hanno lo zoccolo intero.
  Per quel che riguarda gli uccelli, sono impuri i rapaci e gli uccelli notturni, e per i pesci quelli che non hanno le squame; vietati sono ancora anfibi, rettili e roditori. Queste e altre regole alimentari sono insegnate ai bambini sin da piccoli e secondo il Kosherut la tavola imbandita è l'altare e la cucina è come il tabernacolo.
  Tra i tipici piatti che costituiscono il classico spuntino tra un pasto principale e l'altro, ci sono i felafel, polpettine fritte a base di ceci, ma anche lenticchie, fagioli o fave, arricchite dal sapore di cumino, aglio e cipolla; nei vicoli della città vecchia di Gerusalemme ci sono diverse botteghe che, con una sorta di stampino, li confezionano velocemente per poi friggerli nell'olio bollente. In accompagnamento ai felafel c'è l'hummus, una crema di origini antiche fatta con ceci, olio e tahini, una saporita pasta di semi di sesamo.
  Il cibo di strada è molto diffuso anche nei mercati della città nuova; qui si alternano bancarelle che espongono veri trionfi di frutta secca ad altre che vendono pane fresco di vario tipo o ancora verdure sottaceto caratteristicamente "fosforescenti" (niente paura, è l'effetto di tanto aceto) che fanno bella mostra di sé. Le spezie poi sono un altro ingrediente fondamentale della cucina israeliana: lo zaatar è una miscela composta da timo, sesamo e sale, talora arricchita da altre erbe aromatiche come santoreggia, maggiorana, semi di finocchio, origano; si usa per preparare la focaccia tipica della colazione, il manakish oppure per arricchire le insalate o ancora nelle marinate per carne o pesce arrostiti.
  C'è poi il sumac, una spezia antica ottenuta polverizzando le bacche essiccate e triturate del sommacco, arbusto piuttosto diffuso in tutta l'area del Mediterraneo e in Oriente; ha un gusto acidulo che ricorda le foglie dell'erba limoncina e si adopera in alternativa allo zaatar soprattutto sull'hummus con un cucchiaio d'olio d'oliva. Per un gusto diverso c'è poi l'harissa, un trito di peperoncino non piccante, cumino, coriandolo e aglio, che si adatta a diverse pietanze. In Israele si beve il caffè nero aromatizzato con del cardamomo o senza, ma è molto diffuso anche il caffè turco.
  Una tradizione ebraica è quella dello "Special Friday", in cui alla cena del venerdì in cui viene sostituito il Qiddush, ovvero il rito che celebra lo Shabbat, un festeggiamento tra familiari e amici; in questa occasione i ristoranti propongono menù speciali di tipo tradizionale per i gruppi ebrei.
  La maniera più popolare per cucinare la carne in Israele è arrostirla: oltre ai popolari Kebab e Shashlik, è qui diffusa anche la Shawarma di origine turca, preparata con carne di pecora tacchino o pollo, ricoperta con grasso di pecora e servita in striscioline accompagnata da verdure e salse. Altri piatti molto diffusi di origine araba sono il mejadra, un piatto di riso e lenticchie servito con cipolle fritte, e il baba ganush, a base di melanzane.
  Tra i dolci, imperdibile per chi viaggia in questi luoghi è la ciambella alla curcuma e datteri, tipica della città vecchia di Gerusalemme. Spesso le torri di datteri canditi o appassiti al sole fanno bella mostra di sé nelle vetrine dei negozi; i datteri si possono trovare anche freschi nei negozi di frutta ed entrano in numerose preparazioni data l'abbondanza dei palmeti della valle del Giordano. In Israele sono diffusi anche altri dolci sia di origine araba (come la baklava a base di pasta phillo, miele e frutta secca) che di origine ebrea (come i kugel, una specie di pudding insaporito con il caramello).
  E non perdetevi un assaggio del succo di melagrana israeliano, spremuto rigorosamente al momento con spremiagrumi a braccio che lasciano integra la parte bianca del frutto, senza intaccare con un tono amarognolo il succo estratto dai semi. Un vero toccasana che in Israele è vera tradizione.

(Prodigus.it, 5 settembre 2020)


L'accordo Emirati-Israele ha svelato la vera natura dell'ostilità palestinese

La "questione palestinese" è diventata molto più una campagna per raccattare soldi dalla comunità internazionale che non una questione politica attorno a una terra contesa.

Sin dalla nascita di Israele, tutti i governi del paese hanno perseguito la pace con i vicini arabi. Il primo ministro Menachem Begin (Likud) firmò lo storico trattato di pace con l'Egitto e il primo ministro Yitzhak Rabin (laburista) firmò un analogo trattato di pace con la Giordania. Lo stato d'Israele è orgoglioso di entrambi gli accordi di pace e ha cercato di replicarli con altri stati arabi. Tuttavia, negli ultimi dieci anni nessuno ha perseguito la pace con il vasto mondo arabo in modo più assertivo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu....

(israele.net, 5 settembre 2020)


Coronavirus: in Israele 2.766 contagi, percentuale record

A Gaza la pandemia si estende, polizia in forze nelle strade

All'indomani della decisione delle autorità israeliane di imporre da lunedì la chiusura di 30 'zone rosse'', dati diffusi dal ministero della sanità confermano che il livello dei contagi è molto elevato.
Ieri ne sono stati registrati 2.766, pari all'8,3 per cento dei test condotti.
La stampa locale cita una ricerca dell'Università Johns Hopkins secondo cui, con 215,6 contagi al giorno per ogni milione di abitanti, Israele è al primo posto della graduatoria mondiale, avendo superato Brasile (188,7), Spagna (182,4) e Usa (127,2). La cifra complessiva dei casi positivi registrati in Israele è 125.755, di cui 25.277 malati attivi. I decessi sono stati 991.
Situazione allarmante anche a Gaza dove i contagi sono saliti in 24 ore a 577, 116 in più rispetto a ieri. I decessi sono stati quattro. Gaza City ed il nord della Striscia sono in uno stretto lockdown. La polizia ha bloccato il traffico con sbarramenti nelle strade mentre, secondo fonti locali, agenti con manganelli intimidiscono i rari passanti. A Gaza è arrivata da Ramallah la ministra palestinese per la sanità May al-Kaileh.
Con lei sono entrati 20 camion carichi di aiuti sanitari.

(ANSAmed, 4 settembre 2020)


Un drone fa piovere bustine di cannabis su Tel Aviv

Centinaia di bustine di cannabis sono cadute dal cielo nella città di Tel Aviv la scorsa notte e questa mattina nelle piazze Rabin e Dizengoff. La dispersione è stata effettuata utilizzando droni che volteggiavano sulle due grandi piazze. L'obiettivo è quello di promuovere un nuovo canale di vendita aperto sotto il nome di "Green Skimmer" un gruppo dell'applicazione telegram che opera in.Telegrass, il supermercato della cannabis. A seguito di questi eventi due sospetti piloti di droni sono stati arrestati dalla polizia subito dopo l'operazione.
Questo drone ha lanciato pacchetti di cannabis dopo che gli attivisti che cercavano di legalizzare hanno promesso di rilasciare l'erba sui social media.
in un comunicato, la polizia ha affermato di sospettare che le borse fossero piene di un "farmaco pericoloso" e che gli agenti fossero riusciti a recuperarne decine. Le foto distribuite dalla polizia hanno mostrato quella che sembrava essere cannabis all'interno.
Il sito web di notizie Maariv, che mostrava le foto del drone che lasciava cadere le borse, ha detto che i passanti ne hanno prese alcune prima dell'arrivo della polizia. Il filmato mostrava persone che camminavano nel traffico per raccogliere pacchi caduti su una strada.
Attualmente, l'uso medico della cannabis è consentito in Israele, mentre l'uso ricreativo è illegale ma in gran parte depenalizzato.
A maggio, Israele ha acconsentito all'esportazione di cannabis medica, aprendo la strada alle vendite all'estero dalle quali il governo spera di guadagnare centinaia di milioni di dollari di entrate.
Nelle ultime ore, al termine dell'evento, si è scoperto che un'operazione simile era già avvenuta ieri sera in piazza Dizengoff in città. Nel video che è stato distribuito, puoi effettivamente vedere la vista spettacolare di centinaia di sacchi di cannabis che cadono dal cielo.

(it.cannabis-mag.com, 4 settembre 2020)


Riad apre i cieli agli aerei israeliani

Una decisione storica: consentito il sorvolo a tutti i velivoli diretti negli Emirati Arabi Uniti

riAD - L'Arabia Saudita apre i propri cieli a tutti i voli in direzione degli Emirati Arabi Uniti, e rende così anche Israele ancora più vicina ai paesi del Golfo. Con una decisione storica, annunciata ieri, Riad ha autorizzato il sorvolo del proprio territorio da parte degli aerei di «tutti i paesi», incluso Israele, diretti negli Emirati o da essi provenienti.
   L'aereo volato il 31 agosto tra Tel Aviv ed Abu Dhabi passando sopra l'Arabia Saudita non sarà più ricordato dunque come un'eccezione diplomatica ma l'apripista della crescente distensione tra lo Stato israeliano e un parte del mondo arabo musulmano. La decisione saudita è figlia dell'accordo raggiunto di recente da Israele e Abu Dhabi per la normalizzazione dei rapporti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha esitato a definirla «un enorme passo in avanti» e segno di «pace genuina». I voli «saranno più corti e meno cari e questo porterà ad irrobustire il turismo e a sviluppare la nostra economia» ha spiegato il premier sottolineando che la nuova politica saudita apre "l'Oriente" agli israeliani, e non solo, rendendo più semplici i voli in questa parte di mondo. «Voglio ringraziare Jared Kushner (il consigliere del presidente Usa Trump, ndr) e lo sceicco Mohammed bin Zayed (principe ereditario e ministro della difesa di Abu Dhabi, ndr) per l'importante contributo odierno e — ha aggiunto Netanyahu — ci saranno presto molte altre buone notizie».
   Va ricordato che nel volo da Tel Aviv ad Abu Dhabi erano presenti Kushner e due ampie delegazioni: una statunitense (guidata dal responsabile della sicurezza nazionale Usa Robert O'Brien e dall'inviato speciale per i negoziati internazionali Avi Berkowitz) e una israeliana (guidata dal capo della sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat). Ad Abu Dhabi si sono svolti colloqui ad alto livello sulla cooperazione in materia di aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia. Kushner ha definito il volo un «momento storico».
   Secondo gli analisti, la mossa di Riad — annunciata dall'agenzia ufficiale Spa — appare come un ulteriore segnale che si inquadra nella crescente pressione dell'alleanza sunnita-occidentale contro l'Iran sciita. Al tempo stesso, tuttavia, Riad è stata però molto attenta a ribadire — ha scritto su twitter il ministro degli esteri Faisal bin Farhan — che l'apertura dello spazio aereo non cambia di un millimetro «la ferma e stabile posizione del Regno nei confronti della causa e del popolo palestinesi». L'Arabia Saudita «apprezza tutti gli sforzi diretti al raggiungimento di una pace giusta e durevole», ma — ha precisato Bin Farhan — sulla base dell'iniziativa di pace araba, proposta nel 2002 dall'allora principe ereditario saudita, poi re Abdullah.
   Nel gioco diplomatico innescato dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti rientra anche la posizione espressa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. In una conversazione telefonica con Netanyahu ha definito l'accordo con gli Emirati Arabi Uniti «un passo in grado di instaurare la pace in Medio Oriente». Ma ha anche sottolineato «l'importanza di evitare annessioni di territori palestinesi le quali potrebbero far vacillare le possibilità di intesa».

(L'Osservatore Romano, 4 settembre 2020)


Hamas e Jihad islamico hanno incontrato Sayyed Nasrallah

 
l leader di Hamas, Ismail Haniyeh hanno incontrato mercoledì a Beirut il segretario generale del Jihad islamico, Ziad Nakhale.
Insieme, hanno incontrato il segretario generale del movimento di resistenza libanese Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah.
Haniyeh e Nakhale hanno discusso della cooperazione tra i due movimenti della Resistenza palestinese e dei modi per coordinare le loro azioni in risposta al blocco in corso della Striscia di Gaza, al cosiddetto piano di pace del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e all'accordo di normalizzazione tra l'entità sionista e gli Emirati Arabi Uniti. All'incontro hanno partecipato anche altri funzionari dei due gruppi della Resistenza.
L'alto rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan, ha dichiarato che Haniyeh incontrerà Sayyed Nasrallah durante la sua visita a Beirut, sottolineando che i legami tra i movimenti della Resistenza palestinese e libanese sono "strategici".
Haniyeh e al-Nakhale hanno partecipato a una videoconferenza indetta dal capo dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, con la partecipazione di tutte le fazioni palestinesi per discutere l'accordo israeliano con gli Emirati Arabi Uniti.

(Pars Today, 4 settembre 2020)


La vita sotto Hitler narrata in diretta

In «Final Account» la memoria di 300 giovani (allora) aderenti al nazismo

VENEZIA - Dieci anni di lavoro, due Paesi - Germania e Austria - battuti a tappeto, 300 interviste, 11 mesi di montaggio, e un pugno di domande ossessive: in cosa credevano, ieri, i milioni di tedeschi che senza accorgersene divennero nazisti? Cosa pensano oggi di ciò che accadde? E chi paga il conto dell'orrore: solo le vittime, o anche i complici silenziosi del crimine?
   Ed eccolo, il conto finale il documentario Final Account, uno dei primi film selezionati dalla squadra di Alberto Barbera e presentato ieri a Venezia in anteprima mondiale. Quando il cinema è anche Storia, con le sue tragedie. E quando è anche cronaca infelice, con le sue coincidenze beffarde. Il regista, l'inglese Luke Holland, è morto pochi mesi fa. E a portare al Lido la sua opera sono arrivati la moglie, il produttore e il montatore della pellicola. Che è un unicum. Quanti film e documentari abbiamo visto sulla Shoah, dalla parte del popolo ebraico? Ma quanti che hanno come protagonisti gli altri sopravvissuti, non all'Olocausto, ma alla macchina dello sterminio che proprio loro hanno contribuito a far funzionare in maniera perfetta?
   E così nel 2008 Luke Holland iniziò a intervistare l'ultima generazione di tedeschi ancora in vita che avevano fatto parte del Terzo Reich. Conversazioni, più che interviste. E non con gerarchi, politici, ideologhi. Ma comuni cittadini che supportarono i progetti degli architetti del genocidio: giovani uomini e donne - allora, oggi anziani, pensionati, malati, lucidissimi - che entrarono nelle SS o nella Wehrmacht, e che sfilarono nella Gioventù hitleriana. La vita quotidiana sotto il nazismo. Divise, croci uncinate, labari, canzoncine, lettura del Mein Kampf.
   Final Account è un documentario impietoso, in cui il racconto dei testimoni si alterna a filmati del tempo, e le confessioni sono di un candore inversamente proporzionale alla tragedia. «Non c'era tempo per comportarsi come civili». «C'era la disoccupazione...». «Ci avevano insegnato a disprezzare gli ebrei». Sono le voci di chi è stato dall'altra parte e che finiscono con lo svelare che chi dice che non sapeva niente, mente. Come fa notare una ex SA che viveva vicino a un ospedale psichiatrico dove veniva realizzato il programma eugenetico nazista: «C'era un odore dolciastro... Si capiva che lì bruciavano corpi umani. Ce lo dicevamo sottovoce». Ed ecco come uomini fedeli a un'ideologia, ma per il resto assolutamente comuni, hanno finito col prender parte a uno dei più efferati crimini contro l'umanità. Sottovoce.

(il Giornale, 4 settembre 2020)


Bahrein pronto a normalizzare i rapporti con Israele

Il Bahrein potrebbe annunciare la normalizzazione dei rapporti con Israele "molto presto". A renderlo noto questo mercoledì è l'agenzia israeliana Kan 11 News, che menziona un anonimo funzionario israeliano come fonte dell'indiscrezione, che riferisce anche che l'annuncio potrebbe arrivare subito dopo la firma dell'accordo tra EAU e Israele.
   Il regno del golfo potrebbe essere quindi il secondo stato nella regione a stringere relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Il primo passo sembra essere arrivato giovedì sera quando l'Autorità per l'aviazione civile del Bahrein ha annunciato l'autorizzazione dei voli di aerei israeliani nei cieli del Bahrein. Israele ha fatto sapere di essere interessato a un'ulteriore cooperazione nel Golfo, principalmente nei settori della sicurezza e del commercio.
   Il Bahrein è stato uno dei paesi arabi ad aver plaudito all'accordo degli Emirati Arabi Uniti con Israele, senza però aver rilasciato alcun commento pubblico sul fatto che stabilirà legami con lo stato ebraico, ufficialmente boicottato dai Paesi della Lega Araba a causa dell'occupazione dei territori palestinesi.
   Dopo l'annuncio dell'accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele ad agosto, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo e il consigliere del presidente Donald Trump, Jared Kushner, si sono recati separatamente in Medio Oriente per incoraggiare altre nazioni a fare un passo simile.
   Kushner ha incontrato a Manama il re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Durante il vertice il re Khalifa ha ribadito che "la stabilità e la solidarietà nel Golfo dipendono, in tutte le situazioni, dall'Arabia Saudita" e il regno è "con Riad in tutti i casi" per proteggere la stabilità e prosperità della regione. Khalifa ha anche ricordato "le storiche, solide posizioni dello Stato degli Emirati Arabi Uniti nel difendere la causa e i diritti della nazione araba e islamica, e i suoi instancabili sforzi per raggiungere una soluzione giusta e comprensiva" nel rispetto dei diritti del popolo palestinese e per una pace durevole in Medio Oriente.
   Tra i vari Paesi che potrebbero prendere in considerazione la normalizzazione con Israele ci sono l'Oman e il Sudan.

(Sputnik Italia, 4 settembre 2020)


Gruppo di collaborazione tra Camera e Knesset critica l’alleanza di Turchia con Hamas

ROMA - "Esprimiamo una forte critica per l'alleanza della Turchia con Hamas, movimento considerato come terrorista dall'Unione Europea, mentre la situazione in Medio Oriente sta rapidamente evolvendo. Concedere cittadinanza e passaporto a membri del gruppo terroristico islamico è un segnale grave e inaccettabile, che va in direzione opposta a qualsiasi percorso di pace". Così si sono espressi i deputati del Gruppo di collaborazione parlamentare tra Camera e Knesset, i deputati Paolo Formentini (presidente), Emanuele Fiano, Paolo Lattanzio, Andrea Orsini, Emilio Carelli.

(Giornale Diplomatico, 3 settembre 2020)


Coronavirus: nuovo record in Israele. Più di tremila casi in un giorno

di Giacomo Kahn

Nuovo record di casi di coronavirus in Israele, dove per la prima volta sono state superate le 3mila nuove infezioni giornaliere. Le autorità sanitarie hanno riferito che mercoledì sono stati accertati 3.074 nuovi casi, rispetto ai 2.190 del giorno precedente. Nonostante l'aumento dei contagi, martedì è iniziato l'anno scolastico.
Le autorita' si preparano a imporre nuove restrizioni e hanno avvertito che se i contagi non diminuiranno nei prossimi giorni, dovranno essere ripristinate misure di chiusura piu' dure in tutto il Paese e questo proprio nel periodo che precede le grandi festività ebraiche che avranno inizio il prossimo 18 settembre e termineranno a metà di ottobre.
Dall'inizio della pandemia, in Israele sono stati accertati 125.613 casi di coronavirus, con 969 decessi, in un Paese abitato da poco più di 8 milioni di abitanti.

(Shalom, 3 settembre 2020)


Lanciato in orbita il laboratorio di microgravità, frutto di collaborazione italo-israeliana

 
ROMA - Questa mattina è stato lanciato nello spazio il laboratorio di microgravità Dido-3, prodotto di una collaborazione fra l'Agenzia spaziale italiana (Asi) e l'Agenzia spaziale di Israele (Isa), in cooperazione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e il ministero israeliano della Scienza e della Tecnologia. Lo riferisce l'Asi sul suo sito internet. Il laboratorio è stato lanciato insieme ad altri 53 dispositivi (tra nano, micro e minisatelliti) di 13 paesi diversi su un razzo Vega di realizzazione italiana, progettato e costruito dalla società Avio di Colleferro, in provincia di Roma. Il vettore Vega è partito alle 3.51 di questa mattina dalla base spaziale di Kourou nella Guyana francese e la missione "si è conclusa con successo 2 ore e 4 minuti dopo il decollo". A bordo di Dido-3 avranno luogo "quattro esperimenti congiunti italo-israeliani nei settori della ricerca biologica e farmacologica, controllati da terra attraverso un'applicazione mobile". Le università italiane coinvolte sono l'Università Federico II di Napoli, l'Università di Roma 3, l'Università di Roma Tor Vergata e l'Università di Bologna. Dal lato israeliano, secondo il quotidiano "The Times of Israel", sono coinvolte oltre all'Isa anche l'impresa israeliana Space Pharma, il Technion-Israel Institute of Technology, l'ospedale Tel Hashomer, e la Hebrew University di Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 3 settembre 2020)


Attacco israeliano in Siria. Colpita ancora la base T4

Nuovo attacco israeliano alla base T4 in Siria. Come sempre i siriani affermano di aver colpito i missili israeliani, ma testimoni sul campo raccontano un'altra storia.

di Sarah G. Frankl

Un nuovo attacco israeliano in Siria è avvenuto durante la notte appena trascorsa. Ad essere colpita è stata ancora una volta la base aerea T4 nei pressi di Al-Tanf, vicino al confine con l'Iraq.
Secondo l'agenzia di stampa siriana SANA un aereo israeliano avrebbe lanciato diversi missili contro la base T4 ma le difese siriane li avrebbero intercettati e abbattuti quasi tutti.
Un po' diverso il racconto di alcuni testimoni locali i quali affermano che alla base T4 ci sarebbero state diverse esplosioni e che alcuni depositi di armi sarebbero saltati in aria.
Non è chiaro se ci siano vittime. Si parla di alcuni miliziani iraniani che sarebbero deceduti o si troverebbero in gravi condizioni. Ma non ci sono conferme.
Nessuna conferma dell'attacco nemmeno da Gerusalemme che comunque, come al solito, non smentisce.
La base T4 in Siria si trova molto vicino al confine con l'Iraq e per questo viene usata dai pasdaran iraniani per far giungere armi a Hezbollah e alle altre milizie oltre che per trasferire uomini.
Non è la prima volta che Israele colpisce la base T4 ma fino ad oggi nessuno ha elevato formale protesta presso gli organismi internazionali. Un motivo ci sarà.

(Rights Reporter, 3 settembre 2020)


Israele al centro di accordi e intese

Confermate intese sul piano commerciale per Gaza, mentre Israele cerca di organizzare la cerimonia per la firma dell'accordo di normalizzazione delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington.

Israele riapre da oggi il valico commerciale con Gaza di Kerem Shalom e ripristinerà le zone di pesca al largo delle coste della Striscia. Si tratta di provvedimenti che rientrano nelle intese annunciate ieri tra Hamas e il Qatar sulla crisi con Israele. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha sottolineato che si tratta di "fermare l'escalation" lungo il confine dopo un mese di incidenti e riportarvi la calma. E ha precisato che le intese, mediate dal Qatar, includono la realizzazione di progetti a beneficio di Gaza e serviranno a contrastare la diffusione dei contagi di coronavirus.

 Al lavoro per l'attuazione degli accordi di metà agosto
  Ieri l'aereo El-Al LY971, con a bordo il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, e l'inviato speciale di Trump, Jared Kushner, è volato direttamente da Tel Aviv ad Abu Dhabi ed è passato per i cieli dell'Arabia Saudita. Si tratta di sviluppi dell'Accordo raggiunto a metà agosto tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti. Netanyahu e Kushner hanno invocato "pace nella regione". Il lavoro delle delegazioni è cominciato subito dopo l'atterraggio (alle 15.38 locali) con il primo incontro tra il ministro di Stato emiratino Anwar Mohammed Gargash e il capo della delegazione israeliana, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat, al quale ha preso parte anche Kushner. Sono estremamente orgoglioso - ha detto l'israeliano parlando in arabo - di guidare questa delegazione. Sul tavolo ci sono accordi di cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia ma non sulla sicurezza, tema che sarà oggetto di prossimi incontri.
  Per riflettere sul significato e le implicazioni anche simboliche di questo volo, sulle reazioni e sugli sviluppi dell'accordo di metà agosto, abbiamo intervistato Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali alla Luiss:
   Il professor Marchetti sottolinea che l'accordo è senz'altro un passo importante e spiega che si inserisce nel contesto di un avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita in chiave di possibile fronte di alleanza nei confronti del potere sciita in particolare dell'Iran. Ricorda il ruolo dell'amministrazione Trump e la contemporaneità con l'impegno statunitense a spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e ad appoggiare il processo di espansione dello Stato ebraico in Cisgiordania. In questi giorni - ricorda Marchetti - le delegazioni discutono dell'apertura di ambasciate nei rispettivi Paesi, a suggello del terzo accordo di pace tra Israele e un Paese arabo, dopo Egitto e Giordania, che Netanyahu si è detto convinto sarà presto firmato ufficialmente a Washington. A proposito di reazioni all'accordo con gli Emirati, Marchetti commenta che ovviamente c'è quella negativa da parte del mondo sciita e poi spiega che il fronte palestinese è invece meno compatto. Il leader palestinese Mohammad Shtayyeh ha avuto chiare parole di critica parlando di "scena penosa" in relazione al volo aereo con Netanyahu e Kushner, ma si sono levate altre voci palestinesi palesando un approccio più possibilista. In ogni caso, Marchetti nota che ci sono in atto diversi contesti da considerare se si vuole valutare l'accordo nella sua complessità.

 L'aggiornamento sul Covid-19 in Israele e a Gaza
  Il ministero dell'Istruzione israeliano ha autorizzato l'avvio stamane, fra molte misure cautelative, del nuovo anno scolastico malgrado il coronavirus continui a diffondersi a ritmo elevato nel Paese. Nelle località più colpite le scuole sono comunque rimaste chiuse. Ieri, secondo il ministero della Sanità, i contagi sono stati 2.180, ossia il 7,4 per cento dei test compiuti. Complessivamente in Israele i casi positivi sono stati finora 117.241. I malati attuali sono 20.699, 438 dei quali in condizioni gravi. I decessi sono stati finora 946. Situazione preoccupante anche nella Striscia di Gaza, che resta in lockdown da oltre una settimana durante la quale si sono avuti 4 decessi e 286 contagi. Le aree più colpite, riferisce il ministero della Sanità locale, sono Gaza City ed il nord della Striscia, definite adesso 'zone rosse'. Ai loro abitanti viene concesso di uscire di casa solo per rifornirsi di alimentari: ma la polizia presidia gli accessi dei pochi empori aperti ed impone in maniera rigida il distanziamento sociale. Nelle altre aree della Striscia gli abitanti possono spostarsi liberamente entro le loro località di residenza, ma solo nelle ore diurne.

(Vatican News, 3 settembre 2020)


Kalanit Goren Perry: "Momento sfidante ma fonte di opportunità"

 
Kalanit Goren Perry
Debutto ufficiale ieri a Milano per Kalanit Goren Perry, nuovo direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo in Italia. "Sono orgogliosa di essere qui, soprattutto in questo momento particolarmente sfidante che però sarà anche una grande opportunità per studiare nuove iniziative".
   Il Paese, che ha chiuso le frontiere ai flussi turistici dall'Italia lo scorso 29 febbraio a causa della pandemia da Covid-19 ("Purtroppo non abbiamo ancora indicazioni sulla riapertura, a cominciare da quella dell'aeroporto internazionale"), è comunque pronto a giocare le sue carte, non appena le condizioni globali lo consentiranno: "E' indubbio che dovremo attrezzarci con nuove strategie per rilanciare i flussi turistici. In particolare, oltre a Gerusalemme e Tel Aviv, punteremo molto sul deserto del Negev, sulla regione della Galilea, sull'area del mar Morto, zone ideali per stare a contatto con la natura e facilmente raggiungibili dalle città considerate le dimensioni del nostro Paese, in cui viaggiare è davvero facile".
   Nel frattempo sarà "determinante mantenere alta la visibilità della destinazione, anche sul mercato trade attraverso seminari di formazione e attività sui canali social, strumento fondamentale non soltanto per il b2c ma anche per il b2b, oltre ad una rinnovata collaborazione con i tour operator". A proposito di collaborazioni, Kalanit Goren Perry ricorda il recente debutto di El Al sulla rotta Tel Aviv-Abu Dhabi, "potenziale opportunità di interessanti - e inediti - progetti tra le due destinazioni".
   Da sempre appassionata di viaggi, Goren Perry annovera tra le sue esperienze anche una tappa importante in Italia, dove per due anni ha frequentato a Roma la facoltà di Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza, concludendo poi il percorso di studi in Israele con una laurea triennale in cinematografia con tesi in Sound Desgin. Un secondo ciclo di studi la vede impegnata in Scienze Politiche e Diplomazia internazionale con progetto finale dedicato alla comunicazione Visual. Terminati gli studi, un passaggio presso la Società della Protezione della Natura (Spni) concentrandosi su specifici progetti di marketing, approdando poi al Ministero del turismo di Israele attraverso la frequenza al corso di Cadetti a cui hanno fatto seguito l'impegno nel desk Europa e in quello specifico per lo sviluppo del turismo outdoor. Natura, deserto, Eilat, Negev: queste le parole chiave nel lavoro di promozione realizzato da Kalanit in collaborazione con dmc israeliani e to internazionali.
   L'insediamento della consigliera per gli affari turistici dell'Ambasciata di Israele si insedia al posto di Avital Kotzer Adari, che ha chiuso il suo mandato nel nostro Paese lo scorso luglio.

(Travel Quotidiano, 3 settembre 2020)


Tensioni Netanyahu-Gantz, possibile annullamento della riunione di governo

GERUSALEMME - La riunione settimanale del governo di Israele prevista per domenica prossima, 6 settembre, potrebbe essere annullata per la quinta volta in tempi recenti, in seguito a tensioni fra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Benny Gantz. Lo riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel", citando i media locali.
Gli annullamenti delle riunioni, un tempo molto rari, si sono moltiplicati nelle ultime settimane a fronte della crisi che attraversa la coalizione al potere. Lo scorso 24 agosto la Knesset (il parlamento monocamerale di Israele) ha approvato, nell'ultimo giorno utile, un'estensione di 120 giorni della scadenza per la presentazione della legge di bilancio, impedendo così la fine d'ufficio del governo e l'indizione di elezioni anticipate.
Secondo fonti politiche interpellate dall'emittente israeliana "Channel 12", dietro l'annullamento ci sarebbero tensioni fra Netanyahu e Benny Gantz, ministro della Difesa, per le "combattive" dichiarazioni pronunciate da quest'ultimo alla vigilia del voto della Knesset. Gantz aveva infatti dichiarato che il suo blocco politico, la coalizione centrista Kahol Lavan, avrebbe votato in favore dell'estensione, ma nello stesso tempo aveva accusato Netanyahu di non essere riuscito "ad agire nell'interesse nazionale", affermando che in caso di elezioni anticipate "sangue" avrebbe potuto "essere versato per le strade".

(Agenzia Nova, 3 settembre 2020)



La politica antisemita del Vaticano durante la Shoah

Il lavoro dello storico David Kertzer evidenzia chiaramente ancora una volta il pregiudizio antisemita della Chiesa di fronte alle persecuzioni naziste.

di Ugo Volli

A Febbraio scorso, finalmente, dopo molti anni di richieste, il Vaticano ha aperto agli studiosi i suoi archivi riguardanti il papato di Pio XII: il periodo della Shoah e gli anni immediatamente precedenti e successivi. Molti storici si erano prenotati per accedere alle carte, sperando di capire meglio le scelte del Papa che tacque durante la Shoah e non intervenne nemmeno quando i nazisti deportarono buona parte della comunità ebraica romana, praticamente sotto i suoi occhi. Gli archivi hanno funzionato per poco tempo, prima della chiusura generale dovuta al Covid, ma qualche risultato di queste ricerche è già uscito. In particolare è interessante il resoconto che ne dà David Kertzer, lo storico della Brown University che da molti anni lavora sul rapporto del Vaticano con gli ebrei e ne ha tratto diversi libri ben documentati e molto coraggiosi (per esempio Prigioniero del papa re Rizzoli 1996; I papi contro gli ebrei, Rizzoli 2002; Il patto col diavolo Rizzoli 2014).
  L'articolo di Kertzer si può consultare qui e riguarda due episodi molto significativi, di cui quasi solo uno è stato illustrato, in maniera molto parziale e discutibile, nell'unico articolo che la stampa italiana gli ha dedicato (Antonio Carioti sul Corriere della Sera, riportato qui). Questo primo episodio riguarda la proposta che un gesuita, già addetto ai rapporti del Vaticano col governo italiano, padre Pietro Tacchi Venturi (quello che dopo la liberazione cercò di convincere il governo italiano a mantenere in vigore buona parte delle leggi razziste contro gli ebrei) fece a Pio XII a Dicembre '43, ben due mesi dopo il rastrellamento degli ebrei di Roma, di mandare una nota diplomatica di dissenso al regime nazista, peraltro scritta in un linguaggio esplicitamente antisemita. Vi sono, diceva la bozza di Tacchi Venturi, "gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione, ma in Italia le leggi razziali del fascismo hanno già ridimensionato questo pericolo e dunque non serve deportarli". Anche a questo linguaggio, sostanzialmente complice col nazismo, si oppose un altro prelato di curia che aveva un ruolo importante nella diplomazia vaticana, e sarebbe stato poi nominato vescovo (da Giovanni XXIII) e cardinale (da Paolo VI): Angelo Dell'Acqua. Costui sosteneva che era meglio non irritare i tedeschi neanche con discorsi così "comprensivi". E il Papa naturalmente accettò il suo suggerimento. Del suo silenzio si sapeva, se n'è discusso moltissimo: ma è importante trovare la prova che questo silenzio non fu casuale o distratto, ma una presa di posizione politica decisa dopo ragionamenti e discussioni approfondite: meglio ignorare il genocidio e non avere guai.
Gerald e Robert Finaly
La seconda vicenda riguarda meno persone, ma è altrettanto significativa sul piano morale. Riguarda Gérald e Robert Finaly, due bambini figli di una coppia di ebrei austriaci, Fritz e Anni Finaly, che nel '38, dopo l'annessione alla Germania erano fuggiti dall'Austria cercando di arrivare in Sudamerica, ma non avevano ottenuto il visto e si erano trovati bloccati nella Francia meridionale, a Grenoble. . Nel '44, intuendo di essere sul punto di essere catturati dai nazisti, che poi in effetti li catturarono e li deportarono ad Auschwitz e li uccisero lì, Fritz e Anni Finaly affidarono i loro due figli, che allora avevano tre e quattro anni, a un'amica, Marie Paupaert, che a sua volta, terrorizzata dalla loro cattura, li consegnò subito a un convento di monache, le quali a loro volta li affidarono alla direttrice della locale scuola per infermiere, Antoinette Brun, che li trattenne negli anni successivi. Nel febbraio del '45, quando la Francia del Sud era stata liberata dalle truppe alleate, la zia dei bambini, Marguerite, che era rifugiata in Nuova Zelanda, scrisse al sindaco di Grenoble per recuperare i nipotini e poi un altro fratello si presentò di persona da Brun, che però si rifiutò di restituirle i bambini, che nel frattempo aveva fatto battezzare.
  Inizia qui un'odissea che si concluse solo otto anni dopo. Brun continuò a rifiutarsi anche di fronte a un ordine del tribunale, nascose i bambini in un convento e poi li fece espatriare clandestinamente in Spagna. Fu arrestata e con lei diversi religiosi cattolici che le furono complici. Il rapimento di due figli di vittime della Shoah fece molto rumore in Francia, con numerosi articoli di giornale, interventi politici e giudiziari. Era quindi un episodio conosciuto, anche se ormai largamente dimenticato. Quel che Kerzer ha trovato sono gli atti interni al Vaticano, che mostrano come il rapimento dei bambini fosse stato direttamente voluto da Pio XII e coordinato dalle massime autorità del segretariato di stato e della nunziatura (l'ambasciata) vaticana in Francia. Da parte ebraica vi furono interventi del World Jewish Congress e del rabbino capo di Israele Itzhak Herzog che portarono a trattative infruttuose, perché il Papa, per restituire i bambini rapiti alla famiglia voleva la garanzia che non sarebbero stati messi a contatto con l'ambiente ebraico, perché ormai "appartenevano alla Chiesa". Chi per il papato trattava con il mondo ebraico era proprio quell'Angelo Dell'Acqua che qualche anno prima aveva sconsigliato di protestare coi tedeschi e consigliato Pio XII a "diffidare dell'influenza degli ebrei" Alla fine, dopo otto anni di resistenza, nel 1953, solo l'enorme danno di immagine provocato dalla resistenza alle decisioni dei tribunali francesi e dall'arresto di preti e monache sotto l'accusa infamante di rapimento obbligò il Vaticano a cedere, e i bambini poterono arrivare dai loro parenti in Israele, dove in seguito hanno vissuto da ebrei vite normali e ben integrate.
  Solo la felice conclusione differenzia questa storia dall'altra ben nota agli ebrei italiani, il rapimento di Edgardo Mortara a Bologna nel 1858 ad opera di sgherri della Chiesa e il rifiuto di Pio IX di restituire il bambino alla famiglia col pretesto che era stato battezzato. Ma da allora era passato quasi un secolo e in mezzo c'era stata la Shoah, che evidentemente non aveva insegnato nulla alla curia romana, almeno sul rispetto della libertà di religione e dell'integrità della famiglia. Vale la pena di ricordare che chi gestì sul piano diplomatico la difesa del rapimento e coordinò tutti gli sforzi della Chiesa per non restituire i bambini fu il pro-segretario di Stato Giovanni Battista Montini, destinato a diventare papa Paolo VI. Di sua mano, per esempio, è l'istruzione per le trattative con Rav Herzog, in cui si dice che "bisogna prendere le opportuna precauzioni perché essi (i bambini) non tornino a essere ebrei". Sua è la lettera al nunzio vaticano a Parigi in cui si lamenta che "alcuni giornali riferiscono che i fratelli Finaly saranno presto portati in Israele per essere rieducati al giudaismo. Ciò è in contrasto con gli accordi che il cardinale Gerlier ha concluso tempo fa". Sua è la protesta con il governo francese, dopo che i due bambini furono finalmente riconsegnati e portati in Israele dalla famiglia, perché la liberazione dei due rapiti "aveva inflitto un duro colpo ai diritti della Chiesa e anche al suo prestigio nel mondo". Bisogna aggiungere ancora che alla campagna di Pio XII collaborò anche monsignor Roncalli, nunzio a Parigi all'inizio dell'affare (che poi però all'inizio del '53 fu nominato cardinale e trasferito come patriarca di Venezia). Un altro nome pesante della Curia coinvolto in questa vicenda è quello del Cardinale Ottaviani, allora capo del Sant'Uffizio.
  Ricordare questi episodi non vuol dire naturalmente esprimere un giudizio definitivo su tutti gli ecclesiastici coinvolti, che dovevano certamente una rigida obbedienza al Papa. Di qualcuno fra essi, come il futuro Giovanni XXIII, sono documentati numerosi gesti di solidarietà verso gli ebrei perseguitati dai nazisti. Altri erano francamente antisemiti, a partire probabilmente da Pio XII. Quel che storie come questa confermano è l'atteggiamento costante del Vaticano di privilegiare "il prestigio della Chiesa" e i suoi "diritti" sulla vita delle persone. Lo vediamo ancora oggi. E inoltre bisogna leggere in questi fatti una generale diffidenza, un fastidio verso gli ebrei che traspaiono in ogni dichiarazione riportata da Kerzer. Del resto negli anni Cinquanta la "Civiltà Cattolica" organo dei gesuiti ma sempre soggetto all'approvazione papale, continuò la sua secolare campagna contro gli ebrei. La dichiarazione "Nostra Aetate" arriverà solo nel '63, la visita di Papa Wojtyla alla Sinagoga di Roma nell'86, il riconoscimento vaticano dello stato di Israele solo nel '93, quarantacinque anni dopo la sua fondazione. Nei termini di una storia due volte millenaria di persecuzioni e calunnie sono passati solo pochi momenti, si tratta di una tendenza iniziata ma non ancora consolidata come un fatto compiuto: non bisogna illudersi troppo. Per questo il lavoro di chi come Kerzer indaga sulla persistenza del pregiudizio antiebraico nella Chiesa è prezioso.

(Progetto Dreyfus, 3 settembre 2020)



Tra Emirati e Israele accordi su finanza e innovazione

Delegazione di Israele ad Abu Dhabi

Un comitato congiunto per la cooperazione nei servizi finanziari e la promozione degli investimenti è stato istituito da Israele e gli Emirati arabi uniti nel corso della visita di una delegazione israeliana ad Abu Dhabi.
Dopo lo storico avvicinamento tra i due Paesi, i governi stanno ora mettendo a fuoco le aree di partnership economica. «L'obiettivo è rimuovere le barriere finanziarie per permettere investimenti reciproci e promuovere investimenti congiunti nei mercati dei capitali» ha sottolineato un comunicato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
«Le opportunità di partnership per le imprese israeliane ed emiratine - ha specificato il comunicato - avranno un focus molto forte sull'innovazione e la tecnologia».
È stato inoltre concordato un piano di cooperazione tra l'Abu Dhabi Investment Office (Adio) e Invest in Israel. «L'ecosistema di Israele può offrire molto all'economia degli Emirati in termini di innovazione, soprattutto nei settori delle scienze biologiche, delle tecnologie per l'agricoltura e l'ambiente, dell'energia» ha dichiarato Ziva Eger, amministratore delegato di Invest in Israel. Nel prossimo futuro verranno conclusi accordi, oltre che nel campo dei servizi finanziari, anche in altri settori: turismo, energia, sanità e sicurezza.

(Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020)


Rivelazione media israeliani: "Netanyahu in segreto nel 2018 a Abu Dhabi"

 
Rivelazione odierna del quotidiano Yediot Ahronot, dopo lo storico volo che ieri ha portato per la prima volta un aereo della El Al da Tel Aviv a Abu Dhabi sorvolando l'Arabia Saudita. Il premier Benyamin Netanyahu nel 2018 ha visitato in segreto gli Emirati Arabi incontrando il principe della corona Mohammad bin Zayed. Secondo il quotidiano, che cita fonti diplomatiche, all'incontro tra i due leader prese parte anche il direttore del Mossad, Yossi Cohen e la riunione si svolse in una buona atmosfera. Nonostante il fatto non sia stato confermato dall'ufficio del premier, il quotidiano ha ricordato che proprio ieri Netanyahu, all'atterraggio del volo ad Abu Dhabi, ha accennato di aver incontrato "molti leader nel mondo arabo e musulmano" ancora non noti al pubblico.
Intanto nel Golfo proseguono oggi gli incontri delle delegazioni israeliana e Usa con quella degli Emirati prima della ritorno in Israele previsto per questa sera. Al termine della prima tornata di riunioni, ieri sera ad Abu Dhabi si è svolta una funzione religiosa a cui hanno partecipato il capo della delegazione, Meir Ben Shabbat ed esponenti della comunità ebraica locale.

(Politica News, 1 settembre 2020)


Tregua tra Israele e Hamas

L'accordo reso possibile dalla mediazione del Qatar

Spiragli di dialogo in Medio Oriente. Hamas, il movimento islamico che controlla la Striscia di Gaza, e Israele hanno annunciato ieri sera un accordo per porre fine alle ostilità al confine. Da oltre un mese, infatti, quasi quotidianamente razzi e palloni incendiari lanciati dalla Striscia di Gaza hanno colpito il territorio israeliano, particolarmente nel sud. Da parte sua, Israele ha risposto con raid aerei.
   «Grazie a una serie di contatti, i più recenti con l'inviato del Qatar Mohammed el-Emadi, è stato raggiunto un accordo di tregua per contenere l'escalation e porre fine all'aggressione contro il nostro popolo» ha dichiarato, in un comunicato, il leader politico di Hamas a Gaza, Yahya Sinouar. La trattativa «ha portato a un accordo tra noi e Israele per far tornare la calma nella regione e prevenire un'escalation di violenza». I palloni incendiari lanciati dalla Striscia hanno causato — secondo la France Presse — più di 400 incendi nelle piantagioni israeliane, con un bilancio drammatico per molti agricoltori e imprenditori. Da parte sua, oltre ai raid, Israele ha intensificato il blocco sulla Striscia con nuove restrizioni, soprattutto sulla pesca.
   «Se Hamas, che è responsabile di tutte le misure prese nella Striscia di Gaza, non adempie ai suoi obblighi per riportare la calma lungo il confine, Israele agirà di conseguenza» hanno dichiarato ieri sera esponenti israeliani citati dalla France Presse. Va ricordato che, sotto l'egida del Qatar, dell'Egitto e delle Nazioni Unite, Hamas e Israele lo scorso anno avevano raggiunto un accordo di tregua che prevede un aiuto mensile di 30 milioni di dollari, pagato dai qatarini, a Gaza, oltre a una serie di progetti economici per frenare la disoccupazione, che oggi supera il 50%. Con il nuovo accordo raggiunto ieri, secondo una fonte del movimento islamico, il finanziamento del Qatar aumenterà da 30 milioni di dollari a 35 milioni di dollari al mese. Inoltre, il governo del Qatar ha annunciato anche nuovi progetti volti a migliorare le condizioni economiche e sanitarie degli abitanti della Striscia.

(L'Osservatore Romano, 2 settembre 2020)


E’ un collaudato giochino di Hamas che si ripete da diversi anni: lancia missili e bombe incendiarie su Israele, provoca danni e molto fastidio, Israele si stufa e comincia a colpire duro, Hamas allora minaccia sfragelli, tutti sanno che è un bluff, ma per evitare noiose rotture di equilibri gli usuali elemosinieri di Gaza si decidono ad allargare la borsa. Obiettivo raggiunto, accordo concluso, tregua d’armi annunciata, la pace a intermittenza continua. In attesa della prossima richiesta di fondi avanzata in forma di lancio di missili e bombe incendiarie su Israele. E’ così che Israele contribuisce, passivamente e suo malgrado, a quella che è “la migliore pace possibile” in Medioriente. M.C.


Conversazione in ebraico tra Netanyahu e un rappresentante degli Emirati Arabi Uniti

Chi l'avrebbe detto solo poche settimane fa: una conversazione in ebraico tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e uno degli accompagnatori della delegazione israelo-americana ad Abu Dhabi. Durante il loro scambio, il Primo Ministro è colpito dal livello di ebraico rivelato dal suo interlocutore - che gli confida di aver imparato tramite Zoom - e si congratula per il suo contributo alla costruzione della normalizzazione tra Israele ed Emirati. "Una pace non solo tra i leader ma anche tra i due popoli". Il rappresentante degli Emirati spera che Benjamin Netanyahu venga presto a trovarlo, e da parte sua, Netanyahu gli chiede personalmente di far parte della delegazione degli Emirati che verrà in Israele, "dove sarà accolto calorosamente, come la delegazione israeliana ad Abu Dhabi" .
"Beezrat HaShem" (con l'aiuto di Dio), risponde il suo interlocutore!

(lphinfo.com, 1 settembre 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Raid aerei sulla Siria, vittime civili. Israele principale sospettato

Contraddittorio il ruolo russo: Putin non ferma Netanyahu e spera nel ritiro dell'Iran.

di Michele Giorgio

Un'altra notte di bombardamenti. Scie luminose di missili che attraversano l'oscurità, seguite da esplosioni. Gli abitanti di Damasco e di altre località siriane le vedono spesso, da anni. E talvolta pagano con la vita questi attacchi notturni. Israele non conferma ma sono pochi i dubbi sulla paternità del pesante raid aereo che lunedì notte si è concentrato su «obiettivi» a sud della capitale siriana e nei pressi della città meridionale di Deraa.
   I media ufficiali siriani parlano di un nuovo attacco israeliano, aggiungendo che la difesa antiaerea ha abbattuto buona parte dei missili sganciati dai cacciabombardieri. Anche questo attacco ha causato vittime ma non se ne conosce con precisione il numero. Sana, l'agenzia di stampa statale siriana, ha riferito di due civili uccisi — tra cui una donna —e di sette feriti. Per l'Osservatorio siriano per i diritti umani, a Londra e legato all'opposizione, i morti sarebbero 11, tra cui sette combattenti stranieri filoiraniani.
   La posizione di Israele è nota. Il premier Netanyahu descrive i raid come operazioni preventive volte a impedire che l'Iran e i suoi alleati possano allestire in Siria basi da dove lanciare attacchi a Israele. Una «difesa attiva», così è definita, che la Siria, alle prese con lo scontro tra l'esercito e le organizzazioni armate islamiste e jihadiste, ha dovuto assorbire senza reagire. La superiorità militare di Israele, soprattutto aerea, di cui si è fatta garante l'amministrazione Trump di nuovo nei giorni scorsi, è netta e non colmabile dalla Siria.
   I russi, alleati di Damasco, mantengono inattivi gli S-300 che hanno schierato in Siria che sarebbero in grado di respingere gli attacchi. Il modus vivendi stabilito da Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu per la crisi siriana prevede che Mosca lasci a Israele il diritto di autodifesa, ossia di attaccare indisturbato le postazioni iraniane e le milizie sciite in Siria. Non è un mistero che il Cremlino vedrebbe con piacere il ritiro delle forze di Tehran dalla Siria. Così come è noto che la Russia stia chiedendo a Bashar Assad di fare concessioni al tavolo dei negoziati sulla futura carta costituzionale che il presidente siriano non è pronto a fare.
   A preoccupare Damasco più di tutto però è il piano statunitense in Medio Oriente che non è limitato solo alla questione israelo-palestinese. In esso rientrano, ad esempio, la recente normalizzazione tra Israele ed Emirati e politiche volte a provocare la caduta di Assad e la fine dell'alleanza tra Siria, Iran e il movimento libanese Hezbollah. Il 17 giugno Washington ha varato sanzioni dure contro la Siria impegnata a combattere la pandemia e una grave crisi economica. E stando all'agenzia curda Basnews sta ora lavorando al riconoscimento Usa dell'indipendenza o della piena autonomia da Damasco della regione di Jazira, nel Rojava. Secondo l'agenzia, gli Usa starebbero discutendo con i clan arabi locali e i rappresentanti dei partiti curdi di una soluzione che vedrebbe ogni componente etnica amministrare la propria area, grazie anche al sostegno americano e saudita.
   Per raggiungere l'obiettivo, aggiunge Basnews, Washington vuole riunire sotto un unico ombrello le varie organizzazioni politiche e militari curde, divise sui passi da fare e sui rapporti con Damasco, con gli Usa e vari sponsor regionali. Se è vero, si tratterebbe della realizzazione del progetto di cui si parla di frantumazione del territorio siriano, suddiviso nel nord-est sotto controllo curdo, nella regione occidentale di Idlib nelle mani dei jihadisti e della Turchia e il resto del paese (più o meno) sotto il controllo del governo centrale.

(il manifesto, 2 settembre 2020)


Israele-India: Nuova Delhi verso acquisto due sistemi radar Phalcon

GERUSALEMME - Il governo dell'India starebbe per approvare l'acquisto di due sistemi radar di preallarme e controllo (Awacs) Phalcon da Israele. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", citando i media indiani. L'acquisto, del valore di circa 1 miliardo di dollari, sarebbe in corso da alcuni anni e dovrebbe essere discusso dal governo indiano nella prossima riunione della Commissione di gabinetto per la sicurezza. I sistemi in questione, montati su un aereo russo Ilyushin-76, permettono la scansione elettronica e possono rilevare e tracciare aerei, missili cruise e droni prima dei radar di terra.
   L'aeronautica dell'India ha ottenuto i primi tre sistemi radar Phalcon nel 2009, dopo un accordo da 1,1 miliardi di dollari firmato tra Nuova Delhi, Israele e Russia. La notizia giunge in un momento segnato da crescenti tensioni fra l'India e la Cina, che come il Pakistan possiede più sistemi radar Awacs delle forze indiane. Secondo il "Jerusalem Post", dopo l'acquisto la consegna dei sistemi potrebbe richiedere dai due ai tre anni.
   Negli ultimi anni Israele ha fornito vari sistemi di armi, missili e droni all'India, che figura tra i principali compratori di forniture militari israeliane. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso marzo dall'International Peace Research Institute di Stoccolma, lo Stato ebraico è l'ottavo fornitore al mondo di armi, vendute principalmente in India (45 per cento del totale), Azerbaigian (17 per cento) e Vietnam (8,5 per cento).

(Agenzia Nova, 2 settembre 2020)


Il primo storico volo tra Tel Aviv e Abu Dhabi. Tre ore verso la pace

Sorvolati i cieli sauditi. E il Qatar negozia un accordo Israele-Hamas

di Sharon Nizza

 
TEL AVIV — «Benvenuti a bordo dello storico volo 971 Tel Aviv-Abu Dhabi». L'atteso annuncio è stato pronunciato ieri alle 11:30 dal capitano del primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati. L'aereo ha condotto nella capitale emiratina una delegazione diplomatica per avviare le trattative bilaterali in vista della firma dell'accordo tra i due Paesi, a Washington forse già il 15 settembre. Sul volo anche una delegazione americana guidata dal consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, l'artefice dell'avvicinamento strategico tra Israele e l'asse sunnita in chiave anti-iraniana, che da Abu Dhabi proseguirà per Riad, per convincere i reali a presenziare alla cerimonia alla Casa Bianca.
   Una tratta di tre ore, grazie all'autorizzazione concessa da Riad al primo velivolo con bandiera israeliana a sorvolare lo spazio aereo saudita, che dice molto sul nuovo corso. Una traversata dei cieli sauditi "alla luce del sole", ha detto il premier Netanyahu da Gerusalemme: è ormai noto che per anni questa rotta è stata battuta da jet anonimi che hanno trasportato alti funzionari e almeno in un'occasione Netanyahu stesso, oltre a Tahnun bin Zayed, il Consigliere per la Sicurezza nazionale emiratino. All'atterraggio la delegazione è stata accolta dal Ministro degli esteri Anwar Gargash. Meir Ben Shabbat, il Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, ha fornito un'immagine ad effetto pronunciando il primo discorso pubblico su suolo emiratino con la kippà in testa, in arabo e in ebraico. Le relazioni sono state avviate in sette settori: aviazione civile, visti, finanza, innovazione, turismo, salute e cultura.. Una delegazione dedicata solo a questioni di sicurezza partirà nei prossimi giorni. Significativo perché, se è vero che alla base del disgelo annunciato a sorpresa il 13 agosto vi è l'interesse comune ad arginare le mire iraniane e turche sull'area, la percezione è che ci sia anche una sincera volontà di mutuo scambio a livello della società civile, a differenza di quanto accaduto con Egitto e Giordania, dove la "pace fredda" è sempre rimasta sul piano degli interessi strategici nazionali.
   Quanto ai palestinesi, il premier Shtayyeh ha espresso dolore nel «vedere un aereo israeliano atterrare negli Emirati, in una chiara violazione della posizione araba sul conflitto». Kushner ha ribadito: «C'è una proposta che li aspetta, sta a loro decidere quando tornare al tavolo». Le mosse nel Golfo si riverberano anche su Gaza: dopo settimane di scontri con Idf, ieri sera Hamas ha annunciato la tregua «grazie alla mediazione dell'inviato del Qatar». Al-Emadi ha trascorso una settimana nella Striscia per raggiungere l'accordo a ogni costo e rivendicare così il ruolo strategico di Doha rispetto ai vicini emiratini.

(la Repubblica, 1 settembre 2020)


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In viaggio verso la pace. Primo volo commerciale Israele-Emirati Arabi

È partito da Tel Aviv diretto ad Abu Dhabi. Il premier Netanyahu: «Giornata storica»

PASSO DOPO PASSO
L'annuncio: «Ho invitato una delegazione nel nostro Paese»
CLIMA CAMBIATO
«Stenderemo il tappeto rosso per loro come hanno fatto con noi»

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Alle 11,15 di ieri il volo LY971 dell'El Al ha intrapreso il suo viaggio verso il futuro, per la prima volta nella storia un aereo israeliano carico di diplomatici, businessman, giornalisti si è avventurato sul deserto saudita col permesso di sorvolarlo in pace. L'avventura della più grande sfida che l'uomo deve affrontare, la pace, ha toccato un'altra tappa in cui Israele e il mondo arabo sono i protagonisti. «Una giornata storica», dice il premier Benjamin Netanyahu, che invita una delegazione di Abu Dhabi nello Stato ebraico: «Stenderemo loro il tappeto rosso come hanno fatto con noi».
   È la terza volta, dopo le intese con Egitto e Giordania, che lo Stato ebraico sormonta divieti più spessi di qualsiasi muraglia: ma è accaduto e sull'aereo del ritorno, LY972 (all'andata col prefisso telefonico degli Emirati, al ritorno con quello di Israele), hanno viaggiato travolti dall'emozione il direttore del ministero degli Esteri Meir Ben Shabbat con i rappresentanti governativi della sicurezza, della salute, della tecnologia. Con loro, indispensabili angeli custodi dell'accordo preceduto dalla cancellazione del boicottaggio, il consigliere e genero di Trump Jared Kushner, quello per i negoziati internazionali Avi Berkovitz, per gli Affari iraniani Brian Hook e per la Sicurezza nazionale Robert O'Brian.
   L'evidente importanza del gruppo americano, che prosegue nel suo giro mediorientale dopo avere incontrato Netanyahu a Gerusalemme, è un segnale chiaro, alla vigilia delle elezioni di novembre, dell'importanza che Trump attribuisce all'accordo «Abraham», alla sua capacità di spostare l'opinione pubblica americana dall'idea suggerita dai nemici di Trump, che abbia reso il mondo un luogo più pericoloso, a quella che sia il presidente che porta la pace in un Medioriente certo non perfetto, ma migliorato. Una pace realista e non ideologica, come l'invito negli Emirati a Papa Francesco.
   Che cosa è questa pace? È una svolta fondamentale che - come ha detto Kushner - «non permette al passato di disegnare il futuro», ovvero cancella i «no» dettati dalla questione palestinese e dalla politica anti normalizzazione che Abu Mazen ha scelto come strada per mantenere il potere, col rifiuto delle offerte di pace, la scelta di finanziare i terroristi. Lo sfondo ideologico su cui l'amministrazione Trump ha potuto lavorare è doppio: da una parte la garanzia israeliana anti Iran; dall'altra un campo arabo in cui primeggiano gli Emirati di Mohammaed bin Zayed, grande costruttore dell'accordo, appassionato del dialogo interreligioso come dell'idea grandiosa di un Paese unico al mondo, legato alla tradizione araba ma modernizzatore. E molto distante dall'idea della Ummah islamica, un immenso territorio per il miliardo e 800 milioni di musulmani del mondo, un solo impero, un leader, molti nemici da battere: il panarabismo e poi l'Islam sciita dell'Iran e ora quello sunnita di Erdogan ne sono i portabandiera. Ma il pericolo che rappresentano è cresciuto negli anni. E intanto si è presentata l'opportunità per MbZ di diventare il salvatore dei palestinesi dalle annessioni previste dal piano Trump. Netanyahu ha pagato volentieri il prezzo della rinuncia alla sovranità sul 30% della zona C sperando prima di tutto nella pace oltre che con gli Emirati anche con gli altri che vorranno seguire (Bahrain e Oman, si desidera l'Arabia Saudita) e si disegna che finalmente i palestinesi vogliano approdare a una trattativa.
   Le possibilità esistono, dato che il loro veto si è spezzato. II mondo arabo ripete che «due Stati per due popoli» rimane il suo obiettivo, Israele conferma che è disposto alla trattativa, ma nessuno accetta la premessa della solita serie di no a qualsiasi soluzione che non sia quella imposta da una leadership palestinese di volere solo la guerra. Invece ora chi vuole la pace abramitica (fra ebrei, musulmani e cristiani) potrebbe crescere di giorno in giorno. Da una parte il Medioriente disegna l'immagine di alleanze con i colori di Tel Aviv e dei grattacieli di Abu Dhabi. Dall'altra, lo scoppio di Beirut e le stragi in Siria, le riunioni di Erdogan con Hamas e le minacce di Nasrallah, colorano di nero il panorama.

(il Giornale, 1 settembre 2020)


Il pilota israeliano che ha rotto il tabù. "Un'emozione volare nei cieli sauditi"

Primo volo commerciale tra Tel Aviv e Abu Dhabi dopo la apertura delle relazioni diplomatiche tra i due ex nemici Riad concede l'autorizzazione a sorvolare lo spazio aereo. A bordo l'inviato della Casa Bianca Kushner: "Giornata storica".

La storia della hostess che aveva cominciato con i voli per l'Iran: "Ora vado in pensione" Hamas annuncia la tregua con lo Stato ebraico sulla pesca al largo di Gaza

di Fabiana Magri

 
L'arrivo sulla pista dell'aeroporto di Abu Dhabi
TEL AVIV - Oltre alla portata epocale per gli equilibri in Medio Oriente, il primo volo commerciale senza scalo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, operato dalla compagnia israeliana El Al, ha travolto anche la sfera privata dell'equipaggio: due piloti, un primo ufficiale, cinque hostess e uno steward. Ieri sera, al telefono con La Stampa dalla stanza dell'hotel dove ha alloggiato ad Abu Dhabi prima di ripartire oggi per Tel Aviv, il capitano Tal Becker, quarantacinque anni di carriera, di cui gli ultimi venticinque al comando di aerei di linea, aveva la voce rilassata. Sostiene che ai piloti insegnino a mettere da parte le emozioni. Ma i dettagli del suo racconto, un po' di emozione la tradivano. «Giornalisti e fotografi andavano e venivano in cabina di pilotaggio. Il cielo era limpido, senza nuvole e turbolenze che a volte incontri sorvolando l'Europa. Le procedure sono sempre le stesse, stesso il linguaggio e la terminologia. Solo che il controllore che mi rispondeva, questa volta era un arabo saudita». L'emozione in realtà era trapelata già alla partenza, nella foto che l'ha ritratto affacciato al finestrino della cabina di pilotaggio, mentre sistemava le due bandierine - israeliana ed emiratina - proprio sotto la parola «pace», scritta in arabo, inglese ed ebraico applicata sulla carlinga dell'aereo.
   Il check-in per il volo LY 971 - AUH, con a bordo due consistenti delegazioni ufficiali, l'israeliana e la statunitense, si è aperto poco dopo le sette del mattino di ieri e l'imbarco è avvenuto dal Gate El del Terminal 3.11 nome dell'aeromobile, un Boeing 737-900, è Kiryat Gat, come la città nel centro di Israele. Il carrello ha sollevato le ruote dalla pista del Ben Gurion alle 11:22 (ora israeliana) per atterrare ad Abu Dhabi alle 15:38 (ora locale del Golfo). Dopo trenta minuti di volo, il capitano Becker annunciava che, per la prima volta, un aeromobile registrato in Israele sorvolava i cieli dell'Arabia Saudita grazie a una speciale autorizzazione concessa da Riad. A quarantacinque minuti dall'atterraggio, l'inviato speciale (e genero) del presidente Usa, Jared Kushner, ringraziava i sauditi: «Sono stati molto gentili a permetterci di sorvolare il loro spazio aereo. Anche questa è una svolta storica». Il volo è durato poco più di tre ore e un quarto. Se non fosse stato per l'Arabia Saudita, ce ne sarebbero volute più di sette. A bordo con il funzionario della Casa Bianca, c'erano il Consigliere per la sicurezza nazionale Robert O'Brien, e gli inviati di Trump Brian Hook e Avi Berkowitz, rispettivamente per l'Iran e il Medioriente.
   Mentre i canali istituzionali veicolavano foto e immagini delle rappresentanze ufficiali, la stampa si interessava alle vicende personali dell'equipaggio. Nelle "stories" su Instagram di Shimon Yaish, corrispondente di «Israel Hayom», c'era Hedva, responsabile della cabina. Quello odierno sarà il suo ultimo volo. Hostess El Al fin dai tempi dei voli diretti con l'Iran, al ritorno da Abu Dhabi andrà direttamente in pensione. Un'assistente di volo, Liat Elazar, ha confessato al reporter che nelle ultime notti l'emozione le ha tolto il sonno. Pensava a come sarebbe stato orgoglioso suo padre, ucciso in un attacco terroristico in Turchia, con indosso l'uniforme El Al.
   C'è da aspettarsi che questo storico volo di andata (ieri) e ritorno (oggi) avrà un impatto anche sul destino della compagnia di bandiera dello stato ebraico, che da due mesi aveva lasciato a terra tutti i suoi aerei, effetto della crisi per il coronavirus. Un altro primato da ricordare per i voli LY 971 e LY972, numeri che corrispondono rispettivamente ai prefissi telefonici degli Emirati Arabi Uniti e di Israele. Il direttore ad interim degli affari internazionali di El Al, Stanley Morais, non se la sente di affermare che questa tappa salverà la compagnia, piagata dalle ingenti perdite (244 milioni di dollari) nella prima metà del 2020. Ma queste giornate hanno soffiato una ventata di ottimismo anche sul destino del vettore israeliano. «Del resto - ha commentato Morais - El Al esiste da quando esiste Israele, è un po' il suo brand, c'è sempre stato nei momenti storici». Nell'aprile 1980, un anno dopo la sigla degli accordi di pace tra Israele ed Egitto, aprì la rotta Tel Aviv - Il Cairo. «La situazione era molto diversa - ricorda il dirigente -. L'Egitto è stato il primo Paese arabo in assoluto a fare la pace con Israele, si trattava di una nazione confinante, da lungo tempo in guerra. Quello di oggi è un traguardo dell'epoca moderna, tecnologica, cyber». E poiché di business prevalentemente era stato stabilito che si sarebbe parlato, lasciando i temi di sicurezza e difesa a una delegazione in partenza nei prossimi giorni, a bordo del volo c'erano tecnici e diplomatici, direttori di ministeri ed esperti nei settori del turismo e della cultura, dell'innovazione e dell'hi-tech. Nessun politico, a parte il coordinatore della rappresentanza israeliana Meir Ben Shabbat, Consigliere per la Sicurezza Nazionale.
   E mentre si levavano gli scudi palestinesi contro l'evento, giudicato «una scena penosa» dal premier Shtayyeh e «una coltellata nella schiena del popolo palestinese» dal portavoce di Hamas, fonti israeliane citate dal sito Ynet confermavano le intese tra Hamas e il Qatar sulla crisi con lo stato ebraico. Da oggi riaprono il valico commerciale di Kerem Shalom e le zone di pesca al largo della costa della Striscia. Prima di avallare le altre richieste, Israele attende l'interruzione dei lanci di palloni incendiari da Gaza.

(La Stampa, 1 settembre 2020)


Un patto storico con gli arabi per arginare turchi e iraniani

II decollo è stato preceduto da una missione del Mossad. La nuova alleanza mette nell'angolo i palestinesi. Kushner: "Ora negoziate"

di Giordano Stabile

Le immagini delle bandiere israeliana ed emiratina affiancate, che dilagano ad Abu Dhabi e su Internet, fanno il paio con i poster del principe ereditario Mohammed bin Salman con la Stella di David impressa sulla tunica, a mo' di spregio, branditi dai manifestanti di fronte alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. «Adesso sarà più facile per un emiratino visitare Al-Aqsa che per noi palestinesi», ragionava uno di loro. Il volo fra la capitale dell'emirato e Tel Aviv dura tre ore. Il nuovo treno veloce porta dall'aeroporto alla Città Santa in trenta minuti. Il pellegrini benestanti del Golfo potrebbero presto affollare il terzo luogo santo dell'islam. Una sconfitta epocale per la causa palestinese.
   Anche se Jared Kushner ha invitato la dirigenza a rimettersi al tavolo del negoziato, Abu Mazen è all'angolo. Dopo il trasferimento dell'ambasciata Usa, dopo "l'accordo del secolo" che lo privava di un pezzo della Cisgiordania, ha puntato sulla solidarietà araba. Nessun accordo di pace con Israele se prima non nasce uno Stato palestinese, nei confini del 1967. Questo era il patto tacito.
   Bin Zayed ha rotto il tabù. Kushner e Donald Trump contavano che si trascinasse dietro altre nazioni arabe, Bahrein, Sudan l'Arabia Saudita. Prima delle elezioni del 3 novembre. Sarà difficile. Re Salman, a differenza del figlio Mohammed, pensa ancora in vecchio stile, non vuole correre rischi con l'opinione pubblica interna. E ha preferito che fosse l'uomo forte di Abu Dhabi a fare da apripista. Se la sua `visione" avrà successo, e il dissenso limitato, anche Riad seguirà. È una visione che verte soprattutto sulla sicurezza regionale. Bin Zayed vede i due fronti avversari sempre più uniti. Il primo nemico è l'Iran e il messianesimo sciita che infiamma le minoranze nel Levante e nella Penisola arabica. Non a caso il primo alto ufficiale israeliano a essere accolto è Meir Ben-Shabbat, a capo del Consiglio nazionale di sicurezza. Prima di lui era arrivato la settimana scorsa il numero uno del Mossad, Yossi Meir Cohen.
   Lo scambio di informazioni sarà cruciale per frenare i Pasdaran. Ma anche per affrontare il secondo fronte ostile, e cioè Turchia, Qatar e Fratellanza musulmana. Gli analisti israeliani sottolineano come le reazioni di Ankara e Teheran all'accordo di pace con gli Emirati siano state dello stesso tono. Subito dopo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha incontrato il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Istanbul. Lo stesso Erdogan ha evocato più volte la necessità di «liberare Gerusalemme». Retorica, propaganda, certo. Ma anche un modo per inserirsi nella spaccatura fra palestinesi e Stati arabi del Golfo.
   Abu Dhabi la giudica una dinamica pericolosa, perché può contare sulle finanze del Qatar, le meglio fornite nel Golfo. Doha finanzia Hamas, ma anche le milizie libiche, Ankara fornisce consiglieri militari, droni, la forza del secondo esercito della Nato. Messi assieme sono due rivali formidabili e questo ha spinto il principe Bin Zayed a osare sempre più.
   Lo Stato ebraico può dargli una grossa mano. I servizi emiratini già collaborano con il Mossad, sottobanco, da anni. Ora è probabile che ricevano supporto tecnologico. Il principe conta sull'ok di Benjamin Netanyahu per l'acquisto dei caccia invisibili americani F-35. Il che farebbe dell'aviazione di Abu Dhabi la seconda più letale in Medio Oriente, dopo quella israeliana. Il premier israeliano ha invitato una delegazione emiratina e precisato che «li accoglieremo con il tappeto rosso». Seguirà la firma degli accordi alla Casa Bianca, a metà settembre. Poi ci sono i dividenti economici. La legge sul boicottaggio contro Israele, che risaliva al 1972, è stata abrogata. Israele è collegata per la prima volta con il Golfo e gli hub aeroportuali che servono tutta l'Asia. Questo significa incrementare il traffico, soprattutto d'affari, e agevolare la trasformazione dell'emirato da rentier petrolifero a snodo del commercio e della finanza.
   Una scommessa che vale forse la rabbia dei palestinesi e il rischio di una fronda interna nel nome della "causa araba".

(La Stampa, 1 settembre 2020)


Israele nella nuova "Nato araba", mirino puntato su Iran e Erdogan

Il primo volo fra Tel Aviv e gli Emirati archivia anche il sogno palestinese di una patria autonoma

di Alberto Negri

Il volo commerciale tra Israele ed Emirati effettuato ieri è sicuramente un evento storico ma anche una storica presa in giro. II nome dell'aereo israeliano scritto sulla fusoliera è quella di una colonia, cioè quello di una terra strappata ai palestinesi, un nome ebraico che ha sostituito quello arabo originale.
   Ma non c'è dubbio che si sia trattato di un volo storico, anche per un altro motivo: l'Arabia Saudita ha concesso il suo spazio aereo, confermando due cose. In primo luogo lo stretto legame tra la monarchia degli Zayed negli Emirati e Riad, dove comanda il principe assassino Mohammed bin Salman, mandante dell'omicidio del giornalista Jamaal Khashoggi. In secondo luogo abbiamo l'indicazione che l'Arabia Saudita, pur con grandi esitazioni, potrebbe in un prossimo futuro seguire gli Emirati e riconoscere lo stato ebraico: un evento epocale perché i sauditi sono i custodi dei luoghi sacri dell'Islam.
   Ma anche restando ai dati attuali non si può non notare che questo accordo tra Israele ed Emirati sta delineando un asse di alleanze in Medio Oriente e nel Mediterraneo di grande rilevanza. Gli Emirati e l'Arabia Saudita, con il pieno appoggio americano, sono tra i maggiori sostenitori del generale egiziano Al Sisi che ha con Israele buoni rapporti nel campo della difesa e dell'intelligence. Questa alleanza che ha avuto e ha ancora il suo campo di battaglia nel sostegno, anche se molto meno convinto di prima, al generale libico Khalifa Haftar _ insieme a Russia e Francia _ fonda il suo collante ideologico nel fronte comune contro i Fratelli Musulmani e in generale contro i movimenti riformisti o rivoluzionari del mondo arabo.
   Ma ha soprattutto come nemico sul terreno la Turchia di Erdogan che si è impadronita della Libia e punta alla risorse energetiche di gas offshore nel Mediterraneo orientale. Non è certo un caso che in questa coalizione anti-turca ci sia in prima istanza la Grecia, avversario storico della Turchia, ma anche la Francia e Israele che hanno espresso solidarietà alle posizioni di Atene. Rafforzate dall'accordo sulle zone economiche speciali nel Mediterraneo proprio tra Grecia ed Egitto, un'intesa del mese di agosto che fa da controaltare a quella tra la Turchia e il governo del presidente Sarraj a Tripoli sulle acque territoriali e che ha poi condotto alla concessione ad Ankara di basi militari navali e aeree.
   Questo asse tra potenze arabe regionali e Israele è già stato definito come una sorta di "Nato araba" a trazione ebraica che oltre alla Turchia ha come avversario l'Iran, fortemente temuto proprio dalle monarchie del Golfo e dallo stesso Israele. Non dimentichiamo che l'anno è cominciato il 3 gennaio con l'assassinio da parte dell'America di Trump del generale iraniano Qassem Soleimani, colpito da i missili di un drone all'aeroporto di Baghdad, in violazione di ogni norma del diritto internazionale.
   Ma anche un altro episodio clamoroso va letto in questa ottica delle coalizioni nascenti: l'immane esplosione il 4 agosto al porto di Beirut. Incidente, attentato sabotaggio che sia, possiamo misurarne in queste ore le conseguenze. Il presidente francese Macron, esponente dell'ex potenza coloniale, si trova a Beirut - dove si è appena insediato il nuovo premier Mustafà Adib - per negoziare con i poteri libanesi ma soprattutto con Hezbollah, il movimento sciita protetto dall'Iran e che aveva proprio nel generale Soleimani un punto di riferimento militare ineludibile. La reazione di Hezbollah è stata interessante: il segretario generale di Hassan Nasrallah, ha aperto alla proposta di Macron di stringere un nuovo patto politico "ma a condizione che la discussione sia condotta con la volontà ed il consenso delle varie fazioni libanesi".
   Le mosse di Macron possono essere lette in due modi. II primo è che l'ex potenza coloniale ridiventa protagonista, si erge a protettrice di cristiani ma riconosce il peso politico di Hezbollah. Il secondo che gli Usa potrebbero essere irritati da queste ingerenze francesi perché il piano americano per il Medio Oriente, appoggiato dalla "Nato araba" e da Israele prevede, oltre all'annullamento dei diritti dei palestinesi, che sia totalmente ridimensionata l'influenza nella regione dell'Iran e dei suoi alleati, a partire da Hezbollah. Per questo gli Usa hanno varato pesanti sanzioni economiche contro Iran e Siria che colpiscono anche il Libano e in generale tutta la "Mezzaluna sciita".
   Ecco perché definire in questo contesto "accordo di pace" quello tra Israele ed Emirati è falso e fuorviante. In primo luogo Emirati e Israele non sono mai stati in guerra e non è previsto nulla che vada incontro alle esigenze di palestinesi e alla soluzione dei due stati: si tratta invece dell'affossamento di queste speranze. E poi in realtà siamo di fronte al varo di una coalizione politica e militare che gli Usa e Israele vorrebbero allargare ad altri stati arabi. Viene chiamata "Nato araba" perché affianca quella originale percorsa da tensioni altissime tra Grecia, Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale.
   Un'alleanza atlantica dove la Germania cerca di ritagliarsi anche a Sud spazi di diplomazia autonomi ma che allo stesso tempo è nel mirino degli americani per il gasdotto Nord Stream II con la Russia e che è stata "punita" da Washington con lo spostamento di truppe americane in Polonia. Questo nasconde lo "storico" volo commerciale Israele-Emirati: allacciate le cinture.

(il Quotidiano, 1 settembre 2020)


Ma ora Israele teme la Turchia: "Erdogan il vero pericolo"

L'intelligence incontra i servizi arabi: "Oggi Iran più fragile. È Ankara la minaccia"

di Marco Ansaldo

Ora Israele teme la Turchia e lavora ad una strategia dotata di almeno tre obiettivi per indebolire Recep Tayyip Erdogan. Perché oggi non è più l'Iran, "potenza ormai declinante", nelle parole del direttore dell'agenzia di intelligence israeliana, Yossi Cohen, la "vera minaccia". Ma un Paese emergente e considerato più pericoloso.
   La recente intesa fra Israele e Emirati Arabi sta aprendo fronti inattesi in Medio Oriente. Altri Stati arabi si preparano all'iniziativa israeliana di un accordo. Ma il governo guarda con preoccupazione ai contatti sempre più frequenti di Ankara con Hamas a Gaza, i Fratelli musulmani in più Paesi arabi e Con i gruppi islamici anche in Galilea, fra gli araboisraeliani. Per non parlare di Gerusalemme Est, la parte palestinese della città, dove nei negozi e ristoranti un tempo si vedevano ritratti di Yasser Arafat ed ora sono stati sostituite da foto del presidente turco, vero anello di congiunzione con il network dei Fratelli musulmani, formidabile in termini di unione spirituale quanto finanziaria. In Galilea e in altre zone di Israele con una forte presenza araba Erdogan pompa fiumi di denaro attraverso le moschee.
   L'allarme, e il cambio di strategia di Gerusalemme, è arrivato in un vertice con i servizi segreti, non a caso di Paesi arabi: gli Emirati, l'Egitto e l'Arabia Saudita, quest'ultima sede del summit. "Il potere iraniano oggi è fragile - ha sostenuto Cohen - la Turchia ha capacità militari ben superiori". E l'intelligence israeliana per depotenziare Ankara si concentra su tre direzioni.
   Il piano discusso ha l'obiettivo di lavorare il "Rais" ai fianchi. La leva principale sono i curdi. I guerriglieri impegnano da quasi 40 anni l'esercito turco nel Sud Est dell'Anatolia in una guerra logorante. Un conflitto endemico, con decine di migliaia di vittime. Israeliani e Paesi arabi sono convinti di poter impegnare le forze armate di Erdogan su più fronti curdi, come Siria e Iraq, per arrivare a sfiancarlo.
   Punto numero due: la Siria di Bashar el Assad, da anni nemico giurato di Erdogan. L'idea è quella di usare, su quel fronte, gli iraniani alleati di Damasco mettendoli contro i turchi, cercando di indebolire ulteriormente Ankara piazzatasi nel nord curdo dopo l'offensiva militare dell'autunno scorso.
   Infine, l'Iraq. Nel nord Ankara intrattiene fruttuose relazioni commerciali con il governo del Kurdistan iracheno. Il sud è in mano agli sciiti, fino iraniani. L'intento è invece di agire sui partiti che rappresentano la comunità sunnita, togliendo alleati ad Ankara, e tentando un ribaltamento a favore degli arabi ora amici di Israele.

(la Repubblica, 1 settembre 2020)


Da 40 anni scomparsi De Palo e Toni. Giallo tra stragi e Olp

di Fulvio Scaglione

Italo Toni e Graziella De Palo
E' il 2 settembre 1980. I giornalisti italiani Graziella De Palo e Italo Toni escono dall'Hotel Triumph di Beirut e salgono su un'auto mandata dall'organizzazione palestinese Al Fatah. Hanno avvertito l'ambasciata d'Italia in Libano: se non torniamo entro tre giorni, venite a cercarci. Infatti non tornano, se ne perde ogni traccia. 2 settembre 2020, oggi: sono passati quarant'anni e la verità sulla sorte dei due giornalisti sembra ancora lontana. De Palo (24 anni) e Toni (50), compagni nella vita e vicini al Partito radicale, erano esperti di politica internazionale e si erano segnalati, poco prima del fatale viaggio in Libano, per inchieste che avevano fatto molto rumore (in particolare su "Paese Sera"). Lei aveva raccontato il traffico delle armi che partivano dall'Italia e, invece che ai destinatari "ufficiali", finivano a terroristi di vario genere, compresi i brigatisti nostrani. Lui aveva descritto i campi di addestramento in cui i miliziani palestinesi si preparavano alla guerriglia. Il viaggio in Libano, organizzato con la collaborazione dei rappresentanti in Italia dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, li portava nel cuore delle loro indagini. Il Paese era devastato dalla guerra civile, dall'ingerenza armata della Siria e dal perpetuo scontro tra i palestinesi e Israele. Ed era l'epicentro, anche spionistico, di una lunga serie di questioni mediterranee.
   Il 2 agosto di quell'anno, inoltre, la strage alla stazione di Bologna, con i suoi 85 morti, aveva sconvolto l'Italia. E tra le tante piste d'indagine era poi spuntata anche quella che legava l'attentato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: poco prima della strage, infatti, un militante del Fronte era stato arrestato a Ortona (Chieti) con due lanciamissili Sam-7 di produzione sovietica. Un intervento che annullava il cosiddetto "logo Moro", ovvero quel tacito patto politico per cui l'Italia sarebbe rimasta al riparo da attentati finché le organizzazioni palestinesi avessero potuto muoversi senza ostacoli nel nostro Paese. Il presidente Cossiga e la Commissione Mitrokhin, in seguito, indicarono proprio nei palestinesi i veri autori dell'attentato a Bologna. E da li a dedurre che il rapimento dei giornalisti italiani, a Beirut, avesse potuto essere una rappresaglia dei palestinesi per la questione dei lanciamissili, il passo era stato breve.
   Comunque sia, quel 2 settembre del 1980 Graziella De Palo e Italo Toni spariscono nel nulla. I palestinesi, che controllano la parte Ovest della città in cui si trova l'albergo dei giornalisti, accusano le milizie cristiane che controllano la parte Est, e viceversa. Nel mezzo la figura del colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut, vecchia conoscenza di Aldo Moro che l'aveva anche nominato due volte nelle lettere scritte prima di essere ucciso dai brigatisti. Giovannone era stato tirato in ballo dalla De Palo nella sua inchiesta sui traffici d'armi ma è proprio a lui che, di fatto, viene assegnato il compito di indagare sulla sorte dei giornalisti. Giovannone diffonde tesi diverse, prima sostenendo che la De Palo è viva, poi che è morta. Nel 1982 la Procura di Roma apre una vera inchiesta giudiziaria ma il colonnello muore a sua volta nel 1985, quando è in attesa di giudizio.
   Della sorte dei due giornalisti italiani oggi non sappiamo molto più di allora. Inchieste giornalistiche e libri sono stati scritti negli anni, senza però venire a capo del mistero. Nel 1984 il Governo Craxi appose all'inchiesta il segreto di Stato, in seguito prorogato dal Governo Berlusconi. Nel 2014, essendo trascorsi i trent'anni previsti come limite massimo a tale provvedimento, una parte dei documenti è stata desecretata. Non però le carte decisive. Tanto da spingere la Federazione Nazionale della Stampa, il 25 giugno di quest'anno, a chiedere il sequestro presso la presidenza del Consiglio di tutti gli atti relativi all'inchiesta.
   A non arrendersi mai, in questi quarant'anni, sono stati i familiari dei due giornalisti, insieme ad alcuni esponenti politici e intellettuali. Nel dicembre del 2019, su richiesta loro e di alcuni colleghi di Graziella De Palo e Italo Toni, la Procura di Roma ha accettato di riaprire le indagini. L'esperienza non insegna a essere ottimisti. Ma la tenacia di chi cerca la verità si è mostrata più forte di tante, troppe delusioni.

(Avvenire, 1 settembre 2020)


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