Io punirò il mondo per la sua malvagità
e gli empi per la loro iniquità;
farò cessare l'alterigia dei superbi
e abbatterò l'arroganza dei tiranni.
Isaia 13:11

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Dio con noi
    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.

Marcello Cicchese
febbraio 2024

Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Il rotolo della Torah in una mano, la spada nell’altra: nuovi soldati Haredì in Tzahal

di Ludovica Iacovacci

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La spada e il rotolo della pergamena possono coesistere tra i palmi degli Haredì, la Torah e la difesa di Israele possono andare di pari passo per chi porta le peot. Tradizionalmente, gli Haredim sono stati esentati dal servizio militare in Israele, questione che ha creato e continua a creare tensioni tra le diverse sezioni della società israeliana. La comunità Haredì ha spesso dimostrato contrarietà al servizio di leva, argomentando che l’osservanza religiosa avrebbe dovuto essere la priorità. Le esigenze del conflitto in corso a Gaza, il desiderio di creare una società israeliana più unita nonché dissidi politici e sociali hanno riportato l’annosa questione al centro del dibattito pubblico israeliano.
La nuova Brigata Hahashmonaim ha cominciato a guadagnare attenzione per aver aperto le porte ai soldati Haredim come parte di un programma di reclutamento mirato. Domenica 5 gennaio, i primi 50 soldati Haredim sono stati arruolati per il servizio regolare e formeranno il nucleo della prima compagnia della brigata. Altri 100 uomini Haredim, più anziani, sono stati arruolati nella prima compagnia di riserva della brigata per iniziare i sei mesi di addestramento di fanteria, dopo di che diventeranno parte effettiva.
Tzahal ha detto che il reclutamento dei 150 soldati è stata una “pietra miliare significativa” nella creazione della Brigata Hahashmonaim, e “il processo di espansione [del numero di] membri della comunità Haredì nel servizio di Tzahal, soprattutto alla luce delle esigenze operative derivanti dalle esigenze della guerra”. Lo stile di vita Haredì sarà rispettato durante il loro servizio nell’esercito israeliano. Secondo un rapporto del quotidiano Israel Hayom, i soldati che prestano servizio nella nuova brigata saranno autorizzati a indossare “abiti del sabato” quando non sono in servizio (anziché uniformi militari), potranno partecipare alle preghiere e ci sarà un’ora obbligatoria di studio della Torah ogni giorno. Alle truppe è stato anche concesso di avere telefoni “kosher”, ovvero dispositivi su cui i social media e la maggior parte delle altre applicazioni sono bloccati. Difatti, il problema nell’arruolare gli Haredim non è esclusivamente il servizio militare in sé quanto l’ambiente dell’esercito, spesso incompatibile con uno stile di vita religioso. Il traguardo sarebbe raggiunto quando un giovane Haredì possa entrare in Tzahal e uscirne ancora Haredì.
Il vice capo di Stato maggiore, il colonnello Amir Baram, ha visitato la base della nuova brigata Haredì la scorsa settimana e ha acceso una candela di Hanukkah con il comandante della brigata, il maggiore generale Avinoam Emunah. Il colonnello Baram ha detto: “Grazie a voi, si è presentata una grande opportunità, un grande privilegio, per essere il primo a stabilire una brigata haredi nell’IDF. E intendiamo che sia haredi, in modo da mantenere il loro stile di vita haredi, affinché anche gli haredim che vengono reclutati se ne vadano come haredim. Non c’è contraddizione tra l’ebraismo devoto e haredi, e la guerra, il coraggio e la battaglia. Oggi, questo è un profondo bisogno operativo e sociale. Abbiamo preparato qui, nella nuova base della brigata, tutte le condizioni per mantenere allo stesso tempo un haredi e un quadro ebraico di combattimento. I ranghi devono essere ampliati”.
Domenica 5 gennaio, l’esercito israeliano ha detto che ulteriori membri della comunità Haredì sono stati arruolati in altre unità religiose. Quelle esistenti per i soldati Haredim includono il battaglione Netzah Yehuda nella brigata Kfir, la compagnia Tomer nel battaglione Rotem della brigata Givati, la compagnia Hetz nel 202° battaglione della brigata Paracadutisti e l’unità di difesa terrestre della base aerea Nevatim, così come numerosi altri ruoli non da combattimento.
È bene sottolineare che all’inizio della guerra in Gaza, la divisione Haredi “Tomer” della brigata Givati prese parte ai combattimenti all’interno della Striscia, oltre a combattere nella regione circostante il 7 ottobre stesso, affiancati anche dai comandanti della squadra nel battaglione Netzah Yehuda. La prima offensiva di terra in assoluto della brigata nel profondo territorio del nemico, insieme alla Brigata Paracadutisti, risale a gennaio 2024. Inoltre, soldati e ufficiali precedentemente di Netzah Yehuda e di altri battaglioni Haredim hanno preso parte ai combattimenti in diverse aree, tra cui Jabaliya nella Striscia di Gaza e parti della Giudea e della Samaria. Alcuni dei riservisti sono stati schierati per 90 giorni consecutivi in ruoli di combattimento. Ulteriori battaglioni comprendenti divisioni Haredim, tra cui più di 1.000 riservisti, hanno effettuato tutti gli incarichi di ricerca vicino al sito del festival Supernova e in tutta la regione di Gaza durante gli scontri. Molti altri soldati Haredim occupavano varie posizioni in unità diverse.
Modelli come divisioni e battaglioni sopracitati, con programmi specifici per soldati religiosi, dimostrano che un compromesso è possibile. Affinché ciò funzioni è necessario comprendere che il vero successo non è solo arruolare giovani Haredim, ma far sì che questi rimangano fedeli alla loro identità religiosa durante e dopo il servizio militare.
Secondo Times Of Israel, l’obiettivo generale di Tzahal negli ultimi quattro mesi era riuscire ad arruolare 1.300 soldati Haredim. Alla fine, ne sono stati arruolati poco più di 900. Nonostante le tensioni in corso e il basso tasso di arruolamento che rimane oggetto di dibattito politico, Tzahal ha visto un aumento dell’85% del numero di soldati Haredim che si uniscono all’esercito, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti.
Mercoledì 8 gennaio The Jerusalem Post scrive che l’obiettivo dell’esercito è stato quello di aumentare il numero di arruolati Haredim di circa 3.000 unità quest’anno, per portare il numero totale a circa 4.800 all’anno. Dei 338 nuovi arruolati Haredim, 211 sono in unità di combattimento, mentre 127 sono in unità di supporto alle unità di combattimento. Queste reclute fanno parte della nuova Brigata Hahashmonaim, delle nuove unità di manutenzione nel Nord e di un secondo round di unità di guardia di frontiera Haredi. Più specificamente, 70 arruolati si sono uniti al battaglione Netzah Yehuda della Brigata Kfir, 19 si unirono alla compagnia Tomer nella Brigata Givati, 19 si unirono alla compagnia Hetz della Brigata Paracadutisti e 11 si unirono alla compagnia Negev nell’aeronautica, insieme ad altre unità.

Necessità di un compromesso
  Secondo il JPost, diverse personalità Haredim riconoscono la necessità di un compromesso. Recenti sondaggi indicano che una parte significativa della comunità Haredì ritiene che coloro che non sono impegnati nello studio della Torah a tempo pieno dovrebbero servire in qualche modo, sia nell’esercito che attraverso il servizio nazionale o civile. Ciò riflette un crescente riconoscimento da parte della comunità Haredì nel contribuire più direttamente alla sicurezza nazionale, nonostante le dichiarazioni di qualche vertice religioso. Concentrarsi sulle dinamiche sociali relative alla questione del servizio di leva degli Haredim, piuttosto che sulle esigenze meramente numeriche o logistiche, potrebbe portare a immedesimarsi nella posizione di ragazzi che sono schiacciati tra un modello di esercito lontano dal loro stile di vita e, spesso, da famiglie che non li guarderanno più con gli stessi occhi dopo aver abbracciato e difeso il sionismo.
Inoltre, addossare la mancanza di personale in Tzahal esclusivamente al settore Haredì significherebbe ignorare le altre significative parti della società israeliana che rifiutano di prestarsi al servizio militare. Secondo i dati dell’esercito del 2022 riportati da Israel Democracy Institute (IDI), anche se tutti i giovani israeliani sono tenuti a servire per un periodo obbligatorio nell’esercito, solo il 69% degli uomini ebrei e circa il 56% delle donne ebree si arruolano. Se i giovani arabi che non sono arruolati vengono aggiunti a questo calcolo, molto meno del 50% di ogni gruppo pertinente viene reclutato. Non è inusuale trovare casi di persone che fingono di essere malati o fingono di essere religiosi per poter continuare la propria vita, evitando il servizio militare, mentre i loro coetanei combattono.
Secondo gli ultimi dati riportati da The Jerusalem Post ben prima della guerra, “dei 4.500 casi che hanno ricevuto esenzioni, il 44,7% erano haredim, il 46,6% laici e un altro 8,7% religiosi sionisti”. Senza considerare la posizione degli arabo-israeliani esonerati dal servizio di leva e nella stragrande maggioranza dei casi auto-esonerati dal richiedere di parteciparvi, mentre gli stessi godono a pieno titolo dei diritti offerti dall’avere la cittadinanza israeliana. Alcuni di loro prediligono la casa al campo di battaglia e impugnano uno smartphone anziché un’arma, diventando rappresentati – soprattutto all’estero – della “difesa-social” di Israele. Seppur la questione dell’arruolamento degli Haredim soprattutto dopo la storica sentenza della Corte costituzionale risulti centrale, interrogarsi anche sul mancato servizio di leva da parte della società secolarizzata israeliana così come sulla passività della parte araba, potrebbe aiutare nel configurare al meglio il problema riguardo alla necessità di personale nell’esercito israeliano, soprattutto nei momenti di emergenza.

(Bet Magazine Mosaico, 9 gennaio 2025)

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L’ IDF recupera il corpo dell’ostaggio Youssef al-Ziyadne a Gaza. Si teme per la vita del figlio Hamza

di Ruben Caivano

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Un altro ostaggio è stato trovato senza vita nella Striscia di Gaza. L’IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha confermato di aver recuperato il corpo di Youssef al-Ziyadne, 53 anni, rapito il 7 ottobre 2023 durante l’attacco di Hamas nel sud di Israele. Il corpo è stati ritrovato in un tunnel sotterraneo a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, accanto ai resti di due terroristi di Hamas che li stavano presumibilmente sorvegliando. Nel tunnel sono stati rinvenuti anche alcuni reperti che potrebbero essere riconducibili alla morte del figlio di Youssef, Hamza al-Ziyadne, 22 anni, anche lui rapito durante l’attacco. Tuttavia, l’IDF ha precisato che il decesso di Hamza non è ancora stato confermato ufficialmente.
Youssef e Hamza al-Ziyadne vivevano nella città beduina di Rahat, nel Negev, e Youssef lavorava da 19 anni nel kibbutz Holit, vicino al confine con Gaza. Il 7 ottobre 2023, durante il pogrom di Hamas, Youssef è stato rapito insieme ai suoi tre figli: Hamza, Bilal e Aisha. Dopo più di 50 giorni di prigionia, Bilal e Aisha sono stati rilasciati il 30 novembre 2023, mentre Youssef e Hamza erano rimasti in prigionia e considerati vivi fino a martedì.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha espresso le sue condoglianze alla famiglia, dichiarando:
“Speravamo di riportare sani e salvi Youssef e Hamza, così come avevamo fatto con Bilal e Aisha. Purtroppo oggi dobbiamo affrontare una realtà dolorosa.”
“Ogni giorno aspettavamo notizie e speravamo che fossero vivi. Questa perdita è devastante per tutti noi” ha detto il fratello di Youssef, Ali Ziyadne, che ha raccontato il dolore della famiglia nel ricevere la notizia.
Dopo questa tragica scoperta, l’IDF continua ad operare nella Striscia di Gaza per garantire la sicurezza di Israele e recuperare gli ostaggi ancora detenuti da Hamas.

(Shalom, 9 gennaio 2025)

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Paura di Hamas e dichiarazioni antisemite

Anche 20 anni dopo la sua elezione a Presidente dell'Autorità palestinese, Abbas è aggrappato al potere. Eppure la sua carica non è stata legittimata dal 2009. 

di Elisabeth Hausen

Quando in una democrazia viene eletto un capo di Stato o un capo di governo, alla fine del mandato c'è una nuova elezione. A seconda delle modalità, il politico può ricandidarsi o meno. Ad esempio, dal 2000 il mandato del presidente israeliano è di sette anni, dopo i quali non può ricandidarsi. Prima di allora, il mandato era di cinque anni con due possibili mandati.
  Nell'Autorità Palestinese (AP), queste regole riconosciute a livello mondiale apparentemente non si applicano. Il suo presidente Mahmoud Abbas è stato eletto esattamente 20 anni fa - per quattro anni. Da allora, l'Autorità palestinese non ha mai tenuto un'elezione presidenziale. L'ormai 89enne leader di Fatah è quindi in carica illegalmente da 16 anni.
  L'AP cita l '“occupazione israeliana” come motivo principale. Tuttavia, un fattore molto più serio è il timore di Abbas di perdere il potere a favore del suo principale rivale politico, l'islamico radicale Hamas. I sondaggi degli ultimi anni hanno mostrato una tendenza corrispondente: se Abbas si candidasse contro il leader di Hamas in carica, perderebbe chiaramente le elezioni. Fatah potrebbe ottenere punti solo con il leader dell'“Intifada di Al-Aqsa”, Marwan Barghuti, che è in custodia israeliana per cinque capi d'accusa di omicidio.

In precedenza segretario generale dell'OLP e primo ministro
  Quando Abbas fu eletto il 9 gennaio 2005 come successore del leader palestinese Yasser Arafat, morto due mesi prima, non era nuovo alla politica. È stato uno dei fondatori di Fatah e dell'“Organizzazione per la liberazione della Palestina” (OLP). Come Segretario generale dell'OLP, firmò l'accordo di Oslo I con Israele nel 1993.
  Tre anni dopo, Arafat divenne il primo presidente della neonata AP. Sotto pressione internazionale, nel 2003 ha permesso con riluttanza la creazione della carica di Primo Ministro. La carica fu assegnata ad Abbas, noto anche come Abu Masen. Insieme all'allora Presidente degli Stati Uniti George W. Bush e al capo del governo israeliano Ariel Sharon, ha firmato la cosiddetta “Roadmap”, un piano di pace in più fasi, nessuna delle quali è stata ancora attuata.
  Abbas ricopre la sua attuale carica senza un vicepresidente; il parlamento è stato sciolto nel 2018. E cambia regolarmente il governo e il primo ministro. Si tratta di un gabinetto fittizio, poiché Abbas governa per decreto.

Dichiarazioni antisemite
  In qualità di presidente dell'AP, si distingue per le sue dichiarazioni anti-israeliane e talvolta antisemite, che suscitano critiche internazionali e vengono poi rapidamente dimenticate. Ad esempio, in un discorso del 2018, ha incolpato gli ebrei della Shoah. Ha ripetuto l 'accusa nell'agosto 2023.
  Un anno prima, in una conferenza stampa con il Cancelliere federale Olaf Scholz a Berlino, aveva affermato che Israele aveva commesso “50 Olocausti” contro i palestinesi. Nel maggio 2023, in occasione di un evento commemorativo delle Nazioni Unite, ha paragonato le dichiarazioni di Israele a quelle del Ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels.
  Né queste dichiarazioni né il suo lungo mandato impediscono agli attori internazionali e ai media di trattare Abbas come un legittimo rappresentante dei palestinesi. Neppure l'incapacità di risolvere il conflitto con Hamas e quindi di rimuovere un ostacolo sulla via della statualità lo ostacola.

Per la prima volta si discute di successione
  Al termine del suo 20° anno di mandato, Abu Masen ha discusso per la prima volta della sua possibile successione: In caso di vacanza, il presidente del Consiglio nazionale palestinese (PNC), Rauhi Fattuh, assumerebbe la carica ad interim fino all'elezione di un nuovo presidente, ha dichiarato a novembre.
  Tuttavia, al momento non sembra che Abbas si stia impegnando attivamente per spianare la strada a un successore, dimettendosi o organizzando un'elezione. Abbas è troppo attaccato al potere per farlo.

(Israelnetz, 9 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Iran: prime gravi crepe nel regime dopo la debacle in Siria

Uno dei generali più importanti dell'esercito iraniano (non IRGC) ammette pubblicamente che «la Siria è stato un brutto colpo per l'Iran» e attacca Assad, la Russia e persino le IRGC, il tutto mentre in Iran manca persino la benzina

di Farnaz Fassihi

Teheran, Iran, il generale iraniano di grado più alto in Siria ha contraddetto la linea ufficiale assunta dai leader di Teheran in merito alla caduta improvvisa del loro alleato Bashar al-Assad, affermando in un discorso straordinariamente schietto che l’Iran aveva subito una grave sconfitta ma che avrebbe comunque cercato di operare nel Paese.
Una registrazione audio del discorso, pronunciato la scorsa settimana dal Brig. Gen. Behrouz Esbati in una moschea di Teheran, è emersa pubblicamente lunedì sui media iraniani, ed è in netto contrasto con le dichiarazioni del presidente iraniano, del ministro degli esteri e di altri leader di spicco. Per settimane hanno minimizzato l’entità della perdita strategica dell’Iran in Siria il mese scorso, quando i ribelli hanno spazzato via Bashar al-Assad dal potere, e hanno affermato che l’Iran avrebbe rispettato qualsiasi risultato politico deciso dal popolo siriano.
“Non considero la perdita della Siria qualcosa di cui essere orgogliosi”, ha detto il generale Esbati secondo la registrazione audio del suo discorso, che Abdi Media, un sito di notizie con sede a Ginevra incentrato sull’Iran, ha pubblicato lunedì. “Siamo stati sconfitti, e sconfitti molto male, abbiamo subito un duro colpo ed è stato molto difficile”.
Il generale Esbati ha rivelato che i rapporti dell’Iran con Assad erano tesi da mesi, tanto da aver portato alla sua cacciata, affermando che il leader siriano aveva respinto le molteplici richieste delle milizie sostenute dall’Iran di aprire un fronte contro Israele dalla Siria, in seguito all’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre 2023.
L’Iran ha presentato ad Assad piani militari completi su come utilizzare le risorse militari iraniane in Siria per attaccare Israele, ha affermato.
Il generale ha anche accusato la Russia, considerata un alleato di primo piano, di aver tratto in inganno l’Iran dicendogli che i jet russi stavano bombardando i ribelli siriani quando in realtà stavano sganciando bombe in campi aperti. Ha anche detto che l’anno scorso, quando Israele ha colpito obiettivi iraniani in Siria, la Russia aveva “spento i radar”, facilitando di fatto questi attacchi.
Per oltre un decennio, l’Iran ha sostenuto Assad inviando comandanti e truppe per aiutarlo a combattere contro i ribelli dell’opposizione e il gruppo terroristico dello Stato Islamico.
Sotto Assad, la Siria era il centro di comando regionale dell’Iran da cui forniva armi e denaro alla sua rete di milizie regionali, tra cui Hezbollah in Libano e i terroristi palestinesi in Cisgiordania . L’Iran controllava anche aeroporti, magazzini e gestiva basi di produzione di missili e droni in Siria.
La coalizione ribelle ha ormai preso il controllo di gran parte della Siria e sta cercando di formare un governo . Il generale Esbati ha affermato nel suo discorso che l’Iran cercherà modi per reclutare insorti in qualsiasi forma la nuova Siria assuma.
“Possiamo attivare tutte le reti con cui abbiamo lavorato negli anni”, ha detto. “Possiamo attivare gli strati sociali in cui i nostri ragazzi hanno vissuto per anni; possiamo essere attivi sui social media e possiamo formare cellule di resistenza”.
Ha aggiunto: “Ora possiamo operare lì come facciamo in altri ambiti internazionali, e abbiamo già iniziato”.
I commenti del generale hanno lasciato sbalorditi gli iraniani, sia per il loro contenuto non filtrato che per la statura dell’oratore. È un comandante di alto rango delle Forze armate iraniane, l’ombrello che include l’esercito e il Corpo delle guardie rivoluzionarie, con una storia di ruoli di rilievo tra cui comandante in capo della divisione informatica delle Forze armate.
In Siria, ha supervisionato le operazioni militari dell’Iran e ha collaborato strettamente con i ministri e gli ufficiali della difesa siriani e con i generali russi, superando persino il comandante in capo delle Forze Quds, il generale Ismail Ghaani, che supervisiona la rete di milizie regionali sostenute dall’Iran.
Mehdi Rahmati, un importante analista di Teheran ed esperto di Siria, ha dichiarato in un’intervista telefonica che il discorso del generale Esbati è stato significativo perché ha dimostrato che alcuni alti funzionari si stavano allontanando dalla propaganda governativa e si stavano rivolgendo direttamente all’opinione pubblica.
“Tutti parlano del discorso durante le riunioni e si chiedono perché abbia detto queste cose, soprattutto in un forum pubblico”, ha detto Rahmati. “Ha esposto molto chiaramente cosa è successo all’Iran e dove si trova ora. In un certo senso può essere un avvertimento per la politica interna”.
Il generale Esbati ha detto che la caduta del regime di Assad era inevitabile data la corruzione dilagante, l’oppressione politica e le difficoltà economiche che la gente ha dovuto affrontare, dalla mancanza di energia al carburante ai redditi vivibili. Ha detto che Assad aveva ignorato gli avvertimenti di riforma. Rahmati, l’analista, ha detto che il paragone con la situazione attuale dell’Iran era difficile da ignorare.
Nonostante le affermazioni del generale sull’attivazione delle reti, non è ancora chiaro cosa l’Iran possa realisticamente fare in Siria, data l’opposizione pubblica e politica che ha incontrato nel paese e le sfide dell’accesso via terra e via aria. Israele ha avvertito che avrebbe decimato qualsiasi sforzo iraniano che rilevasse sul terreno in Siria.
E mentre l’Iran ha esperienza di operazioni in Iraq dopo l’invasione statunitense del 2003 , seminando anche disordini, la geografia e il panorama politico della Siria sono molto diversi, presentando ulteriori sfide.
Un membro iraniano delle Guardie rivoluzionarie che ha trascorso anni in Iraq come stratega militare insieme a comandanti senior ha detto in un’intervista telefonica che i commenti del generale Esbati sul reclutamento di insorti da parte dell’Iran potrebbero essere più ambiziosi che pratici in questa fase. Ha detto che mentre il generale Esbati aveva ammesso una grave sconfitta, aveva anche cercato di sollevare il morale e pacificare i conservatori chiedendo che l’Iran agisse con più forza.
Il funzionario delle Guardie, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto che la politica dell’Iran non era ancora stata finalizzata, ma che era emerso un consenso negli incontri a cui aveva partecipato, dove si discuteva di strategia. Ha detto che l’Iran trarrebbe beneficio se la Siria precipitasse nel caos, perché l’Iran sapeva come prosperare e proteggere i propri interessi in un panorama turbolento.
In Iran, le Guardie Rivoluzionarie hanno l’autorità di stabilire la politica regionale e di ignorare il parere del Ministero degli Esteri.
Il leader supremo Ayatollah Ali Khamenei, che ha l’ultima parola sulle questioni chiave dello Stato, ha affermato in almeno due discorsi dalla caduta di Assad che la resistenza non era morta in Siria, aggiungendo che i giovani siriani avrebbero reclamato il loro paese dai ribelli al potere, che ha definito lacchè di Israele e degli Stati Uniti. Il presidente Masoud Pezeshkian e il ministro degli Esteri Abbas Araghchi sono stati più concilianti, affermando di essere favorevoli alla stabilità in Siria e ai legami diplomatici con il nuovo governo.
Le tensioni che circondano queste opinioni contrastanti sulla Siria hanno preoccupato abbastanza i funzionari da spingerli a intraprendere una campagna di controllo dei danni con il pubblico la scorsa settimana. Alti comandanti militari e opinionisti vicini al governo hanno tenuto discorsi e sessioni di domande e risposte con il pubblico nelle moschee e nei centri comunitari di diverse città.
Il discorso del generale Esbati, tenuto il 31 dicembre presso la moschea Valiasr nel centro di Teheran, era rivolto ai militari e ai fedeli della moschea, secondo un annuncio pubblico dell’evento intitolato “Risposte alle domande sul crollo della Siria”.
La sessione è iniziata con il generale Esbati che ha detto alla folla di aver lasciato la Siria sull’ultimo aereo militare diretto a Teheran la notte prima che Damasco cadesse nelle mani dei ribelli. Si è conclusa con lui che rispondeva alle domande dei membri del pubblico. Ha offerto la sua valutazione più seria sulla capacità militare dell’Iran nel combattere Israele e gli Stati Uniti.
Alla domanda se l’Iran avrebbe reagito all’uccisione da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha risposto che l’Iran lo ha già fatto, riferendosi a un bombardamento missilistico lo scorso autunno. Alla domanda se l’Iran avesse pianificato di effettuare un terzo round di attacchi diretti su Israele, ha detto che “la situazione” non poteva realisticamente gestire un altro attacco su Israele in questo momento.
Alla domanda sul perché l’Iran non avrebbe lanciato missili contro le basi militari statunitensi nella regione, ha risposto che ciò avrebbe provocato attacchi di rappresaglia più ampi da parte degli Stati Uniti contro l’Iran e i suoi alleati, aggiungendo che i missili regolari dell’Iran, non quelli avanzati, non sarebbero riusciti a penetrare i sistemi di difesa avanzati degli Stati Uniti.
Nonostante queste valutazioni, il generale Ebati ha affermato di voler rassicurare tutti di non preoccuparsi: l’Iran e i suoi alleati, ha affermato, hanno ancora la meglio sul campo nella regione.

(Rights Reporter, 9 gennaio 2025)

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Valerie Hamaty: l’araba cristiana che sta conquistandosi la rappresentanza di Israele all’Eurovision con un messaggio di unità

di Marina Gersony

Si chiama Valerie Hamaty ed è emersa come una delle voci più promettenti della scena musicale israeliana. Cresciuta a Giaffa, una delle città miste più significative di Israele, la sua storia è quella di una giovane donna che attraversa la complessità della propria identità, riflettendo le sfide e le speranze che contraddistinguono il Paese in questo periodo. La sua voce ha conquistato milioni di spettatori, ma ciò che rende la sua storia ancora più unica e interessante, è il fatto che lei è una cristiana araba, una figura più che rara in una competizione che unisce Israele e il suo pubblico internazionale.
  Come riporta il Times of Israel in un lungo articolo ricco di testimonianze e riflessioni, Hamaty ha catturato l’attenzione del pubblico israeliano con il suo talento, che l’ha portata ad essere una delle favorite dell’ultima edizione di “Rising Star” (HaKochav Haba), il talent show che da anni rappresenta una delle vetrine principali per l’Eurovision. Ma se la sua voce ha colpito, è la sua identità che ha sollevato non poche discussioni.

Un successo inaspettato
  La sua ascesa nella competizione è stata fulminante, grazie alla sua interpretazione di canzoni come “Shema” e “Hurricane”. La prima, è l’iconico brano israeliano che intreccia la preghiera dello Shema, simbolo di fede e identità nazionale ebraica, mentre “Hurricane” è lo struggente brano incentrato sulle tragedie causate dal conflitto israelo-palestinese con cui Eden Golan ha rappresentato Israele al contest nel 2024, diventato un inno di resistenza post-7 ottobre, il tragico evento che ha segnato profondamente Israele.
  Questi pezzi, che per molti sembrano rappresentare la “risposta” di Israele alla recente guerra con Gaza, hanno suscitato reazioni contrastanti, soprattutto considerando che Hamaty è l’unica concorrente araba di “Rising Star”. Ma dietro alla sua partecipazione si nascondono le sfide di una giovane donna che, pur essendo parte integrante della comunità araba, ha scelto di schierarsi pubblicamente con Israele, una scelta che ha messo alla prova le relazioni interetniche del Paese.

Una voce che unisce o divide?
  Di fatto il percorso di Valerie non è stato privo di polemiche. In un contesto di tensione politica e sociale, dove le divisioni tra ebrei e arabi israeliani sono forti, il suo sostegno pubblico a Israele durante la guerra a Gaza ha sollevato critiche. Mentre molti la celebrano per aver infranto le barriere culturali, ci sono altri che la accusano di tradire le proprie radici arabe.
  «Che un arabo possa rappresentare Israele su un palcoscenico internazionale è un’enorme fonte di orgoglio», ha dichiarato Zohurha Abonar, residente musulmana di Jaffa, la città natale di Valerie.
  Ma altre voci non sono d’accordo. «La mia generazione nella comunità musulmana non la sosterrà mai», ha affermato una giovane donna di un gruppo vicino alla cantante, che ha accusato Hamaty di essersi schierata dalla parte degli ebrei israeliani durante la guerra. La sua decisione di indossare una spilla gialla a sostegno degli ostaggi e il suo impegno nel visitare i soldati feriti e partecipare ai funerali delle vittime del massacro del 7 ottobre sono stati visti da alcuni come segnali di una condotta troppo «allineata» alla parte israeliana.

Il duetto con Daniel Wais e l’incontro con Shani Goren
  Il viaggio musicale di Valerie è stato segnato da momenti particolarmente emozionanti. Uno di questi è stato il duetto con Daniel Wais, figlio di una delle vittime dell’attacco di Hamas al Kibbutz Be’eri. I due hanno cantato “Hurricane”, brano – come già detto –che aveva un preciso significato politico, e hanno unito le loro voci in un messaggio di speranza e unità. La performance ha commosso molti, inclusi i familiari delle vittime, che hanno sostenuto Valerie, esortandola a «restare forte» di fronte alle critiche razziste.
  Un altro incontro che ha segnato profondamente Valerie è stato quello con Shani Goren, una delle israeliane rapite a Gaza, che dopo la sua liberazione ha chiesto alla cantante di cantare in arabo per aiutarla a superare il trauma. Valerie ha risposto a questa richiesta, dicendo che la musica ha un potere trasformativo: «Se l’arabo scatena la paura in alcuni, il canto la trasforma, raggiungendo i loro cuori in un modo diverso», ha affermato.

Un messaggio di inclusività per l’Eurovision
  Con la sua partecipazione all’Eurovision, Valerie rappresenterebbe una testimonianza viva del multiculturalismo israeliano, un Paese che da sempre cerca di bilanciare le sue identità diverse. Se dovesse vincere la selezione israeliana, ha già annunciato che canterebbe in inglese e in ebraico, sottolineando che la sua presenza come artista araba è già di per sé un messaggio di diversità. «L’obiettivo è entrare in contatto con gli europei, quindi l’inglese è necessario per fargli capire, e l’ebraico rappresenta Israele, la lingua ufficiale qui. Il fatto che io sia araba è già parte della storia», ha detto.
  Per alcuni, la sua candidatura sarebbe una grande opportunità per Israele di mostrare al mondo una faccia diversa, quella di un Paese che celebra la diversità e non le divisioni. Ma per altri, la sua identità araba potrebbe essere percepita come una sfida alle tradizioni israeliane. «Non è facile per alcuni sentire l’arabo in questo momento», ha dichiarato suo padre, Tony Hamaty, sottolineando che, sebbene possa comprendere il dispiacere di chi si sente turbato dalle lingue arabo-israeliane in tempo di guerra, la sua posizione è chiara: «Dobbiamo stare dalla parte dello Stato, siamo israeliani».

La musica come strumento di dialogo
  Cresciuta a Giaffa, città mista, Valerie ha imparato sin da piccola a navigare tra mondi diversi. Parla cinque lingue e ha iniziato la sua carriera musicale esibendosi in cerimonie pubbliche che celebravano le vittime di guerra israeliane, come nel caso del Memorial Day, un giorno che simbolicamente unisce tutti gli israeliani ma che di fatto è celebrato principalmente dalla popolazione ebraica. Questo suo impegno musicale, che l’ha portata anche a partecipare al viaggio della “March of the Living” ad Auschwitz, ha fatto di Valerie una figura di riferimento per molti giovani arabi israeliani, che vedono in lei un simbolo di integrazione e speranza.
  Oggi, mentre si prepara per il possibile debutto sull’Eurovision, Valerie è consapevole delle difficoltà che la sua musica può incontrare, ma è anche determinata. La sua storia non è solo quella di una cantante che cerca il successo, ma di una giovane donna che vuole dimostrare che la musica può superare le divisioni, che unire attraverso l’arte è possibile, anche in tempi difficili come quelli che Israele sta attraversando. Come ha detto suo padre, se Valerie dovesse vincere, «dimostrerà che il razzismo non ha l’ultima parola».
  In un Paese in cui le identità si intrecciano, Valerie Hamaty sta cercando di cambiare la narrativa. La sua musica non è solo intrattenimento, ma un invito a riflettere sulle potenzialità di un Israele che possa davvero essere il simbolo di una coesistenza tra popoli e culture diverse. Se riuscirà a vincere la selezione nazionale, il palco dell’Eurovision potrebbe essere l’occasione per mostrare al mondo che la diversità non è un ostacolo, ma una risorsa da celebrare.

(Bet Magazine Mosaico, 8 gennaio 2025)

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“Israele è il popolo che vuole vivere e non può essere distrutto”. Parla Michel Onfray

 "Qui si misura ciò che possiamo fare all’uomo. Ho sentito fisicamente che in Israele sta accadendo qualcosa di essenziale che riguarda il futuro della nostra civiltà”, dice il filosofo, che ha appena visitato i luoghi del pogrom del 7 ottobre.

di Giulio Meotti

“Caro Michel, sei un vero amico di Israele ed è per questo che ti stiamo conferendo questo premio”. Mentre gran parte della classe intellettuale europea ha scelto il campo di Hamas, Michel Onfray ha ricevuto in Israele un premio per il suo sostegno allo stato ebraico. Onfray ha appena visitato i siti del pogrom del 7 ottobre, dal kibbutz Kfar Aza a Netiv HaAsara, il moshav più vicino alla Striscia di Gaza. “Sono stato invitato a tenere due conferenze, una a Gerusalemme e l’altra a Tel Aviv” ci racconta Onfray. “E gli organizzatori mi hanno suggerito di approfittare del mio soggiorno per recarmi sui luoghi dei massacri e al confine tra Gaza e Israele, dove ho incontrato dei soldati. Traiamo sempre vantaggio dall’evitare le narrazioni dei media, in particolare francesi, compresi quelli del servizio pubblico massicciamente contrario a Israele, e dal farsi un’idea sul posto, per conto proprio, quando possibile”. 
  Molte le impressioni nel vedere la devastazione del pogrom di Hamas. “Questo è esattamente ciò che si prova passeggiando tra le ‘rovine’ di Oradour-sur-Glane. Qui si misura ciò che possiamo fare all’uomo. Camminando tra le rovine, passando davanti alle case bruciate, vedendo una macchia marrone di quella che era una traccia di sangue cancellata, ho pensato a questa frase di Pascal che mi ripeto tante volte: ‘Il cuore dell’uomo è vuoto e pieno di sporcizia’. Gli ebrei sono come una vedetta della storia, cosa insopportabile per il musulmano la cui narrazione è  parte di una sorta di ‘extraterritorialità’ storica”. Onfray è tornato con un sentimento sempre più forte dell’unicità di Israele. “ Questo popolo ha il senso della storia, della sua storia, della memoria, della sua memoria, dell’identità, della sua identità. Un popolo che vuole vivere e quindi non morire, e non c’è nulla che possiamo fare contro un popolo abitato da tale smania di vita. Una civiltà scompare  quando gli uomini che la costituiscono non la amano più, o addirittura  la odiano. Nemmeno il fuoco nucleare può distruggere il popolo ebraico che non si trova solo in terra di Israele, ma che vive ovunque sul pianeta”.
  Israele è solo in occidente. “Solo in questo occidente che, dal canto suo, odia se stesso e ha a cuore coloro che lo odiano. L’occidente che ama il nichilismo più di ogni altra cosa. Israele è la sua culla, ma sputa sulla sua culla. Ho sentito fisicamente che in Israele sta accadendo qualcosa di essenziale che riguarda il futuro della nostra civiltà”. Nel frattempo, un mostruoso antisemitismo divora l’Europa. “Ho appena finito un libro che non immaginavo quando l’ho iniziato e che mostra che la maggior parte dei filosofi di sinistra  sono stati antisemiti: Alain, Ricoeur, Sartre, De Beauvoir, Foucault, Deleuze, Genet, Garaudy, Serres, Nancy, Badiou! Gli estratti che ho trovato sono così schiaccianti che i detentori dei diritti di Sartre, De Beauvoir, Foucault e Genet, tutti autori Gallimard, hanno vietato la riproduzione dei testi incriminati”. Col 7 ottobre, Israele doveva essere difeso non solo dai suoi nemici in armi, ma anche da un pezzo d’occidente. “L’occidente pieno di odio narcisistico e nichilista verso se stesso. Stiamo assistendo alla fine di un mondo, quello giudaico-cristiano. L’islam fa la sua parte, mentre l’orizzonte insuperabile del crociato è la pinta di birra sorseggiata in terrazza con l’occhio incollato al cellulare”. 

Il Foglio, 8 gennaio 2025)

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Il KKL e la protezione della farfalla “Tomares Nesimachus” nelle colline di Gerusalemme

di Nicole Nahum

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In un’area delle colline di Gerusalemme, una nuova iniziativa ambientale sta suscitando crescente interesse: il KKL-JNF (Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund) ha inaugurato una campagna di piantumazione con l’obiettivo di proteggere la farfalla Tomares Nesimachus. Quest’ultima dipende infatti da una pianta specifica, l’Astragalusmacrocarpus, senza la quale non sarebbe in grado di completare il proprio ciclo vitale.
  Il progetto è partito quando i membri dell’Associazione degli appassionati di farfalle di Israele (BEIA) hanno individuato la specie nel Parco Begin, situato nelle Montagne di Gerusalemme. Con l’obiettivo di accrescere la popolazione di farfalle, sono stati raccolti i semi di Astragalusmacrocarpus, successivamente trasportati al vivaio di Eshtaol, dove sono stati coltivati con successo 60 nuovi esemplari. Il team di esperti, coordinato dal KKL-JNF, ha seguito attentamente il processo di germinazione e di crescita, creando così nuove opportunità per studi scientifici e per lo sviluppo dello stesso progetto.
  Le 60 piante sono state quindi reintrodotte nel loro habitat originario, il parco Begin, un’area che si sta rivelando cruciale per la sopravvivenza dell’insetto. Tra i partecipanti alla piantumazione, molti sono stati i volontari, tra cui membri di BEIA e altri appassionati di natura. L’iniziativa si inserisce in un programma più ampio di conservazione della biodiversità e offre un’importante opportunità per la protezione di una singola specie.
  Nurit Hibsher, responsabile del dipartimento forestale della regione centrale di KKL-JNF, ha sottolineato l’importanza di questo progetto per il mantenimento dell’equilibrio ecologico nelle colline di Giuda, un’area spesso minacciata dalla crescente urbanizzazione. “Proseguiremo con la raccolta dei semi dalle piante di Astragalusmacrocarpus recentemente piantate, per espandere ulteriormente la proliferazione della farfalla. Questo progetto dimostra come la collaborazione tra comunità locali, volontari e organizzazioni professionali possa essere fondamentale per la protezione dell’ambiente”, ha dichiarato Hibsher, dimostrando come piccoli ma significativi interventi possano fare la differenza per la salvaguardia del patrimonio naturale.

(Bet Magazine Mosaico, 8 gennaio 2025)

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La retorica mortale su Gaza colpisce anche i palestinesi

di Ugo Volli

A proposito di Israele circola sui giornali italiani una cattiva retorica, anzi una retorica mortale, perché alleata alla morte e ai propagandisti di morte. Essa è pericolosa non solo per Israele ma anche per i palestinesi e per l’Europa: va pazientemente smascherata con gli strumenti della ragione. In questa retorica si sparano numeri a casaccio (anzi sotto la dettatura dei propagandisti di Hamas), si usano parole a sproposito, come genocidio, si convocano immagini che permangono nell’immaginario collettivo europeo da un millennio, come quella degli ebrei che ammazzano bambini, per cui centinaia di comunità ebraiche sono state sterminate a partire dall’invenzione della “calunnia del sangue” (Norwich, Inghilterra, 1144), si gettano “maledizioni” sui governanti di Israele. E poi si attribuiscono ai nemici “viltà”, “bugie schifose”, “atroce”, “indegna inaccettabile violenza”, “bambini morti di freddo” (ma la temperatura a Gaza in questi giorni oscilla fra i 21 e i 12 gradi, impossibile congelare), si ripete ossessivamente un numero falso (20 mila bambini morti). Naturalmente senza fonti, senza documentazione, senza verifiche, perché la retorica dell’indignazione non sopporta i fatti, non accetta i ragionamenti, è solo urlo e improperio. Mi riferisco innanzitutto all’editoriale di Dino Giarrusso, pubblicato su questo giornale qualche giorno fa in risposta a un equilibrato intervento di Carlo Giovanardi. Ma purtroppo non si tratta affatto di un caso isolato.
  Partiamo da questo numero: 20 mila bambini sarebbero morti a Gaza. È una cifra completamente falsa, come vedremo, una pura speculazione propagandistica. Il “ministero della salute di Gaza”, un organismo di Hamas, sostiene che la guerra nella Striscia avrebbe prodotto 45 mila morti (su due milioni di abitanti). Se accettiamo questo numero, 20 mila bambini sarebbero quasi la metà delle vittime. Ma questa proporzione è impossibile: un esercito in combattimento se vuole sopravvivere deve sparare ai nemici armati, in questo caso le truppe ben addestrate di Hamas, non agli inermi o ai bambini. Ovviamente non c’è una sola testimonianza, anche da parte di Hamas, che l’esercito israeliano sia mai stato così folle da prendere come obiettivo i bambini.
  I dati di Hamas poi non sono affatto corretti. L’Onu a maggio scorso, quando Hamas parlava di 35 mila morti, comunicò che aveva potuto verificare solo 8 mila vittime. La più accurata e neutrale indagine recente su questi dati, quella della britannica Henry Jackson society (consultabile qui ) mostra che vi è una sistematica discrepanza fra i referti ospedalieri e le dichiarazioni di Hamas, anche perché in queste sono incluse molte identità ripetute e morti naturali, per esempio di cancro, che portano a ridimensionare il numero delle vittime di guerra di circa un terzo. Delle 30 mila vittime vere di questa guerra circa 17 mila sono truppe e militanti di Hamas, secondo i dati israeliani, i soli disponibili perché nei numeri palestinesi la categoria dei combattenti non figura. Restano circa 13 mila civili morti (uomini non militari, vecchi, donne e bambini). Come hanno riconosciuto tutti gli esperti militari, è una proporzione di vittime collaterali straordinariamente bassa per una guerra che si svolge in ambiente urbano, con Hamas che applica le tattiche della “guerra asimmetrica” nascondendosi fra i civili, nelle moschee, negli ospedali, nelle scuole, nelle centinaia di chilometri di tunnel scavati apposta sotto gli edifici, e sparando di lì alle spalle dei militari israeliani. Questa scarsità di non combattenti colpiti (si pensi che alla fine della II Guerra Mondiale nei bombardamenti alleati di Dresda morirono 135 mila civili e a Napoli 25 mila) è il risultato degli sforzi di Israele di non colpire i civili, per esempio dando notizia prima delle zone in cui avrebbe operato, con volantini dettagliati, messaggi telefonici, mappe pubblicate in rete che comprendono vie di fuga e zone sicure. Come è inedito il fatto che uno stato in guerra faccia passare per le sue linee rifornimenti (acqua, cibo, carburante, elettricità) per il territorio dominato dai propri nemici, regolarmente sequestrati dalle bande di Hamas.
  Certamente, si può e si deve dire, ogni vittima è di troppo, ogni guerra è male. Ma questa guerra Israele non l’ha voluta e non l’ha prevista. È stato colto di sorpresa non solo dall’atroce pogrom del 7 ottobre (ricordiamolo: 1.200 persone uccise, inclusi vecchi, bambini, donne; 250 rapiti di cui oltre 100 ancora in mano ai terroristi; episodi atroci di stupro, di persone bruciate vive, di bambini uccisi fra le braccia della madre), ma anche dai bombardamenti (a oggi circa 40 mila missili) che sono venuti e in parte vengono ancora da Gaza, dal Libano, dalla Siria, dall’Iraq, dallo Yemen e dall’Iran. È l’Iran che ha orchestrato questa aggressione, il cui scopo esplicito era ed è ancora la distruzione dello Stato ebraico e lo sterminio del suo popolo. Israele ha reagito lentamente, ma con determinazione, con l’obiettivo di eliminare una minaccia collettiva mortale, che si ripete appena ottant’anni dopo la Shoà. Terminare la guerra senza eliminare i movimenti terroristi che hanno lo scopo di distruggere Israele e senza liberare i rapiti sarebbe come finire la II guerra mondiale senza distruggere il nazismo. Per concludere la guerra a Gaza basterebbe che Hamas liberasse le persone che tiene sequestrate, consegnasse le armi e accettasse l’offerta di Israele di un salvacondotto per l’esilio. Non lo fa, anche se ha perso la battaglia sul campo, per fanatismo, per odio, ma anche perché conta ancora sulla mobilitazione di una parte dell’opinione pubblica europea e americana che ne ripete la propaganda. Chi aiuta Hamas oggi facendosi portavoce delle sue menzogne, chi parla di “genocidio” e di “20 mila bambini uccisi” non solo fa male a Israele ma anche agli abitanti di Gaza, perché prolunga la guerra. E all’Europa, perché aiuta chi vuole imitare qui il terrorismo di Hamas.

(L'identità, 8 gennaio 2025)

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La scomparsa di Jeudà Zegdun, “il rabbino dei giovani"

Maestro di Torah, divulgatore, uomo affabile. Molto amato dai giovani, che conquistava con il suo carattere gioviale.

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Rav Jeudà Zegdun

È scomparso in Israele all’età di 74 anni rav Jeudà Zegdun, già rabbino capo di Genova e Venezia. Allievo del rabbino capo di Torino Dario Disegni (1878-1967), Zegdun era nato in Libia nel 1950, si era trasferito a Torino negli anni Sessanta per studiare alla scuola rabbinica Margulies-Disegni. Nel 1976 aveva ottenuto la semikhah, l’ordinazione rabbinica. Il suo primo incarico era stato nel capoluogo ligure, dal 1976 al 1981. Poi, dopo un primo periodo israeliano, dal 1990 al 1992 aveva esercitato a Venezia. È stato autore di libri sulla Torah e sui midrashim, i racconti che aiutano a capire e interpretare i fatti biblici.
  «Lo ricordo giovanissimo, avrà avuto 13 anni. Faceva parte di un gruppo di ragazzi libici convocati dal rabbino Disegni. Veniva da un ambiente completamente diverso dal nostro, ma era pieno di buona volontà e riuscì ad adattarsi», racconta rav Luciano Caro, rabbino capo di Ferrara e suo insegnante di allora. «Zegdun era molto attivo nei movimenti giovanili: era un ragazzo che si legava alle persone e per questo, non soltanto a Torino ma in tutte le città dove ha operato, in tanti lo ricordando con simpatia». Rav Caro è rimasto in contatto anche dopo il suo ritorno in Israele. «Ci siamo sempre incontrati con grande affetto e simpatia. La notizia della sua morte mi addolora molto».
  «Tanti ricordi si sovrappongono», racconta rav Giuseppe Momigliano, attuale rabbino capo di Genova. «Abbiamo studiato insieme alla scuola rabbinica Margulies-Disegni: io ho iniziato nel periodo in cui lui stava concludendo e insieme abbiamo vissuto in un pensionato della scuola. Anni dopo, venendo a Genova, è capitato che “ereditassi” la Comunità di cui era stato il rav e ho potuto testimoniare quanto con la sua opera avesse conquistato i giovani, quanto con il suo modo di agire fosse stato capace di avvicinarli». Zegdun è stato anche autore di libri e divulgatore: «Oltre a un suo libro sul midrash, è da segnalare una raccolta di lezioni su Bereshit e Shemot della celebre educatrice Nechama Leibowitz: rav Zegdun ne era stato un allievo e, credo, il primo in Italia a diffondere il suo metodo di insegnamento», conclude rav Momigliano.
  Uno dei giovani “conquistati” da rav Zegdun è Ariel Dello Strologo, ex presidente della Comunità ebraica genovese e suo attuale rappresentante nel Consiglio Ucei. «È stata una fondamentale fiamma di entusiasmo. Se so qualcosa della mia identità ebraica è merito suo», sottolinea Dello Strologo. Zegdun «arrivò a Genova in un momento in cui mancava una figura stabile di rabbino e in cui la Comunità iniziava il suo calo demografico, pur disponendo ancora di istituzioni solide». L’approccio del neo rabbino «fu come una scossa, interpretando lui il ruolo con un approccio paragonabile a quello dei Chabad: quindi all’insegna di grande emotività e coinvolgimento; così facendo ha riportato in Comunità tanti giovani disinteressati, instradandone non pochi verso l’Aliyah, la migrazione in Israele». Uno dei canali educativi è stato il Benè Akiva, movimento giovanile religioso. «Ricordo attività divertenti e tante partite di pallone. Veniva con noi anche allo stadio, a vedere le partite del Genoa», racconta l’ex allievo. La fine del suo mandato a Genova fu turbolenta, spiega Dello Strologo. «Le sue attenzioni su temi che una parte della Comunità non voleva messi in discussione portò a uno scontro aperto, a un’infuocata assemblea con i giovani da una parte e i “vecchi” dall’altra. Ne scaturì una frattura irrimediabile».
  Rav Zegdun è stato il predecessore a Venezia del rabbino Roberto Della Rocca, direttore dell’area Educazione e Cultura Ucei. «Quando assunsi l’incarico», spiega, «mi resi subito conto di quanto avesse lasciato un’impronta profonda e viva nella Comunità». In particolare, afferma, «il suo impegno nello studio e la devota osservanza della Torah avevano influenzato alcuni ebrei veneziani, non abituati a un modello di rabbinato così dinamico e rigoglioso». Per Della Rocca, l’entusiasmo di Zegdun nel vivere l’ebraismo «era contagioso e trainante, al punto che per alcuni poteva apparire come un modello innovativo e, talvolta, destabilizzante». Il suo successore ricorda anche che durante il passaggio di consegne «fui particolarmente colpito nel constatare che il suo spirito non era cambiato rispetto a quando lo conobbi vent’anni prima nei campeggi del Benè Akiva». In tali occasioni Zegdun «ci raggiungeva come rav del movimento, offrendo sempre un contributo capace di unire calore umano e saggezza».

(moked, 8 gennaio 2025)

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“Gli ospedali sono per Hamas un rifugio, perché non possono essere colpiti dai militari”

La confessione di un terrorista operativo nell’ospedale Kamal Adwan a Gaza

“Credono che l’ospedale sia un rifugio sicuro per loro perché i militari non possono prenderlo di mira direttamente”; ‘Le armi sono state trasferite da e verso l’ospedale’.
Durante le attività della 162esima Divisione, dell’ISA e dell’Unità 504 lo scorso fine settimana nell’area dell’ospedale Kamal Adwan, nel nord della Striscia di Gaza, sono stati arrestati oltre 240 terroristi di Hamas e della Jihad islamica. Nel corso degli interrogatori, i terroristi hanno finora fornito sostanziali informazioni di intelligence che stanno aiutando le operazioni dell’IDF nell’area.
Il filmato dell’interrogatorio di Anas Muhammad Faiz Al-Sharif, un terrorista di Hamas fermato durante l’attività delle truppe nell’area dell’ospedale Kamal Adwan e portato per ulteriori indagini in territorio israeliano, è ora autorizzato alla pubblicazione. Il terrorista ha presentato il suo ruolo all’interno di Hamas e ha descritto nei dettagli come i suoi terroristi operano nell’area dell’ospedale, compreso il trasferimento di armi da e verso l’ospedale.
Una testimonianza, questa, di grande importanza, perché conferma – se mai ce ne fosse bisogno – quello che Israele sta cercando di provare al mondo dall’inizio della guerra, e cioè che Hamas utilizza gli ospedali (e le scuole) come basi per lanciare i propri attacchi, nonché come magazzini per le armi e rifugi per i propri terroristi.

(Shalom, 8 gennaio 2025)

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I drusi israeliani e il futuro incerto della Siria

Dopo la caduta di Assad, aumenta il numero di drusi che chiedono la cittadinanza israeliana.

di Amelie Botbol

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Il sindaco di Majdal Sham Dolan Abu Saleh, 19 dicembre 2024. foto di Amelie Botbol.

Le comunità druse sulle alture del Golan, passate sotto il controllo israeliano nel 1967, oscillano tra la speranza di ricongiungersi con i loro parenti dall'altra parte del confine e la paura di un futuro incerto dopo la caduta del regime di Assad.
Dolan Abu Saleh, sindaco della più grande delle quattro città, Majdal Shams, ha descritto la caduta del dittatore siriano Bashar Assad come “una gioia dell'umanità”.
“La maggior parte dei drusi del Golan era dalla parte del popolo siriano. Un piccolo numero era fedele al regime di Assad. Ma non c'è dubbio che della caduta di Assad, dittatore e assassino, si parlerà e si scriverà in futuro”, ha detto giovedì scorso.
Abu Saleh ha spiegato che Majdal Shams è una città di 12.000 persone altamente istruite, di cui quasi la metà ha la cittadinanza israeliana, e ha un enorme potenziale, soprattutto nel settore del turismo. Il sindaco sta cercando di trasformare la sua città in un centro sciistico e ricreativo di prima classe.
“La prima sfida è la questione della sicurezza derivante dalla guerra e dal brutale attacco terroristico di Hamas, che ha colpito non solo il sud ma l'intero Paese il 7 ottobre [2023]”, ha dichiarato Abu Saleh a JNS. “Per noi è iniziata quando [il proxy del terrore iraniano] Hezbollah si è unito alla lotta. Ci troviamo in un'area tri-frontaliera, ai confini di Israele con la Siria e il Libano”.
Nonostante la guerra tra Israele e Hezbollah, che ha portato a un cessate il fuoco con il Libano il 27 novembre, gli abitanti di Majdal Shams non hanno mai pensato di lasciare la loro città.
“Abbiamo sentito gli impatti [dei proiettili di Hezbollah] nelle aree aperte e il rumore delle rappresaglie [dell'IDF]. Ci sono stati incidenti di sicurezza e questo non è stato certo piacevole. Ma questa è la nostra mentalità: non lasceremo il nostro Paese. Siamo qui per restare”, dice Abu Saleh.

Un massacro di bambini fatto da Hezbollah
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Una vista di Majdal Shams, alle pendici meridionali del Monte Hermon

Riferendosi all'impatto di un razzo di Hezbollah su un campo di calcio a Majdal Shams il 27 luglio, che ha ucciso 12 bambini e ne ha feriti almeno altri 42, Abu Saleh ha detto che non c'è niente di peggio che vedere persone innocenti ferite.
“Ero lì pochi minuti dopo il lancio del missile. Vedendo i cadaveri e le parti dei corpi di bambini che conoscevo da diversi ambienti, mi sono sentito impotente”, ha detto. “I residenti erano sotto shock, soprattutto i genitori che si sono precipitati lì e hanno visto cose terribili. È una grande sfida. Dobbiamo ancora affrontare la paura e il trauma”.
Abu Saleh ha sottolineato la saggezza e la maturità con cui i residenti hanno reagito alla tragedia, anche quelli che sono stati colpiti direttamente.
“Tutti a Majdal Shams hanno parlato di pace. Hanno detto che non volevano che un'altra madre piangesse come ha pianto lei”, ha spiegato. “Ciò che ha aiutato la popolazione ad accettare questo disastro è la loro intelligenza. Sono molto orgoglioso dei residenti che hanno accettato con maturità, responsabilità e amore e senza desiderio di vendetta”.
Commentando il dispiegamento delle Forze di Difesa israeliane a est del confine con la Siria, Abu Saleh ha detto che questo creerà una cintura di sicurezza importante per le città del Golan.
“Se diventerà permanente dipende dal nuovo regime siriano, dalla direzione che prenderà e dall'agenda che porterà avanti. Se vediamo che c'è un potenziale di pace e sappiamo con certezza che non si verificherà un'altra catastrofe come quella del 7 ottobre, allora l'importanza del cuscinetto sarà riconsiderata”, ha detto. “Tuttavia, se ci rendiamo conto che i gruppi terroristici potrebbero prendere il sopravvento, non c'è dubbio che questo cuscinetto debba diventare permanente”.
Abu Saleh ha aggiunto: “Entrambe le parti hanno l'opportunità di portare avanti un'agenda per una Siria libera e democratica con rispetto per tutti e per relazioni economiche tra Israele e Siria”.
I drusi della vecchia generazione delle Alture del Golan hanno quasi tutti rifiutato la cittadinanza israeliana e mantenuto la propria identità di siriani che vivono sotto “occupazione”. Tuttavia, Abu Saleh ha notato che dalla caduta di Assad, un numero maggiore di drusi ha richiesto la cittadinanza israeliana.
“Lo Stato di Israele ha dimostrato di saper affrontare le minacce e di lottare per i suoi cittadini e residenti su molti fronti”, ha dichiarato. “La cintura di sicurezza ha ravvivato la discussione sulla creazione di uno Stato druso indipendente [in Siria]. La gente vuole essere sicura di avere la cittadinanza [israeliana], se c'è qualcosa di concreto. La maggior parte dei drusi non vuole un proprio Stato ed è fedele al Paese in cui vive”, ha aggiunto.

Il futuro di Siria e Israele
   Abu Saleh ritiene che la Siria “sarà divisa in due o tre territori. C'è la possibilità che la Siria sia unita, ma in pratica ci sono molte forze che perseguono la propria agenda. Penso che in alcuni luoghi ci saranno sunniti, in altri curdi e anche aree miste”.
Nabih al-Halabi, cantante, esperto di ambiente e specialista di servizi comunitari che vive stabilmente in Israele, ha detto di non essere mai stato in Siria e di non avere la cittadinanza siriana. “Tuttavia - ha aggiunto -, abbiamo mantenuto la parte siriana della nostra identità perché credevamo che un giorno ci sarebbe stata la pace e saremmo potuti tornare a essere siriani”.
Parlando con JNS nella città drusa di Buq'ata, a sud di Majdal Shams, al-Halabi ha detto: “Questo è il conflitto in cui viviamo: siamo in parte israeliani e in parte siriani. Credo che useremo questa esperienza per essere un ponte di pace tra le nostre due comunità”.
Per al-Halabi, la caduta di Assad avvicinerà i drusi del Golan alla Siria.
“Penso che questa sarà la nuova era della Siria. I siriani non accetteranno un'altra dittatura. C'è la speranza che la Siria sia stabile e diventi un regime democratico. Nei prossimi mesi ci saranno le elezioni e il messaggio al popolo israeliano sarà di pace”, ha detto.
“Per noi drusi delle alture del Golan, il messaggio sarà che dobbiamo prepararci a un riavvicinamento con i siriani”, ha proseguito. “Ho molti amici israeliani e abbiamo parlato di pranzare a Tel Aviv e cenare a Damasco”.

Una Siria unita?

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Il tenente colonnello Stéphane parla con i giornalisti presso il quartier generale (prima del 1967) dell'esercito siriano nel Golan, 19 dic 2024

Il tenente colonnello in pensione Stéphane Cohen, capo del dipartimento OSINT (Open Source Intelligence) presso il Data Analytics Centre dell'Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv, ritiene che unificare la Siria sarà una sfida.
“Per molti anni, diversi partiti hanno cercato di unificare la Siria, sia attraverso il baathismo che il nazionalismo siriano”, ha dichiarato Cohen al JNS. “Ci sono i curdi a est dell'Eufrate, gli alawiti sulla costa, i drusi a sud e la maggioranza sunnita che controlla Hama, Aleppo e parte di Damasco. Sarà difficile per [il leader dei ribelli Abu Mohammad] al-Julani unire i siriani in un unico Stato”.
Cohen ha sottolineato lo sviluppo del movimento politico di al-Julani, che è ancora ancorato all'islamismo sunnita ma si è riposizionato come forza modernizzatrice.
“Ci saranno elezioni in Siria e riusciranno a scrivere una nuova costituzione? E che aspetto avrà questa costituzione?”, ha chiesto.
Se il futuro governo non otterrà il controllo dell'intero territorio, c'è il rischio che gruppi come lo Stato Islamico e forse anche gruppi filo-iraniani riprendano forza.

(Israel Heute, 7 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gaza: gli Emirati Arabi Uniti propongono un'amministrazione temporanea postbellica

Gli Emirati propongono una cogestione americano-emiratina di Gaza dopo la guerra, subordinata a una roadmap verso uno Stato palestinese.

Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) si sono detti pronti a partecipare all'amministrazione temporanea di Gaza insieme agli Stati Uniti, secondo un sondaggio Reuters condotto tra 12 diplomatici e funzionari occidentali. La proposta arriva mentre proseguono i negoziati tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco temporaneo e il rilascio parziale degli ostaggi.

Un alto funzionario emiratino ha dichiarato che tale partecipazione è subordinata a “una significativa riforma dell'Autorità Palestinese, al suo rafforzamento e alla creazione di una roadmap credibile verso uno Stato palestinese”. Queste condizioni, attualmente assenti, sono considerate “essenziali per il successo di qualsiasi piano postbellico per Gaza”.

Secondo fonti diplomatiche, l'amministrazione provvisoria proposta supervisionerebbe la governance, la sicurezza e la ricostruzione di Gaza fino al trasferimento dei poteri a un'Autorità palestinese riformata. Sebbene il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si opponga fermamente a questo piano, i diplomatici sottolineano che gli Emirati Arabi Uniti, grazie ai loro rapporti di pace con Israele, hanno “influenza” sul governo israeliano.

Gli Emirati hanno anche ventilato la possibilità di nominare un nuovo primo ministro palestinese, citando l'esempio di Salam Fayyad, ex leader dell'Autorità palestinese dal 2007 al 2013. Il piano emiratino prevede anche l'utilizzo di società di sicurezza private per formare una “forza di pace” a Gaza, una proposta che sta suscitando preoccupazione in Occidente.

Due ex funzionari israeliani hanno dichiarato a Reuters che, nonostante le critiche degli Emirati a Netanyahu durante la guerra, Israele vuole vedere gli Emirati coinvolti nell'amministrazione postbellica di Gaza. A differenza del Qatar, gli Emirati Arabi Uniti vedono Hamas e altre organizzazioni islamiste come “forze destabilizzanti” e sottolineano l'importanza della stabilità regionale per lo sviluppo economico.

(i24, 7 gennaio 2025)

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Ritrovato antico Mikvè risalente al Secondo Tempio di Gerusalemme

di Michelle Zarfati

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Un Mikvè (bagno rituale ebraico), intonacato datato al periodo del Secondo Tempio, è stato recentemente scoperto durante alcuni lavori di scavo vicino all’antico canale di drenaggio nella città di Davide, a circa 60 metri a sud del Monte del Tempio, a Gerusalemme.
  “La scoperta di questo piccolo Mikvè, apparentemente per uso privato, fornisce ulteriori prove che questa zona della città ospitava ricchi residenti ebrei. Un Mikvè privato era un lusso che non tutti potevano permettersi”, hanno spiegato in una dichiarazione gli archeologi Shlomo Greenberg, Riki Zlot Har-Tov e Peller Heber, che hanno guidato lo scavo per conto dell’Autorità israeliana per l’antichità.
  Il bagno rituale è stato trovato adiacente a quello che all’epoca era il canale di drenaggio centrale, che trasportava principalmente l’acqua piovana. La Città di Davide e l’Autorità per le Antichità d’Israele hanno notato che il bagno rituale offre un raro sguardo sulla vita quotidiana dei residenti di Gerusalemme alla vigilia della distruzione del Secondo Tempio. Il bagno, profondo circa due metri, presentava cinque gradini ed è stato scoperto sotto i resti di una casa, insieme ad alcuni pavimenti e detriti che sono crollati durante la distruzione. All’interno sono stati trovati anche vasi di pietra, caratteristici della popolazione ebraica e frammenti di ceramica risalenti al primo periodo romano.
  “Questo Mikvè è particolarmente raro perché è stato scoperto intatto ed è il secondo ad essere dissotterrato finora durante gli scavi della strada a gradini vicino al canale di drenaggio nella Città di Davide” hanno aggiunto i ricercatori.

(Shalom, 7 gennaio 2025)

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Bye Bye Germany. C'era una volta in Germania e quella storia vera dietro il film

Sam Garbarski firma un altro tassello nella ricostruzione dell'Olocausto con Bye Bye Germany, la storia di come gli ebrei tentarono di ripartire dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

di Ileana Dugato

MILANO - È una storia che conosciamo tutti, anche fin troppo bene. Sarebbe persino difficile fare un conteggio tra i film e i romanzi che raccontano di uno dei periodi più bui della Storia, la Shoah. Quello che però viene raccontato meno è quello che successe dopo, quando la Seconda Guerra Mondiale finì e tutti, ebrei in primis, dovettero fare i conti con quello che era accaduto. È quello che ha fatto il regista belga Sam Garbarski con il suo Bye Bye Germany, titolo alternativo: Es war einmal in Deutschland. La storia, che è tratta dai romanzi Die Teilachere Machloikes dello scrittore svizzero-tedesco Michel Bergmann, si concentra proprio sul periodo immediatamente dopo la fine del conflitto mondiale, nel 1946.
  È l'epopea del popolo ebraico che, sopravvissuto allo sterminio e ai campi di concentramento, deve riprendere in mano la propria vita e andare avanti. Ma come? Seguiamo allora la storia, a Francoforte, di un gruppo di famiglie che tentano di tornare a una parvenza di quotidianità. I figli, guidati da David (Moritz Bleibtreu), si danno da fare per ridare vita all'attività di famiglia, vendendo biancheria intima, per mettere da parte una cifra consistente di denaro. L'obiettivo, comune a quello della maggior parte degli ebrei in quel momento, era lasciare la Germania e mettersi in viaggio, fondamentalmente verso due direzioni opposte. C'era chi voleva raggiungere gli Stati Uniti, e da lì ricostruire da capo un futuro, e chi invece voleva tornare in Palestina, e ritrovare le proprie radici.
  E sono ispirate a fatti veramente accaduti anche le vicende della piccola banda di venditori di Francoforte che, tra stratagemmi e trovate fantasiose, tentato in tutti i modi di diventare dei maghi delle vendite, come quando convincono i clienti a comprare la loro biancheria facendola passare come stoffa raffinata da Parigi. La storia è tuttavia tremendamente emblema della realtà. Bergmann prima, e Garbarski poi, hanno posto l'accento su una versione che spesso viene dimenticata o lasciata in disparte. Una vicenda piccola come quella di una famiglia che sogna di andare Oltreoceano diventa così il simbolo di un popolo costretto ad abbandonare quella che fino a pochi anni prima avevano considerato una patria, dovendo anche fare i conti con i traumatici ricordi della carneficina che si era consumata su quel suolo e di cui essi stessi erano stati il bersaglio.
  Ma non solo. Perché con Bye Bye Germany- che troviamo oggi in streaming su Tim Vision e Prime Video - scopriamo anche che, in realtà, ci furono invece degli ebrei che, nonostante tutto, decisero di restare in Germania. Si trattava di poche migliaia, ma comunque si rifiutarono di partire e scelsero (inspiegabilmente? Questa è un'altra storia) di rimanere. Insomma, Michel Bergmann non ha raccontato la storia dell'Olocausto ma quella di una ripartenza, un termine che oggi conosciamo così bene e che eppure forse non abbiamo mai associato con quel periodo, o forse non ci abbiamo mai pensato. In ogni caso, come sempre, è bene ricordare. Sempre.

(msn, 7 gennaio 2025)

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Napoli – Via dalla guerra, una serata in pizzeria per 16 soldati

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Nella sinagoga di Napoli domenica c’erano in visita 16 soldati israeliani feriti nel conflitto, alcuni in modo grave. Ma non si è parlato di guerra.
«Dopo le esperienze che hanno passato, cercavano una giornata per distrarsi. E noi abbiamo fatto di tutto per farli stare bene», racconta Daniele Coppin, consigliere e portavoce della Comunità ebraica. I 16 soldati hanno scoperto Napoli in compagnia di una guida messa a disposizione dalla Comunità, hanno visitato sinagoga e locali comunitari, sono stati a cena insieme al rabbino Cesare Moscati e ai rappresentanti della Comunità in una pizzeria “kasherizzata” per l’occasione. Tutto, spiega Coppin, all’insegna «della massima spensieratezza».
  Un gruppo eterogeneo di ospiti, espressione delle tante anime del paese di cui indossano la divisa. Israele, ha affermato nel suo saluto il rabbino Moscati, è «democrazia vera per tutti: ebrei e musulmani, drusi, beduini e cristiani». Accompagnava il gruppo l’ex presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che ha organizzato il loro arrivo in Italia.

(moked, 6 gennaio 2025)

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Odem, la scuola per gli agenti segreti israeliani del futuro

di Ruben Caivano

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Nascosta tra le colline delle alture del Golan, nella città di Katzrin, c’è una scuola superiore d’élite che istruisce i futuri leader delle agenzie di intelligence israeliane. Il programma “Odem”, il cui nome significa “rubino” in ebraico, identifica già dal nono anno gli studenti con il potenziale per entrare nel Mossad e nello Shin Bet, e li prepara attraverso un rigoroso percorso accademico e formativo.
  Ynet ha realizzato un approfondimento su questo particolare percorso di formazione, ascoltando anche le voci di alcuni dei suoi studenti.
  Gli studenti, chiamati per lettera in codice invece che con il loro nome completo, provengono da tutte le parti di Israele. Il programma Odem è stato creato per affrontare la crescente necessità di nuovi talenti del settore tecnologico per le principali unità di sicurezza del Paese. A gestire questa iniziativa senza precedenti sono il Ministero della Difesa, il Ministero dell’Istruzione, l’esercito israeliano (IDF), il Mossad e lo Shin Bet.
  Il percorso termina con il diploma e l’accesso al corso di ingegneria elettronica presso la prestigiosa università Technion di Haifa. Gli studenti partecipano inoltre a progetti avanzati in collaborazione con le forze di sicurezza israeliane, acquisendo un’esperienza unica che li prepara a sei anni di servizio militare, durante i quali ricopriranno ruoli chiave nello Shin Bet e nel Mossad.
  Odem si distingue anche per l’attenzione all’uguaglianza di genere e di provenienza. Attualmente, infatti, il 38% dei partecipanti sono donne e il 40% degli studenti proviene dalle regioni settentrionali e meridionali del Paese. L’obiettivo, come dichiarato dai responsabili del programma, è portare entrambe le cifre al 50%. Questa diversità è un fattore importante poiché offre opportunità anche a giovani talenti di aree periferiche spesso meno rappresentate nei percorsi d’élite.
  A., uno studente del 12° anno di Kiryat Shmona, ha raccontato come il programma abbia risposto perfettamente alle sue ambizioni. “Voglio svolgere un ruolo significativo in cui le mie competenze possano contribuire al mio Paese. Dopo il 7 ottobre, è chiaro quanto sia essenziale questo programma”, ha detto, riferendosi agli eventi recenti che hanno sottolineato la necessità di una sicurezza avanzata. “Nello Shin Bet e nel Mossad, raramente ricevi credito per le tue azioni e nessuno potrebbe mai sapere che sei stato tu ad agire. Per me, questa è la bellezza”.
  Anche S., una studentessa del 12° anno proveniente da una comunità al confine con Gaza e cresciuta in una zona soggetta a costanti minacce, ha trovato nell’educazione ricevuta un’opportunità per contribuire in modo concreto alla sicurezza di Israele. “Nella guerra attuale, il ruolo della tecnologia è primario. Ho sempre voluto capire il lavoro di coloro che sono nell’ombra. La mia ambizione è essere uno di loro, proteggendo gli altri in silenzio, assicurandomi che nessuno si renda conto delle minacce sventate”.
  Odem, dunque, non è soltanto un programma scolastico ed educativo, ma un modello innovativo che combina l’eccellenza accademica alla preparazione militare. In un Paese in cui la sicurezza è una priorità assoluta, questa iniziativa rappresenta un investimento strategico per il futuro.

(Shalom, 6 gennaio 2025)

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Israeliano sopravvissuto al 7 ottobre costretto a fuggire dal Brasile perché indagato in quanto ex soldato a Gaza

di Ludovica Iacovacci

Cresce sempre di più il rischio per i soldati israeliani di essere arrestati all’estero dopo aver prestato servizio a Gaza. Se un soldato di qualsiasi Paese del mondo lasciasse la propria patria per recarsi altrove (per farsi una vacanza, per andare a trovare dei parenti, per ricevere delle cure o per qualsivoglia ragione una persona si recasse in uno Stato straniero) difficilmente sarebbe costretto a lasciarlo perché indagato dalla magistratura locale in quanto appartenente ad un esercito regolare che sta combattendo una guerra. Quello che succede ai soldati di Israele però non è ciò che accade a tutti gli altri soldati del mondo, non rientra nella definizione di ordinario, di normale. Per i soldati israeliani è meglio non lasciare il proprio Paese: per loro non è così difficile essere indagati da una magistratura straniera.

• La vicenda
  Il 5 gennaio 2025, la giustizia brasiliana ha ordinato alla Polícia Federal (PF) di avviare un’inchiesta su un soldato israeliano che si trovava in Brasile. Il militare, combattente di Tzahal (l’esercito israeliano), è accusato di essere coinvolto in presunti crimini di guerra durante il conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. La decisione è arrivata dopo le denunce da parte dell’organizzazione anti-israeliana Fondazione Hind Rajab (HRF), un gruppo filopalestinese di recente istituzione in Belgio, che accusa il soldato di aver partecipato a “massicce demolizioni di abitazioni civili a Gaza, nel mezzo di una campagna sistematica di distruzione”.
Il soldato israeliano coinvolto nella controversia è stato identificato come uno dei sopravvissuti all’attacco perpetrato dai terroristi di Hamas al Nova Festival, uno dei luoghi del massacro dell’organizzazione terroristica nel sud di Israele in cui i terroristi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e hanno preso 251 ostaggi, dando inizio alla guerra in corso a Gaza.
Domenica 5 gennaio il Ministero degli Esteri israeliano ha detto che il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar aveva ordinato alla Sezione Consolare del ministero e all’ambasciata in Brasile di contattare il soldato e la sua famiglia, che “lo hanno accompagnato per la durata del suo soggiorno fino alla sua rapida e sicura partenza dal Brasile”. Il soldato è riuscito a lasciare il Paese. Ore prima, la sua famiglia aveva detto all’emittente pubblica Kan che non era stato arrestato e che stava ricevendo l’aiuto di cui aveva bisogno per andarsene. “Credo che troveranno la strada di casa sani e salvi, ma dobbiamo assicurarci che conoscano la verità sul soldato. Non è un sospettato; è un soldato che ha attraversato l’inferno”, ha detto il padre.
“Non può essere che i soldati dell’IDF – sia il servizio regolare che i riservisti – abbiano paura di fare un viaggio all’estero per paura di essere arrestati”, ha detto il leader dell’opposizione, Yair Lapid, che scrive come il soldato “è stato costretto a fuggire dal Brasile nel cuore della notte per evitare di essere arrestato per aver combattuto a Gaza”.
Fondazione Hind Rajab è una organizzazione che identifica i soldati israeliani attraverso i contenuti dei social media che pubblicano delle loro operazioni a Gaza. Dopodiché, l’organizzazione avvisa le forze dell’ordine locali quando i soldati viaggiano all’estero nel tentativo di farli arrestare. HRF ha anche chiesto l’arresto dei soldati israeliani in visita in Thailandia, Sri Lanka, Cile e altri Paesi, secondo il suo sito web, ma non c’è alcuna conferma che alcun soldato israeliano sia stato detenuto o arrestato a seguito dei casi per i quali ha sollevato l’attenzione.
Il presidente attuale del Brasile è Luiz  Inacio Lula Da Silva, tornato alla massima carica verdeoro in seguito delle elezioni del 2022, il quale riguardo al conflitto in corso a Gaza ha accusato Israele di “genocidio” affermando che le azioni dello Stato ebraico sono come quelle di Hitler.

(Bet Magazine Mosaico, 6 gennaio 2025)

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Dopo la Siria l’Iran teme di perdere influenza anche in Iraq

di Haamid B. al-Mu’tasim

L’Iran sta probabilmente adottando una serie di misure per prevenire l’instabilità in Iraq dopo la caduta del regime di Assad.
Il comandante della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniano (IRGC) Esmail Ghaani è arrivato a Baghdad il 5 gennaio per incontri segreti con alti funzionari iracheni e comandanti di milizia per discutere di “ristrutturazione”, ha riferito una fonte informata.
Ghaani incontrerà presumibilmente il primo ministro iracheno, i leader delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF) e il “comandante delle forze armate” iracheno.
Ghaani e l’IRGC molto probabilmente discuteranno anche della caduta del regime di Assad con questi leader iracheni chiave.
I numerosi elementi della milizia che si sono ritirati dalla Siria presumibilmente dovranno anche essere riorganizzati.
La Brigata delle Forze Speciali delle Forze di Terra dell’IRGC ha recentemente condotto esercitazioni militari nella provincia occidentale di Kermanshah e le Forze di Terra iraniane di Artesh hanno schierato diverse brigate nell’Iran occidentale per affrontare gruppi ostili volti a creare instabilità sul confine occidentale dell’Iran con l’Iraq, a dimostrazione della preoccupazione dell’Iran per la minaccia rappresentata dall’insicurezza in Iraq.
I media affiliati all’IRGC hanno pubblicato un editoriale che evidenzia alcune delle probabili preoccupazioni che l’Iran ha dopo la caduta della Siria.
L’editoriale sosteneva che l’insicurezza politica in Siria potrebbe essere trasportata in Iraq da terroristi che entrano nel paese con lo scopo di uccidere funzionari iracheni chiave per causare insicurezza e destabilizzare il paese.
Salman al Maliki di Tasnim ha affermato che altre potenze, come gli Stati Uniti e Israele, avrebbero cercato di sfruttare un vuoto di potere in Iraq per i propri interessi. L’Iran ritiene regolarmente gli Stati Uniti e Israele responsabili della formazione dello Stato islamico in Iraq e Siria (ISIS) e potrebbe concludere che gli attacchi dell’ISIS che prendono di mira ufficiali e funzionari militari iracheni sono incoraggiati dagli Stati Uniti e da Israele.
Maliki potrebbe anche riferirsi ad attacchi di rappresaglia israeliani o statunitensi contro obiettivi della milizia in risposta a futuri attacchi contro Israele o le basi statunitensi. Maliki ha esortato l’Iraq a creare un consiglio politico e militare congiunto per affrontare queste minacce alla sicurezza, condividere l’intelligence e rispondere al terrorismo nell’editoriale.
I media iraniani continuano ad alimentare il conflitto settario sul santuario sciita Sayyida Zeinab a Damasco.
Tabnak ha riferito che un comandante legato a HTS è entrato nel santuario Sayyida Zeinab a Damasco e ha ripetuto “frasi settarie e sarcastiche”. Tabnak ha affermato che il video provocatorio potrebbe indurre gli sciiti e gli alawiti in Siria a rispondere con “azioni dure”. Tabnak ha precedentemente affermato che i combattenti di HTS hanno minacciato la sicurezza del sacro santuario sciita.
Syrian Popular Resistance, che è un canale Telegran presumibilmente siriano che sposa narrazioni settarie, ha accusato il governo guidato da HTS di aver ucciso sei lavoratori del santuario di Sayyida Zeinab dopo che sei cadaveri sarebbero stati trovati il 5 gennaio.
Il canale non ha fornito prove delle morti o se le uccisioni fossero motivate da violenza settaria. Questa è anche la prima volta che il canale ha parlato di Sayyida Zeinab, il che è degno di nota dato che la maggior parte delle affermazioni sul santuario provengono dallo spazio informativo iraniano.

(Rights Reporter, 6 gennaio 2025)

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Svastiche e adesivi contro gli ebrei rovinano ancora la festa del derby

Scritte antisemite fatte girare dalle opposte tifoserie. Prima del match trovare mazze e bombe carta vicino allo stadio.

di Luca Monaco e Andrea Ossino

Tornano svastiche, adesivi e striscioni antisemiti. Il primo derby della capitale celebrato in notturna dopo sei anni coincide con il ritorno dei tifosi xenofobi. L’intera giornata pre-partita in realtà è stata scandita da diversi momenti di tensione. La polizia prima dell’incontro ha trovato un arsenale tra le fioriere di ponte Milvio, sponda biancoceleste, e anche vicino al River bar, punto di ritrovo dei romanisti sul lungotevere.
Decine di mazze da baseball, bastoni trasformate in lance con le lame fissate sull’estremità e coltelli erano nascosti nei pressi dell’Olimpico.
Che le due tifoserie volessero venire a contatto era già noto dall’ora di pranzo, quando due gruppi composti da un centinaio di tifosi ognuno hanno cercato di scontrarsi venendo bloccati dalla polizia. Un ragazzo è anche stato fermato mentre cercava di entrare allo stadio con un cacciavite. E poi una pioggia di petardi durata due ore: uno è anche esploso sotto una macchina elettrica andata in fiamme.
Il tutto all’ombra dei manifesti e degli adesivi antisemiti con la stella di David fatti girare dalle opposte tifoserie. Perché la notte prima della partita, sabato, uno striscione è stato esposto sul cavalcavia della Tangenziale est: «Laziale ebreo», corredato da due svastiche. Ieri circolavano tra i tifosi adesivi con il “Asr” al centro una stella di David e altri con i colori della Lazio . Insulti antisemiti.
Non sono i primi ma gli ultimi di una lunga serie di episodi analoghi. Lo scorso settembre gli ultrà giallorossi del “Gruppo Roma”, in occasione della partita contro l’Udinese, si sono dati appuntamento sul ponte Duca D’Aosta srotolando uno striscione con la scritta “Roma Marcia Ancora” e al centro una X. Un chiaro riferimento al fascismo e alla X Flottiglia MAS. La sera dello scorso 22 Luglio per i 97 anni della Roma, centinaia di tifosi hanno invaso le strade del centro. Un compleanno macchiato da alcuni ragazzi che sotto il balcone di Piazza Venezia hanno intonato un coro che richiama “Faccetta nera”, con tanto di saluti romani.

• Derby Roma-Lazio, il corteo degli ultras biancocelesti tra cori e lanci di petardi
  Anche dall’altra parte della curva è possibile assistere a scene simili. È di qualche mese fa infatti la decisione della procura di Roma di processare 7 tifosi laziali per i cori i durante il derby dello scorso 19 marzo. Sono accusati di istigazione a delinquere e di discriminazione razziale e religiosa. Secondo le accuse avrebbero intonato un coro che recitava: «In sinagoga vai a pregare, ti faremo sempre scappare, romanista vaff…».
Negli annali c’è anche l’ex difensore biancoceleste Stefan Radu che dopo aver appeso gli scarpini al chiodo è andato ad assistere al derby in curva Nord ed è stato fotografato con un polsino della manica sinistra della sua felpa che riportava la scritta SS Lazio, il nome della società, ma con le due S che riproducono il carattere delle SS di Adolf Hitler.
Ed era sempre un derby, nel 2023, quando un tifoso tedesco aveva indossato la maglia con la scritta “Hitlerson 88”, ovvero il simbolo utilizzato dai gruppi neonazisti come saluto ad Adolf Hitler. Il volto nero della tifoseria laziale era poi finito al centro di un’indagine della polizia. Il nostalgico tifoso era quindi stato identificato e denunciato. Il caso più eclatante è quello avvenuto l’ottobre del 2017, quando durante Lazio-Cagliari in curva erano stati affissi degli adesivi di Anna Frank con la maglia della Roma. Anche in quel caso la vicenda era finita in procura.

(la Repubblica, 6 gennaio 2025)

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Il Novy God degli ebrei di lingua russa

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Avete mai sentito parlare del Novy God? Gli ebrei di origine russa, a partire da quelli emigrati in Israele, lo conoscono bene. È la loro peculiare declinazione del Capodanno civile, ma è anche un modo «per far rivivere tradizioni che si stanno erodendo man mano che i collegamenti con il nostro passato post-sovietico si dissipano». Lo racconta la giornalista Yulia Karra, sul sito Israel21c.
  Il “rito” del Novy God si è ripetuto anche quest’anno, a cavallo tra le ultime ore del 2024 e le prime del 2025. Prima con la simultanea sintonizzazione, in varie case israeliane con questo retaggio familiare, su canali televisivi in lingua russa. E poi con l’intonazione di canzoni del Novy God dell’era sovietica. Quelle, scrive Karra, «che ci cantavano le nostre nonne». Con l’approssimarsi della mezzanotte arriva poi il momento del brindisi. In alto i calici di champagne ed è anche tradizione addentare un cracker spalmato di caviale. Cose «inimmaginabili» nell’Urss, si legge.
  Novy God ha varie analogie estetiche con il Natale, spiega la giornalista: un abete decorato, lucine e un personaggio dalla lunga barba «che somiglia sospettosamente a Babbo Natale». Non è però una festa cristiana, precisa Karra, anche se la sua origine è inevitabilmente connessa alla messa al bando del Natale decretata nel 1929 dal partito comunista, quando ogni festività religiosa fu accantonata dal regime per ragioni ideologiche. Col tempo Novy God divenne quindi in qualche modo un surrogato, prosciugato del significato originario e diffuso anche in ambienti non cristiani.
  Oggi, scrive Karra, la festa di Novy God è celebrata nei paesi post-sovietici e in tutta la diaspora innescata dal crollo dell’Urss. In Israele ciò avviene in molte abitazioni dove vivono persone della grande comunità di lingua russa locale, circa 1.2 milioni di individui in tutto, arrivati in larga parte con le ondate migratorie degli anni Novanta. La ricorrenza è familiare a circa «il 72% degli israeliani», si apprende da un recente sondaggio, per quanto la maggioranza di essi (il 54%) «non la percepisca come parte della cultura israeliana».

(moked, 5 gennaio 2025)

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Diario minimo (di un conflitto). Obiettori di (in)coscienza

di Luciano Assin

Una frattura pressoché insanabile si è formata all’interno del mondo religioso ebraico in Israele dopo il pogrom del 7 ottobre. Da una parte le “kippot srugot” vale a dire il settore religioso parallelo a quello laico che è presente in tutti i campi della società israeliana e riesce a conciliare lo studio della Torah con la vita quotidiana. Dalla parte opposta il settore Haredì, traducibile un po' superficialmente come ultra ortodosso, che pone invece lo studio delle Sacre Scritture come scopo principale autoescludendosi così in maniera considerevole dalle problematiche quotidiane della società israeliana. Prima fra tutte l’esonero totale dal servizio militare obbligatorio.
In un periodo come quello attuale nel quale il paese è in guerra da 15 mesi, già adesso è da considerarsi il conflitto più lungo in assoluto mai combattuto da Israele dal giorno della sua fondazione,  è sempre più evidente il distacco e l’isolazionismo dei “timorati di Dio” dal resto della società israeliana.
Uno dei punti più bassi di questa diatriba che accompagna il paese dal momento della sua nascita è stato toccato questa settimana dal deputato Itzhak Pindarus, capogruppo del partito haredì Yahadut haTorah il quale durante un convegno ha affermato: “Non posso guardarli negli occhi, ma vedo il prezzo che pagano allontanandosi dalla religione, e questa è la risposta perché io non mi trovo fra loro”.
È interessante sottolineare che le statistiche parlano di un buon 8% di haredim che abbandonano la retta via e abbandonano la religione senza per questo aver fatto un solo giorno di servizio militare.
Un’affermazione del genere, com’era prevedibile, ha scatenato reazioni indignate soprattutto in campo religioso. Il peso dell’attuale conflitto è sopportato principalmente dai membri della riserva, uomini e donne dai 21 ai 40 anni, che hanno combattuto mediamente per centinaia di giorni durante il 2024. Oltre a rischiare la vita quotidianamente i riservisti devono occuparsi delle proprie famiglie e del proprio lavoro, un’impresa pressoché impossibile in un paese dove il costo della vita è fra i più alti del mondo occidentale.
Il prezzo pagato in vite umane fino ad ora è tale che già è evidente che il numero dei nuovi arruolati non basterà a rimpiazzare le perdite, questo significa che verrà allungato sia il periodo di servizio obbligatorio sia l’età di uscita dalla riserva. Un peso ancora maggiore per quella parte del paese che contribuisce più di tutti allo sviluppo economico e tecnologico del paese.
È quindi inconcepibile come in un momento come questo tutta la leadership del mondo haredì si opponga in blocco a qualsiasi modifica dell’attuale status quo, che esonera di fatto tutti i giovani del settore. I principali rabbini hanno sottolineato l’intoccabilità di questo privilegio allargandolo anche a chi non studia nelle Yeshivot, adducendo il fatto che l’esercito è un cattivo maestro e porterebbe la gioventù ad uscire dal seminato. In pratica il loro stesso establishment ammette che più che la fede è l’indottrinamento quotidiano l’unico collante che li tiene uniti.
Dall’alto della loro arroganza gli ultra ortodossi dividono il mondo religioso in fedeli di serie A e serie B, autopromuovendosi come i più puri rappresentanti dell’ebraismo. Il malcontento all’interno delle kippot srugot ha ormai superato il limite di tolleranza, la percentuale di caduti è praticamente il doppio rispetto alla loro percentuale in seno alla popolazione, e il timore del varo di una legge che permetta di esentare definitivamente i giovani haredim potrebbe rappresentare la classica goccia che fa traboccare il vaso.
I deputati ultra ortodossi sanno che senza il loro appoggio il governo di Netanyahu è destinato a cadere, cosa assolutamente in contrasto col loro principale interesse: ricevere quanti più fondi statali per il mantenimento e il rafforzamento di tutte le strutture educative,  sociali e assistenziali create in questi decenni. In questo estenuante braccio di ferro si arriverà presumibilmente ad un compromesso che permetta ad entrambi i contendenti di salvare la faccia.
Per il momento le uniche armi, alquanto spuntate, in mano all’esercito e al governo per  arruolare questi improbabili obiettori di (in)coscienza sono sanzioni economiche e detentive, mai veramente attuate in passato. D’altra parte una famosa locuzione ebraica afferma: “senza pane non c’è Torah”. È tutta una questione di soldi.
Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi.

(Bet Magazine Mosaico, 5 gennaio 2025)

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Con gli iraniani, contro Israele: Francesco oltre tutte le linee rosse

Se per il Papa il 7 ottobre è la data di un incidente della resistenza dei poveri alla quale è seguito un genocidio perpetrato dallo stato ebraico, affari suoi. Bisogna sperare che si levino voci persuasive a difendere il diritto della chiesa a proclamare: non in mio nome. [Il risalto in colore è originale]

di Giuliano Ferrara

Ammicca alla teoria infame del genocidio, e altre bassezze, si accoda agli aspiranti carcerieri del capo del governo di Israele, perché Netanyahu non rispetta i diritti umani, e fa tutto questo a colloquio con una autorità accademica iraniana, dicasi iraniana. Le linee rosse le ha passate tutte, e malamente. Consegnando alla conversazione con un bonzo del regime di Teheran questo giudizio corrivo ma tragicamente errato su Israele e chi la rappresenta, ha fatto di più, si è mostrato colluso con chi detesta e combatte i diritti umani con ferocia nel condannare quello stato dell’esodo che è nato quasi un secolo fa, per volontà internazionale e per attaccamento patriottico e sionista, dopo la Shoah e nel segno del “mai più”.
Il Papa dovrebbe essere al servizio della chiesa cattolica, quel popolo di Dio che un gesuita di rango, il cardinale Angelo Bea creato da Giovanni XXIII, riscattò dall’oscurantismo antigiudaico millenario con la Nostra Aetate, quando Paolo VI sorvegliava il decorso del Concilio Vaticano II, una svolta millenaria che Wojtyla e Ratzinger innalzarono a una visione teologica sinagogale, unitiva, di affratellamento, della relazione con i fratelli maggiori del cristianesimo; avendo sostituito la teologia e il pensiero cristiano con l’ideologia, pauperismo ed ecologismo, ha imbruttito e avvilito invece la chiesa, se ne sta servendo per promuovere i risvolti più conformisti della sua teo-rumba ispirata al feticcio del popolo, rendendola nel suo assetto gerarchico complice del sentimento comune e dominante, la lontananza quando non il disprezzo per il popolo di Israele e per il suo tragico e disperato tentativo di restare in vita nel suo focolare nazionale, che oggi porta all’isolamento delle vittime del 7 ottobre e a una nuova diaspora europea, a una dispersione nell’umiliazione e nella paura dei discendenti dei campi di Auschwitz e Treblinka. 
Quella di Francesco non è una chiesa povera. La chiesa è sempre stata teologicamente povera, anche quando era ricca e rinascimentale, principesca e meretrice. Ora nella visione e prassi di questo Papa è diventata un linguaggio povero, peccato antievangelico, che consulta per riprodurlo il dizionario basico delle convenzioni e della bêtise diffusa nel secolo, un’agenzia banalmente progressista che non conserva l’odore dell’incenso e consegna dignità degli ordini e della liturgia al diavolo del sentimento dominante per immergersi nel tanfo pastorale delle pecore. La martoriata chiesa cattolica, uscita da un lungo ciclo papale aureolato di intelligenza, penetrazione antropologica, cultura, tradizione vivente e alta dottrina, rischia di diventare una arrogante organizzazione di settatori e idolatri della sofferenza come chiave universale per aprire le porte dell’ingiustizia e del malvivere ecclesiale e politico.
Se nel mondo c’è, e c’è, eccome, penuria di bene, di solidarietà, di compassione, di affetto e rispetto per i più vulnerabili e per i diseredati, predicare dalla montagna, come fece quel giovane ebreo chiamato Gesù Cristo, vuol dire cominciare dalla filiazione abramitica e mosaica, da quella inaudita e inspiegabile sequela di dolore, di discriminazione, di isolamento, di sterminio e di pogrom che ha avuto il suo culmine contemporaneo nel 7 ottobre.
Se per il Papa quella è la data di un incidente della resistenza dei poveri alla quale è seguito un genocidio perpetrato da un esercito e da uno stato ebraico, affari suoi e della sua compromissione con la più ordinaria e volgare ignoranza dei fatti. Bisogna sperare che si levino voci persuasive a difendere il diritto della chiesa a proclamare: non in mio nome.

Il Foglio, 5 gennaio 2025)
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Ferrara difende la causa di Israele, e fa bene, ma il suo richiamo a "quel giovane ebreo chiamato Gesù Cristo" fa capire che lui non lo conosce. E di ciò che non si conosce sarebbe meglio non parlare. M.C.

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A Herzliya il Museo di Arte Contemporanea presenta cinque mostre per un’inedita storia del tessile in Israele

di Claudia De Benedetti

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Il Museo di Arte contemporanea di Herzliya dedica per la prima volta tutto il suo spazio espositivo a cinque mostre di opere tessili, offrendo prospettive storiche e contemporanee sul tessile e sulla tessitura in Israele dagli anni ’30 ad oggi. Le mostre occupano l’intero museo con le opere di 37 artisti affermati ed emergenti e testimoniano lo sviluppo del settore, che in passato era percepito più come un’arte applicata, decorativa o artigianale,riflettono il modo in cui i creatori tessili cercano di formulare un linguaggio personale e unico, facendo riferimento a identità, radici, genere e influenze culturali. Da oltre un decennio è in atto una rinascita di mostre sulla storia della tessitura, della produzione tessile e della fiber art nei musei d’arte e nelle biennali d’arte contemporanea; il Museo di Herzliya ha deciso perciò di proporre un suo approfondimento. Due sono le mostre collettive: “Structures”, dedicata alla tessitura in Israele, esamina le transizioni dal funzionalismo alla fiber art. “Eternal Spring” propone gli arazzi realizzati nel laboratorio di Itche Mambush a EinHod dal 1966 al 1985, basati su dipinti di importanti artisti del periodo. Le altre tre sono mostre personali: i modelli di tessuto distintivi di Siona Shimshi creati dagli anni ’60 agli anni ’80, i dipinti di Fatima Abu Roomi, che per anni si è concentrata sulla produzione di autoritratti meticolosi e scrupolosi che incorporano pezzi di tessuti, tappeti e ricami tradizionali, sono presentati in una mostra accanto a un tappeto ornamentale fatto di capelli di donne, che ha creato in collaborazione con un gruppo di donne di Nazareth. La mostra di Gur Inbar comprende opere in ceramica e tessuti che abbinano l’estetica contemporanea con quella storica.
  Fino al 1° maggio 2025 sarà possibile apprezzare la complessità dei processi che mettono in relazione design e creazione artistica, transizioni tra produzione artigianale e meccanica, sovrapposizioni tra arte e arte applicata collegamenti tra periodi storici e materiali diversi, transizioni tra figurativo e astratto e molto altro.
  Aya Lurie, direttore e curatore capo del Museo, ha spiegato: “nell’ultimo decennio, il nostro programma espositivo si è impegnato nell’esplorazione di questi problemi, con il desiderio di far scoprire definizioni, di fondere insieme discipline, di riesaminare in vari modi opere familiari e dimenticate della collezione del Museo e di creare giustapposizioni intergenerazionali che offrono incontri ravvicinati con artisti diversi, nuovi, noti e dimenticati, da Israele e dall’estero, da prospettive interpretative contemporanee”.

(Shalom, 5 gennaio 2025)

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La salvezza viene dai giudei

di Marcello Cicchese

Per secoli gli ebrei hanno vissuto in diaspora e tuttora vi si trovano, anche se una parte minoritaria di loro è raccolta nello Stato d’Israele. E’ poco sottolineato il fatto che, dopo la morte di Cristo, la prima diaspora ebraica è stata costituita da ebrei che avevano creduto in Gesù come Messia:

    “Vi fu in quel tempo una grande persecuzione contro la chiesa che era in Gerusalemme. Tutti furono dispersi per le regioni della Giudea e della Samaria, salvo gli apostoli. [...] Allora quelli che erano dispersi se ne andarono di luogo in luogo, portando il lieto messaggio della Parola” (Atti 8:1,4).

Si noti però che come chiesa qui non s’intende la mastodontica multinazionale religiosa dei nostri tempi, ma un gruppo minoritario all’interno del popolo ebraico, che le circostanze hanno spinto a svolgere un compito specifico di Israele: essere luce delle nazioni. Il “lieto messaggio della Parola” infatti è stato accolto, con sorpresa di tutti, anche dai gentili, e anzi in misura maggiore che dagli ebrei. Pochi anni dopo, come conseguenza della conquista di Gerusalemme da parte dei romani, la quasi totalità del popolo ebraico andò in diaspora. Essendo stato distrutto il Tempio, è venuto di conseguenza a mancare l’elemento fondamentale per adorare Dio in modo conforme alla legge data da Mosè. Gesù però l’aveva preannunciato. 
Un giorno una donna “palestinese”, appartenente a una popolazione ostile che abitava nella Samaria, una zona contesa chiamata oggi Cisgiordania, ricordò a Gesù che tra ebrei e samaritani esisteva un contrasto insanabile a proposito dell’adorazione: per gli uni si doveva adorare Dio sul monte Sion a Gerusalemme, per gli altri sul monte Garizim, nelle vicinanze dell’attuale Nablus. Risposta:

    “Gesù le disse: «Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre»” (Giovanni 4:21).

«Finalmente una parola chiara!» diranno con entusiasmo gli ecumenici. «Basta con queste dispute su luoghi e forme di adorazione, basta con la pretesa di possedere in proprio la verità! La verità è che ciascuno, ebreo, cristiano, musulmano o altro che sia, deve essere libero di seguire la propria strada che conduce a Dio, purché lo faccia con convinzione e serietà. Seguendo ciascuno la propria via, arriveremo tutti all’unico vero Dio!» 
Quelli che parlano e operano in questo modo hanno effettivamente una cosa in comune: che adorano tutti quello che non conoscono. Ciascuno dice di avere la luce e si muovono tutti nelle tenebre dell’ignoranza. Il discorso fra la donna palestinese e l’ebreo Gesù continua così:

    “Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai giudei. Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità” (Giovanni 4:22-24).

Gesù rimarca subito le linee di confine fra “noi” e “voi”, proprio sul tema dell’adorazione. E’ una questione che riguarda conoscenza, spirito e verità: tutte cose che Dio ha consegnato ai giudei, non ai gentili. Il fatto che sia Gesù stesso a dire che “la salvezza viene dai giudei” ha come conseguenza che chi nega o deforma la verità di questa affermazione non rifiuta soltanto i giudei, ma Gesù stesso.
Davanti alla frase “l’ora viene, anzi è già venuta”, qualcuno potrebbe essere indotto a interpretarla in senso evolutivo-emancipatorio: dall’Antico Testamento degli ebrei, materiale e primitivo, si sarebbe passati al Nuovo Testamento dei cristiani, più spirituale ed evoluto. Ma questa, ancora una volta, è una lettura con occhi pagani di un testo ebraico. In questo passo, come in molti altri passi della Bibbia, l’ora è un tempo fissato da Dio per il compiersi di un fatto che Egli aveva già in precedenza stabilito. Alcuni esempi:

    Gesù le disse: «Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta»” (Giovanni 2:4).
    Cercavano perciò di arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso, perché l’ora sua non era ancora venuta” (Giovanni 7:30).
    Venne la terza volta e disse loro: «Dormite pure, ormai, e riposatevi! Basta! L’ora è venuta: ecco, il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori” (Marco 14:41).
    Mentre ero ogni giorno con voi nel tempio, non mi avete mai messo le mani addosso; ma questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre»” (Luca 22:53).
    Gesù rispose loro, dicendo: «L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato” (Giovanni 12:23).
    “L’ora viene, anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Giovanni 16:32).

Le parole di Gesù alla samaritana non annunciano dunque un’evoluzione dall’ebraismo al cristianesimo, ma il sopraggiungere, all’interno del piano di Dio rivelato a Israele, di un tempo particolare che porta a compimento quello precedente e di conseguenza se ne diversifica, preparando quello successivo, che sempre per lo stesso motivo sarà diverso. Vivere il presente tra un passato originario ormai compiuto che si rammemora con costanza e un futuro preannunciato che si desidera con ansia, è un modo di intendere e vivere la storia squisitamente biblico. Per gli ebrei è abbastanza facile capirlo; per i cristiani gentili un po’ meno. 
Nella cena pasquale ebraica il passato emerge nel ricordo dell’uscita dal paese d’Egitto e il futuro si delinea nell’auspicio finale “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Nella cena del Signore celebrata dai cristiani evangelici vengono lette spesso le parole di presentazione dell’apostolo Paolo:

    “... ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Corinzi 11:26).

La partecipazione all’atto viene di solito vissuta come un dramma intimo da interiorizzare nel segreto della propria coscienza. E’ una spiritualità cattolicheggiante di tipo pagano che rischia di essere assorbita anche da chi, volendo essere anticattolico senza preoccuparsi di essere veramente biblico, alla fine è costretto a imitare inconsciamente la mentalità e gli atteggiamenti di chi vuole contrastare. Si sarebbe molto più vicini alla spiritualità biblica se si tenesse conto del contesto ebraico in cui Gesù ha istituito questo rito. Anzitutto, non molti notano che nel testo biblico non si usa mai l’espressione “bere il vino”. Lo fanno notare gli antialcolisti, secondo i quali non si tratterebbe di vino ma di succo d’uva. Ma non è questo il punto. Il punto saliente sta nel calice. Le parole di Paolo sono queste:

    “Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga». Perciò, chiunque mangerà il pane o berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ora ciascuno esamini sé stesso, e così mangi del pane e beva dal calice;” (1 Corinzi 11:26-28).

A Paolo sarebbe stato più semplice dire “... ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo vino”, per ben tre volte invece usa l’espressione “bere dal calice”. Perché questo fatto non viene attentamente osservato e adeguatamente commentato? Perché si pretende di essere biblici e non si pone seria attenzione al linguaggio usato della Scrittura? Alcuni sono convinti di essere gli ultimi credenti fedeli alla Bibbia rimasti in circolazione, ma poi non mostrano di essere davvero attenti a quello che la Bibbia realmente dice. Si rimane in un atteggiamento di tipo cattolico quando ci si appella formalmente alla Bibbia non per sottomettersi davvero alla sua autorità, ma per fondare sul richiamo ad essa la propria autorità. 
Il riferimento al calice è importante anzitutto perché Gesù ha istituito la sua commemorazione durante quello che gli ebrei chiamano il seder di Pessach, una cena solenne in cui si ricorda l’uscita del popolo dall’Egitto. Durante la cena viene offerta ai presenti una successione di calici, ciascuno dei quali ha un nome. Nel suo ultimo seder pasquale, a un certo momento Gesù ha compiuto un atto particolare:

    “... dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi” (Luca 22:20).

A questo si riferisce l’apostolo Paolo quando ricorda ai Corinzi:

    “Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»” (1 Corinzi 11:25-26).

Gesù ha detto “questo è il mio corpo”, ma non ha mai detto “questo è il mio sangue”. Ha detto invece: “questo calice è il nuovo patto nel mio sangue”: non è la stessa cosa. Il calice dirige l’attenzione sul nuovo patto, e il riferimento al sangue ne sottolinea l’importanza, perché se tutti i patti dovevano essere accompagnati da un segno esteriore, i patti particolarmente importanti dovevano essere siglati da versamento di sangue. L’importanza unica di questo nuovo patto sta appunto nel fatto che per siglarlo è stato necessario il versamento del sangue del Figlio di Dio. 
In che cosa consiste questo nuovo patto? Chi sono i contraenti? Uno di essi certamente è Dio, ma l’altro chi è? “Siamo noi”, ha risposto una volta un anziano di chiesa, intendendo naturalmente “noi veri cristiani nati di nuovo”. Che cosa dice invece la Bibbia?

    “Infatti Dio, biasimando il popolo, dice: «Ecco i giorni vengono, dice il Signore, che io concluderò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda, un patto nuovo; non come il patto che feci con i loro padri nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto; perché essi non hanno perseverato nel mio patto, e io, a mia volta, non mi sono curato di loro, dice il Signore. Questo è il patto che farò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: io metterò le mie leggi nelle loro menti, le scriverò sui loro cuori; e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo. Nessuno istruirà più il proprio concittadino e nessuno il proprio fratello, dicendo: “Conosci il Signore!” Perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. Perché avrò misericordia delle loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati»” (Ebrei 8:8-12).

L’autore qui cita quasi letteralmente un brano del profeta Geremia (31:31-34). Non si tratta dunque di una novità rispetto a Israele, ma di una successione temporale all’interno del piano salvifico promesso da Dio a Israele. Che questo patto, per sua specifica natura, sia in benedizione non solo agli ebrei ma anche ai gentili, corrisponde precisamente alla funzione di Israele di essere “luce delle nazioni”. L’apostolo Paolo parla di “calice della benedizione che noi benediciamo” (1 Corinzi, 10:16): il semplice fatto di bere da quel calice dovrebbe ricordare a chiunque vi partecipa che “la salvezza viene dai giudei”, e che su di lui scende la benedizione proveniente da un patto che Dio ha concluso “con la casa d’Israele e con la casa di Giuda”.

(da "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo")



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Pensieri sullo Shabbat

Lettura settimanale - וַיִּגַּשׁ- Wa`Jigash - Si avvicinò ; Genesi 44:18 - 47:27 ; Ezechiele 37:15 - 28
I cinque libri di Mosè raccontano la storia del popolo d'Israele, dalla creazione del mondo alla redenzione nella Terra Promessa che Dio aveva promesso ad Abramo. Questi cinque libri sono suddivisi in letture settimanali. Venticinque anni fa, mio padre Ludwig Schneider scrisse il libro “Le chiavi della Torah”per accompagnare le 54 letture settimanali. Un filo messianico di sofferenza attraverso la Torah. La Torah ha 70 facce, si dice in ebraico. Le letture settimanali della Torah aprono i nostri occhi e i nostri cuori all'intera Parola di Dio, la Bibbia. La Torah getta luce sull'intero testo biblico, e così ogni volta scopriamo qualcosa di nuovo che ci fa riflettere e rende la Bibbia attuale e viva. Aviel Schneider

di Anat Schneider

«Sono nata a Gerusalemme nel 1966 e sono cresciuta in una casa ebraica tradizionale. Ho incontrato per la prima volta il mio futuro marito Aviel, caporedattore di Israel Heute, in Jaffa Street, nel centro di Gerusalemme. Avevamo entrambi 16 anni. Insieme abbiamo cresciuto tre ragazzi e una ragazza. Oggi viviamo in un moshav nelle magiche montagne della Giudea. Il mio amore e la mia fede nella Bibbia sono parte integrante di ciò che sono e di come vivo la mia vita. E vivo con grande apprezzamento e gioia per tutto ciò che la vita mi ha dato».
Insieme ad Aviel, Anat fa parte di Israel Heute dal 1990. Oltre alle sue numerose responsabilità, scrive regolarmente articoli sulla Bibbia, sulla fede e sul Dio di Israele.

Nella lettura settimanale “Si avvicinò”, Giuseppe compie un'azione insolita. Quando si rivela ai suoi fratelli, si rende conto che questo li scuoterà e susciterà in loro sentimenti di colpa per le circostanze della sua discesa in Egitto. Offre quindi una nuova interpretazione del passato e della storia della famiglia. Giuseppe disse ai suoi fratelli: “Avvicinatevi a me! E quando si avvicinarono, disse loro: Io sono Giuseppe, vostro fratello, che avete venduto in Egitto. E ora non vi affliggete e non vi arrabbiate perché mi avete venduto qui, perché Dio mi ha mandato davanti a voi per salvarvi la vita. Perché questo è il secondo anno di carestia nel paese e ci saranno altri cinque anni senza aratura né raccolto. Ma Dio mi ha mandato qui davanti a voi perché restiate sulla terra e vi tenga in vita per una grande salvezza. E ora, non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio, che mi ha reso padre del faraone e signore di tutta la sua casa e sovrano di tutto il paese d'Egitto”. Tra l'altro, questo è un meraviglioso parallelo tra Giuseppe e il Messia, secondo il quale Gesù un giorno si farà conoscere dal popolo d'Israele.
Questo resoconto degli eventi differisce fondamentalmente da quello che Giuseppe raccontò in prigione al custode del dono: “sono stato rapito dalla terra degli Ebrei e non ho fatto nulla qui per cui dovrei essere imprigionato”. Allora si trattava di una storia di rapimento e di ingiustizia. Ora Giuseppe racconta una storia di provvidenza divina e di redenzione. “Non siete stati voi”, dice ai suoi fratelli, ‘è stato Dio’. Siamo tutti parte di un grande piano. E anche se le cose sono iniziate male, poi sono finite bene. Quindi non biasimate voi stessi. E non abbiate paura del mio desiderio di vendetta. Non ho questo desiderio, perché capisco che tutti noi siamo stati messi nelle mani di un potere più grande di noi e della nostra capacità di comprensione”. Così Giuseppe rassicura i suoi fratelli.
Anni dopo, alla morte di Giacobbe, i fratelli temono che Giuseppe abbia aspettato questo momento per vendicarsi e si offrono a lui come schiavi. Anche allora Giuseppe li rassicura di nuovo: “Giuseppe disse loro: 'Non temete! Sono forse al posto di Dio? Voi avete pensato di fare del male contro di me, ma Dio ha pensato di fare del bene, come sta facendo in questo giorno, per conservare in vita molte persone’”. Giuseppe aiuta i suoi fratelli a “correggere” la loro memoria del passato.
In questo modo, contraddice uno dei presupposti fondamentali del tempo, che è asimmetrico. Solo il futuro può essere cambiato, non il passato. Ma questo assunto è davvero del tutto corretto? Giuseppe utilizza qui, per i suoi fratelli, un principio che ha già utilizzato per se stesso, ovvero che gli eventi del presente hanno cambiato la sua visione degli eventi del passato. Secondo questo principio, possiamo comprendere appieno ciò che ora ci sta accadendo soltanto nel futuro, se guardiamo indietro e comprendiamo il ruolo del tempo attuale nella catena completa degli eventi.
Non siamo quindi prigionieri del passato. Possono accaderci cose, forse non così drammatiche come quelle accadute a Giuseppe, ma comunque buone, che possono cambiare radicalmente il modo in cui vediamo e ricordiamo il nostro passato. Operando nel futuro, possiamo liberarci dalla sofferenza del passato. Nel mondo della terapia, posso dire che questo metodo viene utilizzato per riabilitare le persone che soffrono per il loro passato. Non cambia il passato, ma l'interpretazione che diamo a questi eventi quando vengono integrati nella nostra vita attuale.
Giuseppe lo fece per amore dei suoi fratelli, per amore del suo popolo Israele. Questa tecnica lo ha aiutato a rimanere saldo in una vita di alti e bassi estremi, e ora la usa per aiutare i suoi fratelli senza crollare sotto il peso della colpa.
Il popolo di Israele ha fatto propria questa idea nel corso del tempo e vi si è aggrappato attraverso le generazioni. In quasi tutte le generazioni della storia di Israele, le Scritture sono state reinterpretate alla luce delle esperienze attuali. Siamo un popolo che racconta storie e poi le racconta ancora e ancora, ogni volta con un'enfasi leggermente diversa, e così stabiliamo il collegamento tra allora e oggi rileggendo il passato alla luce del presente.
Permettendo al presente di cambiare il modo in cui comprendiamo il passato, riscattiamo la nostra storia e le permettiamo di agire come una forza benefica nella nostra vita. Scrivendo il prossimo capitolo della nostra vita, influenziamo i capitoli precedenti che sono già accaduti nella nostra vita. Ciò significa che, agendo nel futuro, possiamo guarire una parte significativa del dolore del passato.
Shabbat Shalom!

(Israel Heute, 3 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele in Somaliland contro gli Huthi

Gerusalemme aprirà basi navali nell'autoproclamato Stato del Corno d'Africa con cui colpire i ribelli yemeniti. In cambio offrirà investimenti e riconoscimento.

di Matteo Giusti 

Il cosiddetto «asse della resistenza» creato dall'Iran sta crollando pezzo dopo pezzo e Israele adesso ha deciso di colpire gli Huthi, l'ultima creatura iraniana ancora in grado di insidiare Tel Aviv. Lo Stato ebraico, dopo l'ennesimo lancio di droni e missili sul suo territorio, ha deciso di intensificare la pressione sullo Yemen, non ritenendo sufficienti i raid aerei che in questi mesi hanno ripetutamente colpito il Paese della penisola arabica. Gli Huthi hanno accresciuto la loro importanza strategica prendendo di fatto il controllo dello stretto di Bab el Mandeb, il braccio di mare che separa lo Yemen da Gibuti e da cui passa circa il 12% del commercio mondiale in direzione del Canale di Suez. Israele per fermare gli Huthi vorrebbe utilizzare la marina oltre che l'aviazione, ma per creare un blocco navale ha bisogno di una base in questa determinante area del globo. Una base navale permetterebbe anche ai caccia israeliani di essere molto più efficaci visto che dovrebbero percorrere un tragitto più breve e avrebbero a disposizione una rete infrastrutturale.
  Tel Aviv ha così deciso di puntare sul Somaliland, lo stato separatista somalo la cui indipendenza non è riconosciuta da Mogadiscio, ma che de facto è indipendente dal 1991. L'ex Somalia Britannica dispone di oltre 700 chilometri di coste e di un porto ampio e protetto come Berbera. Il Somaliland non ha riconoscimento internazionale, ma vanta una serie di accordi economici con diversi Paesi dell'area, soprattutto con gli Emirati Arabi Uniti che hanno una base operativa lungo le sue coste. Gli Emirati sono pronti ad investire mezzo miliardo per ammodernare il porto di Berbera e sono pronti a lavorare con Israele. I due stati condividono già una base di intelligence congiunta nell'isola yemenita di Socotra, all'imbocco del Mar Rosso e considerano gli Huthi un nemico comune, molto pericoloso per gli equilibri di questa area. Tel Aviv è già presente con una base nelle isole Dahlak, al largo delle coste dell'Eritrea, grazie ad un accordo ufficioso con il regime di Asmara, dove ha installato un commando di intelligence per monitorare la regione.
  Una seconda base israeliana si trova nella più alta montagna dell'Eritrea, da dove è possibile intercettare ogni comunicazione dagli stati confinanti. Oggi però Israele vuole una presenza navale che possa bloccare ogni azione degli Huthi e il Somaliland rappresenta l'occasione perfetta. In cambio l'autoproclamato Stato somalo otterrebbe un primo riconoscimento internazionale e corposi investimenti nel settore agricolo ed estrattivo. Questa mossa avrebbe già il benestare della nuova amministrazione Trump che per bocca di alcuni esponenti del partito repubblicano statunitense sarebbe pronta al riconoscimento internazionale del Somaliland in cambio del sostegno al progetto israeliano e in funzione anti russa e cinese. Pechino ha infatti una grande base militare nel confinante Gibuti, mentre Mosca ha il controllo del porto sudanese di Port Sudan, poco più a Nord. In questa direzione sembra andare anche il nuovo gabinetto del presidente del Somaliland che pochi giorni fa ha rinnovato il suo governo.
  Abdirahman Mohamed Abdullahi ha infatti nominato ministro degli Esteri Abdirahman Dahir Adan Bakal, un pragmatico uomo d'affari con forti legami negli Stati Uniti. Bakal non ha nascosto i suoi progetti diplomatici per il suo Paese. «Questo è un momento cruciale per il Somaliland e dobbiamo guadagnare il riconoscimento internazionale. Il precedente ministro degli Esteri ci aveva fatto tornare sotto la Somalia con la sua politica di riconciliazione, ma noi sappiamo chi siamo. Il mondo guarda al Mar Rosso e tanti Stati già lavorano con noi e conoscono le nostre potenzialità. Etiopia, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Israele, Stati Uniti sono pronti ad intensificare il rapporto con noi, l'Unione Africana non può continuare a ignorare la storia e accettare passivamente che la Somalia occupi il Somaliland». Un gioco di equilibri geopolitici che Israele potrebbe sfruttare per diventare una potenza militare a cavallo fra Asia ed Africa.

(La Verità, 4 gennaio 2025)

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Esodo ebraico

“La fuga degli ebrei dall’Europa. L’ondata antisemita dopo il 7 ottobre. In pochi anni scomparirà la metà delle comunità d’Europa”. 

di Giulio Meotti

ROMA - Con il 7 ottobre è andata in frantumi anche l’illusione di un mondo civile libero da odio e antisemitismo. Dal 7 ottobre, 35mila ebrei, molti dall’Europa, hanno scelto di andare a vivere in Israele e ieri il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha annunciato piani di accoglienza per una “alyah di massa”. Saar conosce i numeri. L’Agenzia Ebraica ha fissato l’obiettivo di portare trecentomila immigrati nei prossimi cinque anni e il suo presidente, l’ex generale Doron Almog, ha previsto un milione di immigrati nel prossimo futuro. “Il 57 per cento degli ebrei europei pensa di andarsene”. Questo è il dato appena uscito dalla conferenza del Combat Antisemitism Movement a Vienna, che riunisce i leader delle comunità europee. Il numero di incidenti antisemiti è aumentato del 400 per cento in alcune parti d’Europa. “Stiamo perdendo la battaglia”, ha affermato da Vienna Ariel Muzicant, presidente del Congresso ebraico europeo. “Tra qualche anno, il 50 per cento delle comunità potrebbe non esistere più”. Anche il rabbino capo sefardita inglese ha annunciato l’aliyah con la sua famiglia nel 2026. Dopo più di un decennio di servizio, il rabbino Joseph Dweck e Margalit si trasferiranno in Israele. Duemila ebrei francesi sono partiti per Israele nei primi dieci mesi del 2024.
  “Molto compromesso”, risponde lo storico Georges Bensoussan su Causeur alla domanda su come vede il futuro degli ebrei francesi. “Non perché l’apparato statale non stia facendo il suo lavoro. Lo fa e lo farà, ma fino al momento in cui la difesa degli ebrei non gli farà perdere il sostegno di una parte significativa della popolazione. Tuttavia, il cambiamento demografico c’è, qualunque sia il nome che gli diamo. Demograficamente la Francia del 2025 non è quella del 1975. In questa ‘nuova Francia’, il simbolo ebraico, confuso con lo stato d’Israele, sarà assimilato al mondo ‘ricco, dominante e bianco’, colpevole del grave peccato del ‘colonialismo’. Ci sono gli elementi perché gli ebrei francesi scivolino verso una progressiva invisibilità negli spazi pubblici. Fino alla partenza”.
  E se in Norvegia sono rimasti appena 1.300 ebrei, non si era mai vista una simile ondata di antisemitismo dal 1945. “Gli ebrei norvegesi hanno iniziato a fare l’aliyah in Israele”, scrive da Oslo Hanne Ramberg. “Orribile, perché il governo norvegese non protegge la minoranza, che deve emigrare per avere una vita sicura”.
  E i numeri delle partenze aumenteranno anche dall’Olanda, dove un tribunale dovrà ora stabilire se è legale “discutere di antisemitismo nel contesto della cultura musulmana”, dopo che un vice primo ministro, Mona Keijzer, è accusata di “incitamento all’intolleranza” per aver detto in tv: “Quello che si vede è che molti richiedenti asilo provengono da paesi di fede musulmana. Sappiamo che l’odio per gli ebrei lì è una parte della loro cultura”. Intanto Meir Villegas Henriquez, rabbino ortodosso di Rotterdam, in un videomessaggio registrato nella sua sinagoga ha detto: “Viviamo in una nuova realtà demografica che non può essere cambiata. Preparatevi a fare aliyah. Parlate con i vostri figli o nipoti e spiegate loro che qui non c’è futuro. Aiutateli a studiare l’ebraico, investite, fate tutti i passaggi necessari per rendere possibile il trasferimento in Israele”.
  “Per chi suonano le campane?”, ha chiesto l’ex ambasciatore israeliano Zvi Mazel in un paper per il Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs. Senza cambiamenti significativi, Muzicant prevede questo scenario per gli ebrei europei: “Passeremo da 1,5 milioni a 800 mila”.

Il Foglio, 4 gennaio 2025)

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Khamenei non vuole rinunciare alla Siria e chiama alla guerra settaria

La perdita della Siria è stato un colpo durissimo per il regime iraniano, così duro che Khamenei non attacca né gli Stati Uniti né Israele ma preferisce chiamare alla rivolta la "gioventù siriana”.

di Darya Nasifi

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Esmail Ghaani, capo della Forza Quds dopo l’uccisione di Soleimani

Il leader supremo iraniano Ali Khamenei ha tentato di giustificare i sacrifici dell’Iran in Siria evidenziando piuttosto la resilienza seppur in mezzo alle battute d’arresto. Lo ha fatto durante un discorso del 1° gennaio nel quale ha commemorato la morte dell’ex comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche Qassem Soleimani.
Khamenei ha elogiato la leadership di Soleimani che ha difeso gli interessi regionali dell’Iran. Khamenei ha affermato che i sacrifici dei “Difensori del Santuario” in Siria erano significativi ed essenziali, respingendo le affermazioni secondo cui i loro sforzi erano stati vani.
L’Iran si riferisce a tutto il personale iraniano e alleato che ha combattuto in Siria come “difensori dei santuari”.
Questo discorso ha adottato un tono notevolmente difensivo tentando di giustificare gli sforzi dell’Iran piuttosto che scagliarsi contro gli Stati Uniti per l’attacco che ha ucciso Soleimani.
Il discorso ha anche omesso riferimenti all’attuale comandante della Forza Quds dell’IRGC, il generale di brigata Esmail Ghaani, che alcuni in Iran ritengono responsabile del rapido sgretolamento del progetto iraniano in Siria e della sconfitta di Hezbollah e Hamas.
Questa è la seconda volta che Khamenei ha parlato pubblicamente di Soleimani evitando qualsiasi menzione di Ghaani.
Un anonimo funzionario iraniano ha affermato che molti funzionari in Iran hanno incolpato Ghaani per la caduta di Assad e chiedevano la sua rimozione dal ruolo di comandante della Forza Quds dell’IRGC.
Khamenei ha continuato a promuovere una linea dura sulla Siria, tuttavia, sottolineando che la gioventù siriana resisterà alla “occupazione straniera” in Siria, paragonando la “gioventù siriana” alle milizie irachene mobilitate da Soleimani a metà degli anni 2000 contro gli Stati Uniti.
Queste milizie, che continuano a operare in Iraq e oggi controllano molte istituzioni governative, hanno formato squadroni della morte per uccidere i sunniti e hanno contribuito alla guerra civile etno-settaria in Iraq che al Qaeda in Iraq ha lanciato a metà degli anni 2000.
Khamenei ha sottolineato che la gioventù siriana espellerà gli “occupanti stranieri”, che presumibilmente includono gli Stati Uniti, la Turchia e forse HTS. Khamenei aveva precedentemente sottolineato il ruolo della gioventù siriana in un discorso dell’11 dicembre 2024, paragonando nuovamente i loro sforzi alle milizie irachene.

(Rights Reporter, 4 gennaio 2025)

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Israele sta combattendo anche per i nostri valori

"Più che i nemici mortali in medio oriente, sono i cosiddetti amici in occidente e la ‘comunità internazionale’ che devono preoccupare gli israeliani". L'analisi di Mike Hume sul magazine inglese Spiked.

"E’ ormai chiaro che Israele può gestire i suoi nemici mortali in medio oriente. Sono invece i cosiddetti amici in occidente e la ‘comunità internazionale’ che devono preoccupare gli israeliani”. Così Mike Hume sul magazine inglese Spiked. “Nel 2024, Israele ha ottenuto notevoli successi militari su ogni fronte. Ha martellato i pogromisti di Hamas a Gaza, devastato i loro compagni terroristi islamici di Hezbollah in Libano e scosso il loro sponsor, la Repubblica islamica dell’Iran, fino alle sue radici tiranniche. Tutto ciò ha anche facilitato il crollo della brutale dittatura di Assad in Siria. Giunti alla fine dell’anno, nessuno può seriamente dubitare della dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu secondo cui ‘stiamo vincendo’. Inoltre, chiunque creda nella libertà dovrebbe sicuramente celebrare il successo dell’unica democrazia in stile occidentale in medio oriente come un colpo inferto dalla civiltà contro la barbarie. Al contrario, i tradizionali alleati occidentali di Israele hanno trascorso il 2024 ritirandosi dalla sua parte quasi con la stessa rapidità con cui Hamas e Hezbollah sono fuggiti di fronte a Israele. Per ogni progresso militare compiuto nell’ultimo anno, Israele è sembrato subire più battute d’arresto politiche sul campo di battaglia internazionale.
Alla fine del 2023, Israele è stato accusato di aver commesso un ‘genocidio’ a Gaza dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, un’affermazione perversa avanzata dal Sudafrica, sostenuta da altri stati e recentemente approvata da Amnesty International. Peggio ancora, alla fine del 2024, la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto contro Netanyahu per presunti crimini contro l’umanità a Gaza, il primo leader di una democrazia di stampo occidentale a essere accusato di crimini di guerra. E peggio ancora, diversi stati occidentali, tra cui, vergognosamente, il governo laburista del Regno Unito, hanno dichiarato la loro volontà di eseguire il mandato e arrestarlo. Le Nazioni Unite sono arrivate vicine a espellere Israele, con enormi maggioranze anti israeliane in ogni voto nell’Assemblea generale, e ogni membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, tranne gli Stati Uniti, ha recentemente sostenuto la richiesta di un cessate il fuoco ‘immediato, incondizionato e permanente’ a Gaza. Ciò equivaleva a una richiesta quasi unanime a Israele di arrendersi ai suoi nemici. (…)
“L’abbandono di Israele è una farsa non solo per gli israeliani e gli ebrei in tutto il mondo costretti ad affrontare da soli un’ondata di antisemitismo, ma anche per l’occidente stesso. Gli israeliani stanno combattendo per i principi su cui sono state costruite le nostre società civili: democrazia, sovranità nazionale e libertà. Dovremmo sostenerli come prima linea nella guerra globale contro la barbarie e la schiavitù. Tuttavia, le élite della società occidentale hanno abbandonato quei principi fondamentali e ora temono e detestano gli israeliani che osano difenderli. Ecco perché dal 7 ottobre abbiamo assistito al consolidamento di un’alleanza anti israeliana empia in occidente, tra gli islamisti che odiano gli ebrei e progressisti di sinistra che odiano sé stessi. Fino al 2024, tutto ciò che è marcio nelle nostre società ha continuato a coagularsi attorno alle bandiere della crociata anti Israele.
“A suo eterno merito, Israele continua a ignorare i detrattori occidentali e a combattere. Eppure, mentre il vecchio ordine in medio oriente crolla, con le potenze occidentali che perdono il controllo sugli eventi, il futuro rimane incerto. E’ tempo, come ha detto il primo ministro israeliano Netanyahu all’Onu ostile qualche mese fa, di fare una scelta: lasceremo in eredità alle generazioni future la ‘benedizione’ di un medio oriente plasmato da Israele e dai suoi alleati pro democrazia, o la ‘maledizione’ di una regione dominata dagli islamisti, con tutte le implicazioni che ciò comporta in tutto il mondo? Nel 2024, l’occidente ha fatto le scelte sbagliate. Nel 2025, c’è ancora tempo per rimediare e sostenere gli israeliani che stanno combattendo per tutti noi”.

Il Foglio, 3 gennaio 2025 - trad. Giulio Meotti)

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Operazione Many Ways: distrutto dall’IDF un impianto missilistico iraniano segreto in Siria

di Luca Spizzichino

L’Aeronautica Militare Israeliana (IAF) ha rivelato giovedì i dettagli di una delle operazioni più audaci e complesse mai eseguite dalle forze speciali israeliane. Nel settembre scorso, 120 membri di unità speciali hanno fatto irruzione e distrutto un impianto sotterraneo iraniano per la produzione di missili in Siria.
  All’epoca, il regime di Bashar al-Assad era ancora al potere e Israele non aveva ancora dato il via alla sua massiccia campagna contro Hezbollah in Libano. Alcuni dettagli precedentemente riportati dai media stranieri sulla missione si sono rivelati inesatti o parzialmente errati. L’operazione, denominata internamente dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) “Operazione Many Ways”, mirava a distruggere un impianto utilizzato dalle forze iraniane per la produzione di missili di precisione destinati a Hezbollah e al regime siriano.
  Il sito, denominato militarmente “Deep Layer”, era stato scavato all’interno di una montagna presso il Centro di Studi e Ricerche Scientifiche (CERS o SSRC) nell’area di Masyaf, a ovest di Hama. Situato a oltre 200 km dal confine israeliano e a circa 45 km dalla costa siriana, il sito era considerato il “progetto di punta” dell’Iran per armare Hezbollah. L’Iran aveva iniziato a pianificare “Deep Layer” nel 2017, dopo un attacco aereo israeliano che aveva distrutto un impianto di produzione di motori per razzi a CERS. Questo sito forniva missili a Hezbollah, alcuni dei quali vennero poi usati per colpire Israele il 7 ottobre 2023, il giorno dopo l’invasione di Hamas nel sud del paese.
  Gli attacchi israeliani contro i convogli di armi diretti a Hezbollah spinsero l’Iran a cambiare strategia, costruendo un impianto sotterraneo a prova di bombardamento. La struttura, scavata tra il 2017 e il 2021, si trovava a una profondità compresa tra 70 e 130 metri, ed era progettata per produrre tra i 100 e i 300 missili all’anno, tra cui missili a lungo raggio fino a 300 km, missili guidati di precisione fino a 130 km e razzi a corto raggio tra i 40 e i 70 km. L’impianto aveva una forma a ferro di cavallo, con tre ingressi: uno per le materie prime, uno per l’uscita dei missili e un terzo per la logistica e gli uffici.
  L’idea di distruggere l’impianto era stata discussa per anni, ma è diventata concreta con l’inizio della guerra su più fronti. L’unità Shaldag è stata scelta per la missione e ha iniziato un addestramento intensivo due mesi prima dell’attacco. Durante la pianificazione, il principale problema era il superamento delle pesanti porte blindate del sito. Gli agenti di intelligence avevano scoperto la presenza di muletti all’interno della struttura, perciò alcuni soldati israeliani hanno ottenuto certificazioni per l’uso di questi mezzi, in modo da poterli sfruttare per aprire le porte dall’interno.
  La sera dell’8 settembre, 100 membri di Shaldag e 20 di Unit 669 sono decollati da una base israeliana a bordo di quattro elicotteri CH-53 “Yasur”. La missione era supportata da due elicotteri d’attacco, 21 caccia, cinque droni e 14 velivoli da ricognizione. Altri 30 velivoli erano in stand-by in Israele.
  Gli elicotteri hanno volato a bassa quota sopra il Mediterraneo prima di entrare in Siria. Nel frattempo, aerei da combattimento e navi israeliane hanno colpito diversi obiettivi per distrarre le forze siriane e confondere i radar. La zona di Masyaf aveva la seconda più alta concentrazione di difese aeree della Siria, seconda solo a Damasco, con numerosi radar e sistemi antiaerei. Una volta atterrati, i soldati hanno eliminato due guardie all’ingresso e hanno piazzato droni di sorveglianza per proteggere il perimetro. Dopo circa 50 minuti, un gruppo di soldati è riuscito a forzare una delle porte blindate e ha raggiunto gli ingressi principali. Grazie ai muletti presenti nell’impianto, sono riusciti ad aprire le altre porte. Mentre alcuni soldati piazzavano esplosivi su tutta la linea di produzione, altri hanno impedito l’avvicinamento di forze siriane. In tutto, sono stati utilizzati 49 ordigni dai caccia israeliani per neutralizzare eventuali minacce. Dopo due ore e mezza di operazione, tutti i commando si sono ritirati nella zona di atterraggio. Gli elicotteri sono tornati a prenderli e, mentre decollavano, gli specialisti hanno fatto esplodere le cariche, causando un’enorme deflagrazione paragonabile a una tonnellata di esplosivo. Secondo le testimonianze dei soldati, l’esplosione ha generato un effetto simile a un “piccolo terremoto”.
  Attualmente, il sito sotterraneo risulta inutilizzabile e le forze iraniane si sono ritirate dalla Siria dopo la caduta del regime di Assad. Israele considera questa operazione un successo strategico, avendo eliminato una minaccia chiave prima che potesse diventare pienamente operativa.

(Shalom, 3 gennaio 2025)

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Il Medio Oriente non è più quello di Qassem Suleimani

Il celebre generale iraniano fu ucciso cinque anni fa dagli Stati Uniti, e da allora la sua rete di alleanze è stata quasi del tutto distrutta.

Al funerale del generale iraniano Qassem Suleimani, ucciso da un drone statunitense il 3 gennaio del 2020, sua figlia Zeinab promise che il padre sarebbe stato vendicato dai suoi tre «zii onorari», alleati dell’Iran: il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh e il dittatore siriano Bashar al Assad. Nell’ultimo anno, però, dei tre «zii onorari» due sono stati uccisi da Israele (Nasrallah e Haniyeh) mentre Assad è stato rovesciato da una rivolta armata e ha lasciato il paese.
Nel corso dell’ultimo anno le più forti alleanze dell’Iran sono state indebolite e in alcuni casi smantellate. Queste alleanze erano definite “Asse della resistenza” ed erano la principale eredità politica di Suleimani, che quando fu ucciso era uno degli uomini più potenti del Medio Oriente. Fu Suleimani a ideare la strategia secondo cui l’Iran si sarebbe dovuto attorniare di stati e milizie fedeli, e fu lui il più efficace nel metterla in pratica, portando l’Iran in una posizione di notevole forza nella regione. Cinque anni dopo la sua morte, di tutto questo è rimasto molto poco.
Suleimani era il capo delle forze Quds, l’unità d’élite iraniana per le missioni all’estero, ma la sua influenza in Iran e in Medio Oriente andava molto oltre la sua carica ufficiale. Suleimani usò l’influenza e il potere delle forze Quds per cambiare i rapporti in Medio Oriente in favore dell’Iran, usando tutti i mezzi a sua disposizione: assassinando politici, fornendo armi e sostegno agli alleati e compiendo attentati terroristici.
L’intuizione principale di Suleimani fu quella di creare una forte rete di alleanze – l’Asse della resistenza, appunto – con due obiettivi principali: proteggere l’Iran dalle minacce esterne e mantenere una forte deterrenza contro Israele e gli Stati Uniti, i suoi principali nemici. I membri più importanti dell’Asse della resistenza erano Hezbollah in Libano; la Siria di Assad; alcune milizie sciite molto forti in Iraq; e gli Houthi, un gruppo armato che governa circa metà dello Yemen. Più di recente all’alleanza si era aggiunto Hamas, il gruppo radicale che governava la Striscia di Gaza prima dell’inizio della guerra.
Grazie a queste alleanze l’Iran poteva raggiungere facilmente i confini di Israele e il mar Mediterraneo (tramite il Libano e la Siria) e aveva una milizia alleata (gli Houthi) che controllava l’ingresso al mar Rosso, una delle principali vie commerciali del mondo. Suleimani era il perno di tutta questa rete di alleanze, ed era di fatto il capo della diplomazia militare iraniana in Medio Oriente. Nel 2008 Suleimani inviò un celebre messaggio al generale David Petraeus, allora comandante delle forze armate statunitensi in Iraq, in cui si leggeva:
«Generale Petraeus, dovrebbe sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica dell’Iran per quanto riguarda l’Iraq, il Libano, Gaza e l’Afghanistan. Inoltre, l’ambasciatore a Baghdad è un membro delle forze Quds. Colui che lo va a sostituire è, anche lui, un membro delle forze Quds».
Suleimani fu ucciso nel 2020 in un attacco con droni mentre si trovava a Baghdad, in Iraq. L’attacco fu ordinato direttamente dall’allora presidente statunitense Donald Trump: inizialmente la decisione fu considerata un azzardo, che avrebbe potuto avere grosse conseguenze ed essere considerata dall’Iran come un «atto di guerra». In realtà la risposta iraniana fu tutto sommato moderata, e non provocò un duraturo aumento della violenza nella regione. L’uccisione di Suleimani non provocò nemmeno la crisi dell’Asse della resistenza, e l’Iran riuscì a mantenere stabili le sue alleanze.
Il momento di svolta è arrivato però il 7 ottobre del 2023, quando Hamas attaccò Israele che poi cominciò la guerra nella Striscia di Gaza. Inizialmente l’Iran, pur facendo proclami bellicosi contro Israele, aveva cercato di tenersi fuori dalla guerra. Anche Hezbollah, il suo alleato principale, aveva sì cominciato a bombardare il nord di Israele, ma non era intervenuto militarmente, come invece sperava la leadership di Hamas. Tuttavia Israele, tramite un progressivo allargamento dei fronti di guerra, ha sistematicamente colpito i membri dell’Asse della resistenza. Anzitutto Hamas, che dopo un anno e mezzo di guerra è debolissimo e non controlla più la Striscia di Gaza, anche se non è stato del tutto sconfitto.
Israele ha poi attaccato Hezbollah a partire dall’autunno del 2024, dapprima con un attacco su larga scala contro i suoi membri (l’esplosione di cercapersone e walkie talkie), poi uccidendo Nasrallah e altri importanti leader del gruppo; e infine con un’invasione di terra nel sud del Libano, che ne ha indebolito ulteriormente la struttura militare. Oggi Hezbollah è estremamente più debole di quanto non fosse soltanto pochi mesi fa. (Nelle operazioni militari che Israele sta conducendo da un oltre un anno nella Striscia di Gaza e in Libano sono state uccise anche decine di migliaia di civili).
Il crollo improvviso del regime di Assad in Siria è stato un colpo ulteriore per l’Iran. Anzitutto perché ha mostrato la debolezza del regime iraniano, che aveva impiegato ampi mezzi militari e speso decine di miliardi di dollari per sostenere Assad, inutilmente. In secondo luogo perché la perdita del proprio alleato in Siria è per l’Iran particolarmente grave: la Siria connetteva territorialmente l’Iran al Libano (quindi a Hezbollah) e da lì a Israele. Tramite la Siria l’Iran poteva far passare rifornimenti di armi e mezzi verso il Libano, che adesso saranno molto più difficili da controllare.
Alcuni analisti hanno sostenuto in questi giorni che l’Asse della resistenza, dopo questi colpi molto duri, sia di fatto smantellato, mentre altri sono molto più cauti. L’Iran può ancora contare sugli Houthi in Yemen e sulle milizie sciite in Iraq, e anche la situazione della Siria è ancora piuttosto instabile.
Altre analisi si sono concentrate sul fatto che, ora che l’Iran è più esposto e indebolito, potrebbe decidere di adottare politiche più estreme per garantire quella che ritiene sia la propria difesa da minacce esterne, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo di una bomba atomica.

(il Post, 3 gennaio 2025)

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Le celebrazioni dell’81° anniversario della deportazione politica del 4 gennaio 1944 a Roma

Un momento di raccoglimento per la città

di Andrea Di Veroli

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Il 3 gennaio 2025 si è tenutala cerimonia commemorativa in occasione dell’81° anniversario della deportazione politica dei prigionieri del carcere di Regina Coeli, avvenuta il 4 gennaio 1944, un lungo viaggio di nove giorni, attraverso l’Italia e la Germania, con una sosta nel Lager di Dachau, che si concluse nel Campo di Mauthausen, in Austria, il 13 gennaio 1944.
L’appuntamento è avvenuto presso il Cimitero Monumentale del Verano, davanti al Muro del Deportato, dove sono incisi i nomi a ricordo dei cittadini romani eliminati nei campi di sterminio nazisti.
La cerimonia ha visto la partecipazione di rappresentanti istituzionali e associazionistici. Tra questi la delegata del Sindaco Francesca Del Bello, Presidente del Municipio II; il Presidente romano dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati) e membro italiano del Comitato Internazionale di Auschwitz, Andrea Di Veroli; Isaac Tesciuba, Assessore al Patrimonio della Comunità Ebraica di Roma; l’Assessore alle politiche educative dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Livia Ottolenghi; altri rappresentanti di associazioni locali. Un momento di riflessione profonda, che riafferma l’importanza di non dimenticare questa pagina oscura della storia italiana.
Quella del 4 gennaio 1944 è una data che segna l’inizio di una tragedia. Più di 300 prigionieri politici, detenuti nel carcere romano di Regina Coeli, furono prelevati dalle autorità della Repubblica Sociale Italiana e deportati verso il campo di concentramento di Mauthausen. I prigionieri, che non avevano commesso alcun crimine, furono considerati “elementi indesiderabili” dalle forze di polizia fasciste e, insieme, intrapresero un viaggio che durò nove giorni, passando per il lager di Dachau, prima di arrivare a Mauthausen il 13 gennaio 1944.
Sebbene la deportazione del 4 gennaio 1944 rappresenta la categoria dei politici, vi sono i nomi di alcuni ebrei romani deportati che, pur dopo aver subito le atrocità delle leggi razziste, furono arrestati e deportati come prigionieri politici: Angelo Anticoli, Vittorio Astrologo, Davide Di Segni, Mario Limentani, Pacifico Moresco, Renato Pace, Angelo Salmoni, Eugenio Sonnino, Giovanni Spizzichino, Giovanni Vivanti, Giacomino Zarfati.
Mario Limentani, scomparso nel 2014, ricordava: “Eravamo solo 11 ebrei su 480 italiani” e di aver ricevuto una “stella” cucita sulla sua divisa: un triangolo rosso, simbolo dei prigionieri politici, e uno giallo, che indicava la sua appartenenza alla comunità ebraica e sopra “it” che significava italiano.
Tra gli altri deportati si ricordano personalità come Roberto Forti, esponente della Resistenza romana e fondatore dell’ANED; i fratelli Valenzano, nipoti di Pietro Badoglio. Altri prigionieri, come padre e figlio Collalti, sono ricordati per aver nascosto armi per la lotta partigiana.
Alberto Mieli, deportato a Mauthausen, racconta in una testimonianza di aver assistito alla violenta punizione che le SS inflissero ai Collalti. I due fratelli riuscirono a sopravvivere, ma morirono poco dopo aver fatto ritorno dal campo di concentramento.
Dal mattinale del 5 Gennaio 1944, inviato dalla Questura di Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, si legge:
Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino è partito treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui, rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni. Il treno sarà scortato fino al Brennero da 20 Agenti di Pubblica Sicurezza ed a destinazione da un Maresciallo e 4 militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo, n. 162 persone”.
Il 4 gennaio 1944, il treno che partì dallo Scalo Tiburtino a Roma, portava con sé 292 persone, rastrellate dalla Questura di Roma, tra cui anche molti uomini senza colpe. Come riportato nel mattinale del 5 gennaio 1944, il treno fu scortato fino al Brennero da agenti di pubblica sicurezza e, una volta oltrepassato il confine, dalla polizia tedesca.
È fondamentale tramandare la memoria di questi eventi alle nuove generazioni: l’auspicio è che molti più giovani venissero in questo luogo, troppo poco conosciuto. Questo anniversario è un’occasione importantissima per mantenere viva la memoria di un momento cruciale della nostra storia, affinché il sacrificio di quei prigionieri non venga mai dimenticato. Durante questa cerimonia è possibile riflettere su quanto sia fondamentale coltivare la memoria storica, affinché le tracce di quella tragedia non vadano perse nel tempo, e per contrastare l’oblio e l’indifferenza, che rischiano di diventare preoccupanti compagni di viaggio man mano che la distanza temporale cresce e l’età degli ultimi sopravvissuti si fa sempre più avanzata.
L’incontro di oggi, nel segno della memoria, unisce cittadini, istituzioni e comunità in un abbraccio collettivo di ricordo e impegno civile.
I nominativi riportati sul Muro del Deportato sono consultabili online sul sito a cura dell’ANED sezione di Roma all’indirizzo https://memoriadeportati.it/

(Shalom, 3 gennaio 2025)

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Vayiggàsh. Se lo vogliamo possiamo sempre cambiare il nostro futuro

di Ishai Richetti

Dopo la discesa della famiglia di Yaakov in Egitto, Yosef prepara una delegazione dei suoi fratelli per un colloquio con il re egiziano. Prima del colloquio, consiglia loro di specificare che sono pastori in modo che il faraone stabilisca la loro residenza separatamente nella regione di Goshen, “poiché tutti i pastori sono abominevoli per gli egiziani“. Questo comportamento solleva principalmente una domanda: Perché Yosef consiglia specificamente ai suoi fratelli di identificarsi con una professione che gli egiziani trovano ripugnante?
Alcuni Chachamim ritengono che Yosef stesse semplicemente cercando di garantire la possibilità per i i suoi fratelli di poter continuare a praticare una professione redditizia. L’Abravanel, ad esempio, sostiene che Yosef avrebbe potuto benissimo nominare i suoi fratelli e far sì che potessero assumere posizioni, autorità e potere nel sistema politico egiziano. Tuttavia, desidera evitare loro tale posizione di leadership in favore di un sostentamento semplice, umile e “sacro”. Secondo Rabbenu Bachya, la pastorizia era una professione intrinsecamente vantaggiosa con chiari benefici fisici e spirituali. Tramite la creazione di una serie di prodotti redditizi (carne, latte e lana) e con uno sforzo fisico relativamente basso, la pastorizia forniva anche l’opportunità di un isolamento periodico dalla civiltà egiziana e dalla sua influenza. Attraverso l’isolamento il pastore poteva trovare il tempo per l’autoesame e la crescita spirituale. Non a caso, commenta Rabbenu Bachya, molte grandi figure della storia ebraica, tra cui Moshe, Shmuel, Shaul e David, furono pastori ad un certo punto della loro vita.
Numerosi altri commentatori, tuttavia, vedono gli sforzi di Yosef sotto una luce totalmente diversa. Yosef, sostengono, istruisce deliberatamente i suoi fratelli a identificarsi con una professione che li allontanerà dalla società egiziana. Costretti a vivere separatamente, i membri della famiglia di Yosef e la loro progenie avranno maggiori possibilità di mantenere la propria identità senza influenze negative dall’esterno. Parafrasando le parole usate dal Netziv: “L’intento di Yosef era di garantire che la sua famiglia vivesse separata dagli egiziani. Sebbene [il piano di Yosef] avrebbe causato la degradazione di suo padre e dei suoi fratelli agli occhi del Faraone, tuttavia, valeva la pena sacrificare l’immagine del padre per garantire la preservazione della sacralità di Israele”. Rzv Shimshon Refael Hirsch aggiunge: “Il disgusto degli egiziani per la loro [dei fratelli] professione… fu il primo mezzo utile per preservare il nascente popolo d’Israele destinato com’era ad un percorso isolato attraverso i secoli… Ecco perché Yosef agì con lo scopo manifesto di ottenere una provincia separata in cui la sua famiglia si sarebbe stabilita”. Yosef, l’ebreo cosmopolita, il paradigma del successo in mezzo ad una cultura aliena, diventa l’architetto del primo ghetto del nostro popolo.
Perché Yosef, viceré di tutto l’Egitto, realizzato oltre misura in un mondo straniero, è così determinato a far sì che i membri della sua famiglia non seguano il suo percorso vincente? Cosa lo motiva a elaborare personalmente un piano per il loro isolamento? Forse è spinto dal riconoscimento del prezzo che ha dovuto pagare per il suo stesso successo. Gli anni trascorsi in Egitto hanno lasciato il segno. Quando incontra i suoi fratelli dopo la loro lunga separazione, la Torà riporta: “Yosef riconobbe i suoi fratelli, ma loro non riconobbero lui”. Yosef non è più riconoscibile come ebreo, nemmeno per la sua famiglia. Mosso da questa consapevolezza e consapevole della devastazione che avrebbe potuto succedere se, generazione dopo generazione di ebrei, avessero dovuto pagare il suo stesso prezzo, Yosef agisce per preservare l’identità della sua famiglia. Si potrebbe anche dire che forse Yosef è motivato dal dolore del suo isolamento personale di fronte alla sua ascesa al potere e cerca di risparmiare alla sua famiglia una delusione e una solitudine simili. Oppure , infine, forse questo ebreo cosmopolita capisce semplicemente che ciò che ha realizzato come individuo non può essere applicato alla sua famiglia nel suo insieme.
I talenti non sono uniformi. L’enorme successo di Yosef poteva essere eguagliato solo dai pochi che sarebbero stati in grado di mantenere l’equilibrio spirituale che lo aveva sostenuto durante la sua turbolenta odissea personale. In un modo o nell’altro, mentre Yosef orchestra la discesa della sua famiglia in Egitto, fa chiaramente tutto il possibile per garantire la loro separazione dagli egiziani. Come accadrà in tutta la storia ebraica, il delicato equilibrio raggiunto durante la vita di Avraham è in primo piano, decenni dopo, nei pensieri e nella pianificazione del suo pronipote. Yosef si rende conto che affinché i membri della sua famiglia mantengano il loro status di “stranieri e cittadini” per generazioni e di fronte a una cultura egiziana schiacciante, dovranno vivere in una specie di ghetto, separati.
I piani di Yosef vengono infine messi alla prova. Mentre il soggiorno in Egitto avrebbe dovuto essere considerato temporaneo dalla famiglia di Yaakov, la Torà testimonia che: “Israele si stabilì nella terra d’Egitto, nella regione di Goshen, e si assicurò un punto d’appoggio permanente e furono fecondi e si moltiplicarono notevolmente”. E, sebbene gli ebrei fossero destinati a rimanere a Goshen, il testo continua: “E i figli d’Israele furono fecondi, si moltiplicarono, aumentarono [in numero] e divennero forti… e la terra ne divenne piena”. Basandosi su una tradizione midrashica, il Netziv commenta: “Riempirono non solo la terra di Goshen che era stata loro assegnata appositamente, ma l’intera terra d’Egitto… Ovunque potessero acquistare una dimora, lì andavano gli Israeliti… Desideravano essere come gli Egiziani”. Da questa descrizione emerge una drammatica costante nella storia del popolo ebraico: Più gli ebrei cercano di essere come chi li circonda assimilando le abitudini della popolazione locale, più incorrono nell’inimicizia dei vicini e preparano il terreno per la loro stessa persecuzione. Vengono presto ridotti in schiavitù e respinti a Goshen.
Le sollecitazioni implicite di Yosef vengono ignorate dalle generazioni successive. I suoi sforzi, tuttavia, potrebbero aver salvato il suo popolo dall’oblio. Prima per scelta, poi per forza, gli Israeliti restano una popolazione separata all’interno dell’Egitto. All’interno del “ghetto” di Gosen restano identificabili e, quindi, redimibili quando giunge il momento dell’Esodo.
La Parashà di questa settimana testimonia uno dei momenti più toccanti della Torà, quando Yosef rivela la sua identità ai suoi fratelli. Questo incontro non è fondante solo per le emozioni che suscita, ma è importante soprattutto per il futuro del popolo ebraico. Dopo anni di dolore e separazione, le parole di Yosef risuonano con chiarezza e possiamo sempre attualizzarne lo scopo: “D-o mi ha mandato prima di voi per garantire la vostra sopravvivenza nella terra” (Bereshit 45:7).
Il riconoscimento da parte di Yosef tramite le parole che rivolge ai fratelli che anche i viaggi più difficili hanno uno scopo più alto ci ispira a trovare un significato nelle nostre stesse vite. Parafrasando quanto scritto da Rav Sacks: “Yosef, senza saperlo, è diventato il precursore di uno dei grandi movimenti in psicoterapia nel mondo moderno. Ha mostrato il potere della riformulazione. Non possiamo cambiare il passato. Ma cambiando il modo in cui pensiamo al passato, possiamo cambiare il futuro. Qualunque sia la situazione in cui ci troviamo, riformulandola possiamo cambiare la nostra intera risposta, dandoci la forza di sopravvivere, il coraggio di persistere e la resilienza per emergere, dall’altra parte dell’oscurità, alla luce di un giorno nuovo e migliore”.
Con tutte le dovute differenze, siamo chiamati, come Yosef, a mantenere la nostra identità e a plasmare il nostro futuro. Se non è possibile cambiare il passato, è infatti possibile modellare il nostro futuro e quello delle generazioni a venire con le risorse del presente e con le nostre capacità che ci rendono unici e contemporaneamente uniti nel perseguire la continuità ed il miracolo che costituisce il nostro Popolo. Per perseguire questo obiettivo è necessario partire dal nucleo, rappresentato dalle nostre famiglie, impostando una vista basata e centrata sull’osservare le mitzvot, sulla tzedakà e sugli atti di chesed. In questo modo potremo diventare, noi come Yosef, dei recipienti adatti a ricevere le berachot che quotidianamente D-o ci manda.

(Morashah, 3 gennaio 2025)
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Si può dare una diversa lettura della vita del biblico Giuseppe. Proponiamo di seguito un capitolo del libro "Leone di pietra, leone di Giuda" di Jacob Damkani, un ebreo nato e vivente in Israele che ha riconosciuto Gesù come Messia.


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Da Yosef a Giuseppe

di Jacob Damkani

Mi piaceva molto parlare di Yeshua a chiunque avesse voglia di ascoltare. Fu così che un giorno incontrai Yosef.
  Yosef proveniva da una famiglia completamente secolarizzata, e, come tutti i sabra, considerava il Tanach soltanto come un documento storico che descrive la storia antica d’Israele. Sapeva anche qualcosa sulla critica biblica e quindi non era disposto ad accettare quello che gli si diceva soltanto perché è  scritto. Gli piaceva controbattere ad alta voce su quasi tutto quello che gli dicevo, e sono sicuro che tutta la strada poteva ascoltare le nostre vivaci discussioni.
  «Lei non riuscirà a convincermi», gridava con foga, «che questo Gesù è menzionato nel Tanach! E’ soltanto un’invenzione dei cristiani che considerano il nostro “Vecchio Testamento” come un’allegoria cristiana. Il Tanach è un libro puramente ebraico, privo di ogni dottrina cristiana!»
  «Naturalmente è un libro ebraico», replicai io. «Ogni gentile che vuol essere salvato deve accettare questo libro ebraico e il Messia ebraico di cui parlano le profezie! Non le ho forse detto di non aver lasciato l’ebraismo e di non avere nemmeno la minima intenzione di farlo? Ho sempre creduto che non ci sia niente di più ridicolo dell’idea che un ebreo debba “convertirsi” al cristianesimo per credere nel Messia ebraico d’Israele! Al contrario, sono i gentili che devono adottare la Torah, un libro strettamente ebraico, se decidono di seguire Yeshua.»
  Evidentemente Yosef chiamava cristianesimo quello che aveva visto e sentito: abiti religiosi, croci e musica d’organo. Non conosceva Yeshua e il Nuovo Patto, attraverso il quale ebrei e gentili possono essere salvati.
  «Senta un po’», replicò, «non mi verrà a dire che quei cristiani che adorano gli idoli nelle loro pompose cattedrali al suono dell’organo sono in realtà ebrei che credono in una religione ebraica? Se veramente crede questo, allora bisogna dire che lei non ha la minima idea né dell’ebraismo né del cristianesimo. Il fossato che divide queste due religioni è talmente grande che nessun ponte si potrà mai fare tra le due!»
  «Su questo sono d’accordo con lei, Yosef. Queste due religioni non solo sono del tutto diverse, ma si odiano a vicenda con passione e si combattono a morte. Ogni religione è per sua natura ostile a tutte le altre, perché le considera rivali e si ritiene l’unica depositaria delle rivelazioni divine. Ma qui non si tratta né dell’ebraismo, né del cristianesimo. Yeshua non è sceso dal cielo in questo mondo e ha percorso il Suo cammino fino alla morte sulla croce per fondare una nuova religione che si rivoltasse contro la sua propria madre! Yeshua ha condannato tutti i rituali religiosi vuoti di intimo contenuto, sia ebrei che non ebrei. Egli ci ha insegnato che Dio è Spirito, e che i veri adoratori devono adorarlo in spirito e verità (Giovanni 4:23-24).»
  «Mi dica», interruppe Yosef cambiando discorso, «lei li porta i tefillin? osserva lo Shabbat? Che tipo di ebreo è lei, precisamente?»
  «Le risponderò alla maniera ebraica, con un’altra domanda: lei le fa queste cose? No, lei non le fa, e tuttavia si ritiene un ebreo, non è vero? Lei è ebreo perché è nato da una madre ebrea, giusto? Beh, anch’io. Capisce ora? Quello che ci fa essere ebrei o gentili non è né il rituale ebraico, né il patrimonio culturale che abbiamo ereditato per nascita. Noi siamo stati circoncisi l’ottavo giorno. Anche il Capo Rabbino è stato circonciso quando aveva otto giorni, prima che potesse osservare anche uno solo dei comandamenti. Nessuno ci ha chiesto se eravamo d’accordo con la circoncisione o se credevamo alla religione ebraica, vero?»
  «Lei sostiene che il Tanach, parla di Yeshua», disse Yosef cambiando un’altra volta discorso. «Saprebbe dirmi dove? Ma per favore, non cominci con Isaia 53.»
  «A dire il vero, volevo proprio parlare di questa importantissima profezia. Ma possiamo cominciare anche da un’altra parte. Probabilmente lei conosce la storia di Giuseppe, il figlio di Giacobbe e Rachele.»
  «Naturalmente! Giuseppe è una delle mie figure preferite. I miei genitori si chiamano Giacobbe e Rachele. Per questo mi hanno chiamato Yosef!»
  «Guardiamo allora la storia di Giuseppe. Credo che sentirà cose che la sbalordiranno,» dissi con aria di sfida.
  «Giacobbe amava Giuseppe più degli altri figli perché l’aveva avuto in tarda età da Rachele, la sua moglie preferita, e gli fece fare una preziosa veste variopinta. Giacobbe considerava Giuseppe più dei suoi fratelli maggiori, e questo suscitò in loro odio e invidia. Anche Yeshua fu chiamato “il figlio prediletto del Padre” ed è stato odiato dai suoi fratelli ebrei fino al giorno d’oggi.»
  «E’ soltanto una coincidenza», rise Yosef. «Non significa assolutamente niente.»
  «Aspetti, la storia non è finita», risposi sorridendo. 
  La curiosità di Yosef si era risvegliata e smise di controbattere. Questo mi diede modo di proseguire.
  «Giuseppe era conosciuto come un “sognatore”. Aveva dei sogni profetici attraverso i quali rivelava agli ebrei (i suoi fratelli) e ai gentili (il Faraone e i suoi servitori) quello che sarebbe accaduto nel futuro. Anche Yeshua fu un profeta che rivelò alla sua generazione quello che stava per accadere, e questo aumentò l’odio contro di lui.
  «Giacobbe, il padre di Giuseppe, lo mandò dai suoi fratelli perché desiderava la loro pace. Nonostante che Giuseppe sapesse che i suoi fratelli gli erano ostili, ubbidì a suo padre e osservò i suoi ordini. Il Nuovo Patto ci dice che Dio Padre ha mandato in questo mondo il Suo diletto Figlio Yeshua per salvare i Suoi fratelli, gli ebrei. Yeshua sapeva quali sarebbero state le conseguenze della Sua venuta: sarebbe stato consegnato nelle mani dei gentili e crocifisso. Ma Egli ubbidì al Suo Padre celeste, volontariamente e con amore.
  «I fratelli di Giuseppe colsero l’occasione e decisero di ucciderlo. Poi però cambiarono idea e lo vendettero per venti sicli d’argento ai gentili madianiti (Genesi 37:28). Anche i capi ebrei avevano pensato di uccidere Yeshua, e quando uno dei Suoi discepoli alla fine lo tradì per trenta denari, lo consegnarono ai Romani.
  «I fratelli di Giuseppe gli presero la veste, simbolo di autorità e dominio, e lo gettarono in una fossa. Anche Yeshua fu spogliato della Sua veste prima della Sua crocifissione, e poi fu deposto nella fossa di una tomba.»
  «Ehi, la cosa si fa interessante!» esclamò Yosef eccitato. «Non avevo mai considerato questa storia da questo punto di vista.»
  «Aspetti, il meglio deve ancora venire!» promisi. E continuai.
  «Subito dopo il suo arrivo in Egitto, Giuseppe fu sottoposto a una grande tentazione. La moglie di Potifar tentò di sedurlo, ma Giuseppe le resistette. Le Sacre Scritture ci riferiscono che all’inizio del Suo ministero pubblico Yeshua fu fortemente tentato da Satana, ma resistette con successo alla tentazione.
  «La moglie di Potifar s’infuriò con Giuseppe perché l’aveva respinta e lo accusò pubblicamente, nonostante che fosse innocente. Anche Yeshua era innocente e fu punito al nostro posto per dei peccati che non aveva commesso.
  «Giuseppe trascorse più di due anni in prigione prima che fosse riabilitato e innalzato dal Faraone al secondo posto del regno. Anche Yeshua ha passato due notti e tre giorni nella tomba prima di essere risuscitato da Dio e posto a sedere alla Sua destra, in gloria e potenza.
  «Giuseppe ottenne il secondo posto in Egitto, dopo il Faraone. Yeshua è stato nominato Re delle nazioni, e ora siede sul trono in cielo, alla destra di Dio, come è scritto:

    “Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi” (Salmo 110:1)

«Giuseppe fu  nominato “amministratore”, e in quanto tale distribuì il grano non solo agli Egiziani, ma a tutto il mondo che soffriva la fame. Yeshua, come “pane della vita” (Giovanni 6:48) sostiene tutto il mondo con la Sua grazia e il Suo misericordioso amore.
  «Spinti dalla grave carestia che in quel tempo regnava in Canann, i fratelli di Giuseppe scesero in Egitto a comprare del grano e si presentarono davanti a Giuseppe. Oggi i figli d’Israele soffrono di una fame spirituale, e quelli che si rivolgono a Yeshua ricevono da Lui il pane della vita.
  «Giuseppe riconobbe subito i suoi fratelli; loro invece non lo riconobbero. Yeshua conosce molto bene ciascuno dei Suoi fratelli ebrei, nonostante che un velo ricopra ancora i loro occhi e non permetta loro di riconoscerlo. 
  «Giuseppe finse di essere un Egiziano davanti ai suoi fratelli e parlò duramente con loro per mezzo di un interprete. Il popolo ebraico tratta ancora oggi Yeshua come se fosse un gentile. Rifiutano perfino di chiamarlo con il Suo nome ebraico e non lo riconoscono come loro fratello.
  «Giuseppe trattò molto duramente i suoi fratelli, fino a che non fu del tutto convinto che si erano profondamente pentiti. Yeshua sta ancora aspettando che i Suoi fratelli riconoscano il peccato commesso contro di Lui e smettano di incolparlo di tutte le loro disgrazie.
  «Giuseppe si fece riconoscere dai suoi fratelli e disse: “Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto” (Genesi 45:4). Anche Yeshua rivelerà presto ai Suoi fratelli la sua vera identità, dopo che avrà sparso su di loro lo spirito di grazia e di supplicazione. Allora guarderanno “a colui che essi hanno trafitto” (Zaccaria 12:10) e riconosceranno che hanno venduto ai gentili il loro fratello, loro carne e sangue.
  «Giuseppe disse ai suoi fratelli:

    Ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita... Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso (Genesi 45:5; 50:20).

«I figli d’Israele non avevano coscienza di quello che facevano quando consegnarono Yeshua ai romani per essere giustiziato. Ma sulla croce Yeshua gridò: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Luca 23:34). Dio fece una cosa meravigliosa: attraverso il rifiuto di Yeshua da parte degli ebrei portò la salvezza ai gentili.
  «Giuseppe invitò i suoi fratelli a venire a vivere nel paese di Goscen, a causa della carestia. Anche Yeshua riserva un posto nel Suo regno per il suo popolo, il popolo ebraico.»
  Yosef chiuse gli occhi e rifletté. Vedevo che era turbato. Rimase per un momento in silenzio, poi disse: «E’ davvero interessante! Ho letto molte volte la storia di Giuseppe, ma non avevo mai notato la straordinaria somiglianza tra la sua vita e quella di Yeshua. Mi è difficile adesso rigettare tutto come semplice coincidenza. Avrei potuto farlo se si fosse trattato soltanto di uno o due particolari, ma da come lei me l’ha presentata, ho l’impressione che tutta la storia di Giuseppe e i suoi fratelli rispecchi l’atteggiamento di Yeshua verso i suoi fratelli ebrei.»
  A questo punto entrò mia madre con un vassoio. Portava due bicchieri di tè caldo alla menta e un piatto di biscotti. La nostra conversazione ormai volgeva al termine. Chiacchierammo ancora qualche minuto poi Yosef se ne andò. Da allora non l’ho più visto.

(da "Leone di pietra, leone di Giuda")

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Gallant si dimette dalla Knesset

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Joav Gallant

GERUSALEMME - L'ex ministro della Difesa israeliano Joav Gallant ha annunciato mercoledì sera le sue dimissioni da membro della Knesset. Tuttavia, egli rimarrà fedele al Likud, ha sottolineato in un discorso. Il discorso è stato trasmesso in diretta televisiva.
  “Dopo 45 anni di servizio pubblico - di cui 35 nell'esercito israeliano e il resto alla Knesset - questa è solo una tappa di un viaggio più lungo che non è ancora terminato”, ha dichiarato Gallant, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post. “Sia sul campo di battaglia che nel servizio pubblico, è importante fare delle pause, riflettere e concentrarsi sugli obiettivi necessari”.
  Il 5 novembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha licenziato Gallant dal suo incarico di ministro della Difesa. Il suo compagno di partito Israel Katz è diventato il suo successore.

• Il servizio di leva per gli ultraortodossi come punto di scontro
   Gallant ha criticato la politica del personale di Netanyahu: nominando Katz, ha messo in pericolo la sicurezza del Paese. Questo perché egli sostiene una legge che offrirebbe esenzioni dal servizio militare a gran parte della comunità ultraortodossa. Lui stesso era stato licenziato perché non voleva capitolare sulla questione. La coscrizione degli Haredim era una “necessità militare”.
  Nel suo discorso, il 66enne ha rivendicato il successo nella distruzione delle capacità militari di Hamas, Hezbollah e Iran. Allo stesso tempo, si è assunto la responsabilità per le decisioni sbagliate prese prima del massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, scrive il quotidiano online Times of Israel.
  Gallant ha poi affermato che, come membro del Likud, continuerà a lottare per il percorso del movimento. Crede nei principi del partito. Ha definito la riforma giudiziaria prevista un “pericolo chiaro e immediato” per il Paese. Ha inoltre criticato il fallimento del governo nel riportare a casa gli ostaggi ancora presenti nella Striscia di Gaza.

• Primo rilascio nel 2023
   Dopo il discorso, Gallant ha presentato la sua lettera di dimissioni al presidente della Knesset Amir Ochana (Likud). Gli analisti ritengono ipotizzabile una sua candidatura alla presidenza del Likud, qualora venisse eletto. Non è ancora stato deciso chi lo sostituirà alla Knesset.
  Gallant è stato licenziato per la prima volta nel marzo 2023. All'epoca, aveva messo in guardia dai pericoli per la sicurezza che potevano derivare dalla divisione nazionale sulla riforma giudiziaria. Dopo le grandi proteste della popolazione, Netanyahu ha revocato la decisione.

• Netanyahu esce dal suo letto di malattia per votare
   Dal suo licenziamento definitivo, Gallant è stato assente a molte votazioni in Parlamento. Martedì sera è stata discussa un'importante legge secondaria sul bilancio. Diversi partner della coalizione sono contrari, compreso il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir (Forza ebraica).
  Netanyahu ha lasciato l'ospedale contro il parere dei medici, in modo che la legge potesse essere approvata. Si era sottoposto con successo a un'operazione alla prostata. Dopo il voto, è tornato in ospedale per un trattamento di follow-up. Il deputato del Likud Boas Bismuth, la cui madre è deceduta, ha interrotto il periodo di lutto per il voto.
  Il leader dell'opposizione Yair Lapid (Yesh Atid) ha invece espresso la sua approvazione per il discorso di addio di Gallant. Era “la semplice verità”, ha scritto sulla Piattaforma X.
  Benny Gantz (Campo di Stato), anch'egli ex ministro della Difesa, lo ha tuttavia esortato a revocare la decisione. Finché non ci saranno elezioni parlamentari, Gallant dovrebbe mostrare il coraggio che ha sempre dimostrato. Non dovrebbe contribuire all'approvazione della legge sul servizio militare per gli ultraortodossi in tempo di guerra. 

(Israelnetz, 2 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Aspettando Trump: quale sarà il piano per il Medio Oriente della nuova amministrazione?

La liberazione immediata degli ostaggi israeliani, il cessate il fuoco a Gaza, la ripresa dei colloqui con l’Arabia Saudita per l’estensione degli Accordi di Abramo, ai quali potrebbe agganciarsi anche il Qatar: la visione di Donald Trump è articolata e muscolare. Ne parliamo con il giornalista Andrea Morigi

di Davide Romano

Alla fine sarà ancora lui, The Donald, il prossimo inquilino della Casa Bianca. Di nuovo. Nel precedente mandato, prima dei quattro anni dell’amministrazione Biden, Trump aveva portato al tavolo dei negoziati gli Stati Arabi Sunniti e Israele, siglando gli Accordi di Abramo, e aveva spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Cosa realizzerà nel nuovo quadriennio? Davvero sarà in grado, come ha promesso, di risolvere i conflitti in corso?
  In vista del suo insediamento, il 20 gennaio, Bet Magazine/Mosaico ha sentito il giornalista Andrea Morigi, capo della redazione esteri del quotidiano Libero, per capire cosa aspettarsi. Curatore di diversi report sulla libertà di religione, ha pubblicato due libri sul Medio Oriente: Media e Oriente per Mursia e Multinazionali del terrore per Piemme.

- Il 20 gennaio si insedierà Trump alla Casa Bianca. Il suo programma per il Medio Oriente riprenderà da dove si era interrotto? Ripartirà dagli Accordi di Abramo per estenderli?
  Dopo quattro anni le condizioni sono cambiate, ma non necessariamente in peggio. L’obiettivo del riconoscimento reciproco fra Israele e alcuni Stati arabi apparentemente ha subito una battuta d’arresto dopo il 7 ottobre. Un obiettivo delle stragi e dei rapimenti compiuti da Hamas era proprio quello di impedire l’avvio di relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Stato ebraico. In questo la Repubblica Islamica dell’Iran ha giocato tutte le carte di cui disponeva. Ha utilizzato la sua influenza in Libano e a Gaza per stringere in una tenaglia il “nemico sionista”. Ha fallito. Anche perché la Giordania e l’Arabia Saudita hanno fornito copertura radar a Israele quando l’Iran ha lanciato droni e missili su Tel Aviv. Intanto sono anche cambiati alcuni attori sulla scena e/o si è ridimensionato il loro peso politico e strategico. La Siria, per anni principale canale di rifornimento di armi per Hezbollah, non è più una pedina di Teheran e nemmeno di Mosca. Se sia un segnale positivo per gli equilibri della regione, lo si vedrà. Si può registrare che Trump ha commentato con soddisfazione la caduta del regime canaglia di Assad. Forse nutre qualche speranza di coinvolgere anche gli jihadisti che hanno conquistato Damasco nel processo di normalizzazione del Medio Oriente.

- Quali sono le nomine chiave per capire la politica che Donald Trump farà, da neopresidente, nei confronti di Israele?
  Innanzitutto il segretario di Stato in pectore Marco Rubio, grande amico di Israele e non certo tenero verso gli ayatollah e i loro alleati. Ma non bisogna trascurare neanche l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, che si è già recato in Qatar e Israele a dicembre, dove ha incontrato i rispettivi governanti – lo sceicco Mohammed bin Abdul-rahman Al Thani e il premier Benjamin Netanyahu – per far partire l’iniziativa diplomatica del presidente eletto degli Stati Uniti mirata a raggiungere un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sul rilascio degli ostaggi prima del suo insediamento il 20 gennaio. Un nuovo inizio dopo quasi 14 mesi di diplomazia infruttuosa da parte dell’amministrazione Biden, se è vero che Doha ha ripreso il suo ruolo di mediatore chiave dopo essersi autosospesa. Si è parlato di volontà “senza precedenti” delle parti nei loro sforzi per raggiungere un’intesa. Inoltre vanno considerate in questo quadro l’annuncio della nomina come senior advisor presidenziale per il Medio Oriente e il mondo arabo dell’imprenditore libanese Massad Boulos, e l’anticipazione della nomina come ambasciatore a Parigi di Charles Kushner, padre di Jared Kushner (genero di Trump) che ha realizzato durante il primo mandato di Trump gli Accordi di Abramo.

- In cosa si vedrà la differenza tra la politica di Biden e quella di Trump nei confronti di Israele e dell’Iran?
  Mi pare che l’orientamento dell’elettorato Repubblicano e dei suoi rappresentanti politici sia diametralmente opposto a quello delle frange Propal e filo Bds (boicottaggio-disinvestimento-sanzioni contro Israele, ndr) che hanno condizionato le scelte della Casa Bianca negli ultimi quattro anni. Anche se il concreto sostegno economico e militare a Israele da parte degli Stati Uniti non è mai venuto meno, le dichiarazioni dei Democratici sono state spesso ambigue, in particolare sull’aspetto degli aiuti umanitari da fornire ai “civili” di Gaza. E l’ambiguità non è proprio una delle caratteristiche di Trump… il quale ha compiuto una sola azione bellica come comandante supremo delle Forze armate Usa: il 3 gennaio 2020, eliminando il generale Qassem Soleimani, comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniane.

- Qualcuno sostiene che la sola notizia che Trump sarà Presidente ha già cambiato l’atteggiamento di tanti governi, in Medio Oriente e no. Può farci qualche esempio?
  Più che altro c’è chi approfitta del periodo transitorio fino al 20 gennaio, data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, per sistemare le proprie partite nell’interregno. Ma in effetti ci sono tanti governi in Europa che non vedevano l’ora di alleggerire i bilanci pubblici dalle voci che facevano riferimento al sostegno all’Ucraina e paiono pronti ad accodarsi al nuovo corso americano. Numerosi e importanti assetti politici si trovano già in crisi di consenso: dalla Germania alla Spagna, passando per la Francia. Anche il Cremlino in fondo si rallegrerebbe se potesse terminare la propria aggressione militare all’Ucraina. Non saprei trovare un nesso causale fra l’approssimarsi di Trump alla Casa Bianca e l’abbandono da parte della Russia dell’avamposto siriano, ma non è certo un risultato di Biden, al quale Vladimir Putin non avrebbe mai concesso un vantaggio strategico. Comunque, le truppe nordcoreane sono arrivate alle porte dell’Europa e pare siano lì per restare. Rimangono aperti inoltre molti altri fronti in Africa, e incombono minacce come quella cinese su Taiwan.

- Il fatto che il presidente eletto abbia detto chiaramente che vuole la pace entro il giorno del suo insediamento il 20 gennaio, può avere messo fretta a Israele? E avere in qualche modo danneggiato la strategia di Gerusalemme che prevedeva una guerra da finire solo una volta distrutte Hamas e Hezbollah, e non prima?
  Innanzitutto la priorità è sempre stata liberare gli ostaggi prigionieri dei terroristi islamici palestinesi. Anche se ce ne fosse soltanto uno o una ancora a Gaza, non si potrebbe considerare risolta la situazione. E comunque il raggiungimento di una tregua al confine israelo-libanese non è di ostacolo all’autodifesa da parte di Gerusalemme che infatti interviene puntualmente con l’aviazione a colpire i terroristi di Hezbollah che sconfinano oltre il fiume Litani. D’altronde, se Israele non si fosse difeso militarmente, oggi avremmo ancora a che fare con terroristi del calibro di Yahya Sinwar e Hassan Nasrallah, per limitarsi ai più noti. E le prospettive di pace sarebbero minori.

- Cosa prevede che succederà nel fronte interno USA? Che cosa pensa che potrà fare Trump contro l’antisemitismo che ha invaso le università e tanta parte della cultura americana?
  Il problema interno agli Usa ha radici più profonde di quelle politiche. È un effetto della crisi dell’Occidente. Si riflette anche nella diffusione a livello accademico della cultura woke, che considera i “bianchi capitalisti” israeliani colonialisti sfruttatori dei “poveri proletari” palestinesi. E, quando si sbaglia la lettura della storia, poi inevitabilmente si finisce per sbagliare anche nella sfera delle decisioni politiche e di schieramento. Chiaramente gli atti di antisemitismo – che non possono essere tollerati o sottovalutati – nascono in un contesto mediatico, amplificato e forse anche generato dal web, che distorce anche il diritto alla libera espressione. Penso che in questo senso l’impegno dell’amministrazione degli Stati Uniti a favore del rispetto della libertà religiosa nel mondo, attraverso l’Uscirf (Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale, agenzia indipendente e bipartisan che monitora il diritto universale alla libertà di religione all’estero e che formula raccomandazioni politiche al Governo e al Congresso) e il Dipartimento di Stato possa essere ulteriormente ampliato e potenziato, per dimostrare che Israele figura fra i Paesi dove le condizioni delle minoranze confessionali sono migliori. Sarebbe una bella lezione da impartire anche ai tribunali internazionali, oltre che ai Paesi che vi fanno ricorso in modo strumentale.

(Bet Magazine Mosaico, 2 gennaio 2025)

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Anche i palestinesi bloccano Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese ha sospeso le trasmissioni e le attività di Al Jazeera nella Cisgiordania.

L’agenzia di stampa ufficiale palestinese, Wafa, ha affermato mercoledì che la ANP ha accusato la rete di trasmettere “materiali incitanti” e “rapporti fuorvianti” che “provocano conflitti e interferiscono negli affari interni palestinesi”.
“La decisione include anche la sospensione temporanea di tutti i giornalisti e del personale ad essa associato, nonché dei canali sotto la sua egida, fino a quando il suo status legale non sarà rettificato, a causa della violazione da parte di Al Jazeera delle leggi e dei regolamenti in vigore in Palestina”, ha affermato l’agenzia di stampa palestinese.
Al Jazeera ha condannato la decisione dell’Autorità Palestinese di impedirle di operare in Cisgiordania, affermando che la decisione è “in linea” con azioni simili intraprese da Israele.
In un comunicato, l’emittente con sede in Qatar accusa l’autorità sostenuta dall’Occidente di cercare di “nascondere la verità sugli eventi nei territori occupati, in particolare su ciò che sta accadendo a Jenin e nei suoi campi”.
L’Autorità palestinese, che collabora con Israele in materia di sicurezza, il mese scorso ha lanciato una rara repressione dei gruppi terroristici palestinesi nel campo profughi urbano di Jenin.
L’AP ha annunciato ieri la sospensione delle attività di Al Jazeera, accusandola di incitamento e interferenza negli affari interni palestinesi. L’AP esercita un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania.
Israele ha bandito Al Jazeera l’anno scorso, accusandola di essere un portavoce del gruppo terroristico di Hamas durante la guerra in corso. Gli attacchi israeliani hanno ucciso o ferito diversi giornalisti di Al Jazeera a Gaza e Israele ha accusato alcuni di loro di essere agenti del terrorismo. L’anno scorso le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di Al Jazeera in Cisgiordania, ma l’emittente ha continuato a operare nel territorio.
Al Jazeera nega le accuse e accusa Israele di cercare di mettere a tacere la sua copertura.

(Rights Reporter, 2 gennaio 2025)

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La comunità ebraica (Noemi Di Segni) sul Papa: 'Dopo le parole di Francesco su Israele difficile persino invitarlo in sinagoga'

di Luca Roberto

 “Le ultime dichiarazioni del Papa sul conflitto in medio oriente, le accuse a Israele, mettono a rischio il dialogo maturato negli ultimi 60 anni. Se prima del 7 ottobre sarebbe stato normale invitarlo in sinagoga, adesso la vedo molto difficile. Non è più una scelta scontata e ovvia”. La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni lo dice con un po’ di sconforto, ma mai di rassegnazione. “L’apertura delle porte sante, l’ho rimarcato anche nel mio messaggio per il Giubileo, vuol dire anche aprire le porte al dialogo. Ma le parole e i significati attribuiti dal Papa sono stati rivolti agli atteggiamenti negativi, alla reazione di Israele, non sono stati un invito alla responsabilità della convivenza”, ragiona Di Segni in questo colloquio col Foglio. “E’ successo anche quando ha ricevuto le famiglie degli ostaggi di Hamas. C’è sempre stata una condanna nei confronti di Israele. E’ ovvio che a Gaza c’è un popolo che soffre. Ma soffre non solo perché c’è una guerra: quel popolo è vittima in primo luogo del terrorismo di Hamas”. Questa chiacchierata con la presidente Di Segni è l’occasione per tirare le somme dell’anno appena concluso. Ma anche per immaginare, con le tendenze in atto in Europa e nel nostro paese, cosa possa rappresentare il 2025. Solo pochi giorni fa la segretaria del Pd Elly Schlein e il leader M5s Giuseppe Conte sono tornati a chiedere lo stop all’invio di armi verso Israele. Il ricordo del 7 ottobre è oramai scomparso nella sinistra italiana. Che segnale è? “Queste critiche fanno capire due cose. Che queste pretese possono essere rivolte a Israele perché si riconosce che è una democrazia”, dice Di Segni. “Una cosa non scontata perché l’abbiamo visto anche nel caso della vostra giornalista Cecilia Sala, a cui rivolgo tutta la mia vicinanza e solidarietà e mi accodo alle richieste di liberazione: avere a che fare con regimi come l’Iran è difficile anche solo nell’attivazione di canali diplomatici”. In secondo luogo, prosegue ancora la presidente dell’Ucei, “queste prese di posizione denotano una miopia che ignora la complessità della situazione in medio oriente. E portano a leggerla solo con degli slogan. Io ritengo sia un bel problema perché non ci rendiamo conto che uno degli obiettivi del terrorismo islamico è infiltrarsi nelle nostre istituzioni europee e distruggerle dal di dentro”. Sul Foglio abbiamo raccontato il caso dell’assessore umbro alla Pace, Fabio Barcaioli, che ha condiviso sui social post in cui accusa “Israele stato terrorista”. Si dovrebbe dimettere? “Si tratta di una forma di irresponsabilità molto grave, che rende certe persone inadeguate a ricoprire un ruolo come quello dell’assessore che è molto importante per costruire iniziative per il bene della cittadinanza. E che invece diventano presidi strumentalizzati in cui esibire una certa propaganda d’odio. E’ un discorso che vale a suo modo anche per il sindaco di Bologna Lepore. E per tutte le figure istituzionali che insistono sull’automatismo del genocidio. Per fortuna non hanno ricevuto avalli istituzionali, ma anche il riemergere di manifestazioni neofasciste desta grande preoccupazione”.
  La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Noemi Di Segni in questi giorni è a Gerusalemme. E la distanza tra quel che osserva in prima persona, vedendo sfilare silenziosamente i cortei funebri dei soldati rimasti uccisi, e quanto viene raccontato alle nostre latitudini è palese: “Nell’attacco all’ospedale di Gaza di qualche giorno fa sui giornali italiani si leggeva solo che erano morte 50 persone. Ma si ometteva completamente di dire che quell’ospedale era una base operativa di Hamas, con le armi nascoste tra i reparti, in corsia. Così come si è omesso di dire che il direttore dell’ospedale fosse anch’egli un terrorista”, argomenta Di Segni. “Noi occidentali abbiamo questa mentalità. Non sappiamo come sono fatti gli altri, conosciamo poco il medio oriente. Eppure non rinunciamo a prendere posizioni forti. Come stiamo vedendo anche adesso a proposito della situazione in Siria. E’ bastato vedere qualcuno in giacca e cravatta per crederlo rassicurante. Il vantaggio di Hamas, la ragione per cui sta vincendo la guerra mediatica, è che invece ci conosce bene, conosce le nostre debolezze, vi si insinua. E lo fa, pur di vincere questa guerra mediatica, sacrificando il proprio popolo, che viene usato come uno scudo. Qualcosa che i vari Conte e Schlein ignorano completamente perché non si fidano di Israele e in questo peccano di miopia”.
  Eppure tutto quel che è accaduto in Europa e in occidente dopo il 7 ottobre, non tira in ballo solo la politica, a destra e sinistra. Quanto si è visto nelle università, per esempio, è preoccupante anche per l’anno a venire. “Voglio proprio vedere se chiudendo i bilanci, qualora non tornassero i conti degli atenei, i vari rettori avranno ancora il coraggio di permettere le occupazioni che hanno deturpato le università in tutta Italia. Si è sacrificato troppo in nome del nulla”, dice ancora Di Segni. “Il guaio non sono solo le continue richieste di boicottaggio, per fortuna in larga parte respinte. Ma il freno che è stato posto nei confronti di Israele nelle tante iniziative culturali, mostre, dibattiti, conferenze, non solo a livello universitario. C’è una violenza che fa paura. Spesso mossa da cellule finanziate da non si sa bene chi. Ecco perché bisogna stare molto attenti. E saper distinguere la legittima pietà provata per le immagini provenienti da Gaza col vero e proprio antisemitismo, sempre più presente nella nostra società”.
  Gli auspici per il nuovo anno, dopo le scene di Amsterdam, dopo le intifade nei campus e le manifestazioni nelle piazze delle città italiane, insomma, sono molteplici. “Il primo è che l’Europa si occupi a livello prioritario della propria sicurezza, essendo capace di rispondere in maniera sempre più lucida e puntuale. Da questo punto di vista la nuova Alta commissaria alla politica estera Kallas ci ha già dato qualche rassicurazione, dopo le uscite tutt’altro che equilibrate dell’ex commissario Borrell. Il mondo sta cambiando rapidamente, così come rapidamente sono cambiate le logiche in medio oriente. L’Europa deve avere una capacità di guida geopolitica, superando anche le distorsioni che abbiamo visto da parte dell’Onu sul conflitto israelo-palestinese. Bisogna capire che la difesa della libertà d’Israele è anche la difesa della libertà dei popoli europei”, conclude Di Segni. “Ci auguriamo che il nuovo anno porti alla fine della guerra. Aspettiamo anche di capire quali saranno le prime mosse di Trump negli Stati Uniti. Sapendo però che tutto quello che sta succedendo qui da noi, con la messa in discussione della nostra convivenza civile, con quest’infiltrazione dell’islamismo radicale nei nostri valori di libertà e democrazia per cercare di abbatterli, non scomparirà da un giorno all’altro. Dovremo saperci fare i conti”.

Il Foglio, 2 gennaio 2025)

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Assassini del 7 ottobre: eliminato Abd al-Hadi Sabah, responsabile del massacro a Nir Oz

di Luca Spizzichino

Abd al-Hadi Sabah, vertice dei terroristi di Nukhba a Khan Yunis Ovest e uno dei principali responsabili dell’infiltrazione nel Kibbutz Nir Oz durante il massacro del 7 ottobre, è stato eliminato in un recente attacco con droni, hanno confermato l’esercito israeliano e lo Shin Bet.
  Sabah è stato un obiettivo chiave delle operazioni israeliane per il suo ruolo attivo nel coordinare e guidare attacchi contro le forze israeliane durante il conflitto in corso. L’IDF ha evidenziato che, prima dell’attacco, sono state adottate misure significative per ridurre il rischio di danni collaterali ai civili, utilizzando munizioni di precisione, intelligence accurata e sorveglianza aerea.
  “L’IDF e lo Shin Bet continueranno a operare contro tutti i terroristi che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre.” ha affermato l’esercito in una nota. Anche il Kibbutz Nir Oz, che ha visto il rapimento e l’uccisione di decine di civili, ha commentato l’operazione: “L’eliminazione del comandante del plotone Nukhba che ha guidato l’invasione di Nir Oz rappresenta un piccolo passo verso la giustizia, ma la vera giustizia si avrà solo quando gli ostaggi torneranno a casa.”
  Sempre nella giornata di ieri è stato eliminato Anas Muhammad Saadi Masri, comandante del settore nord dell’unità missilistica della Jihad Islamica Palestinese. Masri era responsabile di numerosi attacchi missilistici contro civili israeliani e soldati dell’IDF, orchestrati dal nord di Gaza sin dall’inizio del conflitto. “Masri era una figura significativa, responsabile di operazioni terroristiche contro civili israeliani e forze di sicurezza, e dirigeva il lancio di razzi verso le comunità di confine israeliane.” hanno dichiarato fonti militari.

(Shalom, 1 gennaio 2025)

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Otto giorni, otto lumi – 1 gennaio 2025, l’ottavo lume

di Rav Adolfo Locci

Nelle Massime dei padri (Pirqè Avot 3:6) è riportato un insegnamento di Rabbì Chalaftà che afferma che, anche dove uno solo studia Torah, la Shekhinah è presente con lui. Questa massima insegna che laddove si studia con costanza Torah, si riceve il merito di avere la presenza della Shekhinah.
Non è forse così/koh/כ״ה, la Mia parola è come fuoco, detto dell’Eterno. Nel Talmud (Shabbat 138b) questo verso del profeta Geremia (23:29) è interpretato dai maestri come un riferimento alla Torah che è parola di Dio, che porta alla discesa della Shekhinah (così/koh/כ״ה).
Il Midrash sottolinea che nel pettorale del Sommo Sacerdote le pietre erano incastonate secondo l’ordine delle 12 tribù e la pietra di zaffiro (even sapir) corrispondeva a Issakhar. Lo Zohar insegna che il “ma‘aseh livnat hasapir/un lavorato in trasparente zaffiro” (Esodo 24:10) che Mosè vede ai piedi del Trono della Gloria è un’allusione alla Shekhinah. Siccome la tribù di Issakhar era il pilastro per lo studio della Torah, lo zaffiro è la pietra che la rappresentava nel pettorale del Sommo Sacerdote.
I giorni di Chanukkah sono per questo i più propizi per fare quelle azioni, ad esempio studiare di più i testi della Torah orale, che facciano posare la Shekhinah su Israele.

(moked, 1 gennaio 2025)

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La radice ebraica che la Chiesa non riesce più a sostenere

Il cristianesimo, uscito vincente dagli antichi Concili, risulta svuotato e profondamente insicuro, critico e scettico circa la propria tradizione, che ha sostituito con un generico pensiero woke

di Vittorio Robiati Bendaud

È finita un’era, quella dell’Europa cristiana, ossia quella della fede della maggioranza dei cristiani nel loro cristianesimo, persino tra gli esponenti dell’istituzione. La crisi profonda della dimensione simbolica (più che rilevante per una fede che si è sempre tradotta in arte – dalla pittura, all’architettura, alla musica) è evidente, visibile e udibile, da decenni.
In sintesi: siamo di fronte, almeno in ampia parte dell’Occidente ex-cristiano, a un cristianesimo sopravvissuto a se stesso e svuotatosi di sé. E se la Shoah per il cristianesimo è stata suicidaria, laddove i giusti cristiani – dai preti alle suore, dagli operai ai contadini – lo furono nonostante e contro i millenari insegnamenti antiebraici delle Chiese, l’appropriazione cristiana della Shoah assolve oggi non di rado a processi ambigui e finanche insidiosi.
Dopo la Shoah, successivamente alla nascita dello Stato di Israele e nel clima distensivo della laicità occidentale, con anche l’alveo del dialogo ebraico-cristiano, abbiamo dimenticato – o quantomeno sottostimato – l’immenso potere “costruttivo” dell’antisemitismo. Proprio perché dialoghiamo con cristiani (e musulmani), dobbiamo ricordarci -e ricordare loro!- del potere strutturante, come tale calamitico, dell’antisemitismo, che ha informato il simbolico mediterraneo e occidentale in ambito teologico, filosofico e politico. Anzi, ne è stato la condizione di possibilità e lo scheletro. E, se a qualsiasi musulmano o cristiano orientale onesto è ben chiara la forza aggregante dell’antisemitismo, specie nella sua odierna variante antisraeliana, perché ha permesso a molte società panarabe di definirsi e costruirsi in tal senso negli ultimi settant’anni, in Occidente ci sfuggono oggi il portato e la malia di questa forza pericolosa e omicida.
Oggi, ciò che rimane della cristianità è in cerca d’Autore. Il cristianesimo uscito vincente dagli antichi Concili risulta svuotato e profondamente insicuro, critico e scettico circa la propria tradizione che ha sostituito un generico pensiero woke moderato. Resta il problema dell’ebraismo e di quell’insostenibile radice ebraica. Ed è qui che scatta, ancora oggi, specie oggi, la forza strutturante del pensiero antiebraico, a suo modo fondativa.
E, se dopo la Shoah, non si poteva non parlare di Gesù ebreo, ecco l’accento marcato sul fatto che Gesù parlasse però (se ne colga il carattere avversativo!) la “lingua del popolo”, ossia l’aramaico, adagio che assolve a una vecchia doppia strategia: distanziare Gesù dall’ebraico, quindi dal suo popolo e dalla liturgia ebraica; evidenziare un presunto carattere pauperista, comunque oppositivo, laddove però il resto del popolo era, con ogni evidenza, comunque formato da ebrei. Con il distanziamento di Gesù dall’ebraismo e da Israele, eccolo allora farsi biondo e finanche “ariano”, come nei secoli passati, oppure oggi “palestinese”: il processo è il medesimo e rientra nella stessa logica. Un esempio? L’occultamento del valore religioso del digiuno nell’ebraismo e l’importanza per i cristiani di riscoprirne – addirittura! – il senso e la pratica dai musulmani, come proposto recentemente dal papa; da qui il mantra, presunto filo-femminista, secondo cui Islām e cristianesimo condividono la fede nella misericordia di Dio, che è cura materna, secondo la radice semitica r-h-m, da cui rahma, in arabo, tralasciando che esiste la stessa radice, con il medesimo significato, in ebraico, e che fu proprio nell’antica tradizione di Israele che si articolò questa dimensione simbolico-teologica.
Successivamente al 7 ottobre e ai vari eventi bellici, il vescovo Bonny, ordinario della diocesi di Anversa e impegnato ai massimi livelli nel dialogo ebraico-cristiano, ha ribadito che Gesù è “un giovane palestinese morto in croce” e che la lettura ebraica-israeliana dei testi sacri è distante da quella cristiana e con essa incompatibile. Siamo come agli esordi del cristianesimo, in salsa progressista cattolica contemporanea: de-ebraicizzazione di Gesù e incomprensione da parte di Israele delle sue stesse Scritture. Sulla stessa scia il cardinale Ravasi, che rilanciò la vexata quaestio, con un portato simbolico bimillenario di mistificazione e demonizzazione, della “legge del taglione”, anzi della presunta “logica di Lemech”, contestualmente alle azioni belliche israeliane. Perfino la Shoah, se cristianizzata e universalizzata, può essere scippata alle vittime e ai loro eredi, rivolgendogliela contro e accusandoli di genocidio o crimini di guerra.
Insomma: siamo in una fase di cristianesimo profondamente debilitato, in cerca di contenuti, che ha necessità di un punto gravitazionale per strutturarsi, specie in relazione all’avanzata islamica e a un Occidente disorientato. In pochissimo tempo il dialogo ebraico-cristiano è divenuto anticaglia, relitto e fonte di contraddizione. Forse, persino, un errore. Chi scrive crede (e spera) che il dialogo schietto e leale continuerà, ma in modalità carbonare, sottoforma di resistenza, mentre quello ufficiale, diplomatico e accademico è stato polverizzato e ridotto a imbelle ridicolaggine.

(Bet Magazine Mosaico, 1 gennaio 2025)

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Fratelli maggiori o fratelli-coltelli? La Chiesa, gli ebrei (e Israele) un insopportabile doppio standard

27 gennaio, Giorno della Memoria. Gli studi sui nuovi documenti d’archivio di Pio XII. La certezza definitiva che il papa sapeva. Le “anime tiepide” e la politica Vaticana durante la Shoah. I rapporti tra Chiesa cattolica ed Ebraismo? Al minimo. Un cammino accidentato, doloroso (per gli ebrei). E adesso? Battute d’arresto, passi indietro e una attualità sconcertante. Nel passato, le amare ragioni dell’oggi.

di Ugo Volli

Le manifestazioni di odio anti-israeliano che si sono succedute nella stampa e nelle città di mezzo mondo, durante l’ultimo anno, hanno fatto emergere un fondo antisemita che si credeva fosse stato definitivamente superato dal ricordo della Shoah. Questo ritorno di un atteggiamento pregiudiziale contro Israele e gli ebrei ha toccato in alcuni momenti anche i vertici della Chiesa, con cui pure negli ultimi decenni il mondo ebraico ha intrecciato un dialogo che sembrava capace di cancellare i vecchi pregiudizi.
Per questa ragione oggi è necessario ritornare a esaminare da vicino l’atteggiamento della Chiesa e dei politici cattolici nella prima metà del secolo scorso, non solo negli anni tremendi della Shoah, ma anche nel periodo in cui si accumularono le premesse che la resero possibile e nel periodo immediatamente successivo.
L’apertura dell’archivio delle carte del pontificato di Pio XII nel 2020 ha prodotto molte ricerche storiche che danno nuove informazioni su questo tema, dibattuto da decenni; da allora vi sono stati molti lavori storici, che permettono ormai di capire bene quel che è successo. Il primo a pubblicare novità rilevanti è stato lo storico ebreo americano David Kertzer (Un papa in guerra, Garzanti 2022); vi è stato poi un largo dibattito; di recente è uscito un altro libro molto significativo, Les âmes tiedes – Le Vatican face à la Shoah di Nina Valbosquet (La Decouverte, Paris, 2024 ancora non tradotto in italiano).
A partire dallo scandalo del Vicario. un’opera teatrale scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth nel 1963 in cui si accusava direttamente Pio XII di essere stato il “papa di Hitler”, la questione del rapporto del mondo cristiano con il genocidio nazista è stata molto personalizzata sulla figura di questo papa. Tale focalizzazione è certamente giustificata dal fatto che la Chiesa cattolica ottant’anni fa, ancor più di oggi, era un organismo verticistico controllato in maniera assoluta dal papa regnante e Pacelli, dopo essere stato nunzio apostolico in Germania fra il 1917 e il 1929, durante gli anni cioè in cui si formò il partito nazista, e segretario di Stato (cioè ministro degli esteri del Vaticano) negli anni della sua affermazione (dal ‘29 al ‘39) regnò dal marzo del 1939 a ottobre del 1958, cioè per l’intero periodo del genocidio e per gli anni successivi.
I documenti emersi dagli archivi mostrano che ci fu certamente una linea politica precisa, decisa da lui, di “neutralità assoluta” rispetto al nazismo e dunque di sostanziale silenzio sulla Shoah, su cui aveva informazioni precise e aggiornate. Ma fanno vedere anche che queste scelte erano solo il vertice di un atteggiamento generale largamente condiviso della Chiesa, anzi delle chiese cristiane.
Per capire questo atteggiamento è necessario richiamare prima almeno sommariamente una storia lunga e complessa di rapporti fra cristianesimo ed ebraismo.

Un rapporto in quattro fasi
  Si possono distinguere quattro momenti. Nei primissimi anni dopo la predicazione evangelica, i cristiani erano ancora prevalentemente ebrei, un gruppo che scelse di non partecipare alla lotta disperata del popolo ebraico contro i Romani, scagionandoli dalla morte di Gesù da loro decisa ed eseguita, per attribuirne la colpa al popolo ebraico.
I Vangeli e gli altri documenti delle Scritture cristiane portano la traccia di questa separazione, che ebbe aspetti molto polemici da entrambe le parti.
La polemica cristiana contro gli ebrei non si placò nei secoli successivi e determinò conseguenze giuridiche a partire dal IV secolo, quando l’impero romano si cristianizzò.
In questa seconda fase si formò la politica fondamentale della Chiesa nei confronti degli ebrei: non sterminarli direttamente, dato che testimoniavano la verità del cristianesimo con il loro “Antico Testamento”, pur senza accettarla; tenerli invece in uno stato di soggezione, di miseria e di umiliazione estrema per punirli della loro “miscredenza” e incoraggiarne la conversione.
Le stragi però avvennero e divennero sempre più frequenti nella terza fase, a partire dalle crociate, insieme alle espulsioni, alla reclusione nei ghetti, alle distruzioni di intere comunità, ai roghi di libri e spesso di esseri umani, alle accuse grottesche di usare il sangue umano per la confezione del pane azzimo, di avvelenare i pozzi, di spargere le epidemie. Alcuni di questi crimini atroci non furono approvati dai vertici della Chiesa e dai sovrani cristiani, tanto erano inumani e pretestuosi. Ma il fondamento di questa incessante persecuzione era religioso ed essa fu sempre incoraggiata dalla predicazione di frati, vescovi, preti e da un’incessante opera di propaganda nelle Chiese, nelle opere d’arte, negli scritti. L’odio per gli ebrei fu diffuso anche dalle più grandi personalità religiose cattoliche e poi, dopo il Cinquecento, anche dai riformati, a partire da Martin Lutero.
La scia di sangue delle persecuzioni dell’antisemitismo religioso si spense progressivamente con la perdita del potere clericale, a partire dalla Rivoluzione francese. Ma l’impronta dell’odio per gli ebrei non sparì dalla cultura cristiana, anzi si approfondì con la quarta fase iniziata nell’Ottocento. La Chiesa ora rimproverava in particolare agli ebrei l’affermazione della modernità, del liberalismo, della libertà politica e religiosa, della massoneria, in seguito del socialismo e del “bolscevismo”, che percepiva come suoi nemici mortali.
La civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti fondata nel 1850 che fu da subito l’organo ufficioso della Santa Sede, condusse per decenni un’intensa campagna antiebraica su temi politico-sociali ancor più che religiosi, rimproverando agli ebrei tutti i mali del mondo moderno.

Due casi: Mortara e Dreyfus
  Due eventi clamorosi confermarono questa posizione. Il primo fu il “caso Mortara”, il sequestro nel 1858 da parte dei gendarmi vaticani di un bambino ebreo di Bologna, che una domestica licenziata asseriva di aver battezzato clandestinamente e che non fu riconsegnato alla famiglia nonostante una grande mobilitazione in tutt’Europa. Il secondo, ancora più aspro, fu il caso Dreyfus, la falsa accusa di tradimento a un ufficiale francese che aveva il torto di essere fra i primissimi ebrei arrivati allo Stato Maggiore. In entrambi i casi la stampa e la gerarchia cattolica si impegnarono con tutte le loro forze contro “le pretese degli ebrei”.
Nascevano nel frattempo, da una matrice clericale, numerosi movimenti esplicitamente antisemiti, per esempio in Francia l’Action française e in Austria il Partito Cristiano Sociale di Karl Luger, che divenne sindaco di Vienna e fu preso come modello per il suo antisemitismo non solo dai nazisti, ma anche dal padre fondatore della Democrazia Cristiana italiana Alcide De Gasperi, come racconta un libro recente dello storico milanese Augusto Sartorelli, (L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen, 2024).
Questo è lo sfondo su cui va letto l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla Shoah: un profondo e diffuso sospetto, venato di disprezzo, per gli ebrei, per le loro “colpe” teologiche (il “deicidio”) ma anche perché protagonisti della modernità che la Chiesa combatteva. La Chiesa non rifiutava un “antisemitismo moderato” (per “la difesa dell’interesse dei popoli” e della “religione”) ma era contraria al razzismo antisemita, che faceva dell’appartenenza al popolo ebraico una colpa genetica incancellabile. Pensava che il battesimo potesse lavare questa appartenenza e quindi si impegnò a difendere soprattutto quelli che chiamava “cattolici non ariani” (una definizione eufemistica di per sé razzista), cercando di sottrarli alla persecuzione nazista, peraltro spesso senza riuscirci. Il libro di Nina Valbosquet racconta molte di queste storie, per esempio quella dei 3000 visti concessi dal Brasile “per omaggio al papa” a ebrei convertiti, che poterono essere utilizzati solo in parte, per le resistenze burocratiche in Brasile e nei paesi di passaggio e per la decisione nazista di bloccare ogni uscita dalla Germania e dai paesi occupati a partire dall’ottobre del 1941. Quanto agli altri ebrei, rimasti tali, vi furono degli interventi cattolici di soccorso economico e in certi casi di rifugio, ma essi vennero prevalentemente dalla periferia dell’istituzione ecclesiastica, da singoli vescovi, conventi di frati e di suore, religiosi di buona volontà.
Il Vaticano accettò alcune proposte di donazione di fondi, soprattutto di provenienza americana, da distribuire ai perseguitati “senza discriminazione di appartenenza religiosa”, ma badò bene a non farsi coinvolgere troppo in queste iniziative e soprattutto di rispettare le norme stabilite dagli Stati antisemiti. Nei luoghi in cui aveva molta influenza, come la Slovacchia governata da un prete, Monsignor Tiso, o la Croazia degli ustascia su cui l’arcivescovo Viktor Stepinac aveva grande autorità, o anche l’Italia fascista, i documenti ora consultabili mostrano che il Vaticano non condannò la legislazione antiebraica o le deportazioni, ma chiese per via diplomatica che esse fossero applicate con clemenza; la sola opposizione esplicita, ma pur sempre assai prudente, riguardò lì come altrove i domini che la Chiesa considerava di sua esclusiva competenza, come i matrimoni misti e la loro prole o gli ebrei convertiti.
Sul piano delle prese di posizioni ufficiali e pubbliche, Pio XII mantenne il silenzio, evitando ogni intervento anche indiretto, salvo che in due occasioni: un discorso riservato al collegio cardinalizio del giugno del 1942 e il messaggio natalizio del 1942, in cui il papa, dopo una ventina di pagine di testo dedicato ai più vari problemi e avendo appena nominato caduti in guerra, loro vedove e orfani, popolazioni esiliate, vittime dei bombardamenti e altri danni bellici, faceva un accenno piuttosto vago: “Questo voto [di “non darsi riposo, finché … divenga legione la schiera di coloro, che … anelano al servizio della persona e della sua comunanza nobilitata in Dio”] l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”.
Il Vaticano, invitato a farlo, rifiutò categoricamente di sottoscrivere la dichiarazione interalleata del 17 dicembre 1942 di denuncia dello sterminio ebraico operato dai nazisti, formulata dai governi delle Nazioni Unite.
Si è sostenuto che il papa rifiutasse di intervenire non solo per la scelta esplicita di mantenere la neutralità della Santa Sede, esattamente “come nella prima guerra mondiale”, ma anche perché non aveva informazioni sufficienti sulla Shoah. I documenti fanno giustizia di questa scusa. In Vaticano arrivarono fin dal 1939 relazioni dettagliate, anche di fonti vescovili, sulla prima fase della “Shoah dei proiettili” in Polonia e in Ucraina e da allora non cessarono di giungere testimonianze e relazioni continue e ben accreditate di testimoni sulle diverse fasi del genocidio, insieme a numerose richieste di aiuto. Insomma, il Vaticano sapeva. Valbosquet ha notato che nelle carte si trovano spesso commenti che invitano a diffidare da questi appelli perché “si sa, gli ebrei esagerano sempre”.
Anche quando la persecuzione degli ebrei raggiunse le soglie del Vaticano, con il rastrellamento di Roma del 16 ottobre del 1943, non vi fu una presa di posizione pubblica del Papa, che è per ufficio anche il vescovo di Roma, ma solo cauti contatti verbali con l’ambasciatore tedesco, soprattutto allo scopo di ottenere il rilascio dei “cattolici non ariani”. Il papa continuò a non parlare contro i nazisti anche dopo la liberazione di Roma. In quel momento, quando sotto la spinta degli alleati il governo Badoglio stava decidendo di abolire le leggi razziste, il gesuita Pietro Tacchi Venturi, che era stato l’intermediario preferito del Vaticano col fascismo, fu mandato al ministero degli Interni allo scopo di difendere “una legge la quale, secondo i princìpi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e sui matrimoni misti, ndr), ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”.
L’ultimo atto di questa storia fu la difficile disputa per recuperare i bambini ebrei rifugiati senza genitori in istituzioni cattoliche, che il Vaticano non voleva riconsegnare alle famiglie – salvo esservi obbligato dalla magistratura.
Com’è noto, ci volle il Concilio Vaticano II, la dichiarazione Nostra Aetate (approvata nel 1965, vent’anni dopo la caduta del nazismo) perché apparisse superato l’antigiudaismo cristiano. La prima visita di un papa in sinagoga che compì Giovanni Paolo II nel 1986 e il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede nel 1993 (ultima degli Stati europei) diedero l’impressione che l’“odio antico” fosse stato finalmente superato. Sembrava potersi aprire allora una fase straordinaria di dialogo e di amicizia.
Oggi queste realizzazioni non appaiono annullate, ma certamente congelate, bloccate da una volontà anti-israeliana che si esprime in molti gesti, dall’evocazione nell’ultimo libro del Papa di un possibile “genocidio” che potrebbe essere stato commesso da Israele a Gaza, alla presentazione solenne in Vaticano di un presepe in cui Gesù bambino appare avvolto in una kefiah, accreditando la falsità storica della propaganda palestinese. È difficile dire oggi se si tratti solo di una mossa politica o del riemergere di una tendenza quasi bimillenaria al rifiuto cristiano per gli ebrei. Ma certamente essa obbliga a ripensare a quel che la Chiesa ha fatto (e non ha fatto) durante la Shoah e a collocare quella fase, e l’attuale, nei tempi lunghi di un’inimicizia millenaria.

(Bet Magazine Mosaico, 1 gennaio 2025)

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Politica e sport: atleti israeliani esclusi dal World Bowls Tour

di Nicole Nahum

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Il confine tra politica e sport, già spesso sottile, si è ulteriormente ridotto nei giorni scorsi, con la decisione del World Bowls Tour (WBT), uno dei principali tornei nella famiglia delle bocce, di escludere tre atleti israeliani dai Campionati Mondiali Indoor di Norfolk, in programma per gennaio 2025. Daniel Alomin, Amnon Amar e Itai Rigbi non potranno partecipare a questo prestigioso evento, vittime di una crescente pressione politica scatenata dalle proteste contro un altro atleta israeliano, Shalom Ben-Ami, durante l’International Open di Scozia dello scorso novembre. Sebbene Ben-Ami non abbia partecipato alla competizione per motivi tecnici, le manifestazioni contro la sua presenza hanno messo sotto pressione gli organizzatori, portando alla decisione di escludere gli atleti israeliani da ulteriori eventi.
  Il WBT ha giustificato l’esclusione dei tre atleti israeliani come una necessità per preservare l’integrità e la serenità dell’evento. Gli organizzatori hanno spiegato che l’aumento delle proteste e le difficoltà nell’assicurare un ambiente sereno avevano reso impossibile garantire il buon svolgimento della competizione. “Il bowls è uno sport che unisce le persone”, hanno sottolineato, facendo leva sul valore di inclusività che contraddistingue questa disciplina. Tuttavia, questa decisione ben si allontana dai valori espressi ed è stata accolta con una reazione di sdegno da parte di molti osservatori e figure pubbliche, che hanno visto in essa un cedimento alle pressioni politiche.
  Il deputato britannico Rupert Lowe ha condannato aspramente questa esclusione, accusando gli organizzatori di “cedere alla follia” della protesta politica. “Lo sport dovrebbe essere unificante, e dovrebbe essere al di sopra della politica” – ha affermato Lowe – , promettendo di lottare contro quella che ha definito una “decisione scandalosa”. Le sue parole non sono state le sole a sollevare preoccupazioni: anche la Campagna contro l’Antisemitismo ha denunciato l’esclusione, accusando il WBT di assecondare una “folla anti-Israele” e di aver violato i principi fondamentali dello sport, che dovrebbe valutare gli atleti per le loro capacità e non per la loro nazionalità. “Lo sport non dovrebbe fare discriminazioni”, hanno dichiarato i rappresentanti dell’organizzazione, evidenziando la nascita di un possibile precedente pericoloso.
  Zvika Hadar, presidente della Professional Bowlers Association (PBA) Israel, ha messo in evidenza che Israele è stato uno dei membri fondatori del WBT, sottolineando che questa esclusione potrebbe avere conseguenze più ampie per il futuro. Hadar ha dichiarato che l’intera comunità del bowls in Israele è “molto arrabbiata” e preoccupata che questa decisione possa aprire la strada ad altre esclusioni. La sua denuncia è quella di una “civiltà sportiva” che sta crollando sotto il peso di pressioni politiche, dove l’esclusione di atleti da una competizione internazionale diventa una vittoria per chi cerca di strumentalizzare lo sport a fini ideologici.
  Se lo sport diventa il campo di battaglia per le tensioni geopolitiche, la sua capacità di unire e promuovere valori universali rischia di essere compromessa, aprendo la porta a pericolosi precedenti che potrebbero minare la sua stessa natura. In un contesto globale sempre più polarizzato, è fondamentale che il movimento sportivo riaffermi il suo impegno verso l’inclusività e l’equità, proteggendo gli atleti dalle strumentalizzazioni politiche e garantendo che lo sport rimanga un terreno di competizione giusta e rispettosa nei confronti di tutti.

(Shalom, 1 gennaio 2025)

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Ennesimo attacco degli Houthi contro Israele

di Anna Balestrieri

GERUSALEMME - Nella notte tra il 30 e il 31 dicembre 2024, i ribelli Houthi dello Yemen hanno lanciato un missile balistico diretto verso il centro di Israele. L’attacco ha attivato le sirene d’allarme in diverse città, inclusa Tel Aviv, costringendo i residenti a rifugiarsi nei bunker. Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno intercettato con successo il missile, grazie al sistema avanzato di difesa Iron Dome, evitando vittime o danni materiali significativi.

• Contesto del conflitto
   Questo attacco si inserisce in una serie di aggressioni simili condotte dagli Houthi contro Israele. I ribelli, sostenuti dall’Iran, hanno dichiarato di voler continuare gli attacchi finché Israele non accetterà un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. In risposta alle azioni precedenti, Israele ha già condotto raid aerei mirati nello Yemen, colpendo infrastrutture considerate cruciali per le operazioni militari degli Houthi.

• La risposta israeliana
   Durante una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’ambasciatore israeliano ha avvertito che gli Houthi rischiano di subire lo stesso destino di Hamas e Hezbollah se continueranno le loro provocazioni. Israele ha sottolineato la sua politica di non tollerare attacchi contro i propri cittadini, riaffermando il diritto di difesa preventiva.

• Rischi di escalation
   Gli esperti avvertono che la situazione potrebbe degenerare rapidamente. L’Iran, principale sostenitore degli Houthi, potrebbe intensificare il suo coinvolgimento, portando a un’escalation che coinvolgerebbe l’intera regione. La comunità internazionale ha lanciato appelli alla moderazione, ma finora le prospettive di una soluzione diplomatica sembrano remote.
  L’attacco evidenzia ancora una volta la crescente complessità delle dinamiche di sicurezza in Medio Oriente e il ruolo delle alleanze regionali nel plasmare le tensioni.

(Bet Magazine Mosaico, 31 dicembre 2024)

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Il lungo anno della demonizzazione di Israele

di Niram Ferretti

Nel suo opus magnum, A Lethal obsession, Antisemitism from Antiquity to the Global Jihad, Robert Wistrich scriveva, “Contrariamente alla prognosi sionista, l’antisemitismo non si è dissolto o è significativamente diminuito, figuriamoci scomparso, dopo il venire in essere di Israele nel 1948. Al contrario, Israele è emerso gradualmente come la ‘nuova questione ebraica’”.
  Ciò che il grande storico inglese individuava con precisione ha, dopo il 7 ottobre 2023, raggiunto un apice mai sperimentato precedentemente. La reazione di Israele alla più grande tragedia collettiva dall’anno della sua fondazione, la guerra contro un gruppo jihadista tra i più brutali al mondo, reazione logica e totalmente giustificata, si è ben presto trasformata in una feroce, fanatica e parossistica demonizzazione.
  Con perversa e diabolica determinazione, la vittima è stata trasformata in colpevole e i colpevoli in vittime, la volontà genocida di Hamas, di cui il 7 ottobre ha rappresentato una anticipazione, è stata rimossa dalla scena per incolpare Israele stesso di genocidio, la reazione inevitabile di Israele alla micidiale e atroce aggressione subita è diventata vendetta, gli inevitabili morti civili, presenti in ogni guerra, sono diventati tutti omicidi intenzionali, e via di questo passo.
  Tutto ciò è avvenuto su un terreno a lungo arato, come sa chiunque abbia seguito da vicino le vicende di Israele dal 1967 ad oggi, anno della Guerra dei Sei Giorni che, nell’intenzione di Nasser, avrebbe dovuto essere guerra di sterminio e invece si rivelò una cocente disfatta araba. Da allora, e per quasi sessant’anni gli arabi, appoggiati dall’Unione Sovietica e poi, progressivamente, allargando il loro consenso nel campo della sinistra conquistata dalla propaganda russa che presentava Israele come un avamposto colonialista e i palestinesi arabi come un popolo espropriato e vittimizzato, hanno proseguito indefessamente l’opera di distruzione in effige dello Stato ebraico. Quest’opera, con l’aggiunta di un pericolo concreto di distruzione nucleare, ha trovato successivamente nell’Iran un solerte collaboratore.
  Ma non si tratta solo di questo, oggi, su Il Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia, ha illustrato magistralmente come l”Occidente ormai stanco di se stesso, delle sue radici, del suo passato, sia anche, inevitabilmente stanco anche degli ebrei, di ciò che essi hanno rappresentato per secoli per la cultura occidentale, e ritenga di avere ormai saldato il conto con l’orrore della Shoah, spostando la sua attenzione su altre vittime, che oggi sarebbero diventati gli arabi palestinesi, vittime proprio di coloro che per generazioni sono stati le vittime per eccellenza.
  Questo contesto, crea cortocircuiti micidiali, ripulse e avversioni e gli ebrei di nuovo, attraverso Israele, vengono riconosciuti colpevoli, colpevoli del loro Stato, colpevoli di averne permesso la nascita, colpevoli di immaginari genocidi dopo essere stati accusati per duemila anni di avere ucciso Cristo, e forse, presto, di nuovo, colpevoli di esistere.
  La guerra più lunga di Israele, una guerra ancora in corso, ha dunque scaturito l’eruzione maggiore di odio nei suoi confronti e di riflesso di odio per gli ebrei, dalla fine della Seconda guerra mondiale ai nostri giorni. L’unica risposta a questo odio, la quale, paradossalmente, lo fomenta, è quella che Israele può permettersi di esercitare attraverso quell’uso della forza che sempre l’Occidente passivo e non reattivo, ha deciso di ripudiare, cullandosi nell’illusione che la guerra sia una cosa del passato, inconcepibile con l’idea delle magnifiche sorti e progressive che esso ritiene di incarnare.
  Israele, il demonio Israele, è dunque tutto quello che l’Occidente non vuole più essere, avendo scelto di alimentarsi con i bizantinismi crepuscolari del wokismo, della gender theory, del fluidismo, dell’ecologismo palingenetico, ecc., trastulli tipici di una civiltà tracollante, e per il quale, uno Stato fortemente nazionalista che mantiene salda la propria identità difendendosi dalla violenza del suprematismo islamico, è una aberrazione
  Alla fine dei discorsi, tuttavia, solo portando a casa la vittoria, che si ottiene come si è sempre ottenuta, con la supremazia della forza, e ridisegnando un Medio Oriente purgato da forze omicide e realmente programmaticamente genocide, Israele può fare fronte all’offensiva micidiale di chi sperava e spera nella sua capitolazione, combattendo anche per quell’Occidente che lo ha generato e che, con l’eccezione degli Stati Uniti, lo ripudia.

(L'informale, 31 dicembre 2024)

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Anche il Colosseo si illumina con la luce della chanukkià

di Ioel Roccas

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L’accensione delle candele di Chanukkà a Roma non è una semplice ricorrenza. È un evento che vede impegnate diverse realtà cittadine. Dalla Comunità Ebraica di Roma al Comune passando per il Movimento Chabad Lubavitch.
  Anche quest’anno un luogo simbolo della storia di Roma si è accesa la sesta candela della Chanukkià, il Colosseo. Il candelabro è stato posizionato a ridosso dell’Arco di Tito, uno dei luoghi di memoria storica e testimone dell’avvio della Diaspora ebraica. Questo monumento, già testimone di uno dei momenti più tristi della storia ebraica, ha sentito riecheggiare le berachot che anticipano l’accensione, alla presenza di quasi 200 persone.
  Sono intervenuti Rav Hazan, Alessandra Sermoneta, vice presidente I Municipio, Riccardo Pacifici, Presidente European Jewish Association. L’accensione è stata dedicata alla memoria di Giorgio Lazar, scomparso un anno fa.
  Lo svolgimento dell’evento è stato reso possibile grazie alla collaborazione del I Municipio, del Parco del Colosseo e della Questura.
  Terminato l’evento Rav Menachem Lazar, organizzatore dell’accensione per il movimento Chabad, ha dichiarato: “Per il quarto anno la Chanukkià ha illuminato il Colosseo proprio sulla Via Sacra, dove 2000 anni fa ci fu la marcia della vittoria dell’imperatore Tito dopo aver distrutto il Bet Hamikdash a Gerusalemme. Suo padre Vespasiano coniò la moneta Judea Capta, per celebrare la sconfitta degli ebrei, ma oggi quello che rimane dei Romani sono le pietre, mentre il popolo eterno è ancora qui a celebrare Chanukkà”.
  Nel corso dei secoli la cultura ebraica è diventata parte della cultura di Roma, come la sua comunità. Festeggiare insieme è necessario, oggi più che mai, accompagnati dalla consapevolezza che gli ebrei sono parte viva e integrante della città di Roma.

(Shalom, 31 dicembre 2024)

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Una nuova minaccia per Israele?

Ecco perché l’Egitto ha acquistato armi avanzate del valore di 5 miliardi di dollari

di David Zebuloni

A partire dal 7 ottobre, ovvero dal giorno in cui il governo di Abdel Fattah al-Sisi è diventato il mediatore ultimativo tra Israele e Hamas, pare che gli Stati Uniti e l’Egitto abbiano rafforzato le loro relazioni diplomatiche più di quanto abbiano mai fatto prima. Il Cairo è presto diventato un fedele alleato di Washington, nonostante in passato lo stesso governo americano abbia criticato duramente la politica egiziana circa alcune questioni umanitarie cruciali come quella dei diritti umani.
Questa settimana, la loro alleanza sembra aver raggiunto un nuovo livello. Gli Stati Uniti hanno infatti annunciato un importante accordo per la vendita di equipaggiamenti militari all’Egitto del valore di oltre 5 miliardi di dollari. Un accordo privo di precedenti che include delle armi avanzate destinate alla manutenzione e al potenziamento di 555 carri armati Abrams M1A1 per un valore di 4.69 miliardi di dollari, 2.138 missili Hellfire per un valore di 630 milioni di dollari e munizioni di precisione il cui valore è stimato in 30 milioni di dollari.
Una domanda sorge dunque spontanea e sembra preoccupare l’intero Medio Oriente: perché l’Egitto ha bisogno di così tante armi? A quale guerra si sta preparando? “Si tratta di un evento insolito, ma non nuovo”, spiega Yoel Guzansky, ricercatore senior e capo del programma del Golfo presso l’Istituto per la Ricerca sulla Sicurezza Nazionale (INSS) e fellow senior al Middle East Institute di Washington, in un’intervista a Makor Rishon.
“Il potenziamento delle forze armate egiziane dovrebbe assolutamente preoccupare Israele”, continua il ricercatore. “Negli ultimi anni lo Stato ebraico ha come distolto lo sguardo da questo insolito fatto e non gli ha dato, almeno pubblicamente, l’attenzione che merita. Tuttavia, come ha detto questa settimana l’ex ambasciatore al Cairo, David Govrin, non c’è dubbio che l’Egitto stia violando l’accordo militare del trattato di pace”.
In un’intervista pubblicata su Ynet questa settimana, l’ambasciatore uscente ha per l’appunto affermato che l’Egitto ha recentemente inviato un numero di forze armate nel Sinai maggiore rispetto a quanto concordato con Israele. E non è tutto. “L’Egitto si sta armando notevolmente e Israele deve assolutamente prendere in considerazione le sue nuove e notevoli capacità militari”, ha detto Govrin. “Come abbiamo imparato il 7 ottobre, non possiamo più fare affidamento alle intenzioni dei nostri vicini, poiché potrebbero cambiare da un momento all’altro”.
Guzansky conferma l’avvertimento dell’ormai ex ambasciatore. “Penso che Israele sbagli a non affrontare la questione”, aggiunge. “Ciò che l’Egitto sta facendo è una vera e propria violazione degli accordi del protocollo di sicurezza tra i due paesi”. Un fenomeno, come già detto, che suscita grande preoccupazione, nonostante Israele mantenga dei solidi rapporti di pace con l’Egitto da quattro decenni.
Infatti, dal 1979 ad oggi, l’accordo di pace firmato dal presidente egiziano Anwar Sadat, dal primo ministro israeliano Menachem Begin e dal presidente statunitense Jimmy Carter nei giardini della Casa Bianca, non ha mai mostrato segni di cedimento. “Il Medio Oriente è sempre più instabile e la pace con l’Egitto rappresenta per Israele una grande risorsa. Una risorsa che va protetta”, osserva il ricercatore.
“Israele non vuole ulteriori nemici”, sottolinea. “Le minacce che le arrivano da ogni fronte sono decisamente sufficienti, dunque decide di affidarsi alla pace garantita dagli Stati Uniti, il principale patrocinatore di questo accordo, ma con quale garanzia? Nessuna. Pertanto, io credo che l’attuale accordo tra Israele ed Egitto vada messo in discussione a favore di un nuovo accordo, meno ambiguo, che confermi il sodalizio tra i due Stati”.
L’immagine sembra schiarirsi, ma una domanda rimane irrisolta: perché l’esercito egiziano ha bisogno di tante armi? Contro chi deve (o vuole) combattere? “Non contro Israele, mi auguro”, risponde Guzansky. “Alcuni ricercatori esperti sostengono che queste armi siano in realtà destinate al rafforzamento dell’immagine dell’esercito egiziano, e nulla di più”. In altre parole, le armi in questione non sono necessariamente destinate a fronteggiare una minaccia militare specifica, ma a mantenere solamente la propria posizione di potere.
“Nonostante l’Egitto non abbia dei nemici dichiarati, vi sono comunque alcune minacce che il paese deve affrontare”, afferma Guzansky. “C’è instabilità in Libia, ci sono gli etiopi che si ribellano all’attuale gestione delle risorse idriche, c’è la Turchia che sta rafforzando la sua presenza nel Mediterraneo. Ecco, forse dal punto di vista israeliano è difficile capirlo, ma è possibile che secondo la percezione egiziana  le armi americane servano a mantenere il loro status nella regione e rispondere ad eventuali guerre future”.
Come dice il proverbio: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. In un Medio Oriente che cambia a vista d’occhio, è certamente il caso che Israele tenga d’occhio anche l’allarmante fenomeno che vede coinvolto un paese amico. Amico, almeno per ora.

(Bet Magazine Mosaico, 30 dicembre 2024)

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Diario minimo (di un conflitto). Demografia milionaria

di Luciano Assin

Sta avvenendo un po' in sordina, vista la difficile situazione che sta affrontando il paese, ma il dato in questione è sicuramente uno dei pochi punti di luce dal 7 ottobre in poi. Israele ha oltrepassato l’asticella dei 10 milioni di abitanti, attualmente lo Stato ebraico ha più abitanti della Svizzera, l’Austria, l’Ungheria e la Bielorussia, diventando così un paese di medie dimensioni rispetto alla media europea. I numeri sono impressionanti, soprattutto se parliamo di un paese con uno stile di vita occidentale: dagli 872mila abitanti che aveva il paese nel 1948, anno della sua fondazione, Israele è cresciuto di milione in milione mediamente ogni 9 anni, dal 2006 la media si è accorciata ed ogni 5-6 anni il paese aggiunge un’altra tacca.
E non è soltanto una questione legata al settore religioso, che tradizionalmente fa più figli, come si potrebbe pensare a prima vista. Anche a Tel Aviv, città laica ed edonista per eccellenza, gli israeliani ci danno dentro e sfornano in media più di 2 figli per donna. Un altro dato notevole è la drastica diminuzione di natalità nel settore arabo, 2,91 per donna, praticamente la metà rispetto a 50 anni fa.
Al di là dei numeri questi dati forniscono una fotografia abbastanza fedele di quello che Israele prima della guerra: un paese ottimista, pieno di voglia di vivere e di energie positive con rosee prospettive per il suo futuro.
La guerra in corso ha sicuramente rimescolato le carte cambiando le priorità politiche e quotidiane, ma non penso che possa influenzare in maniera drastica la voglia di vivere degli israeliani e di conseguenza lo sviluppo demografico del paese.
La grossa sfida riguardo allo sviluppo demografico riguarda invece la gestione del territorio: il 40 percento della popolazione è concentrata a Tel Aviv e dintorni. La “collina della primavera” ha una densità di 8.673 abitanti per kmq, mille in più di quanto ne abbia Milano tanto per intenderci, e questo dato trasforma tutto il centro nevralgico del paese in una zona con un traffico perennemente congestionato sempre sull’orlo del collasso.
Il sogno visionario di Ben Gurion di far rifiorire il deserto si è avverato solo in parte, ed il deserto del Negev, che corrisponde ad oltre del 50% del paese dovrà obbligatoriamente diventare la nuova frontiera dove indirizzare le energie economiche e le risorse umane necessarie.
Come ho scritto in apertura, la notizia in questione è in definitiva un piccolo barlume di luce, ma visto che siamo nel bel mezzo della festività ebraica di Hannukà il seguente brano di una delle più popolari canzoni della “festa delle luci” è più che mai appropriato: “ognuno di noi è una piccola fiammella, ma tutti insieme siamo una grande luce”.
Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Tutto questo senza che la Croce Rossa Internazionale abbia avuto la possibilità di controllarne la loro situazione di salute in barba a qualsiasi regola umanitaria. Né Ginevra né le varie ONG umanitarie hanno avuto il coraggio etico e morale di ammettere la loro negligenza. Anche il fallimentare governo israeliano è complice di questa situazione.Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi. 

(Bet Magazine Mosaico, 30 dicembre 2024)

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Nemico giurato di Israele

di David Elber

Ieri si è spento alla veneranda età di 100 anni l’ex presidente americano Jimmy Carter. Indubbiamente la sua fama – che gli è valsa anche un premio Nobel per la pace – è legata al trattato di pace che mediò tra Israele e l’Egitto di Sadat. Questo fu il primo accordo tra uno Stato arabo e lo Stato ebraico.
  Un risultato senza dubbi epocale che aprì la porta al trattato di pace con la Giordania, agli accordi di Oslo e ai più recenti accordi di Abramo. Tuttavia, se si analizzano più da vicino questi “accordi di pace” ci si accorge che hanno un unico filo comune: Israele è sempre stato l’unico soggetto ad avere fatto delle concessioni alla controparte di turno per arrivare all’accordo, nonostante sia sempre stato aggredito e vincente sul campo di battaglia. Unico caso al mondo. Questa prassi politica venne inaugurata da Jimmy Carter.
  A Camp David, nel 1978, fin dalla prime battute degli incontri bilaterali e trilaterali tra il premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat e il presidente americano Carter, fu evidente che la posizione di Israele risultava essere di debolezza e ogni sua richiesta veniva vista dal presidente americano come una posizione “intransigente”. Ogni punto di maggior attrito e difficoltà veniva gestito da Carter, non come mediatore super partes, ma assecondando le posizioni egiziane come se fosse stato Israele ad aggredire l’Egitto e ad avere perso la guerra. In pratica, Israele, il vincitore delle guerre nonché l’aggredito dovette fare tutta una serie di concessioni territoriali e politiche, cosa che normalmente è richiesto allo sconfitto, in cambio del suo mero riconoscimento e di una pace di fatto imposta. Gli egiziani avevano anche chiesto delle riparazioni per danni di guerra, per una guerra che loro stessi avevano causato. Almeno su questo punto gli americani si opposero, fu l’unico risultato tangibile ottenuto da Begin. Da allora questa politica è diventata una costante: ad Israele venne affibbiato il ruolo del soggetto che nelle diverse trattative doveva cedere qualcosa in cambio di nulla. Oltre a questo, l’Amministrazione Carter si mise in luce per essere stata quella che inventò il mito degli “insediamenti che violano il diritto internazionale”. Tale tesi fu confezionata per il presidente Carter dal giurista Herbert Hansell e applicata unicamente a Israele e a nessun altro Stato del mondo. https://www.linformale.eu/allorigine-del-mito-dei-territori-occupati/Va, inoltre, ricordato che Carter fu il primo presidente USA che utilizzò il Consiglio di Sicurezza come strumento politico per delegittimare Israele con una serie di risoluzioni di forte condanna dello Stato ebraico.
  Il vistoso successo politico ottenuto non consentì a Carter di essere rieletto nel 1980. La presa di potere in Iran, nel 1979, da parte di Khomeini e la susseguente cattura degli ostaggi americani e la debolissima risposta dell’amministrazione americana fu fatale per la sua rielezione.
  La politica conciliatoria di Carter inaugurò la stagione “dell’appeasement” nei confronti dei peggiori dittatori del Medio Oriente, ereditata poi soprattutto dalle amministrazioni democratiche. Nel solco di questa politica si è mosso Barack Obama prima e Joe Biden successivamente.
  L’acredine di Carter nei confronti di Israele non è cessata con il suo ritiro dalla politica attiva. Anzi, nel corso dei decenni è aumentata fino a diventare un’autentica ossessione. L’acme lo raggiunse con la pubblicazione del suo libro “Palestine: Peace not Apartheid”, un coacervo di falsità, errori grossolani e infamanti calunnie rivolte allo Stato ebraico. Un autentico libello del sangue che ha inaugurato, assieme alla Conferenza di Durban del 2001, una furibonda delegittimazione di Israele la quale ha lastricato la strada per tutto l’insieme di accuse che formano oggi la sua demonizzazione.

(L'informale, 30 dicembre 2024)
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A integrazione di questa presentazione di Jimmy Carter, ripresentiamo in altra forma grafica un articolo di "Notizie su Israele" del 16 dicembre 2003.

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Il giorno in cui Jimmy Carter fu messo a tacere

Il testo che segue è il commovente resoconto, fatto da un testimone oculare, di un incontro avvenuto nel 1977 alla Casa Bianca tra Menachem Begin e Jimmy Carter. L’autore, Yehuda Avner, è stato ambasciatore di Israele nel Regno Unito e consigliere di quattro primi ministri israeliani, tra cui Menachem Begin. L'articolo è apparso la prima volta nel settembre scorso [2003] sul "Jerusalem Post", e nella presentazione che abbiamo letto su un altro sito si dice: “Come tutti i ministri israeliani da Ben Gurion a Shamir, e contrariamente a quelli che sono venuti dopo, Menachem Begin aveva fede, visione strategica, spina dorsale di fronte alle pressioni, e una politica ispirata a principi di lungo respiro invece che una tattica guidata da immediate e gratificanti convenienze". NsI

di Yehuda Avner

Jimmy Carter, il coltivatore di noccioline, dirigeva in modo austero la Casa Bianca. Coerente con le sue radicate convinzioni calviniste, si era immedesimato nel ruolo di cittadino-presidente. Aveva abolito il Saluto al Presidente, ridotto nettamente il budget per i ricevimenti, venduto lo yacht presidenziale, sfoltito la flotta di limousine, e, in generale, teneva lontano dal suo palazzo ogni tipo di frivolezze e pretenziosità. Si portava sempre da solo la borsa.
    Così, quando nel luglio 1977 accolse alla Casa Bianca il Primo Ministro Menachem Begin con una vistosa, regale cerimonia, con 19 colpi a salve di saluto, una sfilata di tutte le forze armate e una coreografica parata di pifferi della “Army Old Guard Fife” e di tamburi dei “Drum Corps” nella livrea bianca dell’Esercito Rivoluzionario, i media si chiesero a ragione se questa gentilezza era oro puro o semplice adulazione. L’ambasciatore americano Samuel Lewis pensava che ci fosse un po’ di entrambe le cose: “Il presidente è convinto che da Begin si otterrà qualcosa di più con il miele che con l’aceto”, disse.
    I colloqui infatti ebbero un discreto avvio. I due leader e i loro consiglieri si scambiarono i punti di vista su questioni cruciali come la pace israelo-araba, l’illegittima azione sovietica nel Corno d’Africa, la minaccia dell’OLP nel sud del Libano.
    Poi ci fu la pausa. Il presidente e il premier sorseggiavano il caffè in silenzio, studiandosi a vicenda come per tacito consenso, in preparazione di quello che sarebbe avvenuto dopo.
    E quello che avvenne dopo fu una presentazione estremamente dettagliata del credo del Likud sui diritti inalienabili del popolo ebraico su Eretz Israel.
    Essendo quello il primo summit tra un premier del Likud e un presidente americano, Menachem Begin era deciso a far sì che Jimmy Carter ascoltasse con le sue orecchie la voce di quello che lui rappresentava. Il Segretario di Stato, Cyrus Vance, una persona di solito molto tranquilla, cominciò ad agitarsi un po’ quando sentì dire che Israele non avrebbe rinunciato né alla Giudea, né alla Samaria, né alla striscia di Gaza. Obiettò che questo avrebbe vanificato tutti i piani di pace per la conferenza di Ginevra. E anche il presidente pensava la stessa cosa.
    Carter indossò la maschera dell’educazione e rimase immobile ad osservare i suoi appunti scritti in ordinata calligrafia, vincolato alla sua responsabilità di inquilino della Casa Bianca. Ma dalle sue mascelle serrate si poteva capire che tratteneva l’irritazione. Nel suo acuto accento georgiano dopo poco disse: “Signor Primo Ministro, la mia impressione è che la sua insistenza sui vostri diritti in Cisgiordania e a Gaza potrebbe essere interpretata come un indizio di mala fede. Potrebbe essere un’evidente manifestazione della vostra volontà di rendere permanente l’occupazione militare di quelle aree. Questo farebbe cadere ogni speranza di trattative. Sarebbe incompatibile con le mie responsabilità di Presidente degli Stati Uniti se non glielo dicessi nel modo più chiaro e schietto possibile. Signor Begin,” gridò con un’esasperazione che accendeva i suoi azzurri occhi di ghiaccio, “non ci può essere nessuna occupazione militare permanente di quei territori conquistati con la forza.”
    Noi funzionari israeliani, seduti attorno alla tavola delle conferenze nella Sala del Consiglio dove si teneva la riunione, ci scambiavamo sguardi con la coda dell’occhio. Ma Begin si era ben preparato a quell’incontro con il Presidente del post-Watergate e del rinnovamento morale: Carter, il predicatore con tendenza all’autogiustizia.
    Si appoggiò allo schienale, e con occhi ingannevolmente miti alzò lo sguardo sopra il capo del Presidente, fissando l’antico lampadario di bronzo che pendeva sulla grande tavola di quercia. Non stava per perdere le staffe. Sapeva che lui e il Presidente si muovevano su traiettorie differenti, e che il confronto sull’insediamento nella biblica Terra Promessa era senza sbocchi. Carter era un osso duro, come lui. Non si sarebbe piegato.
    Tuttavia, doveva fare qualcosa per persuadere quell’uomo pronto a giudicare, che pensava di avere il compito di raddrizzare le cose, quell’energico decisionista con la mente empirica di un ingegnere. Doveva cercare di convincerlo che lui voleva veramente e onestamente la pace, e che i territori non erano soltanto una questione di diritti storici, ma anche di sicurezza vitale.
    Così, quando tornò a posare lo sguardo su Carter il suo atteggiamento era grave e deciso.
    “Signor Presidente,” disse, “voglio dirle qualcosa di personale, non su di me, ma sulla mia generazione. Quello che lei ha udito poco fa riguardo ai diritti del popolo ebraico sulla Terra di Israele, a lei può sembrare accademico, teorico, perfino discutibile. Ma non alla mia generazione. Per la mia generazione di Ebrei, questi legami eterni sono verità irrefutabili e incontrovertibili, antiche come il tempo che è trascorso. Essi toccano il cuore stesso della nostra identità nazionale, perché noi siamo un’antica nazione che torna a casa. La nostra è come una generazione biblica di sofferenze e coraggio. Siamo la generazione della Distruzione e della Redenzione. Siamo la generazione che si è risollevata dall’abisso senza fondo dell’inferno.”
    La sua voce era magnetica, il suo tono profondo e pensoso, come se attingesse a generazioni di ricordi. L’ardore di quel linguaggio provocò l’intensa attenzione di tutta la tavola.
    “Eravamo un popolo senza speranza, signor Presidente. Siamo stati dissanguati, non una o due volte, ma per secoli e secoli, sempre di nuovo. Abbiamo perso un terzo del nostro popolo in una generazione: la mia. Un milione e mezzo di loro erano bambini: i nostri. Nessuno è venuto in nostro soccorso. Abbiamo sofferto e siamo morti da soli. Non abbiamo potuto fare niente. Ma adesso possiamo. Adesso possiamo difendere noi stessi.”
    Improvvisamente si alzò in piedi, con la faccia dura come l’acciaio.
    “Ho una carta,” disse con decisione. Un assistente aprì bruscamente una carta di un metro per due tra i due uomini. “Non c’è niente di speciale da dire su questa carta,” continuò Begin. “E’ una normale carta del nostro paese, che mostra la vecchia linea di armistizio che esisteva fino alla Guerra dei Sei Giorni, la cosiddetta Linea Verde.” Fece correre il dito lungo la vecchia frontiera che arrivava serpeggiando fino al centro del paese. “Come vede, i nostri cartografi militari hanno semplicemente indicato l’infinitesima misura di profondità difensiva che abbiamo avuto in questa guerra.”
    Si appoggiò sulla tavola e indicò la zona montagnosa colorata in marrone scuro che copriva il settore nord della carta. “I Siriani occupavano la cima di questi monti, signor Presidente. E noi eravamo in basso.” Il suo dito indicò le alture del Golan e si fermò poi sulla stretta striscia verde di sotto. “Questa è la valle di Hula. E’ larga appena 10 miglia. Dalla cima di queste montagne loro cannoneggiavano le nostre città e i nostri villaggi, giorno e notte.”
    Carter osservava, con la mano sotto il mento. L’indice del Primo Ministro si mosse verso sud, in direzione di Haifa. “La linea dell’armistizio è distante appena 20 miglia dalla nostra più grande città portuale”, disse. Poi arrivò a Netanya: “Qui il nostro paese si riduce ad un'esigua cintura larga meno di 10 miglia.”
    Il Presidente annuì. “Capisco,” disse.
    Begin però non era sicuro che lui capisse. Il suo dito tremava e la sua voce rimbombava: “Nove miglia, signor Presidente. Inconcepibile! Indifendibile!”
    Carter non fece alcun commento.
    Il dito di Begin si posò poi su Tel Aviv e cominciò a martellare la carta: “Qui vivono milioni di Ebrei, 12 miglia da un’indifendibile linea di armistizio. E qui, tra Haifa al nord e Ashkelon al sud” - il suo indice andava su e giù lungo la pianura costiera - “vivono i due terzi di tutta la nostra popolazione. E questa pianura costiera è così stretta che un’incursione di una colonna di carri armati potrebbe dividere in due il paese in pochi minuti. Perché chi tiene queste montagne” - e il suo dito picchiava sulle colline di Giudea e Samaria - “tiene in pugno la vena giugulare di Israele.”
    I suoi occhi scuri e attenti percorsero le facce impietrite dei potenti uomini che sedevano davanti a lui, e con la convinzione di uno che aveva dovuto lottare per ogni cosa che aveva ottenuto, dichiarò seccamente: “Signori, da queste linee non si torna indietro. Con un vicinato così crudele e spietato come il nostro, nessuna nazione può rendersi così vulnerabile e sopravvivere.”
    Carter si piegò in avanti per ispezionare meglio la carta, ma continuò a non dire niente. I suoi occhi erano indecifrabili come l’acqua.
    “Signor Presidente,” continuò Begin in un tono che non ammetteva repliche, “questa è la carta della nostra sicurezza nazionale, e uso questo termine senza enfasi e nel senso più letterale. E’ la carta della nostra sopravvivenza. La differenza tra il passato e il presente sta proprio qui: sopravvivenza. Oggi gli uomini del nostro popolo possono difendere le loro donne e i loro bambini. Nel passato non hanno potuto. Infatti, hanno dovuto consegnarli ai loro carnefici nazisti. Siamo stati terziati, signor Presidente.”
    Jimmy Carter alzò la testa: “Che significa questa parola, signor Primo Ministro?”
    “Terziati, non decimati. L’origine della parola ‘decimazione’ è uno su dieci. Quando una legione romana si rendeva colpevole di insubordinazione, uno su dieci veniva passato a fil di spada. Nel nostro caso è stato uno su tre: terziati!”
    Poi, con occhi umidi e voce risoluta, ostinata, pesando ogni parola, dichiarò: “Signori, io faccio un giuramento davanti a voi nel nome del Popolo Ebraico: QUESTO NON SUCCEDERÀ MAI PIÙ!” E si lasciò cadere sulla sedia.
    Strinse le labbra che cominciavano a tremare. Fissò la carta, lottando per trattenere le lacrime. Serrò i pugni e li premette così forte contro la tavola che le sue nocche diventarono bianche. Rimase lì, a capo chino, col cuore rotto, dignitoso.
    Un silenzio di tomba si fece nella sala. Afferrato dalla sua personale memoria dell’infernale Shoà, Begin guardava oltre Jimmy Carter, con uno strano riserbo negli occhi. Era come se il suo sguardo penetrasse quel ‘nato di nuovo’, quel Presidente battista del sud, partendo dall’interno di sé stesso, da quel profondo, intimo luogo ebraico di infinito lamento e eterna fede: un luogo di lunga, lunga memoria. Lì si era rifugiato, in compagnia di Mosè e dei Maccabei.
    Il Presidente Carter abbassò la testa e rimase in un atteggiamento di rispettoso, gelido silenzio. Gli altri guardavano altrove. Improvvisamente si fece udire il ticchettio dell’antico orologio sulla mensola di marmo del cammino. Un’eternità sembrava che passasse tra un tic e l’altro. Il silenzio pesava. Come un colpo di fulmine era arrivata la notizia della determinazione nazionale a non tornare mai più indietro da quelle linee.
    Gradualmente, con movimenti lenti il Primo Ministro si drizzò in tutta la sua altezza e la stanza riprese vita. Delicatamente Carter suggerì di fare una pausa, ma Begin disse che non era necessario. Aveva fatto il suo dovere.

(Jerusalem Post, 12 settembre 2003, con autorizzazione - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Abbiamo bisogno di furfanti politici, non di pappemolli

Vorrei innanzitutto chiarire una cosa: non idolatro i leader politici! Per una semplice ragione: sono persone come voi e me.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Nemmeno nella Bibbia Dio fa la storia esclusivamente con i santi - usa persone normali che hanno lati buoni e cattivi. Dio fa la storia con un popolo santo, come è detto: “Tu (Israele) sei un popolo santo per il tuo Dio, e il Signore ti ha scelto per essere il suo popolo tra tutti i popoli che sono sulla terra” (Deuteronomio 14).
Questo popolo oggi vive e lotta per sopravvivere nella sua patria. I suoi leader non sono persone perfette. Il Dio di Israele è santo. Ci sta davanti un periodo emozionante, in cui ci si aspetta molto da due leader dominanti ma anche controversi: Benjamin Netanyahu e il rieletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Se avessimo potuto votare alle elezioni americane, io e i miei tre figli avremmo - non spaventatevi - votato per Donald Trump. Perché? Ci sono ragioni molto pragmatiche dal punto di vista israeliano. Ne abbiamo discusso molto a casa. E sì, siamo ben consapevoli dei suoi aspetti negativi; non per niente ha dovuto subire molte critiche da parte dei media. Eppure noi, come la maggioranza del Paese, voteremmo per Trump. Perché viviamo in un mondo folle, dove per fare la differenza servono furfanti politici, non politici fifoni.
Anche il re Davide era un imbroglione politico dal punto di vista umano, ma era anche un uomo di Dio. Ora possiamo chiederci se tutto questo combacia. E se si applica anche ai nostri tempi. E questo è sempre un punto in cui si può cadere in trappola. Da un lato, si vedono i propri idoli politici - Netanyahu o Trump - come “uomini di Dio” che l'Onnipotente ha nominato al momento giusto. Ma allo stesso tempo si fa fatica a giustificare il loro comportamento. Entrambi sono accusati di molte cose che non sono giuste agli occhi di Dio. Ci sono due modi per risolvere la questione: O le accuse sono semplicemente false calunnie degli avversari politici o si accettano i politici così come sono. Personalmente, posso convivere con i loro difetti caratteriali e allo stesso tempo supporre che entrambi siano usati da Dio in nostra presenza e svolgano un incarico.
Per alcuni, Bibi è l'“unto di Dio”, un moderno Messia o Re Davide, un eroe senza rivali tra il popolo. Questa percezione non è diffusa solo in Israele, ma anche all'estero. In particolare tra gli evangelici negli Stati Uniti, Netanyahu è celebrato come un messaggero divino in terra. È vero che Bibi ha fatto molto per lo Stato di Israele, il che è innegabile. Ma questa fervente adorazione provoca naturalmente fastidio tra i suoi oppositori, che non sopportano il fatto che Bibi sia idealizzato come un messia o un messaggero divino nonostante i suoi intrighi politici e le sue decisioni controverse. Lo stesso vale per Donald Trump, e per questo motivo i suoi oppositori cercano il marcio sotto ogni tappeto. E lo stanno trovando. In qualità di caporedattore, scrivo di questo e parlo anche del lato controverso. Bisogna guardare a entrambi i lati. Non si tratta di disprezzo, ma di normale critica. Le figure chiave della Bibbia non sono forse criticate allo stesso modo?
Nel mezzo del selvaggio Oriente, circondato da nazioni arabe, ci vuole un mix speciale di astuzia strategica e azione decisiva per salvare il popolo dalla sconfitta. Qui il vento soffia semplicemente in modo diverso! In questo contesto, anche termini come “truffatore” e “messia” si fondono nella figura di Netanyahu. Gli unti erano i salvatori politici del loro tempo e spesso anche abili tattici o addirittura “truffatori”: menti astute e intelligenti che spesso avevano difetti caratteriali. In questo senso, Netanyahu, ma anche Trump in un certo senso, è un'incarnazione moderna di questa miscela storica di salvatore e intrigante - da una prospettiva israeliana.

(Israel Heute, 30 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Se l’autore voleva dimostrare che nella Bibbia Dio usa anche personaggi moralmente discutibili al fine di tirar fuori il suo popolo dai guai in cui così facilmente si caccia, poteva ricorrere a un esempio insuperabile: Sansone. E’ un personaggio a cui si dà poca attenzione, eppure la Bibbia vi dedica ben quattro capitoli (Giudici 14-17). Che sia stato uno strumento di Dio, è fuor di dubbio, ma molto di più: è stato prescelto da Dio prima ancora della sua nascita.  Non si conosce il nome di sua madre, si sa soltanto che era la moglie di un certo Manoha della tribù di Dan, ed era sterile, come le matriarche Sara, Rebecca e Rachele. Anche a questa anonima donna di Dan fu annunciata una nascita prodigiosa: L’angelo dell'Eterno apparve a questa donna, e le disse: “Ecco, tu sei sterile e non hai figli; ma concepirai e partorirai un figlio … e sarà lui che comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei” (Giudici 14:3,5). Quest’uomo prodigiosamente venuto al mondo, di cui la Bibbia dice che fu “giudice d’Israele” per venti anni, fu tutt’altro che un uomo moralmente irreprensibile. Pur facendo parte del santo popolo di Dio, andò a cercarsi un’impura prostituta a Gaza, provocando una tale quantità di guai da far sì che alla fine “l’Eterno si ritirò da lui”. Fu di sicuro un furfante, e purtroppo non un fine politico. Ma tuttavia Dio lo usò per “cominciare a liberare Israele” dalle mani dei suoi nemici. M.C.

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Bova Marina – Luce nell’antica sinagoga

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I resti della sinagoga di Bova Marina (RC), risalente al quarto secolo, ricordano l’antica storia e retaggio dell’ebraismo calabrese. La luce di Chanukkah è arrivata ieri anche in questi spazi, grazie a una iniziativa organizzata dal referente di sezione Roque Pugliese con il patrocinio tra gli altri di Ucei e Comunità ebraica di Napoli. Numerose le autorità istituzionali e religiose presenti. «L’Unione delle Comunità Ebraiche italiane è presente in Calabria con la Sezione di Palmi della Comunità ebraica di Napoli e grazie allo sforzo e alla passione di pochi fa rivivere una tradizione antica che non si è mai persa, ma è stata sradicata secoli or sono», ha dichiarato in un messaggio il vicepresidente Ucei Giulio Disegni, parlando della sinagoga di Bova Marina come di «un esempio di continuità e di consapevolezza di una diversità che è ricchezza e parte integrante di una società civile degna di questo nome». Secondo Disegni, inoltre, «il calore delle fiammelle unito al ricordo di quanto successo ai tempi dei Maccabei è un invito a stare insieme, a dialogare e a confrontarci, specie in un momento in cui sono stravolti certi valori e in cui è dilagante in tutto il mondo un’ondata di antisemitismo e di odio cui da tempo non si assisteva».

• L’accensione a Manduria
   La luce di Chanukkah è passata anche dalla cittadina di Manduria, in provincia di Taranto, dove varie persone si sono raccolte attorno a un candelabro in un’abitazione privata. Israeliani, francesi, uno svedese. Per Disegni, «è matura l’idea di dar vita a una sezione in Puglia, nell’area Taranto-Manduria».

(moked, 30 dicembre 2024)

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I sopravvissuti alla Shoah accendono la chanukkià davanti al Muro del Pianto

di Michelle Zarfati

Cento sopravvissuti alla Shoah hanno partecipato ad una toccante cerimonia di accensione delle candele di Chanukkà davanti al Muro Occidentale, a Gerusalemme. Lo ha condiviso la Claims Conference.
  Organizzato in collaborazione con la Western Hall Heritage Foundation, l’evento simboleggia speranza e resilienza durante un periodo di crescente antisemitismo globale.
  Tra i partecipanti presenti Greg Schneider, vicepresidente esecutivo della Claims Conference, il rabbino Shmuel Rabinovitch, il ministro dei Trasporti israeliano Miri Regev, il sindaco di Gerusalemme Moshe Leon e Ziona Koenig-Yair, vicepresidente dell’ufficio israeliano della Claims Conference. La cerimonia di quest’anno si è concentrata su “l’unione e la speranza”, riflettendo le conseguenze dell’attacco terroristico del 7 ottobre da parte di Hamas.
  Durante l’evento la sopravvissuta alla Shoah Miriam Greiber ha sottolineato la necessità di un’educazione continua alla Shoah e di una vigilanza sempre più urgente contro l’odio antiebraico. “L’antisemitismo persiste in diverse forme, a volte prendendo di mira gli ebrei e a volte gli israeliani. Il nostro dovere come sopravvissuti è condividere le nostre storie e educare le generazioni future, assicurando che le lezioni del passato non siano mai dimenticate”.
  “Accendere le candele di Chanukkà in questo luogo sacro con voi, sopravvissuti alla Shoah, ci ricorda a tutti la resilienza duratura del popolo ebraico. La vostra presenza qui è una testimonianza del trionfo della luce sull’oscurità e un’ispirazione per le generazioni a venire” ha detto Koenig-Yair.
  “I sopravvissuti alla Shoah sono una luce per il mondo, che brillano di speranza. Questi eroi, che hanno sopportato il peggio che il mondo poteva imporre loro, non solo sono sopravvissuti, ma hanno continuato a ricostruire le loro vite e a mostrare all’umanità il significato di forza e coraggio” ha detto Greg Schneider. “Il loro lavoro e il loro impegno per l’umanità ci ispirano e ci ricordano che la speranza è la luce che ci porta tutti fuori dall’oscurità. Per questo, li onoriamo oggi con questa celebrazione speciale e ogni giorno con la nostra gratitudine e adorazione”.
  La cerimonia fa parte della International Holocaust Survivors Night, un evento globale che ogni anno unisce sopravvissuti alla Shoah in 12 paesi. Nel programma sono stati presentati messaggi di personaggi importanti come Barbra Streisand, Arnold Schwarzenegger, Debra Messing e il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Una registrazione dell’evento sarà disponibile sul sito web della Claims Conference.
  La Claims Conference lavora per garantire un risarcimento materiale per i sopravvissuti alla Shoah in tutto il mondo. Dal suo inizio nel 1952, ha negoziato oltre 90 miliardi di dollari di indennità da parte del governo tedesco. Nel 2024, l’organizzazione ha distribuito più di 535 milioni di dollari in compensazione diretta a oltre 200.000 sopravvissuti e ha assegnato 888 milioni di dollari in sovvenzioni alle agenzie di servizi sociali che forniscono cure essenziali ai sopravvissuti che he hanno bisogno.

(Shalom, 29 dicembre 2024)

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La funzione della Torah

di Marcello Cicchese

DEUTERONOMIO, cap. 31
  1. L'Eterno disse a Mosè: “Ecco, il giorno della tua morte si avvicina; chiama Giosuè, e presentatevi nella tenda di convegno perché io gli dia i miei ordini”. Mosè e Giosuè dunque andarono e si presentarono nella tenda di convegno.
  2. L'Eterno apparve, nella tenda, in una colonna di nuvola; e la colonna di nuvola si fermò all'ingresso della tenda.
  3. E l'Eterno disse a Mosè: “Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri; e questo popolo si alzerà e si prostituirà, andando dietro agli dèi stranieri del paese nel quale va a stare; e mi abbandonerà e violerà il mio patto che io ho stabilito con lui.
  4. In quel giorno, l'ira mia si infiammerà contro di lui; e io li abbandonerò, nasconderò loro la mia faccia e saranno divorati, e cadranno loro addosso molti mali e molte angosce; perciò in quel giorno diranno: 'Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?'.
  5. E io, in quel giorno, nasconderò del tutto la mia faccia a causa di tutto il male che avranno fatto, rivolgendosi ad altri dèi.
  6. Scrivetevi dunque questo cantico, e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo loro in bocca, affinché questo cantico mi serva di testimonianza contro i figli d'Israele.
  7. Quando li avrò introdotti nel paese che promisi ai loro padri con giuramento, paese dove scorre il latte e il miele, ed essi avranno mangiato, si saranno saziati e ingrassati, e si saranno rivolti ad altri dèi per servirli, e avranno disprezzato me e violato il mio patto,
  8. e quando molti mali e molte angosce gli saranno piombati addosso, allora questo cantico alzerà la sua voce contro di loro, come una testimonianza; poiché esso non sarà dimenticato, e rimarrà sulle labbra dei loro posteri; poiché io conosco quali siano i pensieri che essi concepiscono, anche ora, prima che io li abbia introdotti nel paese che giurai di dare loro”.
  9. Così Mosè scrisse quel giorno questo cantico e lo insegnò ai figli d'Israele.
  10. Poi l'Eterno diede i suoi ordini a Giosuè, figlio di Nun, e gli disse: “Sii forte e coraggioso, poiché tu sei colui che introdurrà i figli d'Israele nel paese che giurai di dare loro; e io sarò con te”.
  11. E quando Mosè ebbe finito di scrivere in un libro tutte quante le parole di questa legge,
  12. diede quest'ordine ai Leviti che portavano l'arca del patto dell'Eterno:
  13. “Prendete questo libro della legge e mettetelo accanto all'arca del patto dell'Eterno, che è il vostro Dio; e là rimanga come testimonianza contro di te;
  14. perché io conosco il tuo spirito ribelle e la durezza del tuo collo. Ecco, oggi, mentre sono ancora vivente tra voi, siete stati ribelli contro l'Eterno; quanto più lo sarete dopo la mia morte!
  15. Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri ufficiali; io farò udire loro queste parole e prenderò come testimoni contro di loro il cielo e la terra.
  16. Poiché io so che, dopo la mia morte, voi certamente vi corromperete e lascerete la via che vi ho prescritto; e nei giorni che verranno la sventura vi colpirà, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a indignazione con l'opera delle vostre mani”.
  17. Mosè dunque pronunciò dal principio alla fine le parole di un cantico, in presenza di tutta la comunità d'Israele.
Mosè sta per lasciare questo mondo e si preoccupa di portare a termine il compito affidatogli da Dio. Parla al popolo e a Giosuè, riuniti davanti a lui, invitandoli a non temere, perché Dio cammina davanti a loro e "non li lascerà e non li abbandonerà" (Deuteronomio 31:8). Essi quindi entreranno nel paese e ne prenderanno possesso. Fin qui non c'è alcun dubbio.
Poi scrive il libro della legge e lo consegna ai leviti e agli anziani d'Israele con l'ordine di leggerlo al popolo ogni sette anni, durante la festa delle capanne.
Dopo di che l'Eterno si rivolge direttamente a Mosè e gli dice di presentarsi a lui nella tenda di convegno, insieme a Giosuè. I due vanno e "l'Eterno apparve nella tenda, in una colonna di nuvola"; e "la colonna di nuvola si fermò all'ingresso della tenda", come per impedire che altri si avvicinassero.
Mosè, che aveva incoraggiato il popolo con le sue parole, in quella tenda ode parole che per lui non sono davvero incoraggianti: "Questo popolo ... si prostituirà ... e mi abbandonerà... e io li abbandonerò, nasconderò loro la mia faccia", comunica il Signore. E continua dicendo che a loro cadranno addosso tanti di quei mali che li spingeranno a chiedersi:
    "Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?" (Deuteronomio 31:17).
Ed è proprio così. Non si tratta di inadempienza di severe regole di comportamento, ma di un rapporto d'amore che si è infranto. "Questo popolo mi abbandonerà... io li abbandonerò..." e la gravità della situazione è espressa da una sola frase: "il nostro Dio non è in mezzo a noi".
Nell'originario patto stabilito al Sinai, il Signore aveva un meraviglioso progetto d'amore con il suo popolo:
    "... all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, io v'incontrerò.... E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò loro Dio" (Esodo 29:42,45).
Dopo il fattaccio del vitello d'oro, il Signore aveva deciso di rompere tutto e sterminare il popolo, ma Mosè riuscì a farlo desistere. Tuttavia, il Signore, non essendo più vincolato da un patto ormai violato, aveva deciso di non mantenere più la promessa di "dimorare in mezzo ai figli di Israele"; e così, attraverso Mosè fece sapere al popolo: "... io non salirò in mezzo a te, perché sei un popolo di collo duro" (Esodo 33:3). Ancora una volta Mosè riuscì ad evitare che questo avvenisse e il Signore acconsentì a dimorare in mezzo al popolo nel santuario che in seguito sarebbe stato costruito.
Adesso però Mosè viene a sapere che un giorno la presenza di Dio in mezzo al popolo si interromperà. E questo si è avverato letteralmente nella storia d'Israele.
Nei capitoli 10 e 11 del libro del profeta Ezechiele si vede la "gloria dell'Eterno", quella che in seguito sarà chiamata la Shekhinah, abbandonare la "casa dell'Eterno" poco prima che il Tempio fosse distrutto dai Babilonesi. Lasciò il Tempio lentamente, in tre tappe, come se esitasse, come se fosse in attesa di un ravvedimento del popolo:
    "La gloria dell'Eterno s'alzò di sui cherubini, movendo verso la soglia della casa" (Ezechiele 10:4);
    "E la gloria dell'Eterno si partì di sulla soglia della casa, e si fermò sui cherubini. E i cherubini... si fermarono all'ingresso della porta orientale della casa dell'Eterno" (Ezechiele 10:18-19);
    "E la gloria dell'Eterno s'innalzò di mezzo alla città, e si fermò sul monte che è ad oriente della città" (Ezechiele 11:23).
Su quel monte, che è il monte degli ulivi, secondo una tradizione rabbinica la Shekhinah rimase tre anni e mezzo, poi sparì. In ogni caso, è certo che non tornò più, neanche dopo la ricostruzione del secondo Tempio.
Il suo ritorno però è già preannunciato, sempre nel libro di Ezechiele,:
    "Ed ecco, la gloria del Dio d'Israele veniva dal lato d'oriente.... E la gloria dell'Eterno entrò nella casa per la via della porta che guardava a oriente" (Ezechiele 43:2,5).
Adesso dunque a Mosè sono annunciati i guai che colpiranno il popolo perché l'Eterno cesserà di essere "in mezzo a loro". Il popolo perderà la presenza di Dio, perderà la terra, ma comunque, è vero, gli resterà la Torah. A che scopo? con quale funzione?
Mosè, che ai Leviti aveva ordinato di leggere periodicamente al popolo il libro della legge, adesso, dopo le tremende parole contro Israele udite nella tenda, aggiunge un ordine per i Leviti:
    "Prendete questo libro della legge e mettetelo accanto all'arca del patto dell'Eterno, vostro Dio; e lì rimanga come testimonio contro di te" (Deuteronomio 31:26).
Ecco dunque spiegata la funzione della Torah d'emergenza dopo la rottura del patto d'amore: essere testimone contro il popolo infedele e nello stesso tempo mantenerlo legato al suo Dio fino al compimento del predisposto progetto di redenzione. E' in questo senso che si può capire la frase di Gesù:
    "Non pensate ch'io sia venuto per abolire la legge; io sono venuto non per abolire, ma per portare a compimento." (Matteo 5:17).
Ma non c'è solo la legge ad essere indicata come testimone. Sulla bocca di Mosè il Signore mette un cantico, riportato nel capitolo successivo, accompagnandolo con una istruzione:
    "Scrivetevi dunque questo cantico, e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo loro in bocca, affinché questo cantico mi serva di testimonio contro i figli d'Israele" (Deuteronomio 31:19).
E dopo tutte queste cose, alla fine della cerimonia di commiato, in un crescendo di indignazione Mosè chiama a testimoni anche il cielo e la terra, e conclude così quello che in altri ambienti sarebbe stato un solenne discorso di autocelebrazione del popolo che si appresta a compiere una gloriosa azione di conquista:
    "Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri ufficiali; io farò loro udire queste parole, e prenderò a testimoni contro di loro il cielo e la terra. Poiché io so che dopo la mia morte voi certamente vi corromperete e lascerete la via che vi ho prescritta; e la sventura v'incoglierà nei giorni a venire, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a sdegno con l'opera delle vostre mani" (Deuteronomio 31:28-29).
Come si vede, dire che Israele è il popolo eletto non significa dire che è moralmente esemplare. Ma Dio lo sapeva fin dall'inizio, fin da quando decise di eleggerlo come suo popolo per i suoi scopi particolari. Qualcuno ha qualcosa da dire? Ne parli a Dio.

(da "Sta scritto")



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La guerra in Libano tra Israele e Hezbollah continua sottotraccia

di Sarah G. Frankl

Non se ne parla perché in questo periodo a fare notizia è la guerra contro gli Houthi e la situazione in Siria, ma la guerra in Libano tra Israele e Hezbollah continua, anche se sottotraccia. Ecco un breve riassunto delle ultime ore.
La 226a Brigata Paracadutisti delle IDF (146a Divisione) ha distrutto le infrastrutture e le armi di Hezbollah a Naqoura, nel Libano sud-occidentale, il 27 dicembre.
Le IDF hanno identificato e distrutto decine di depositi di armi contenenti razzi, IED, mortai e missili situati in edifici civili a Naqoura.
Hezbollah ha utilizzato questi siti per effettuare attacchi contro Israele. Le forze israeliane hanno anche localizzato e distrutto un numero imprecisato di lanciarazzi diretti verso il territorio israeliano durante un raid separato nella zona.
Le IDF hanno condotto diversi attacchi aerei il 27 dicembre prendendo di mira le infrastrutture di Hezbollah in diversi valichi di frontiera che consentono a Hezbollah di trasferire armi dalla Siria al Libano.
Il comandante dell’aeronautica militare delle IDF, il maggiore generale Tomer Bar, ha dichiarato che le IDF hanno colpito sette valichi di frontiera sul confine tra Libano e Siria che Hezbollah aveva precedentemente utilizzato per trasportare armi.
Bar ha affermato che Hezbollah sta “ancora una volta” cercando di stabilire rotte di contrabbando di armi attraverso questi valichi di frontiera. Le IDF hanno riferito di aver colpito le infrastrutture al valico di frontiera di Janta, che Hezbollah ha utilizzato per spostare armi e combattenti.
Le immagini geolocalizzate pubblicate su X (Twitter) hanno mostrato il risultato di due attacchi aerei israeliani vicino al villaggio di Qusayya, nel Libano orientale, il 27 dicembre.
Hezbollah sta affrontando molteplici priorità, tra cui la ricostruzione in Libano e la ricostituzione dell’organizzazione di Hezbollah, che potrebbe diminuire il sostegno al gruppo in alcuni ambienti.
I media con sede nel Regno Unito hanno riferito il 24 dicembre che il ritardo nel risarcimento di guerra ai non membri di Hezbollah e ai feriti nelle operazioni di Israele in Libano ha causato una crescente agitazione tra la base di sostegno di Hezbollah.
Hezbollah, che ha rapidamente ricostruito il Libano e fornito una rete di sicurezza sociale per i libanesi dopo la guerra del 2006, sta ora affrontando compiti di ricostruzione molto più difficili rispetto ad allora.
La guerra del 2006 è durata 34 giorni e ha distrutto solo aree relativamente limitate del Libano. Hezbollah ha anche subito solo 500 vittime nel 2006. La guerra del 7 ottobre in Libano è durata quasi 14 mesi, ha distrutto molti villaggi nel Libano meridionale e ha ucciso migliaia di combattenti di Hezbollah, danneggiando gravemente la struttura di comando e controllo militare del gruppo terrorista.
Un ingegnere affiliato alla società di costruzioni di Hezbollah Jihad al Bina ha dichiarato ai media di Hezbollah il 24 dicembre che il gruppo terrorista sta continuando il “restauro e la ricostruzione” degli edifici distrutti dalle operazioni di Israele in Libano. Questo processo di costruzione richiederà molto tempo e Jihad al Bina dovrà competere con le altre priorità di Hezbollah, tra cui l’acquisizione di nuove armi, la formazione di nuovi leader e la riorganizzazione dell’ala militare per finanziamenti e personale.
Un politico libanese sostenuto da Hezbollah ha affermato il 25 dicembre che Hezbollah ha ricostruito la sua leadership, le sue strutture militari e di sicurezza, ma anche se ciò fosse vero, i nuovi comandanti avranno presumibilmente bisogno di addestramento prima di poter operare allo stesso livello dei loro predecessori. Questi comandanti dovranno anche acquisire nuove armi per sostituire quelle catturate e distrutte dagli israeliani, mettendo ulteriormente a dura prova le risorse di Hezbollah.

(Rights Reporter, 28 dicembre 2024)

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Soldato ucciso a Gaza, sale a 823 il bilancio di guerra dell'IDF

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Il Maggiore Hod Shriebman, 27 anni, è stato ucciso in azione nella Striscia di Gaza, 27 dicembre 2024

Un soldato delle Forze di Difesa Israeliane è stato ucciso venerdì mentre combatteva contro i terroristi palestinesi nel nord della Striscia di Gaza, ha annunciato l'esercito.
Il nome dell'uomo ucciso è Maj. Hod Shriebman, 27 anni, dell'unità d'élite Multidomain, di Moshav Tzofit, vicino a Kfar Saba.
Mercoledì, un riservista dell'IDF è stato ucciso in un combattimento nella Striscia di Gaza centrale. È stato identificato come il capitano (res.) Amit Levi, 35 anni, di Shomria, un kibbutz religioso nel Negev settentrionale.
Due giorni prima, tre soldati israeliani sono stati uccisi in azione contro i terroristi di Hamas nel nord di Gaza. Si tratta del capitano Ilay Gavriel Atedgi, 22 anni, di Kiryat Motzkin, del sergente maggiore Netanel Pessach, 21 anni, di Elazar, e del sergente di prima classe (res.) Hillel Diener, 21 anni, di Talmon. Tutti e tre gli uomini prestavano servizio nel 92° battaglione di fanteria “Shimshon” della Brigata Kfir.
Il bilancio delle vittime tra le truppe israeliane dall'inizio dell'incursione di terra a Gaza, il 27 ottobre 2023, è di 391, e di 823 su tutti i fronti dal massacro guidato da Hamas il 7 ottobre 2023.
Inoltre, l'ispettore Arnon Zamora, membro dell'unità nazionale antiterrorismo Yamam della Polizia di frontiera israeliana, è stato ferito a morte durante una missione di salvataggio di ostaggi a Gaza a giugno, mentre l'appaltatore civile della difesa Liron Yitzhak è stato ferito a morte a maggio.

(JNS, 28 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La Siria nelle mani della Fratellanza Musulmana

Il Qatar diventa un fattore influente sulla scena siriana insieme alla Turchia, con la quale guida l’asse dei “Fratelli Musulmani”, che si appresta a conquistare la Siria.

di Maurizia De Groot Vos

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I vertici della Fratellanza Musulmana l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani con Erdogan

Il Qatar ha svolto un ruolo importante nella guerra civile in Siria iniziata nel 2011 e ha costantemente sostenuto le organizzazioni di opposizione sunnite che hanno cercato di rovesciare il regime del presidente Bashar Assad, fino alla sua caduta definitiva l’8 dicembre di quest’anno.
Il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed Al Thani, è stato il primo a visitare Damasco il 23 dicembre dopo la caduta del regime di Assad e ha incontrato il leader ribelle Ahmad al-Shara’, noto anche come Abu Mohammed al Jolani.
Durante l’incontro è stata concordata una cooperazione strategica tra i due paesi e Al Tani ha espresso la sua disponibilità ad investimenti senza precedenti in Siria nei settori dell’energia, dei porti marittimi e degli aeroporti, e ha promesso di stare al fianco della nuova Siria.
Anche il Qatar ha riaperto la sua ambasciata a Damasco, per la prima volta in 13 anni. È stato il secondo paese a fare questo passo dopo la Turchia.
A differenza di altri paesi arabi, il Qatar si è opposto negli ultimi 13 anni al rinnovo delle relazioni diplomatiche con la Siria o agli incontri con i suoi rappresentanti e alla legittimazione di Assad. Ha fornito aiuti umanitari ai rifugiati in Siria e all’estero, ha riconosciuto le organizzazioni dell’opposizione siriana e le ha difese nell’arena delle Nazioni Unite.
Il Qatar è uno dei leader dell’asse globale dei “Fratelli Musulmani” insieme alla Turchia, quindi la sua nuova posizione nella Siria islamica non sorprende affatto. Uno dei compiti di questo asse è proteggere le masse sunnite nei paesi arabi dalla tirannia dei governanti arabi.
Funzionari del Qatar affermano che l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, avrà un ruolo importante e strategico nella riabilitazione della nuova Siria e nell’influenzare la sua politica. Presto visiterà Damasco e incontrerà al-Shara’.
Il Qatar ha permesso alle organizzazioni ribelli siriane di presidiare l’edificio dell’ambasciata siriana nella sua capitale, Doha, e di issare lì la loro bandiera. Funzionari della sicurezza in Israele affermano che fornirà assistenza tecnica alla Siria, aiuterà finanziariamente a ricostruire le istituzioni statali e investirà anche nei giacimenti di petrolio e gas naturale.
La Siria si trova in una situazione economica difficile e ha bisogno del sostegno economico del Qatar e della Turchia. Con le sue ingenti somme di denaro, il Qatar acquista la sua influenza politica in Medio Oriente.
Il Qatar ora vuole raccogliere i frutti della resistenza di 13 anni contro Assad e riscuotere il prezzo dalla Siria. Il prezzo che richiede è quello di acquisire una maggiore influenza sul territorio siriano e di influenzare direttamente e potentemente il sistema decisionale del nuovo sovrano Ahmad al-Shara’.

(Rights Reporter, 28 dicembre 2024)

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Donna uccisa da un terrorista palestinese a Herzliya

di Michelle Zarfati

Una donna anziana è stata uccisa durante un attacco terroristico a Herzliya questa mattina. Le guardie di sicurezza hanno neutralizzato l’aggressore prima di arrestarlo. Nel frattempo, la donna è stata portata d’urgenza all’ospedale Ichilov di Tel Aviv. Tuttavia, nonostante gli sforzi, la donna è stata dichiarata morta all’arrivo.
  La polizia israeliana ha poi confermato che l’incidente è stato un attacco terroristico contro civili, dopo che gli agenti delle forze di sicurezza, insieme ai paramedici MDA (Maghen David Adom), sono arrivati sulla scena. Idan Shina e Elon Boaron, entrambi paramedici del MDA sono stati i primi ad arrivare per soccorrere la donna. Entrambi hanno rivelato alla stampa locale che quando le squadre sono arrivate sul luogo del delitto hanno trovato la donna sdraiata priva di sensi con importanti ferite da taglio. I paramedici hanno fermato l’emorragia, rianimando la donna. Secondo quanto riferito, l’incidente è avvenuto in via Kdoshei Hashoah di Herzliya
  “Il nostro team sul posto, ha curato con tutte le forze la signora che già era in condizioni critiche – ha detto il portavoce della MDA Zachi Heller – oltre a lei non ci sono state altre vittime. Il personale di sicurezza della zona ha notato subito quanto stava accadendo riuscendo a neutralizzare l’aggressore. Un’indagine iniziale ha già rivelato che il terrorista era un residente palestinese della città di Tulkarm, in Cisgiordania, che aveva precedentemente scontato una pena detentiva in Israele.
  Secondo i media israeliani, l’indagine, condotta insieme allo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), sta lavorando per comprendere come l’uomo sia riuscito ad entrare in Israele. Il comandante della polizia distrettuale di Tel Aviv, il sovrintendente Haim Sargaroff, ha detto che le guardie di sicurezza sulla scena sono entrate in azione dopo aver sentito il terrorista gridare “Allahu Akbar”.

(Shalom, 27 dicembre 2024)

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Chanukkà, nel Nord d’Israele un candelabro realizzato con i resti dei razzi di Hezbollah

di Michael Soncin

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Un progetto del reparto artificieri della polizia israeliana ha portato alla creazione di una chanukkiah simbolica, nata dai resti delle schegge dei razzi e missili che hanno ucciso gli israeliani durante la guerra con Hezbollah.
Ogni sera all’accensione dei lumi, come riporta il Jerusalem Post, saranno presenti, oltre ai rappresentanti pubblici, i cittadini che hanno prestato il servizio durante la guerra e i famigliari delle vittime.
Il candelabro ad otto braccia, meglio conosciuto con il nome di chanukkiah, viaggerà durante la festività in tutto il nord di Israele, visitando le alture del Golan, Kiryat Shmona, Shfaram e un hotel a Rosh Pina che ospita gli sfollati del nord.
L’ultima tappa sarà sul monte Meron in occasione di un evento annuale, Zot Hanukkah, che richiama migliaia di visitatori.
Il progetto della polizia, chiamato Lighting the North, contiene i frammenti dei missili che hanno ucciso 12 ragazzini sul campo da calcio a Majdal Shams a luglio. Frammenti che hanno anche ucciso un insegnante a Shfaram e una coppia a Kiryat Shmona.
Durante la caduta dei razzi, gli esperti di bonifica delle bombe hanno lavorato instancabilmente assieme al resto della polizia per salvare vite. I resti sono stati raccolti dopo ogni incidente, radunando tutti i pezzi presso la Galilee Bomb Disposal Unit.

(Bet Magazine Mosaico, 27 dicembre 2024)

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Il nuovo governatore di Damasco vuole stabilire relazioni pacifiche con Israele

Il governatore ha anche invitato gli Stati Uniti a sostenere la Siria nello sviluppo di migliori relazioni con lo Stato ebraico

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Maher Marwan, nuovo governatore di Damasco,

Il nuovo governatore di Damasco, Maher Marwan, nominato dal leader dei ribelli Al-Jolani, ha espresso venerdì il desiderio di stabilire relazioni pacifiche con Israele. “Vogliamo la pace, non vogliamo essere avversari di Israele o di chiunque altro”, ha dichiarato in un'intervista alla radio pubblica statunitense NPR.
  Nell'intervista, Marwan ha adottato un tono conciliante nei confronti dello Stato ebraico, cercando di allentare le tensioni regionali. “È possibile che Israele abbia provato paura e quindi sia avanzato leggermente (nella zona cuscinetto) e abbia bombardato un po'. È una paura naturale. Non abbiamo paura di Israele e non abbiamo alcun problema con loro”, ha sottolineato, aggiungendo: ”Non abbiamo intenzione di intervenire in modo da minacciare la sicurezza di Israele. Qui ci sono persone che vogliono vivere in coesistenza e che vogliono la pace”.
  Il governatore ha anche invitato gli Stati Uniti a sostenere la Siria nello sviluppo di migliori relazioni con Israele. Secondo il rapporto, durante l'intervista non ha menzionato la questione palestinese o la guerra a Gaza.
  Queste dichiarazioni fanno eco a quelle rilasciate quindici giorni fa da Abu Mohammad Al-Jolani, leader del gruppo ribelle “Hayat Tahrir al-Sham”. Egli aveva suggerito che la nuova leadership siriana non intendeva entrare in conflitto con Israele nel prossimo futuro. “La situazione in Siria, stremata da anni di combattimenti, non consente l'ingresso in nuovi conflitti”, ha affermato, sottolineando che ‘la ricostruzione e la stabilità sono la priorità, piuttosto che impegnarsi in nuovi conflitti che porterebbero a maggiore distruzione’.
  Tuttavia, Al-Jolani ha chiesto un intervento diplomatico per fermare le violazioni della sovranità siriana, accusando Israele di fare affermazioni infondate sulle minacce ai confini.

(i24, 27 dicembre 2024)

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Israele sta pensando di aprire le porte dell'inferno per riportare a casa gli ostaggi

Sembra che Trump si stia concentrando sugli ostaggi e su una vittoria decisiva per porre fine alla guerra. Il modo in cui ciò avverrà non sembra preoccuparlo.

di Ariel Kahana

Dal 20 gennaio 2025, “sarà possibile adottare misure aggiuntive a Gaza”, affermano alti funzionari israeliani.
L'impressione prevalente in Israele è che al presidente eletto Donald Trump non interessi particolarmente quali misure Israele prenda nella Striscia di Gaza. Ha due obiettivi chiari: il rilascio degli ostaggi e una vittoria israeliana che ponga fine alla guerra. I metodi utilizzati per raggiungere questi obiettivi gli sembrano irrilevanti.
A Gerusalemme, così come nel quartier generale militare di Kirya a Tel Aviv, i preparativi per l'era Trump si svolgono in stretta segretezza. Quando arriverà quel momento e non sarà stato raggiunto alcun accordo, ci si aspetta che Israele ridefinisca le regole di ingaggio contro Hamas.
Molti degli strumenti limitati dall'amministrazione statunitense di Biden, così come le richieste specifiche a Israele, non saranno più applicabili.
Un alto funzionario israeliano ha espresso la speranza che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Maggiore Generale (in pensione) Nitzan Alon - capo della Divisione Soldati Scomparsi e Catturati della Direzione dell'Intelligence Militare - colgano l'opportunità di agire “in modo completamente anticonvenzionale”.
L'ufficiale ha sottolineato la necessità di rompere con l'attuale schema che vede l'organizzazione terroristica finanziarsi attraverso gli ostaggi o utilizzare i terroristi rilasciati da Israele per rimpinguare i propri ranghi.
Quali misure potrebbe adottare Israele che al momento sono fuori discussione?
Secondo la fonte, gli aiuti umanitari, che l'amministrazione statunitense guidata da Biden ha insistito a fornire a Gaza, non saranno più un problema per Trump. Una riduzione di questi aiuti o un controllo completo su ciò che arriva a Gaza potrebbe peggiorare la situazione per Hamas e aumentare la pressione sull'organizzazione per il rilascio degli ostaggi.
Un altro aspetto critico è quello degli armamenti. Trump ha promesso di rilasciare tutte le spedizioni di armi, attualmente ritardate da Biden, nel suo primo giorno in carica. Una volta che le bombe e le granate in ritardo arriveranno, le forze israeliane avranno i mezzi per espandere significativamente le loro operazioni.
Inoltre, il funzionario ha osservato che è improbabile che l'amministrazione statunitense sotto Trump si opponga ai trasferimenti di popolazione se ritenuti necessari da Israele per schiacciare Hamas o liberare gli ostaggi. I funzionari israeliani presumono che la nuova amministrazione statunitense non chiederà responsabilità, sulla falsariga di: “Fate quello che dovete fare. Non saremo noi a dirvi cosa fare”.
Dal 20 gennaio, Netanyahu non dovrà più legittimare misure come la consegna di carburante e di materiali a doppio uso a Gaza su pressione degli Stati Uniti. Al contrario, avrà il sostegno di Trump per interrompere completamente queste forniture. Potrebbero essere reintrodotte le misure drastiche dei primi giorni di guerra, come la limitazione delle forniture di elettricità e acqua.
Se nelle prossime settimane non si raggiungerà un accordo sugli ostaggi, Israele potrebbe intensificare approcci alternativi come incentivi finanziari o accordi di esilio. Mentre le Forze di Difesa israeliane e lo Shin Bet hanno finora perseguito con cautela questa strategia, sono stati distribuiti manifesti in tutta la Striscia di Gaza e i messaggi dettati da Hamas nei video della presa degli ostaggi indicano che l'offerta è arrivata a loro.
Tuttavia, sono possibili ulteriori e più sofisticati sforzi in questa direzione.
I funzionari israeliani ritengono che Hamas sia consapevole di ciò che potrebbe accadere il 20 gennaio e questa consapevolezza ha influenzato la sua recente disponibilità a negoziare. Tuttavia, la ricorrente intransigenza dell'organizzazione potrebbe non lasciare a Gerusalemme altra scelta se non quella di soddisfare le aspettative di Trump e dare ad Hamas l'inferno per riportare a casa gli ostaggi.

(Israel Heute, 27 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele supera i 10 milioni: un dinamismo demografico unico in Occidente

Un tasso di natalità in aumento e un'immigrazione sostenuta stanno spingendo il piccolo Stato ebraico nella schiera delle nazioni con una forte crescita demografica.

Israele ha appena superato la soglia simbolica dei 10 milioni di abitanti, confermando il suo status di eccezione demografica tra i Paesi sviluppati. Con un tasso di crescita annuale dell'1,9%, il Paese vanta una dinamica unica, trainata da un tasso di fertilità di 2,89 figli per donna - una cifra significativamente superiore a quella di altre nazioni occidentali. “Oggi non c'è Paese sviluppato al mondo che abbia anche solo due figli per donna, mentre qui sono quasi tre”, sottolinea il professor Sergio Della Pergola, esperto di demografia ebraica. Questa specificità si riscontra anche nelle aree più urbanizzate: “Tel-Aviv, città moderna e liberale a maggioranza laica, mantiene un tasso di due figli per donna. È più di qualsiasi altro Paese europeo”.
Questa crescita eccezionale si spiega anche con l'immigrazione: dal 1948, 3,46 milioni di persone si sono stabilite in Israele, il 47% delle quali dopo il 1990. I maggiori picchi di immigrazione sono stati registrati nel 1949 (240.000 persone) e nel 1990 (200.000).
La distribuzione geografica rimane squilibrata: la metropoli di Tel Aviv concentra il 40% della popolazione nazionale, con un tasso di crescita annuale dell'1,8%. Questa concentrazione pone grandi sfide in termini di infrastrutture e servizi pubblici.
Le proiezioni dell'Ufficio centrale di statistica prevedono una popolazione di 16 milioni di abitanti entro il 2050. Questa crescita sostenuta distingue Israele da altri Paesi occidentali che devono affrontare l'invecchiamento demografico. Secondo Della Pergola, questo dinamismo si basa su “cultura e nostalgia, ma anche su due fattori critici: risorse materiali e ottimismo”. Secondo Della Pergola, “con una popolazione di 10 milioni di abitanti, Israele sta uscendo definitivamente dalla categoria dei ‘piccoli Paesi’, avendo superato Austria, Svizzera, Ungheria e Bielorussia, e si sta avvicinando a Svezia, Portogallo, Repubblica Ceca e Belgio”.

(i24, 27 dicembre 2024)

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La leadership di Netanyahu e la sopravvivenza di Israele

Di fronte minacce esistenziali, il primo ministro israeliano ha mantenuto un fronte unito, nonostante le sfide personali e politiche.

di Fiamma Nirenstein

Nel corso della sua storia millenaria, il popolo ebraico ha sopportato persecuzioni incessanti, una realtà che ha forgiato una tradizione di resilienza e leadership. Da figure bibliche come Mosè - liberatore degli israeliti e legislatore la cui influenza ha plasmato la civiltà moderna - a eroi più moderni come Giuda Maccabeo, Tuvia Bielski, Mordecai Anielewicz e Hannah Senesh, la storia ebraica è segnata da individui che hanno guidato il loro popolo attraverso le avversità.
A questo elenco, la storia contemporanea aggiunge ora Benjamin Netanyahu, la cui leadership in un momento di crisi senza precedenti ha ripristinato la posizione di forza e di responsabilità di Israele sulla scena mondiale dopo gli attacchi terroristici guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023.
Gli attacchi di quel giorno - segnati da 1.200 brutali omicidi, dal ferimento di migliaia di persone e dal rapimento di 251 uomini, donne e bambini in una palese dimostrazione di odio genocida - hanno spinto Netanyahu a dichiarare una guerra che continua a ridisegnare la regione. Sfidando le richieste di un cessate il fuoco che avrebbe permesso a gruppi come Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano di riorganizzarsi, Netanyahu ha dimostrato una determinazione inflessibile nello smantellare l'infrastruttura islamista dell'odio e nel contrastare le ambizioni regionali iraniane. La sua leadership non solo ha preservato l'esistenza di Israele, ma ha anche inferto un colpo alle aspirazioni egemoniche dell'Iran, che minacciavano la stabilità globale.
Di fronte alle pressioni internazionali, comprese le critiche delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea e dell'amministrazione Biden, Netanyahu ha mantenuto un fronte israeliano unito, nonostante le sfide personali e politiche. Ha sopportato accuse di crimini di guerra, un incessante assalto dei media e procedimenti giudiziari in corso che richiedono la sua presenza per ore ogni settimana.
In tutto questo, il Primo Ministro si è concentrato sulla sua missione: assicurare il futuro di uno Stato ebraico libero.
Lo sforzo bellico gli ha richiesto decisioni controverse, come l'apertura di un fronte settentrionale contro Hezbollah e l'ordine di attacchi che hanno neutralizzato avversari di alto profilo come il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e il leader di Hamas Yahya Sinwar. Queste azioni, sebbene abbiano incontrato la resistenza sia dei critici interni che degli alleati internazionali, hanno spostato in modo decisivo l'equilibrio di potere nella regione.
Con il sostegno di Stati Uniti, Regno Unito e Arabia Saudita, Israele ha ridotto le spedizioni di armi iraniane attraverso la Siria, costringendo il suo dittatore di lunga data, Bashar Assad, a ritirarsi, interrompendo il flusso di armi verso Hezbollah.
La strategia di Netanyahu si estende anche ad affrontare minacce esistenziali come le ambizioni nucleari dell'Iran. I colloqui con l'ex presidente Donald Trump e altri alleati sottolineano la disponibilità di Israele ad agire con decisione contro questo pericolo incombente. La sua recente visita alle alture del Golan, dove una volta ha prestato servizio in un'unità militare d'élite, simboleggia il suo impegno duraturo per la sicurezza di Israele.
A 75 anni, il volto pallido e gli occhi stanchi di Netanyahu riflettono il peso delle sue responsabilità. Tuttavia, la sua determinazione evoca paragoni con Winston Churchill, un altro leader che, contro le probabilità schiaccianti, ha radunato la sua nazione in difesa della libertà.
Come l'inno nazionale di Israele, “Hatikvah” (“La speranza”), la leadership di Netanyahu incarna l'aspirazione duratura del popolo ebraico: vivere liberamente nella sua patria ancestrale.

(JNS, 26 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In calce il giornale aggiunge: “Le opinioni e i fatti presentati in questo articolo sono dell'autore e né JNS né i suoi partner se ne assumono la responsabilità.”

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Realizzata una gigantesca chanukkià di palloncini nell’ospedale israeliano Schneider

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Sono venticinquemila i palloncini che compongono la più grande chanukkià del mondo. Questo enorme candelabro a 9 bracci di Chanukkà si trova nell’ospedale Schneider Children’s Medical Center di Petach Tikva ed è stato assemblato da 100 volontari e una squadra di operatori su corde. Il progetto è stato promosso dall’organizzazione Tikva Umarpe.
È il decimo anno consecutivo che lo Schneider ospita la chanukkià. Tuttavia, quest’anno, è stato aggiunto il “nastro giallo” per ricordare i 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. “In attesa del miracolo di Chanukkà”, ha scritto l’ospedale in un post su LinkedIn, esprimendo la speranza per il ritorno a casa dei rapiti.
La chanukkià brilla come un faro di resilienza e unità durante gli otto giorni della Festa ebraica delle Luci.

(Shalom, 27 dicembre 2024)

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Parashat Mikketz. Noi e Dio siamo coautori della storia umana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Fu il primo vero tentativo di Josef di prendere in mano il proprio destino, e fallì. O almeno così sembrava. Consideriamo la storia fino a quel momento, come illustrata nella parashà della scorsa settimana. Quasi tutto ciò che accade nella vita di Giuseppe rientra in due categorie.
La prima categoria è quella delle cose che gli vengono fatte. Suo padre lo ama più degli altri figli. Gli regala una tunica riccamente ricamata. I suoi fratelli sono invidiosi e provano odio nei suoi confronti. Il padre lo manda a vedere come se la passano i fratelli che si occupano delle greggi lontane. Non li trova e deve affidarsi a uno sconosciuto che gli indichi la direzione giusta. I fratelli complottano per ucciderlo, gettarlo in una fossa e poi venderlo come schiavo. Viene portato in Egitto. Viene acquistato come schiavo da Potifar. Sua moglie lo trova attraente, tenta di sedurlo e, fallito il suo tentativo di seduzione, lo accusa ingiustamente di stupro e per questo viene imprigionato.
È straordinario. Giuseppe è ogni volta al centro dell’attenzione, e tuttavia è continuamente l’oggetto delle attività degli altri in modo passivo piuttosto che attivo.
Nella seconda categoria comincia ad agire. Gestisce la casa di Potifar in modo esemplare. Organizza una prigione. Interpreta il sogno del coppiere e del panettiere. In una sequenza unica di descrizioni, la Torà attribuisce le sue azioni e il loro successo a Dio.
Ecco Giuseppe in casa di Potifar: Dio era con Giuseppe e lui divenne un uomo che riusciva in ogni cosa. Presto lavorò nella casa del suo padrone. Il suo padrone si rese conto che Dio era con [Giuseppe] e che Lui gli concedeva il successo in tutto ciò che faceva. (Genesi 39:2-3)
Non appena [il padrone] lo mise a capo della sua casa e dei suoi beni, Dio benedisse l’Egiziano a causa di Giuseppe. La benedizione di Dio era in tutto ciò che [l’egiziano] aveva, sia in casa che in campagna. (Genesi 39:5)
Quando Giuseppe era in prigione, leggiamo:
Dio era con Giuseppe e gli mostrò benevolenza, facendogli incontrare il favore del direttore della prigione. Ben presto il guardiano mise tutti i prigionieri della prigione sotto la responsabilità di Giuseppe. [Giuseppe si occupò di tutto ciò che doveva essere fatto. Il direttore non dovette occuparsi di nulla di ciò che era sotto la cura di [Giuseppe]. Dio era con [Giuseppe], e Dio gli concesse il successo in tutto ciò che fece. (Genesi 39:21-23)
Ed ecco Giuseppe che interpreta i sogni: “Le interpretazioni non appartengono forse a Dio?”, rispose Giuseppe. “Se volete, raccontatemi [i vostri sogni]”. (Genesi 40:8)
Di nessun’altra figura nel Tanach si parla in modo così chiaro, coerente e ripetuto. Giuseppe sembra deciso, organizzato e vincente, e così appare agli altri. Ma, dice la Torà, non è lui ma è Dio il responsabile di ciò che ha fatto e del suo successo. Anche quando resiste alle avances della moglie di Potifar, esplicita che è Dio a rendere moralmente impossibile ciò che lei vuole: “Come potrei commettere un atto così immorale e peccare nei confronti del Signore?”. (Genesi 39:9)
L’unico atto chiaramente attribuito a lui si verifica proprio all’inizio della storia, quando porta un “cattivo rapporto” sui suoi fratelli, i figli delle ancelle Bilah e Zilpah anche loro mogli di suo padre. A parte questo, ogni svolta del suo destino in continuo cambiamento è il risultato dell’azione di qualcun altro, un altro essere umano, o di Dio.
È per questo motivo che non si può fare a meno di notare quando, alla fine della parashà precedente, Giuseppe prende in mano il suo destino. Dopo aver detto al coppiere che entro tre giorni sarebbe stato graziato dal Faraone e reintegrato nella sua posizione precedente, e non avendo alcun dubbio che ciò sarebbe accaduto, gli chiese di perorare la sua causa presso il Faraone e di assicurargli la libertà:  “Quando le cose ti andranno bene, ricordati che io ero con te. Fammi questo favore e parla di me al Faraone. Forse riuscirai a farmi uscire da questo posto”. (Genesi 40:14)
Che cosa accadde? “Il coppiere non si ricordò di Giuseppe. Si dimenticò di lui. (Genesi 40:23)”. Il raddoppio del verbo è potente. Non si ricordò. Si dimenticò. L’unica volta che Giuseppe cerca di essere l’autore della propria storia, fallisce. Il fallimento è decisivo.
La tradizione aggiunge un ultimo tocco al dramma. Conclude la parashà Vayeshev con queste parole, lasciandoci proprio nel momento in cui le sue speranze si infrangono. Riuscirà a diventare grande? I suoi sogni si realizzeranno? La domanda “Cosa succederà dopo?” è intensa e dobbiamo aspettare una settimana per scoprirlo.
Il tempo passa e, con la massima improbabilità (anche il Faraone fa dei sogni e nessuno dei suoi maghi o saggi è in grado di interpretarli – cosa strana, visto che l’interpretazione dei sogni era una specialità degli antichi egizi), apprendiamo la risposta. “Passarono due anni interi”.
Le parole con cui inizia la nostra parashà, Mikketz, sono la frase chiave. Ciò che Giuseppe voleva che accadesse, accadde. Lasciò la prigione. Fu liberato. Ma non prima che fossero trascorsi due anni interi.
Tra il tentativo e il risultato è intervenuto qualcosa. Questo è il significato del lasso di tempo. Giuseppe pianificò la sua liberazione e fu liberato, ma non perché l’avesse pianificato. Il suo stesso tentativo si è concluso con un fallimento. Il coppiere si dimenticò di lui. Ma Dio no. Non si è dimenticò di Giuseppe. È stato Dio, non Giuseppe, a determinare la sequenza di eventi – in particolare i sogni del Faraone – che hanno portato alla sua liberazione.
Ciò che vogliamo che accada, accade, ma non sempre quando ce lo aspettiamo, o nel modo in cui ce lo immaginiamo, o semplicemente come volevamo che accadesse. Dio è il co-autore del copione della nostra vita, e a volte – come in questo caso – ce lo ricorda facendoci aspettare e cogliendoci di sorpresa.
Questo è il paradosso della condizione umana così come viene intesa dall’ebraismo. Da un lato siamo liberi. Nessuna religione ha mai insistito con tanta enfasi sulla libertà e sulla responsabilità umana. Adamo ed Eva erano liberi di non peccare. Caino era libero di non uccidere Abele.
Ci scusiamo per i nostri fallimenti: non sono stato io, è stata colpa di qualcun altro, non potevo farci niente. Ma queste sono solo scuse. Non è così. Siamo liberi e abbiamo la nostra responsabilità.
Eppure, come disse Amleto: “C’è una divinità che modella i nostri fini e che li rovina come vogliamo”. Dio è intimamente coinvolto nella nostra vita.
Guardando indietro, alla mezza età o in quella avanzata, spesso possiamo scorgere, attraverso la nebbia del passato, che una storia stava prendendo forma, un destino che stava lentamente emergendo, guidato in parte da eventi al di fuori del nostro controllo. Non avremmo potuto prevedere che quell’incidente, quella malattia, quel fallimento, quell’incontro apparentemente casuale, anni fa, ci avrebbero portato in questa direzione. Eppure ora, con il senno di poi, può sembrare che fossimo una pedina degli scacchi mossa da una mano invisibile che sapeva esattamente dove voleva che fossimo.
Secondo Giuseppe, fu questa visione a distinguere i Farisei (gli artefici del cosiddetto giudaismo rabbinico) dai Sadducei e dagli Esseni. I Sadducei negavano il destino. Dicevano che Dio non interviene nella nostra vita. Gli Esseni attribuivano tutto al destino. Credevano che tutto ciò che facciamo fosse predestinato da Dio. I Farisei credevano sia nel destino che nel libero arbitrio. “Era bene che Dio si fondesse [tra la provvidenza divina e la scelta umana] e che la volontà dell’uomo, con le sue virtù e i suoi vizi, fosse ammessa nella sala del consiglio del destino” (Antichità, XVIII, 1, 3).
In nessun momento questo è più chiaro più che nella vita di Giuseppe raccontata in Bereshit, e in nessun altro luogo è più evidente che nella sequenza di eventi raccontati alla fine della parashà della scorsa settimana e all’inizio di questa. Senza le azioni di Giuseppe – la sua interpretazione del sogno del coppiere e la sua richiesta di libertà – egli non avrebbe lasciato la prigione. Ma senza l’intervento divino sotto forma di sogni del Faraone, non sarebbe nemmeno successo.
Questo è il paradossale gioco del destino e del libero arbitrio. Come disse Rabbi Akiva: “Tutto è previsto, ma la libertà di scelta è data” (Avot 3:15). Isaac Bashevis Singer (1904-1991 scrittore polacco) ha detto in modo arguto: “Dobbiamo credere nel libero arbitrio: non abbiamo scelta”. Noi e Dio siamo coautori della storia umana. Senza i nostri sforzi non possiamo ottenere nulla. Ma anche senza l’aiuto di Dio non possiamo ottenere nulla. L’ebraismo ha trovato un modo semplice per risolvere il paradosso. Per il male che facciamo, ci assumiamo la responsabilità. Per il bene che otteniamo, ringraziamo Dio. Giuseppe è il nostro mentore. Quando è costretto ad agire con durezza, piange. Ma quando racconta ai fratelli il suo successo, lo attribuisce a Dio. Anche noi dovremmo vivere così.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 27 dicembre 2024)
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Parashà della settimana: Mikets (Alla fine)

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Diario minimo (di un conflitto). Natale a Gerusalemme

di Luciano Assin

Non è la prima volta che giro all’interno della città vecchia della capitale israeliana durante periodi di tensione. Mi è successo nelle due Intifade, il giorno stesso della dichiarazione di Trump dove annunciò il trasferimento dell’ambasciata americana nella città santa, e in innumerevoli situazioni a ridosso di attentati vari. Ogni volta le sensazioni sono contrastanti: da un lato il fascino che la città emana sembra rimanere intatto nonostante tutte le traversie che la hanno accompagnata da millenni, dall’altro ti accorgi immediatamente dei piccoli cambiamenti che più di tante altre cose raccontano il quotidiano degli abitanti.
  Il negozio di souvenir tanto carino all’interno del quartiere musulmano è diventato un parrucchiere per uomini, il pittoresco negozio di spezie si è riciclato come minimarket, il ristorante trappola per turisti è chiuso in attesa di tempi migliori. Le strade sono vuote e gli abitanti fissi si riprendono pian piano i loro spazi. Quest’anno il Natale coincide con la festività ebraica di Hannukà, ma anche nel quartiere ebraico della città vecchia non si vede la solita animazione che dovrebbe regnare in questo periodo.
  Il Santo Sepolcro, forse il luogo più sacro della Cristianità, appare sotto una luce diversa. La chiesa è diventato un immenso cantiere in seguito ad una serie di nuovi scavi che dureranno almeno un paio di anni. Questo brulicare di operai, macchinari e addetti ai lavori stride in modo impressionante con l’assoluta mancanza di pellegrini. Le code sul Golgota o lungo l’edicola che sovrasta il Sepolcro sono inesistenti, ed i pochi fortunati presenti hanno il privilegio di potersi godere in piena solitudine i momenti di contemplazione e devozione che un simile luogo merita.
  L’Ospizio Austriaco, da sempre un angolo di Mitteleuropa avulso dal caos che lo circonda, continua placidamente a guardare dalla sua spettacolare terrazza i movimenti degli umani che si muovono indaffarati alla ricerca di risposte ai loro problemi quotidiani. Seduto all’interno del caffè Trieste, hai la fugace impressione di trovarti in un altro continente ed un’altra dimensione, ma dura soltanto il tempo di un caffè, una volta fuori ti ritrovi nuovamente avvolto dalle eterne contraddizioni di questa poliedrica e fantastica città. Parlando coi commercianti e con le persone che incontri per strada ti accorgi che i loro problemi sono in definitiva anche i tuoi, una convivenza è possibile, ma la sottile tensione che ti accompagna durante il tuo vagabondare nei vicoli della città ti ricorda quale sia il prezzo da pagare.
  Musulmani, ebrei, copti, armeni, francescani, greci ortodossi, etiopi e siriaci compongono lo sfondo sul quale sviluppare le tue meditazioni, con la sensazione di trovarsi in un limbo ovattato dove non potrai mai afferrare la realtà.

(Bet Magazine Mosaico, 25 dicembre 2024)


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Cosa vogliono gli Houthi da noi?

 Per molti nel Paese, gli Houthi sono una seccatura che sveglia Israele dal suo sonno con allarmi notturni.

di Aviel Schneider

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Tribù armate durante una manifestazione contro gli Stati Uniti e Israele, alla periferia di Sana'a, Yemen, 24 dicembre 2024

GERUSALEMME - “Gli Houthi si stanno preparando per un attacco israeliano straordinario”, riporta oggi il quotidiano saudita Al-Sharq Al-Awsat. “Dopo il lancio di razzi su Israele, gli Houthi hanno alzato il livello di allerta al massimo e hanno dispiegato le truppe per paura di un attacco. Gli Houthi hanno anche ordinato di evacuare i campi nel porto di Hodeidah in preparazione di un attacco israeliano”. Come parte della preparazione alla difesa, l'intelligence Houthi ha ordinato ai residenti di non fare telefonate o comunicare via social media su luoghi che sono stati colpiti da attacchi israeliani e americani. Inoltre, fonti locali hanno riferito al giornale saudita che gli Houthi sono anche preparati alla possibilità di una rivolta popolare contro di loro. Gli Houthi rappresentano solo il 30% dello Yemen e sono un problema non solo per Israele, ma anche per la loro stessa popolazione e per l'Arabia Saudita e gli Emirati.
Gli Houthi sono una milizia Zaidi il cui legame con gli eventi attuali è in realtà molto debole. Si tratta di un gruppo ai margini orientali della penisola arabica che si fa chiamare Ansar Allah”, che si traduce come Aiutanti di Dio”. Un'altra persona che vuole aiutare Dio. Non capisco questo nome, se devo aiutare Dio, allora posso fare a meno di questo Dio. Non ha senso, vero? Dall'inizio degli anni Duemila, gli Houthi hanno rafforzato la loro alleanza militare e ideologica con la Repubblica islamica dell'Iran e sono diventati un attore terroristico centrale nell'asse di resistenza iraniano, in quel momento ancora più forte contro l'Arabia Saudita. Israele è il nemico principale, seguito dai governi arabi che mantengono alleanze con l'Occidente, come Egitto e Arabia Saudita. Il crescente sostegno ha reso gli Houthi una minaccia per il governo yemenita. Il gruppo ha adottato uno slogan che chiede la distruzione degli Stati Uniti e di Israele: “Allah è grande! Morte agli Stati Uniti! Morte a Israele! Al diavolo gli ebrei! Vittoria all'Islam!” Da dove vengono? Gli Houthi sono una tribù araba Zaidi dello Yemen settentrionale, un gruppo sciita fedele all'imam Zaid ibn Ali, un nipote del nipote del Profeta, Husain, che si sollevò contro il dominio omayyade a Kufa nel 740 e morì nel corso del processo. Riconoscono i primi quattro imam, a differenza della maggior parte degli sciiti, ad esempio in Iran, che riconoscono tutti e dodici gli imam. Tuttavia, ritengono che un imam possa essere nominato in ogni generazione. Gli Zaiditi hanno governato per secoli la regione tra lo Yemen settentrionale e l'Arabia Saudita sudorientale, fino a quando hanno perso il loro dominio nel 1962. Nello stesso anno, l'ultimo re e imam dello Yemen settentrionale, Muhammad al-Badr, fu rovesciato da un colpo di Stato militare che mirava a stabilire una repubblica araba.
Il colpo di Stato era sostenuto da ufficiali egiziani e faceva parte di un più ampio movimento nazionalista arabo nella regione. Questo spiega, tra l'altro, gli attacchi alle navi nel Mar Rosso, che hanno colpito duramente l'Egitto dal punto di vista finanziario. L'obiettivo degli attacchi degli Houthi è una delle più importanti rotte commerciali mondiali, che collega l'Asia all'Europa attraverso il Canale di Suez egiziano. Dall'inizio della crisi, 2.000 navi hanno dovuto essere deviate intorno al Capo di Buona Speranza.
La rivolta degli Houthi in Yemen è iniziata nel 2004, principalmente come reazione all'emarginazione politica, economica e religiosa della loro comunità da parte del governo yemenita. Le tensioni tra gli Houthi e il governo yemenita si sono intensificate sotto il presidente Ali Abdullah Saleh, le cui politiche gli Houthi hanno percepito come discriminatorie. Il conflitto si è inasprito con le accuse al governo di voler sopprimere la fede Zaidi a favore dell'Islam sunnita. Gli Houthi si sentivano minacciati anche dalla crescente presenza di ideologie salafite saudite, diffuse dalle scuole religiose della regione.
La situazione è degenerata in una ribellione armata quando le forze governative hanno tentato di arrestare il leader Houthi Hussein Badreddin al-Houthi nel 2004, provocandone la morte. Questo fu l'inizio di una serie di conflitti in Yemen. La guerra è proseguita in più fasi e oggi il fratello Abdulmalik al-Houthi è a capo del movimento. Egli stesso è considerato una strana figura con la quale nessun politico internazionale si è mai incontrato di persona.
L'arsenale militare degli Houthi comprende droni con una portata fino a 1.300 chilometri, missili da crociera e missili a lungo raggio che possono volare fino a 3.000 chilometri. Queste armi dimostrano la loro notevole forza militare. Secondo le stime, gli Houthi hanno circa 300.000 combattenti, di cui circa 20.000 sono considerati combattenti addestrati. Sebbene gli Houthi controllino solo una parte dello Yemen, circa il 70% della popolazione del Paese si trova nella loro sfera di influenza. In quest'area si trovano anche porti strategicamente importanti, che danno agli Houthi accesso a gran parte della regione costiera del Mar Rosso.
Gli Zaidi, che includono gli Houthi, rappresentano circa il 35-45% della popolazione yemenita. Tuttavia, il numero esatto di Houthi all'interno di questo gruppo è difficile da determinare, poiché comprende sia combattenti militari che sostenitori civili. La loro presenza politica e militare si concentra principalmente nel nord-ovest dello Yemen, compresa la capitale Sanaa, che controllano dal 2014.
Cosa li lega all'Iran? Oltre alla vicinanza religiosa, in questo periodo gli Houthi hanno ricevuto sostegno finanziario, armi e munizioni da Teheran e hanno adottato lo slogan “Morte all'America, morte a Israele, maledizione agli ebrei, vittoria all'Islam”, simile agli slogan della Rivoluzione islamica in Iran. Questo slogan è solo una delle espressioni dell'antisemitismo della milizia, che ha portato molti degli ebrei rimasti in Yemen a lasciare il Paese. Nel marzo 2021, è stato riferito che le famiglie ebraiche rimaste sono state espulse dal Paese.
Perché odiano Israele e gli ebrei? Si può dire che tutto è iniziato con il ritorno del leader Hussein Badreddin al-Houthi all'inizio degli anni 2000 dall'Iran, dove era stato educato nelle istituzioni educative sciite del regime rivoluzionario. Le sue istanze chiaramente antisemite hanno avuto una grande influenza sulla tribù. Sebbene sia stato ucciso nel 2004, la sua influenza si fa sentire ancora oggi. All'epoca Hussein dichiarò di aver incluso gli ebrei nello slogan della milizia perché “sono loro a muovere questo mondo e a diffondere la corruzione”. Ha anche affermato che gli attacchi dell'11 settembre non erano un'iniziativa di Al-Qaeda, ma una “cospirazione ebraica”. In un'altra occasione, ha invitato i suoi seguaci a uccidere in massa gli ebrei. Questo antisemitismo è andato di pari passo con l'appello alla distruzione di Israele. Nei suoi sermoni e discorsi, gli ebrei vengono incolpati allo stesso tempo di capitalismo e comunismo e accusati della “falsificazione della cultura e della conoscenza”. A queste affermazioni unisce estratti di versetti coranici che mettono in guardia dagli ebrei.
Sono questi gli Houthi che in questi giorni ci svegliano spesso nel cuore della notte e lanciano qualche missile contro Israele. Ma è solo questione di tempo prima che anche gli zaiditi dello Yemen sentano il lungo braccio di Israele. E se gli Houthi invocano Allah e si considerano “aiutanti di Allah”, allora noi, Israele, non siamo “aiutanti di Dio” - ma Dio è “aiutante di Israele”.

(Israel Heute, 26 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Israele: “stessa fine di Hamas ed Hezbollah”

Netanyahu vuole azzerare anche gli Houthi

«Gli Houthi nello Yemen subiranno la stessa sorte degli altri nemici di Israele nella regione». È stato un segnale netto quello lanciato dal primo ministro Benjamin Netanyahu durante l’accensione di una candela di Hanukkah per i dipendenti del suo ufficio a Gerusalemme. «Anche gli Houthi impareranno ciò che hanno imparato Hamas, Hezbollah, il regime di Assad e altri, e anche se ci vorrà del tempo, questa lezione verrà appresa in tutto il Medio Oriente», ha promesso Netanyahu. Le sue parole giungono poche ore dopo che almeno un drone lanciato dai ribelli Houthi dello Yemen - sostenuti dall’Iran - è caduto in un’area aperta della città meridionale di Askhelon e che un missile balistico è stato intercettato prima di entrare in territorio israeliano, secondo l’Idf. «Oggi accendiamo la prima candela di Hanukkah per commemorare la vittoria dei Maccabei di allora e la vittoria dei Maccabei di oggi», ha ricordato Netanyahu. «Come abbiamo fatto allora, colpiamo gli oppressori e coloro che pensavano di tagliare il filo della nostra vita qui, e questo varrà per tutti», ha avvertito. Alla cerimonia ufficiale Netanyahu è stato affiancato da Ronen e Orna Neutra, genitori dell’ostaggio israeliano-americano ucciso, Omer Neutra.
  Nel frattempo un articolo del quotidiano Haaretz afferma che il capo del Mossad, David Barnea, ha fatto pressione sui leader del paese per far attaccare direttamente l’Iran per arginare gli attacchi degli Houthi dallo Yemen. Una linea più dura quella di Barnea, in contrasto con quella finora attuata dal premier Netanyahu e dal ministro della Difesa Israel Katz, che preferiscono continuare a colpire lo Yemen. L’articolo di Haaretz cita una fonte anonima a conoscenza di discussioni presumibilmente tenute per valutare la mancanza di risultati dei tre round di attacchi sullo Yemen, ma al momento non ci sono conferme indipendenti. Secondo il quotidiano, mentre Netanyahu e Katz sostengono i continui attacchi diretti contro gli Houthi da parte di Israele e dei suoi alleati, Barnea ritiene che sarebbe più efficace attaccare l’Iran, che finanzia e arma gli Houthi, un gruppo sciita che da tempo gode del sostegno di Teheran. Netanyahu, Katz e i leader militari hanno indicato che Israele è pronto a espandere i suoi attacchi contro gli Houthi, prendendo di mira anche i loro leader, che saranno colpiti come quelli di Hamas e Hezbollah.

(Il Tempo, 26 dicembre 2024)

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Itamar Ben Gvir visita la Spianata delle Moschee a Gerusalemme

Il ministro israeliano Ben Gvir visita il sito conteso di Gerusalemme, scatenando proteste da parte dell'Autorità Palestinese.

Il ministro israeliano di estrema destra Itamar Ben Gvir ha fatto visita questa mattina alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, suscitando numerose proteste, in particolare da parte dell'Autorità Nazionale Palestinese, che ha definito l'iniziativa 'una provocazione'.
"Stamattina sono salito sul luogo del nostro santuario per pregare per la sicurezza dei nostri soldati, per il rapido ritorno di tutti gli ostaggi a Gaza e per una vittoria totale, con l'aiuto di Dio", ha postato il ministro della Sicurezza Nazionale israeliana su X, pubblicando una sua foto sulla Spianata.
Da quando è entrato a far parte del governo alla fine del 2022, Itamar Ben Gvir ha visitato più volte questo sito conteso, situato nel settore della Città Santa occupato e annesso da Israele. Terzo luogo sacro dell'Islam, la Spianata delle Moschee è costruita sulle rovine del secondo tempio ebraico, distrutto nell'anno 70 dai Romani. Per gli ebrei è il Monte del Tempio, il luogo più sacro dell'ebraismo. Il luogo è al centro del conflitto israelo-palestinese ed è oggetto di tensioni ricorrenti.
In base allo status quo decretato dopo la conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele nel 1967, i non musulmani possono visitare la spianata in orari specifici, senza fermarsi a pregare.
Il ministero degli Esteri dell'Autorità Nazionale Palestinese ha "condannato" la visita del ministro israeliano, definendo i suoi "rituali talmudici" presso la moschea di Al-Aqsa una "provocazione senza precedenti contro milioni di palestinesi e musulmani".
Anche la Giordania, alla quale è affidata l'amministrazione del sito, ha denunciato, attraverso il suo ministero degli Affari Esteri, "una visita provocatoria e inaccettabile" nonché una "violazione dello status quo storico e giuridico" della spianata delle Moschee. "Lo status quo del Monte del Tempio non è cambiato", ha affermato da parte sua l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in una dichiarazione.

(ANSA, 26 dicembre 2024)

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La metastoria del miracolo di Chanukkà

di Rav Ariel Di Porto

In una lezione su Chanukkà rav Ezrà Bick nota un fatto interessante: nella nostra storia e nelle nostre festività abbiamo tanti elementi miracolosi, ma questi non rappresentano mai il centro delle nostre celebrazioni. Durante l’uscita degli ebrei dall’Egitto sono avvenuti molti miracoli, ma ciò che intendiamo ricordare è la liberazione dalla schiavitù, e non il miracolo stesso, e così per le altre festività. L’unica eccezione è rappresentata da Chanukkà, che sembra voler celebrare un miracolo, anche se per certi versi il miracolo non sarebbe stato necessario. I Maccabei infatti avrebbero potuto aspettare di produrre dell’olio puro o utilizzare dell’olio impuro per accendere la menorà, il candelabro del Santuario. Inoltre non ci sarebbe motivo di celebrare un miracolo del quale ormai, distrutto il Santuario, non vediamo più gli effetti. Rav Bick suggerisce che il miracolo dei lumi è il filtro attraverso il quale dovremmo comprendere gli eventi di Chanukkà. Tutte le feste intendono ricordare degli eventi storici pur comprendendo degli elementi miracolosi, ma Chanukkà presenta un aspetto unico. Ai tempi del secondo Tempio c’erano diversi eventi storici da ricordare, che erano custoditi in un antico testo, la Meghillat Ta’anit. Di tutte le date riportate in tale testo l’unica ad essere rimasta è Chanukkà. Ciò ci permette di comprendere che Chanukkà ha un significato metastorico, quello del rinnovamento. All’epoca la vita spirituale del popolo ebraico rischiava di scomparire del tutto. C’era un potere che stava mettendo fuori legge l’ebraismo in nome di una cultura universale che stava trasformando il mondo. Qualsiasi analisi razionale avrebbe condotto ad un’unica conclusione: non c’erano abbastanza risorse spirituali per continuare, per invertire il corso della storia. Una volta che una cosa è morta non è possibile rianimarla, se una fiamma è spenta non può essere riaccesa. Ma questo non fu quanto avvenne. Venne trovata una piccola ampolla, che non era sufficiente a proiettare il passato nel futuro. La filosofia greca insegna che l’effetto non può superare la causa, un giorno non basta per dedicare una casa a D. Ma l’olio dura fino a quando gli ebrei non riescono a individuare le risorse naturali. Cosa impariamo da qui? Che non siamo vincolati dalle circostanze attuali, possiamo superarle, creando quasi dal nulla. Basta che ci sia una scintilla di vita per ottenere una fiamma potente. Questa non è storia, è metastoria nel suo senso più profondo.

(Shalom, 25 dicembre 2024)


Equivalenza metapolitica
Il mondo sta a Israele      
come Israele sta al Messia


La storia della nascita di Gesù

La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo. Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente. Ma, mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
“Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi”.
E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l'angelo del Signore gli aveva comandato; prese con sé sua moglie e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio, al quale pose nome Gesù.

(Vangelo di Matteo 1:18-25, 25 dicembre 2024)

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Israele alza il budget per la Difesa e vara la manovra formato guerra

La Knesset dice sì al disegno di legge che aumenta il disavanzo di 9 miliardi per permettere il finanziamento della spesa militare. Ora la manovra per il 2025 tocca quota 150 miliardi.

di Rino Moretti

Come previsto, il parlamento israeliano (Knesset) ha approvato l’estensione dello stato d’emergenza del Paese fino al 16 dicembre 2025, in conformità con le raccomandazioni del gabinetto di sicurezza. Lo stato d’emergenza consente al gabinetto di emanare regolamenti che scavalcano la legislazione della stessa Knesset. Il parlamento israeliano ha votato anche l’approvazione definitiva di un disegno di legge che aumenta il tetto del deficit del Paese al 7,7% del Pil (dal 6,6%) e amplia di 9 miliardi il bilancio 2024 per coprire le spese per la difesa.

Lo scorso 1 novembre, il governo israeliano aveva redatto un bilancio per il 2025 dedicato in gran parte a “sostenere le guerre che Israele sta conducendo su diversi fronti” e a “salvaguardare la tenuta dell’economia”, come aveva dichiararlo il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. Il bilancio, era così stato portato a 607,4 miliardi di shekel (pari a 150 miliardi di euro) e comprende un pacchetto di 9 miliardi di shekel (2,2 miliardi di euro) per aiutare le migliaia di riservisti richiamati dall’esercito dall’inizio della guerra contro Hamas, nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre 2023.

Non è finita. Nel 2024 gli Stati Uniti hanno fornito inoltre 8,7 miliardi di dollari di aiuti militari in aggiunta agli stanziamenti annuali che Washington trasferisce a Israele sotto forma di prodotti statunitensi per la Difesa per un valore di 3,8 miliardi di dollari (importo stabilito dall’amministrazione Obama fino al 2028). Altre fonti riferiscono che dall’inizio del conflitto con l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023 gli Stati Uniti hanno trasferito oltre 167 miliardi di aiuti militari a Israele.

Tornando al bilancio dello Stato ebraico, esso prevede aumenti di tasse e tagli di spesa per cercare di controllare un deficit di bilancio oggi pari all’8,5% del Pil. Tuttavia, la spesa totale è stata fissata a 744 miliardi di shekel (182 miliardi di euro), di cui 161 miliardi (circa 40 miliardi di euro) saranno spesi per il servizio del debito.

(Formiche.net, 24 dicembre 2024)

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L’operazione israeliana che ha neutralizzato la Marina siriana

di Luca Spizzichino

La missione condotta dall’INS Herev, una nave missilistica classe Sa’ar 4.5, ha segnato un capitolo storico per la Marina israeliana. “L’operazione è stata straordinaria, e l’attacco resterà nella storia,” ha dichiarato il tenente colonnello Tomer, comandante della nave, ripercorrendo i momenti salienti dell’azione che ha distrutto il cuore della flotta siriana.
  Quando l’INS Herev ha lasciato il porto di Haifa, i soldati erano convinti di partecipare a un’esercitazione. “La segretezza è stata tale che nemmeno i membri dell’equipaggio sapevano quale fosse la missione,” ha raccontato Tomer. Una volta in mare aperto, ha svelato loro l’obiettivo: addentrarsi nelle acque siriane per distruggere la flotta di motovedette missilistiche della Marina siriana. “All’inizio erano increduli, ma si sono subito messi all’opera con determinazione”.
  Il piano è stato comunicato al comandante Tomer tramite una linea riservata mentre era in viaggio verso la base. “Quando ho ricevuto le istruzioni, sono rimasto sorpreso. Non pensavo che una missione del genere sarebbe avvenuta durante il nostro turno,” ha ammesso. L’ordine era chiaro: partire immediatamente. Entro la sera, la nave era pronta e in rotta verso nord, lungo la costa libanese, con destinazione Latakia, sede principale della Marina siriana.
  La missione non è stata priva di difficoltà. “Abbiamo dovuto gestire operazioni difensive e offensive contemporaneamente”, ha raccontato il comandante. “Mentre ci preparavamo per un attacco, poteva sopraggiungere un UAV nemico, e dovevamo intercettarlo senza interrompere le altre attività. È stata una prova di professionalità e coordinazione impeccabili da parte dell’equipaggio”. Dopo aver completato l’eliminazione delle batterie antiaeree, la nave si è ritirata momentaneamente in acque internazionali. L’attacco a Latakia, inizialmente previsto per la notte, è stato posticipato di 24 ore per massimizzare l’efficacia dell’operazione.
  Quando è arrivato il momento, l’INS Herev ha colpito con precisione chirurgica 15 motovedette missilistiche siriane, che costituivano la spina dorsale della Marina nemica. “Ogni bersaglio è stato distrutto in pochi minuti. Le imbarcazioni sono affondate e sono state rese inutilizzabili” ha confermato Tomer. “La missione si è conclusa davvero solo al nostro rientro a Haifa, dove siamo stati accolti dal comandante della Marina, il viceammiraglio David Saar Salama, che ha ringraziato personalmente ogni membro dell’equipaggio”.

(Shalom, 24 dicembre 2024)

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Israele rivendica per la prima volta la responsabilità della morte di Haniyeh in Iran

Il ministro della Difesa Israel Katz ha riconosciuto per la prima volta che dietro la morte di Ismail Haniyeh, capo dell'ufficio politico dell'organizzazione terroristica islamica palestinese Hamas, morto il 31 luglio in un attentato a Teheran, c'è il governo di Gerusalemme.
“Paralizzeremo gravemente gli Houthi, danneggeremo le loro infrastrutture strategiche e abbatteremo i loro leader, proprio come abbiamo fatto con Haniyeh, (Yahya) Sinwar e (Hassan) Nasrallah, a Teheran,  Gaza e Libano, lo faremo a Hodeidah e Sana (Yemen)” ha detto il ministro della Difesa.
L'eliminazione di Haniyeh è stata attribuita fin dal primo momento a Israele dal gruppo terroristico Hamas e dal regime iraniano.
Tuttavia, le autorità israeliane, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, avevano evitato di confermare o negare il loro coinvolgimento nell’attacco che ha provocato la morte di qualcuno considerato uno dei principali autori dei massicci attacchi di Hamas contro Israele il 7 settembre 2023.
Haniyeh, il defunto leader del gruppo terroristico islamico palestinese, si era recato occasionalmente a Teheran per partecipare alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Masud Pezeshkian quando fu eliminato.
Nel frattempo, Nasrallah e il generale di brigata del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane, Abbas Nilforushan, sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani a Beirut il 27 settembre.
L’Iran ha risposto a queste due morti lanciando circa 200 missili balistici contro Israele il 1° ottobre.
Dal canto suo, Sinwar, citato anche da Katz - durante un incontro con le Forze di difesa israeliane (IDF) - e considerato da Gerusalemme la mente dei massacri del 7 ottobre 2023, è stato ucciso il 17 ottobre di quest'anno in un attentato nella Striscia di Gaza.
I terroristi Houthi dello Yemen, da parte loro, hanno attaccato il commercio marittimo nel Mar Rosso e nel Mar Arabico nell'ultimo anno in "solidarietà" con le organizzazioni estremiste islamiche nella Striscia di Gaza nel contesto della guerra con lo Stato ebraico.
Inoltre, hanno lanciato continuamente missili e droni contro il territorio israeliano, al quale il Paese ebraico ha risposto con attacchi a porti e impianti energetici.
Gli scontri tra Israele e i terroristi Houthi dello Yemen si sono intensificati nell'ultima settimana e il governo di Gerusalemme ha ribadito in più occasioni che risponderà “con la forza” a questi attacchi.

(Autora Israel, 24 dicembre 2024)

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In Australia, l’odio per gli ebrei e Israele raggiunge nuove vette

di Nathan Greppi

Quando, il 16 aprile 2024, sei persone sono state uccise a coltellate a Sydney, sui social si è diffusa una bufala secondo la quale l’aggressore fosse uno studente ebreo di nome Benjamin Cohen, ripresa anche dall’emittente televisiva australiana 7News. In breve tempo però è emerso che il vero assalitore era un quarantenne di nome Joel Cauchi, ma nel frattempo l’accusa contro Cohen è stata rimbalzata su decine di migliaia di post e sdoganata anche da una grossa emittente, la quale in seguito si è scusata pubblicamente per la disinformazione veicolata. L’autore della bufala, Simeon Boikov, era un individuo che da circa un anno viveva presso il consolato russo a Sydney, e che ha chiesto asilo politico in Russia per evitare un mandato di arresto per aggressione.
  Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono fare della crescente intolleranza nei confronti degli ebrei e degli israeliani in Australia, aumentata esponenzialmente dopo il 7 ottobre e il successivo scoppio della guerra tra Israele e Hamas. Un odio che talvolta ha visto gli ebrei australiani, la cui popolazione nel 2023 ammontava a circa 117.000 persone, venire accusati per crimini che non hanno mai commesso: è successo nel novembre 2023 a Caulfield, un sobborgo di Melbourne, dove un locale di hamburger gestito da un palestinese è stato vittima di un incendio doloso. Siccome il locale si trova a breve distanza dalla zona ebraica di Melbourne, in un primo momento in molti hanno incolpato gli ebrei per l’accaduto; ciò ha portato ad una manifestazione violenta di attivisti filopalestinesi nel quartiere ebraico. Fino a che nel gennaio 2024, le autorità hanno arrestato i veri colpevoli, due giovani che non sono ebrei e non c’entrano nulla con la comunità ebraica.

Violenza e discriminazione
  Questo non è stato l’unico episodio di antisemitismo avvenuto a Melbourne nell’ultimo anno: nel novembre 2023, dei manifestanti filopalestinesi hanno protestato davanti ad un albergo per impedire l’accesso ai familiari delle vittime del 7 ottobre e degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, di ritorno da un evento di sensibilizzazione organizzato dalla comunità ebraica locale. Mentre il 6 dicembre 2024, un incendio doloso ha colpito la sinagoga Adass Israel di Melbourne.
  Espressioni d’odio e di ostilità si sono verificate anche in altre città australiane: il 9 ottobre 2023, appena due giorni dopo i massacri compiuti da Hamas in Israele, manifestanti pro-Palestina si sono radunati presso l’Opera House di Sydney e hanno intonato cori antisemiti come “gas the Jews”. Nella stessa città, nell’ottobre 2024 una panetteria ebraica è stata vandalizzata con dei graffiti, proprio durante Yom Kippur. E a Lakemba, un sobborgo nella zona ovest di Sydney, l’8 ottobre 2023, il giorno dopo i massacri, lo sceicco Ibrahim Daoud ha guidato una manifestazione per celebrare le violenze del 7 ottobre, da lui definito “un giorno di coraggio, resistenza, orgoglio e vittoria”.
  In altri casi, a subire dei torti sono stati dei singoli individui: lo sa bene Jay Lazarus, parrucchiere ebreo residente a Perth, che prima del 7 ottobre si è messo d’accordo con una coppia lesbica della regione del Queensland per donare il proprio sperma affinché potessero avere un figlio; proprio nel settembre 2023, le due parti avevano raggiunto un accordo. Ma dopo l’inizio della guerra, come ha raccontato il parrucchiere nel gennaio successivo sul suo profilo Instagram, Lazarus ha ricevuto un messaggio dalle due donne che gli hanno spiegato di essere rimaste scosse da quello che stava succedendo in Medio Oriente, e che “non siamo in grado di gestire parti della tua identità in questo rapporto di donazione”, nel senso che non potevano accettare lo sperma di un donatore ebreo.

L’odio nelle università
  Come nel resto del mondo, anche in Australia le università sono diventate il fulcro dell’ostilità contro Israele e gli ebrei: l’ha sperimentato in prima persona Milette Shamir, vicepresidente dell’Università di Tel Aviv, la quale è giunta in Australia nel marzo 2024 per un evento accademico all’Università di Sydney, dove tuttavia è stata accolta da una folla di manifestanti filopalestinesi che hanno cercato di cacciarla via, e che sono rimasti barricati a lungo nella stessa stanza assieme a lei e al suo staff.
  Spesso, dietro queste proteste si nascondono realtà ambigue: nel giugno 2024, il giornale The Australian Jewish News ha rivelato che dietro l’organizzazione degli accampamenti e delle proteste filopalestinesi all’Università di Sydney vi erano membri di Hizb ut-Tahrir, un movimento islamista radicale classificato come organizzazione terroristica da numerosi paesi, e che si pone come obiettivo l’imposizione della Sharia e la restaurazione di un califfato islamico.
  In alcuni casi, ci sono stati studenti che hanno fatto saluti nazisti apposta per provocare i loro compagni di corso ebrei: è successo durante il raduno annuale tenutosi online dell’ANUSA (Australian National University Students Association), quando gli studenti ebrei hanno chiesto conto all’associazione per un accampamento propal nel campus di Canberra del quale sarebbero stati tra gli organizzatori. In tale occasione, uno studente avrebbe fatto saluti nazisti e si sarebbe messo un dito sotto il naso per imitare i baffi di Hitler.
  In generale, si sono notati degli avanzamenti del BDS nel paese: a metà luglio, la National Tertiary Education Union (NTEU), sindacato australiano che rappresenta i lavoratori nel settore dell’istruzione terziaria, ha tenuto un incontro per prendere in considerazione l’adesione al boicottaggio accademico e culturale d’Israele. Pur condannando gli attacchi compiuti da Hamas il 7 ottobre, hanno criticato pesantemente la risposta militare israeliana, e hanno anche chiesto al governo australiano di interrompere gli scambi commerciali e militari con Israele e di riconoscere lo Stato di Palestina.
  Già da prima del 7 ottobre, non mancavano gli episodi preoccupanti negli atenei australiani: nel settembre 2022 Habibah Jaghoori, studente dell’Università di Adelaide, è stato espulso dall’associazione studentesca YouX in seguito alle proteste dell’AUJS (Australasian Union of Jewish Students), associazione giovanile che rappresenta gli studenti ebrei in Australia e Nuova Zelanda. Il motivo è dovuto al fatto che dopo aver scritto un articolo sul giornale studentesco On Dit in cui diceva “Morte a Israele” e “Gloria all’Intifada”, Jaghoori ha iniziato a minacciare pubblicamente gli studenti ebrei ad Adelaide. Un mese prima, il consiglio studentesco dell’Università di Melbourne ha votato a favore dell’adesione al BDS contro Israele.

Dati e statistiche
  Secondo un documento pubblicato dall’ Executive Council of Australian Jewry (ECAJ), principale istituzione ebraica del paese, tra l’ottobre 2023 e il settembre 2024 gli episodi di odio antiebraico in Australia sono aumentati del 316%. Tra i principali perpetratori, sono stati indicati estremisti sia di destra che di sinistra, oltre ad una considerevole componente di cittadini arabi e musulmani.
  Julie Nathan, autrice della ricerca sull’antisemitismo in Australia per conto dell’ECAJ, ha dichiarato: “Se si pensava che il razzismo antiebraico appartenesse al passato e fosse stato sconfitto, gli ultimi 12 mesi hanno dimostrato che è stato cinicamente riattivato e alimentato per scopi politici”. Ha aggiunto che gli “attacchi fisici, verbali e di altro tipo nei confronti di individui, famiglie e comunità ebraiche continueranno a peggiorare, a meno che i governi, la polizia e altre istituzioni non mostrino un po’ di spina dorsale e intraprendano azioni decise per fermare la crescente marea di atti d’odio contro la comunità ebraica, costringendo i responsabili a rispondere delle loro azioni”.

(Bet Magazine Mosaico, 24 dicembre 2024)

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Israele attende Trump per sconfiggere gli Houthi

Hamas sta trattando, Hezbollah è impegnato nella tregua, il nuovo regime di Damasco non vuole scontri, le milizie filo-iraniane in Iraq si accordano con il governo locale per cessare gli attacchi contro Israele. Tra i diversi nemici dello stato ebraico, solo il gruppo ribelle Houthi non vuole arretrare. I suoi attacchi sull’area di Tel Aviv si sono intensificati. In meno di una settimana i missili Houthi hanno prima distrutto una scuola, senza causare vittime, e poi colpito un parco, provocando 16 feriti e costringendo, nel cuore della notte, centinaia di migliaia di persone a correre ai rifugi.
  «Come abbiamo agito con forza contro i terroristi dell’asse del male sostenuto dall’Iran, così agiremo contro gli Houthi: con forza, determinazione e precisione», ha promesso il premier Benjamin Netanyahu. Il gruppo ribelle yemenita è «ora al centro della nostra attenzione», ha confermato una fonte militare al quotidiano Maariv. Secondo altri media israeliani, nel mirino di Gerusalemme non ci sono gli Houthi, ma chi li sostiene: il regime di Teheran.
  Per Ron Ben-Yishai, storica firma di Yedioth Ahronot, muovere contro l’Iran non fermerà gli attacchi dallo Yemen. Il regime «si limita a supportare i ribelli, fornendo missili e droni contrabbandati via mare», spiega Ben-Yishai, decano dei corrispondenti di guerra israeliani. Attaccare l’Iran, dunque, non fermerà il gruppo yemenita, che agisce principalmente per consolidare il proprio status nel paese e nel mondo arabo, sostenendo con i missili la causa palestinese. Gli Houthi hanno anche dimostrato la loro capacità di influenzare la navigazione commerciale nel Mar Rosso e nel Canale di Suez, rafforzando la propria posizione di attore in grado di destabilizzare l’economia globale.
  Per fermarli, sostiene Ben-Yishai, Israele dovrà seguire la strategia già applicata contro Hezbollah: colpire la leadership del gruppo e distruggerne i missili balistici, i droni, le basi di lancio e gli impianti di produzione di armi. Tuttavia, a causa della distanza geografica e delle difficoltà di intelligence, lo stato ebraico non può pensare di agire da solo. «Tsahal necessita della piena collaborazione degli Stati Uniti, che operano nel Mar Arabico e nel Mar Rosso, per condurre un’operazione efficace e duratura». L’amministrazione del presidente Joe Biden ha colpito ripetutamente in Yemen, ma ha evitato operazioni massicce. A gennaio, con la presidenza di Donald Trump le strategie potrebbero cambiare. «Dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, Stati Uniti e Israele», scrive Ben-Yishai, potrebbero avviare «un’azione congiunta che riporti gli Houthi alle loro precedenti dimensioni» di piccolo gruppo di ribelli «e impedisca loro di diventare un fattore di disturbo dell’ordine globale e dell’economia internazionale».

(moked, 23 dicembre 2024)

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“Se non li rilasciate, scatenerò l’inferno”: qual è la vera strategia di Donald Trump per liberare gli ostaggi israeliani?

di David Zebuloni

Il neoeletto presidente americano Donald Trump ha toccato i cuori del popolo israeliano all’inizio di questo mese quando ha pubblicato un post sulla rete sociale da lui fondata “TRUTH”, in cui ha scritto: “Tutti parlano degli ostaggi israeliani detenuti in modo violento e disumano, ma nessuno agisce. Se gli ostaggi non verranno rilasciati prima del 20 gennaio 2025, la data in cui assumerò con orgoglio il mio incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà un vero e proprio inferno in Medio Oriente, anche per quelli che sono responsabili di queste atrocità contro l’umanità”. Questa settimana, in seguito a una lunga conversazione telefonica tenuta con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il neo presidente americano ha ribadito il medesimo concetto dichiarando questa volta che “Se gli ostaggi israeliani non verranno liberati, Hamas farà una brutta fine”.
Ecco, dopo un anno di lotta politica, sociale e militare per riportare alle loro famiglie i cento ostaggi israeliani ancora tenuti in cattività nei tunnel del terrore a Gaza, Donald Trump ha riportato in primo piano una questione dolorosa e urgente che non ha mai davvero ricevuto le giuste attenzioni mediatiche sul piano globale. Tuttavia, in molti si domandano cosa si nasconda dietro alla minaccia del neo eletto. Le dichiarazioni di Trump sono sostenute da un’effettiva e concreta strategia diplomatica e militare o la loro unica strategia è quella di creare un effetto deterrente con la sola forza della parola?
“Nel caso di Trump, tutto inizia con un tweet e poi si sviluppa la strategia,” spiega Rotem Oreg, esperto di politica americana e direttore dell’associazione LIBRAEL, in un’intervista a Makor Rishon. “È chiaro a tutti che gli americani non attaccheranno nella Striscia di Gaza per conto di Israele. Se qualcuno ha una qualche fantasia che ciò possa accadere, è meglio che si ricreda subito. Tuttavia, il governo americano può senza dubbio creare una pressione tale da favorire i negoziati a favore del rilascio degli ostaggi”. Per quanto riguarda i diversi scenari possibili, Oreg afferma che “Trump potrebbe dare a Israele più libertà d’azione o il pieno supporto per un’azione israeliana mirata a colpire Hamas come non è stato fatto fino ad ora”.
Non è la prima volta che il presidente eletto solleva pubblicamente la questione degli ostaggi israeliani nell’ultimo anno. Anche durante la sua campagna elettorale, Trump ha chiesto ripetutamente il loro rilascio immediato. Tuttavia, le sue ultime dichiarazioni sembrano essere molto più incisive delle precedenti. “Esiste un processo che mira a far capire a Trump che ha l’opportunità di fare la storia,” spiega Oreg. “Quando ho incontrato i consiglieri dei principali membri del nuovo governo, mi è stato detto che l’obiettivo del neo presidente è quello di riuscire lì dove Biden ha fallito. Trump non agisce per ideali, ma per il semplice desiderio di passare alla Storia. Di vincere i suoi predecessori e riuscire a fare ciò che loro non hanno fatto. Pertanto, più gli verrà detto che il suo operato per il rilascio degli ostaggi è nobile e importante, e più lui si sentirà gratificato e continuerà nella sua missione”.
Minacce da una parte, realtà dall’altra: come influirà davvero il tweet del neo presidente americano sull’organizzazione terroristica a Gaza? “Penso che Hamas non si faccia molto influenzare dalle minacce americane, poiché ha già incassato abbastanza colpi,” risponde Rotem Oreg. “Più una persona è debole e meno ha da perdere. Questo vale anche per un’organizzazione terroristica come Hamas. I grandi regimi come quello iraniano, per esempio, sono generalmente più sensibili alle minacce americane perché hanno molto più da perdere”.
Una notizia non incoraggiante per chi credeva che le parole del presidente americano potessero cambiare il destino del Medio Oriente. “Hamas sta perdendo la sua legittimità anche nei paesi arabi che l’hanno supportata finora, e questo gioca molto più a nostro favore rispetto al tweet di Trump,” conclude l’esperto, nuovamente speranzoso. “Non a caso nell’ultimo mese sono stati pubblicati molti più video degli ostaggi di quando sia stato fatto fino ad ora. Hamas vuole fare pressione su Israele per tornare a negoziare. Hamas è esausto e probabilmente vuole finire questa guerra”.

(Bet Magazine Mosaico, 23 dicembre 2024)

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"Pager Plot": il piano del Mossad contro Hezbollah svelato a '60 Minutes'

di Luca Spizzichino

Due ex agenti del Mossad hanno rivelato i dettagli dietro una delle più audaci operazioni israeliane, il “Pager Plot”, durante un’intervista trasmessa domenica sera su 60 Minutes. L’operazione, eseguita il 17 settembre 2024, ha visto la vendita a Hezbollah di migliaia di cercapersone manomessi e successivamente fatti esplodere dal Mossad, causando caos e gravi perdite per l’organizzazione terroristica.
  L’operazione affonda le sue radici oltre dieci anni fa, quando il Mossad iniziò a introdurre dispositivi manipolati tra le fila di Hezbollah. Come raccontato da “Michael”, un ex ufficiale operativo del Mossad, inizialmente vennero utilizzati walkie-talkie. “Un walkie-talkie era un’arma, al pari di un proiettile o di un missile,” ha dichiarato Michael. All’interno della batteria era nascosto un ordigno esplosivo fabbricato in Israele. “La tecnologia era così sofisticata che il dispositivo sembrava completamente normale agli occhi degli acquirenti”.
  Negli anni successivi, il Mossad creò un sistema complesso di società di copertura per infiltrarsi nel mercato e vendere questi dispositivi senza destare sospetti. “Abbiamo creato un mondo fittizio” – ha spiegato Michael. “Siamo registi, produttori e attori principali; il mondo è il nostro palcoscenico”. Con il tempo, il Mossad si accorse che Hezbollah utilizzava ancora largamente cercapersone per comunicazioni critiche, poiché considerati dispositivi semplici e difficili da intercettare. Nel 2022, l’organizzazione si concentrò quindi su questi apparecchi, modificandoli per includere esplosivi e garantendo che rimanessero completamente funzionali. Abbiamo testato ogni dispositivo con attenzione, assicurandoci che l’esplosione colpisse solo il portatore, evitando danni collaterali” ha spiegato “Gabriel”, un altro ex agente coinvolto nell’operazione.
  Per rendere i cercapersone più appetibili, il Mossad lanciò una campagna di marketing con video pubblicitari falsi su YouTube che promuovevano i dispositivi come “robusti, resistenti alla polvere e impermeabili”. Nonostante lo scetticismo iniziale dei superiori, che ritenevano il design troppo ingombrante, gli agenti riuscirono a convincerli dell’efficacia del piano.
  Il 17 settembre 2024, alle 15:30, il Mossad ha attivato da remoto i cercapersone esplosivi distribuiti in Libano. Le vittime hanno ricevuto un messaggio criptato che le invitava a premere due pulsanti per attivare una presunta funzionalità del dispositivo, innescando invece l’esplosione. Tuttavia, come spiegato da Gabriel, anche senza premere i pulsanti i dispositivi sarebbero esplosi. “Il giorno dopo, la gente aveva paura persino di accendere i condizionatori d’aria, temendo che potessero esplodere” ha ricordato Michael. Il Mossad ha poi riattivato i walkie-talkie manipolati, dormienti da oltre un decennio. Alcuni di questi sono esplosi durante i funerali delle vittime dei cercapersone, amplificando l’impatto psicologico dell’operazione. Complessivamente, l’azione ha ferito circa 3.000 membri di Hezbollah, ne ha uccisi 30 e ha lasciato l’organizzazione nel caos.
  Nonostante il successo strategico, l’operazione ha sollevato domande sull’etica di queste azioni. Alla domanda della giornalista Lesley Stahl su come questa operazione influenzasse la reputazione morale di Israele, Gabriel ha risposto: “Prima difendi il tuo popolo, poi pensi alla reputazione”. Tuttavia, per molti l’operazione è stata definita un capolavoro di guerra psicologica. “Non possiamo usare di nuovo i cercapersone, ma ora Hezbollah dovrà continuare a indovinare quale sarà la nostra prossima mossa” ha concluso Michael. “Abbiamo dimostrato che possiamo colpire ovunque e in qualsiasi momento” ha dichiarato Gabriel. “E ora, il nemico vive nella paura di ciò che potrebbe accadere domani”.

(Shalom, 23 dicembre 2024)

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In Occidente nessuno chiederà scusa agli ucraini

di Maurizio Belpietro

Chiederanno scusa agli ucraini? Ammetteranno di averli illusi, di averli mandati a morire, di averli trascinati in una guerra che li ha resi orfani, invalidi, poveri, precipitandoli in un orrore che non avrà fine neppure quando cesserà il tuono dei cannoni? Riconosceranno di aver raccontato loro un'infinità di menzogne? Se lo chiedeva ieri, su La Stampa, Domenico Quirico, uno dei pochi inviati che le guerre le ha viste davvero e dunque non fa il tifo per l'odore del sangue e della polvere da sparo. «L'impossibilità di vincere in Ucraina riporta l'Occidente alla realtà dei fatti» era il titolo del suo articolo. «La Nato non può sopperire alla carenza di uomini di Kiev. Dobbiamo scusarci con gli ucraini caduti» era il succo del discorso. Già, dopo tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti, forse un milione di feriti, la guerra ci riporta impietosamente alla realtà. Kiev ha esaurito il materiale umano. Non i missili, non i carri armati e nemmeno i droni, che abbiamo generosamente donato: semplicemente non ci sono più soldati da mandare in trincea a morire per l'Occidente. Decine di migliaia di giovani in età da divisa si sono dati alla macchia, preferendo l'onta della diserzione al freddo della bara. Nessuno sa esattamente quanti siano i morti, quanti gli invalidi e i fuggiaschi, però da mesi un fatto è certo: le trincee sono rimaste sguarnite e delle truppe mandate in tutta fretta e con gran entusiasmo nel Kursk per dare scacco a Putin nessuno conosce il destino. Dimenticati, come dimenticati sono stati tutti gli altri. E le promesse? Tutte quelle belle parole per assicurare che l'Ucraina non sarebbe mai stata lasciata sola? Perse nel vento. Ora è tempo di realismo. Per di più, fra meno di un mese, alla Casa Bianca arriverà Trump e ci penserà lui. Della ritirata si potrà sempre incolpare lui. La scusa per l'abbandono di Zelensky e dei suoi martiri è già pronta e assolve tutti i guerrafondai di casa nostra. I quali hanno indossato l'elmetto e imbracciato il moschetto rimanendo nel salotto di casa loro, gonfiando il petto negli studi televisivi.
  Era già tutto scritto. Lo so, ha poco senso di fronte alla tragedia di centinaia di migliaia di morti rivendicare di aver avuto ragione. Ma gran parte delle argomentazioni che oggi spingono governanti e commentatori a sostenere che non si può continuare così, che serve una pace o quantomeno una tregua, erano note fin dall'inizio. Mentre qualche ragionierino alla Fubini raccontava che mancava poco e poi, grazie alle sanzioni, la Russia sarebbe stata costretta a capitolare, noi spiegavamo che i numeri purtroppo erano dalla parte di Putin. Non quelli delle banche e delle industrie, ma i numeri dei soldati. La guerra non è una battaglia navale che si gioca a tavolino. Servono gli uomini e a meno di non schierare truppe occidentali i numeri erano impietosamente a favore della Russia. Si sono illusi di spazzare via Putin con un colpo di Stato, poi con una malattia, ma a tre anni di distanza il potere dello zar del Cremlino appare intatto. Anzi, paradossalmente lo abbiamo rafforzato, perché anche se con la sua operazione speciale non ha ricondotto l'Ucraina sotto di sé, ha resistito a quella che Quirico considera la più grande alleanza militare ed economica dell'Occidente, tenendo la Crimea, conquistando tutto il Donbass e dando a Kiev un colpo da cui non si riprenderà per anni. Altro che piegare la Russia. Da questa guerra esce in ginocchio l'Europa. Politicamente ed economicamente. La Germania è avvitata in una crisi spaventosa che rischia di trascinare nel vortice anche l'Italia. La Francia non sta meglio. A tre anni dall'invasione russa e dopo decine di bellicose dichiarazioni si torna al punto di domanda di Quirico. Chiederanno mai scusa agli ucraini i governanti che giuravano di essere pronti a difendere la libertà? Ammetteranno di aver scritto stupidaggini i soldatini dalla penna facile? Domanderanno perdono agli ucraini, ma anche agli europei, per averli trascinati alla sconfitta?

(La Verità, 23 dicembre 2024)
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«Ammetteranno di aver scritto stupidaggini i soldatini dalla penna facile?» No, non lo faranno mai. Come nel caso del covid. Stupidaggini. Pure e semplici stupidaggini allineate una dopo l’altra, che nel tentativo di sorreggersi a vicenda aumentavano sempre di volume e diventavano via via più imbarazzanti. Fino allo schianto definitivo. Definitivo? No, forse no, perché anche la stupidità sembra avere la capacita di risollevarsi sempre dalle ceneri e ripresentarsi in nuova veste più consona all'ambiente. Varrà la pena allora di seguire attentamente gli articoli che si presenteranno in questi giorni e sulle grandi testate e su quelle pensose (alcune anche favorevoli a Israele) per “spiegare” quello che oggi sta avvenendo intorno all’Ucraina. Sarà la rivincita dei “putiniani”? No, sarà il ridicolo che ricadrà su coloro che hanno inventato questo nome per una inesistente categoria di esseri umani. E come riflessione sull'Occidente in versione American Way of Life riproponiamo un articolo scritto all'inizio di questa storia, insieme al relativo commento. M.C.


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Il suicidio dell’Europa, le armi e il suo silenzio 

di Donatella Di Cesare

La parola Occidente, in questi giorni così spesso evocata, ha un significato articolato nelle diverse epoche. Non indica un sistema di valori, una forma politica, un modo di vivere. Occidente è l'orizzonte a cui guardavano i greci: la costa italiana, il continente europeo, una futura epoca nella storia del mondo. Nel periodo tra le due guerre mondiali i filosofi hanno pensato il destino dell'Occidente non come un tramonto, bensì come un passaggio: nel buio della notte europea non c'era solo morte e distruzione, ma anche la possibilità di salvezza. L'Occidente era l'Europa, l'Europa era l'Occidente. In questa prospettiva, che oggi - con un giusto accento critico - si direbbe eurocentrica, ciò che era oltre l'Atlantico, Inghilterra compresa, non era occidentale. 
   Dopo il 1945, il baricentro della Storia passa dal continente europeo a quello americano. Anche la parola "Occidente" cambia significato designando l'American Way of Life, lo stile di vita americano e tutto ciò che, tra valori e disvalori, porta con sé. L'Europa si uniforma, più o meno a malincuore. Se non altro per non perdere il nesso con l'Occidente di cui è stata sempre il cardine. 
   Quel che avviene in questi gravissimi giorni, dietro il millantato nuovo scontro di civiltà, è un'autocancellazione dell'Europa, che rinuncia a se stessa, alla propria memoria, ai propri compiti. Il 2022 segna l'ulteriore, definitivo spostamento, l'apertura di una faglia nella storia del Vecchio continente. L'Europa tace, sovrastata dai tamburi di guerra dell'Occidente atlantico, a cui sembra del tutto abdicare. L'algida figura di Ursula von der Leyen, questa singolare, inquietante comparsa, che spunta di tanto in tanto per annunciare "nuove sanzioni alla Russia", compendia bene in sé un'Europa cerea e spenta, incapace di far fronte a una crisi annunciata. Possibile che dal 2014 non si sia operato per evitare il peggio? Possibile che tra dicembre e febbraio non esistesse un margine per impedire l'invasione? Possibile vietarsi l'autorità di mediare per la pace? Si tratta di una vera e propria catena di errori politici imperdonabili, di cui i cittadini europei dovranno nel futuro prossimo chiedere conto a chi ora ha ruoli decisionali. Come se non bastasse, il silenzio fatale dell'Europa è squarciato dalle sguaiate provocazioni di Boris Johnson, il promotore della Brexit, e dalle temerarie parole di Joe Biden, forse uno dei peggiori presidenti americani. 
   Il suicidio dell'Europa è sotto gli occhi di tutti. Ed è ciò che ci angoscia e ci preoccupa. Perché riguarda il futuro nostro e quello delle nuove generazioni. D'un tratto non si parla più di Next Generation Eu - nessun cenno a educazione, cultura, ricerca. All'ordine del giorno sono solo le armi. C'è chi applaude a questo, inneggiando a una fantomatica "compattezza" dell'Europa. Quale compattezza? Quella di un'Europa bellicistica, armi in pugno? Per di più ogni Paese per sé, con la Germania in testa? Non è questa certo l'Europa a cui aspiravamo. In molti abbiamo confidato nelle capacità dell'Unione, che aveva resistito alle spinte delle destre sovraniste e che sembrava uscire dalla pandemia più consapevole e soprattutto più solidale. Mai avremmo immaginato questa deriva. La faglia che si è aperta nel vecchio continente, in cui rischia di precipitare il sogno degli europeisti, è anche la rottura del legame che i due Paesi storicamente più significativi, la Germania e Italia, hanno intessuto con la Russia. Chi si accontenta di ripetere il refrain "c'è un aggressore e un aggredito", ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra. C'è una Russia europea oltre che europeista. Nella sua storia la Russia è stata sempre combattuta tra la tentazione di avvicinarsi al modello occidentale e il desiderio di volgersi invece a Est con una ostinata slavofilia, testimoniata, peraltro, nell'opera di Dostoevskij. Durante la Rivoluzione bolscevica prevalse l'apertura per via dell'internazionalismo. Se Stalin cambiò rotta, la fine dell'impero sovietico segnò il vero punto di svolta. In quella situazione caotica andò emergendo la corrente nazionalistica che aveva covato sotto la cenere. Putin è il portato sia di questo nazionalismo, fomentato anche dal pensatore dei sovranisti Aleksandr Gel'evi Dugin, sia di una frustrata occidentalizzazione. Ma a chi gioverà una Russia isolata, ripiegata su di sé, rinviata a orizzonti asiatici? 
   In un'immagine suggestiva che ricorre in Nietzsche, in Valéry, in Derrida, l'Europa appare un piccolo promontorio, un capo, una penisola del continente asiatico. Nessuno ha mai potuto stabilire dove sia il suo confine a Est. Ma certo ha sempre avuto il ruolo di testa, di cervello di un grande corpo. È stata il lume, la perla preziosa. Ci chiediamo dove sia finita. 

(il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2022)
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“Mai avremmo immaginato questa deriva”, dice l’autrice che, come molti altri, non aveva capito che l’ardore antisovranista non andava a favore di un’immaginaria Europa, ma serviva a colpire residui di sovranità nazionale a favore di un globalismo finanziario internazionale mercificato, corrotto e disgregatore non solo delle unità nazionali, ma di ogni aggregazione sociale, storica, familiare che abbia radici culturali e quindi sia di ostacolo all’espansione di questo nuovo flagello mondiale che, come Attila, “dove passa lui non cresce più neanche un filo d’erba”. Il nostro mediocre capo di governo è una semplice pedina di questo gioco; il suo grado di autonomia decisionale è pari a quello dei commessi in un grande magazzino. Rinfocola la guerra invitando la nazione a parteciparvi e lo dice in mezzo all’applauso allucinante dei parlamentari. Se da Vicenza, per esempio, dovessero partire armi per combattere i russi, nessuno si sorprenda se poi per impedirlo Putin ci invia qualche missile a domicilio. La guerra è guerra. E noi siamo con gli ucraini senza se e senza ma, come dice il nostro capo-regia di governo, quindi se muoiono loro, gli ucraini, bisognerà pur far vedere in qualche modo che siamo pronti a morire anche noi. E i parlamentari lo faranno? Certamente, lo faranno al grido di “Viva la Nato!” M.C.

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Il tessuto lacerato

Le parole pronunciate oggi dal papa al termine dell’Angelus, riferite alla guerra a Gaza, per lui esempio di “crudeltà”, dove, oltre a essere il teatro del bombardamento di scuole e di ospedali, i bambini verrebbero mitragliati, allarga sempre di più il varco tra questo pontificato e il mondo ebraico, già apertosi dopo altre esternazioni analoghe.
  Qui il livello di gravità è ulteriore. Senza mai menzionarlo, l’esercito israeliano è accusato di uccidere intenzionalmente i bambini e di bombardare altrettanto intenzionalmente gli ospedali e le scuole, e di farlo con crudeltà, cioè con una volontà malvagia.
  Che gli ospedali e le scuole colpite vengano usate da Hamas come postazioni e rifugi, che sotto praticamente ogni abitazione della Striscia ci sia un tunnel che serve ai jihadisti per spostarsi, non interessa, ciò che deve essere esibito è la distruzione degli ospedali e delle scuole, a evidenziare una particolare spietatezza da parte di Israele. Ora siamo giunti ai bambini mitragliati.
  Dopo essersi riferito agli israeliani citando il “cattivo sangue” e alla loro tendenza dominatrice, dopo avere scritto che a Gaza occorre investigare se è in corso un genocidio, dopo averli definiti “aggressori” come i russi, si è fatto un altro passo.
  Non sappiamo quale sarà il prossimo. Tutto è possibile, quello che però sappiamo è che il papa con le sue affermazioni intrise di stereotipi antigiudaici e fragorosamente false sta lacerando, giorno dopo giorno, la lenta e faticosa tessitura del dialogo interreligioso ebraico-cristiano in corso da sessanta anni a questa parte.

(L'informale, 22 dicembre 2024)
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La replica d’Israele a papa Francesco

“Pizzaballa può entrare a Gaza, il papa nega la crudeltà di Hamas”.

di Michelle Zarfati

“Contrariamente alle false accuse pubblicate oggi sui media, la richiesta di entrare a Gaza del Patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, è stata accolta, come già avvenuto in passato e secondo le sue preferenze”. Lo ha scritto in una nota l’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede, smentendo quindi quanto detto da Papa Francesco ieri nel discorso annuale rivolto ai cardinali avuto luogo alla Curia, in cui il pontefice aveva sostenuto che al Patriarca era stato negato l’accesso a Gaza a causa dei bombardamenti israeliani. “Ieri il Patriarca non lo hanno lasciato entrare a Gaza e ieri sono stati bombardati bambini: questa è crudeltà, questa non è guerra, voglio dirlo perché tocca il cuore” aveva sostenuto ieri Papa Francesco, tornando nuovamente a muovere accuse contro Israele e la guerra in Medio Oriente contro Hamas.
  Dopo questa risposta, il governo israeliano ha accusato il pontefice di “non riconoscere la crudeltà di Hamas”. “La crudeltà è quando i terroristi si nascondono dietro i bambini mentre cercano di uccidere i bambini israeliani; la crudeltà è quando i terroristi prendono in ostaggio 100 persone per 442 giorni, tra cui un neonato e dei bambini, e abusano di loro”, afferma il Ministero degli Esteri israeliano in una dichiarazione. “Purtroppo il Papa ha scelto di ignorare tutto questo, così come il fatto che le azioni di Israele hanno preso di mira i terroristi che hanno usato i bambini come scudi umani”.
  “Le dichiarazioni del Papa sono particolarmente deludenti perché sono scollegate dal contesto reale e fattuale della lotta di Israele contro il terrorismo jihadista, una guerra su più fronti che gli è stata imposta a partire dal 7 ottobre – prosegue la nota – La morte di una persona innocente in una guerra è una tragedia. Israele compie sforzi straordinari per impedire danni agli innocenti, mentre Hamas compie sforzi straordinari per aumentare i danni ai civili palestinesi. La colpa dovrebbe essere rivolta solo ai terroristi, non alla democrazia che si difende da loro. Basta con i doppi standard e con l’isolamento dello Stato ebraico e del suo popolo” aggiunge il Ministero degli Esteri israeliano.

(Shalom, 22 dicembre 2024)

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Media – La guerra per immagini che la Jihad sta vincendo

Orli Peter, la neuropsicologa che ha fondato la Israel Healing Initiative – associazione dedita a curare i traumi con un approccio innovativo basato sulla neurostimolazione – è sbalordita di fronte al rebranding del leader jihadista siriano Mohamed al-Jolani, che, dopo aver conquistato Damasco all’inizio del mese, è stato descritto come “rivoluzionario in blazer” dalla CNN, e apprezzato su altre testate per i suoi valori di “tolleranza” e “pluralismo”, mentre il Council on American-Islamic Relations ha presentato la sua marcia su Damasco come una vittoria per la “giustizia e la libertà”.
  In un articolo pubblicato da The Jewish Chronicle, la neuropsicologa si chiede come sia possibile che i media non riescano a vedere ciò che hanno davanti agli occhi, anche se un recente report della Henry Jackson Society ha mostrato come i media abbiano abbracciato su larga scala i pregiudizi anti-Israele. Un portavoce della Jihad islamica palestinese, Tarek Abu Shaluf, ha spiegato come gli sia stato insegnato a creare false narrazioni sulla guerra di Gaza proprio per fare appello ai valori umanitari occidentali: «I media internazionali sono diversi da quelli arabi. Si concentrano su questioni umanitarie. Non parliamo loro con il linguaggio della violenza, della distruzione e della vendetta». In tutto il Medio Oriente vengono orchestrate operazioni ben studiate, che, spiega Peter, dimostrano eccezionali capacità di empatia cognitiva, usata per manipolare le nostre emozioni.
  L’empatia cognitiva è la capacità di comprendere e modellare accuratamente i pensieri, i sentimenti e i valori degli altri. In un certo senso, scrive, è come entrare nell’algoritmo di un’altra persona per capire come pensa e come si sente, e riuscire così a prevederne le reazioni. L’empatia cognitiva si costruisce, mentre l’empatia emotiva è involontaria. L’empatia cognitiva viene usata per manipolare l’empatia emotiva degli occidentali: i militanti hanno imparato a presentare la loro causa come allineata con i valori umanitari occidentali, curando attentamente una immagine di campioni di libertà e giustizia. Una dinamica radicata nelle relazioni di potere asimmetriche in cui i gruppi più deboli spesso sviluppano una comprensione di chi è più potente. Gli occidentali pertanto, si legge nell’articolo, non hanno che una comprensione vaga, incompleta e distorta del funzionamento dei militanti. Molti occidentali, in particolare quelli che vivono liberi da guerre o violenze, come pure molti degli studenti che protestano nei campus universitari negli Stati Uniti e non solo, simpatizzano con i militanti in quanto “vittime”. Quello stesso portavoce della Jihad islamica palestinese ha ammesso che quando un razzo ha colpito l’ospedale arabo di Al-Ahli a Gaza nell’ottobre 2023, i terroristi sapevano che si trattava di uno dei loro, ma hanno descritto le morti come un disastro umanitario causato “dall’occupazione”.
  Scrive Orli Peter: «Dopo il 7 ottobre ho visto come questa guerra psicologica jihadista ha un impatto sul recupero dal trauma (…) Questa propaganda è stata interiorizzata dagli ebrei, che provano “vergogna” per la posizione di “occupanti”, e i giovani sono particolarmente sensibili a questo e più propensi a simpatizzare con Hamas». L’empatia del dolore è una reazione emotiva viscerale alla sofferenza: il cervello umano è predisposto a rispondere all’immagine di un bambino sofferente, più che alle statistiche su milioni di persone, e sono immagini che influenzano il funzionamento del nostro cervello, spingendolo all’empatia emotiva. Hamas e i suoi simpatizzanti sono abilissimi a sfruttare questi meccanismi inondando i media con immagini reali o manipolate di bambini morti, presentati sempre come vittime palestinesi di Israele. I leader hanno dichiarato apertamente che un numero maggiore di morti va a vantaggio della loro causa. Aumentare le vittime civili istruendo i gazawi a ignorare gli avvisi di evacuazione israeliani o impedendo fisicamente le evacuazioni è una specifica strategia. Ai media occidentali vengono inviate immagini della sofferenza dei gazawi, mentre i video GoPro di torture e omicidi arrivano ai militanti, per dare loro energie nuove. La nostra empatia diventa uno strumento di manipolazione, l’unica possibilità che abbiamo, conclude Peter, è affinare le nostre competenze cognitive per resistere alla propaganda, ancorando le nostre risposte emotive a una comprensione più attenta e accurata dei fatti. Allo stesso modo, l’immagine dei rivoluzionari “in giacca e cravatta” favorevoli alla pace deve essere esaminata nel contesto più ampio della violenza e della manipolazione estremista. Con attenzione. Con consapevolezza.

(moked, 22 dicembre 2024)

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Per fede Abramo partì... senza sapere dove andava

di Marcello Cicchese

All'età di centoventisette anni, Sara muore. Il marito naturalmente per un certo tempo la piange, poi è costretto a porsi un'ovvia domanda: dove posso seppellirla? Il problema si pone, perché lui in quel paese non possiede nemmeno un centimetro quadrato di terra (Genesi 23:1-4). Deve richiederla, e per questo si rivolge a un certo Efron, a cui però dice che non vuole favori, non vuole niente in dono: chiede di poter comprare la terra necessaria. Dopo le solite cerimonie mediorientali, la terra gli viene venduta. E a caro prezzo.
In tutto questo però c'è una stranezza: ad Abramo, quando ancora si trovava tra Bethel e Ai, Dio aveva fatto una precisa promessa. Gli aveva detto:
    "Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre" (Genesi 13:14-15).
Dunque Abramo avrebbe dovuto essere il proprietario di tutta quella terra, e invece adesso si trova lì come "straniero e avventizio" (come un extracomunitario, diremmo noi oggi) ed è costretto a chiedere cortesemente agli abitanti della zona di cedergli un po' di terreno, non per viverci, ma almeno per poterci morire come proprietario. "Dio non mantiene le promesse", avrebbe potuto dire Abramo, come fanno oggi tanti cittadini quando parlano delle loro autorità (non senza qualche ragione). Qualcuno potrebbe spiegare la cosa con un discorso spirituale: Abramo è il vero proprietario perché è in comunione con Dio, che è proprietario di tutto. Altri potrebbero fare un discorso storico: la terra apparterrà un giorno al popolo che discende da Abramo, quindi in potenza appartiene già a lui. Certo, si potrebbero fare simili dotti discorsi, che però non sembrano consoni a quello stile ebraico di provenienza biblica che non gradisce le fumose astrazioni e predilige il linguaggio concreto delle cose.

Promessa non mantenuta?
  Parlando di quel concretissimo paese in cui Abramo si trovava, Dio gli dice: "lo lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre"; quindi non solo alla discendenza, ma anche ad Abramo stesso, personalmente. Ma Abramo nella sua vita non vide compiersi tutto questo. Si deve spersonalizzare la cosa e cercare in essa un senso spirituale o storico-politico? Il Signore aveva detto ad Abramo: "Àlzati, percorri il paese quant'è lungo e quant'è largo, perché io lo darò a te" (Genesi 13:17). E' difficile spiritualizzare o storicizzare una frase secca, concreta e precisa come questa.
Abramo ubbidì all'ordine di Dio: si alzò, levò le tende e cominciò a percorrere in direzione sud la terra che gli era stata destinata. Finché arrivò "alle querce di Mamre, che sono a Hebron" (Genesi 13:18). Lì si fermò, "edificò un altare all'Eterno", e qualche anno dopo edificò una tomba per lui e sua moglie sull'unico pezzo di terra che era diventato di sua proprietà, dopo averlo pagato a peso d'oro. "Ma dov'è la promessa di Dio?" Avrebbe potuto chiedersi Abramo. E comprensibilmente avrebbe potuto piantare tutto e finire i suoi giorni arrabbiato con quel Dio che l'aveva deluso.
Sta scritto invece che "Abramo spirò in prospera vecchiaia, attempato e sazio di giorni, e fu riunito al suo popolo" (Genesi 25:8).

Importanza della terra
  Prima ancora di tentare una spiegazione, si deve osservare che in tutta la storia del patto di Dio con Abramo la terra gioca una parte fondamentale. La cosa viene ripetuta più volte:
    "In quel giorno l'Eterno fece un patto con Abramo, dicendo: 'Io do alla tua discendenza questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate" (Genesi 15:18).
E più avanti, in modo ancora più solenne:
    "Stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto perenne per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. A te e alla tua discendenza dopo di te darò il paese dove abiti come straniero: tutto il paese di Canaan, in possesso perenne; e sarò loro Dio" (Genesi 17:7-8).
Questo versetto è importantissimo, anzitutto perché collega per ben due volte la persona fisica di Abramo con la sua discendenza; in secondo luogo perché si parla di possesso perenne del paese, mettendolo in collegamento con il patto perenne tra Dio ed Abramo. Se cade il possesso perenne della terra da parte della discendenza etnica di Abramo, cade anche tutto il resto del patto di Dio con Abramo, compresa la parte che riguarda la giustizia per fede promessa alla discendenza spirituale, cioè a coloro che saranno giustificati per una fede simile alla sua.

Dio non è un Dio di morti
  La promessa apparentemente non mantenuta dal Signore e il tranquillo atteggiamento di Abramo possono trovare una spiegazione nel capitolo 15 della Genesi. Nell'oscurità profonda e spaventosa di quella notte, quando Abramo vide un fuoco divino passare in mezzo agli animali divisi e ricevette la notizia che i suoi i discendenti sarebbero vissuti per quattrocento anni come stranieri in un paese non loro; e dopo che il Signore l'ebbe personalmente rassicurato dicendogli che lui comunque avrebbe finito i suoi giorni in prospera vecchiaia, ebbe la certezza che il piano di Dio si sarebbe sicuramente compiuto, ma in un passaggio attraverso la morte che avrebbe portato alla risurrezione.
Si sa che la questione della risurrezione non è trattata in modo chiaro ed esaustivo nell'Antico Testamento, ma si sa anche che nell'ebraismo il tema non è mai stato abbandonato.
Nei Vangeli si vedono due gruppi in contrasto fra di loro su questo argomento: i farisei, che credevano nella risurrezione dai morti, contro i sadducei, che non vi credevano, perché secondo loro nella Torah propriamente detta, cioè nei cinque libri di Mosè, non vi sarebbe alcun riferimento in proposito. I sadducei sottoposero la questione anche a Gesù, pensando di metterlo in imbarazzo con una storiella ironica. In questo caso Gesù si schierò apertamente dalla parte dei farisei. E poiché i sadducei si attenevano soltanto all'autorità dei libri di Mosè, Gesù citò un passo contenuto proprio in un libro di Mosè:
    "Quanto poi ai morti e alla loro risurrezione, non avete letto nel libro di Mosè, nel passo del pruno, come Dio gli parlò dicendo: 'Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe'? Egli non è Dio di morti, ma di viventi. Voi errate grandemente" (Marco 12:26-27).
Se Abramo, Isacco e Giacobbe fossero morti per sempre, allora Dio, che vive per sempre, sarebbe per sempre un Dio di morti. Così risponde Gesù, e ragionando in questo modo conferma ancora una volta di essere un vero ebreo, anche nel modo di argomentare.

La speranza di Abramo
  La fede di Abramo si espresse dunque anche nella forma della speranza, perché credette che la morte, anche la sua morte personale, non avrebbe potuto impedire il compiersi delle promesse di Dio.
"Or la fede è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di cose che non si vedono" (Ebrei 11:1), dice l'autore della lettera agli Ebrei. E continua facendo più volte riferimento a testimoni dell'Antico Testamento:
    "Per fede Abramo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio" (Ebr. 11:8-10).
    "Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: 'È in Isacco che ti sarà data una discendenza'. Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione" (Ebr. 11:17-19).
(da "Sta scritto")



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Israele bombarda lo Yemen per mandare un messaggio a Iran e Arabia Saudita

di Andrea Muratore

Le bombe e i missili cadono su Sana’a, capitale dello Yemen, e sul porto di Hodeida ma i destinatari si chiamano Iran e Arabia Saudita: i raid di Israele sul Paese della penisola arabica nella notte tra il 18 e il 19 dicembre hanno rilanciato l’azione di Tel Aviv nel quadrante mediorientale e parlano sia a Teheran, rivale strategico numero uno dello Stato Ebraico, che a Riad, con cui il governo di Benjamin Netanyahu cerca un dialogo.

Perché Israele attacca lo Yemen
  I caccia F-16 hanno penetrato le linee dei ribelli yemeniti colpendo terminal energetici, batterie anti-aeree, depositi di armi, rilanciando il settimo fronte di guerra di Tel Aviv dal 7 ottobre 2023 a oggi: a Gaza, dove nonostante i colloqui la guerra non si ferma, e al Libano interessato da un precario cessate il fuoco, si aggiungono la Cisgiordania, in cui spingono i coloni sostenuti dal governo, la Siria, colpita dai caccia dopo la caduta di Bashar al-Assad e sostanzialmente demilitarizzata da Tel Aviv e i tre Paesi su cui Israele ha compiuto raid: Iraq, Iran e, appunto, Yemen.
  Qual è l’obiettivo di Israele? Enfatizzare la presenza della minaccia degli Houthi nel Mar Rosso contro il commercio globale come pivot attorno a cui costruire una nuova alleanza nel Medio Oriente, superando le contingenze negative imposte per la diplomazia dello Stato Ebraico dalle conseguenze della guerra di Gaza.
  Obiettivo di fondo: sperare che il riavvicinamento Tel Aviv-Riad possa emergere sulla scia della messa a terra di manovre anti-Houthi che spingano i sauditi a riconsiderare il loro impegno a ridurre il coinvolgimento nello scenario regionale e ripensare il riavvicinamento all’Iran. Una strategia che parla anche agli Stati Uniti, i quali da un anno bombardano gli Houthi e non hanno mancato di rafforzare la loro presenza in Medio Oriente dopo la fine del regime siriano, ufficialmente per contrastare possibili riprese dello Stato Islamico.

Obiettivo massima pressione?
  In prospettiva, l’obiettivo ideale di Tel Aviv sarebbe vedere se è possibile plasmare quell’asse Israele-Usa-Arabia Saudita per contenere la proiezione iraniana nella regione e spingere alle porte della Repubblica Islamica il contenimento. La via che Netanyahu vuole seguire passa per l’offensiva contro gli alleati di Teheran e l’attesa per nuove mosse contro il Paese degli ayatollah da parte dell’amministrazione Usa entrante di Donald Trump.
  L’idea che il Trump 2.0 possa avversare nettamente l’Iran è altamente plausibile, e Netanyahu spinge per colpire le forze legate alla Repubblica Islamica ovunque, magari per spingere Teheran a una reazione eccessiva, soprattutto sul programma nucleare, che dia il là a un attacco diretto. Ad oggi tiene solo l’apparente pace iraniano-saudita, mentre Netanyahu lavora per la distensione col Paese di Mohammad bin Salman ora che i colloqui sono ripresi a 14 mesi dal massacro del 7 ottobre. Trump riprenderà il filo degli Accordi di Abramo? Per vederli realizzati, va ricordato, serve un obiettivo comune. Nel 2019-2020 fu l’ostilità contro l’Iran. Ora, va capito se casa Saud sarà della partita prima di dare per ripreso il filo interrotto della politica americana e israeliana in Medio Oriente.
  Dacci ancora un minuto del tuo tempo!
  Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

(Inside Over, 21 dicembre 2024)

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Siria, Israele e Turchia nel dopo-Assad: rischio di uno scontro che non conviene a nessuno

Alleati degli Stati Uniti e principali beneficiari, a livello strategico, della fine dell'era Assad in Siria, Turchia e Israele sono in rotta di collisione. In Siria e non solo, scrive il Wall Street Journal dei due Paesi che hanno una storia di relazioni difficili e a dir poco tese. Gestire questa rivalità diventerà probabilmente, secondo il giornale, una delle priorità dell'Amministrazione Trump, che si insedierà tra un mese. "I funzionari turchi vogliono che la nuova Siria sia un successo in modo che la Turchia possa controllarla e pensano che gli israeliani potrebbero semplicemente rovinare tutto", è l'opinione di Gönül Tol, direttore del programma Turchia del Middle East Institute.
  Molti nella leadership israeliana non sono convinti delle garanzie offerte da Ahmed al-Sharaa (Abu Mohammed al Jawlani) e i funzionari israeliani si sono detti allarmati dal fatto che un nuovo asse di islamisti sunniti, guidato dalla Turchia, possa diventare nel tempo un pericolo grave quanto l'"asse della resistenza" sciita guidato dall'Iran, soprattutto alla luce del sostegno pubblico da parte del leader turco Recep Tayyip Erodgan a nemici giurati di Israele, come Hamas. Lo stesso Erdogan che non ha esitato a definire il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il "macellaio di Gaza". Mentre negli ultimi giorni la Turchia ha più volte chiesto a Israele di ritirare le truppe dalle aree siriane nella zona delle Alture del Golan e ha accusato Israele di sabotare la transizione nel dopo-Assad.
  Mentre prende forma la Siria del dopo-Assad, osserva il Wsj, la Turchia emerge come potenza di gran lunga dominante a Damasco, portando Erdogan "più vicino che mai" al coronamento della sua ambizione di una sfera di influenza che si estende fino a Libia e Somalia. "Le relazioni con la Turchia sono sicuramente in un brutto momento, ma c'è sempre la possibilità di un ulteriore deterioramento – ha commentato Yuli Edelstein, presidente della Commissione Affari esteri e Difesa del Parlamento israeliano – In questa fase non si tratta di minacce a vicenda, ma la situazione potrebbe evolvere in scontri per quanto riguarda la Siria, scontri con proxy ispirati e armati dalla Turchia". La minaccia potenziale della Siria non è immediata, è convinto, ma nel medio periodo i gruppi islamisti nel sud della Siria potrebbero costituire un pericolo le comunità israeliane. "Ci sono ancora canali di comunicazione tra i due Paesi e la Turchia è sempre un alleato degli Stati Uniti, quindi le questioni possono essere appianate", ha invece osservato Eyal Zisser, docente di storia contemporanea del Medio Oriente dell'Università di Tel Aviv, certo che per Israele sia di gran lunga migliore la prospettiva di una Siria controllata dalla Turchia rispetto all'Iran. Anche ad Ömer Önhon, analista con un passato da ambasciatore turco a Damasco, sembra esagerato parlare di imminente scontro tra Turchia e Israele in Siria. "La Turchia è contraria alle politiche del governo Netanyahu – ha affermato – e se cambieranno le politiche le relazioni potranno tornare alla normalità".
  A parte il Qatar (alleato di Ankara), altri partner americani nella regione, come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e la Giordania, avrebbero le loro remore sulla nuova influenza turca. Si teme una rinascita dell'Islam politico, a partire da Damasco. A lungo le politiche della Turchia hanno irritato le Amministrazioni americane. "La Turchia è stata per molto tempo uno stato canaglia all'interno dell'alleanza occidentale", ha commentato Jonathan Schanzer, alla guida della Foundation for the Defense of Democracies, think tank di Washington. Per Shalom Lipner, oggi all'Atlantic Council ma in passato consigliere di diversi premier israeliani, "Hts al posto di guida a Damasco, sotto la protezione turca, solleva la possibilità sconfortante per Israele di islamisti ostili lungo il confine nordorientale, una situazione che potrebbe diventare ancor più difficile se i curdi venissero respinti, lasciando posto alla rinascita dell'Is".
  Intanto in Siria continua l'offensiva dell'Esercito nazionale siriano, sostenuto da Ankara, contro i curdi siriani nelle regioni nel nordest del Paese arabo dove si trovano basi militari Usa. Tra i combattenti ci sono curdi del sudest della Turchia e Ankara considera il Pkk "organizzazione terroristica". "Quanto sta accadendo in questo momento è che un Paese Nato sostiene un'organizzazione terroristica che opera contro un altro Paese Nato", è l'accusa di Mehmet Șahin, deputato dell'Akp di Erdogan. Per Berdan Oztürk, del partito filocurdo Dem, Washington deve sostenere il curdi siriani in nome della battaglia comune degli anni passati contro l'Is. Così Ankara è saltata su tutte le furie quando il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa'ar, ha affermato che Israele dovrebbe considerare i curdi come "alleati naturali". Ma è irrealistico immaginare un sostegno materiale ai combattenti curdi siriani da parte di Israele, secondo l'ex diplomatico turco Aydın Selcen. "Significherebbe che Israele ha perso la testa se decidesse di andare alla ricerca di guai con la Turchia in Siria – ha commentato – Negli ultimi sviluppi Ankara è la vincitrice, Israele è il vincitore. E non vedo la possibilità di un conflitto aperto tra Israele e Turchia. Semplicemente, non ha senso".

(Adnkronos, 21 dicembre 2024)

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Due adolescenti condannate per attacchi antisemiti a Londra

di Michelle Zarfati

Due ragazze adolescenti di 14 e 15 anni sono state condannate per una serie di attacchi antisemiti a Londra. Ad aggravare la loro posizione l’ultimo dei loro attacchi, che, secondo quanto riportato dal The Guardian, avrebbe lasciato una donna senza conoscenza per qualche ora. Le adolescenti, che non possono essere nominate a causa della loro età, hanno preso di mira i membri della comunità ebraica di Stamford Hill in quattro incidenti separati, avvenuti nell’arco di mezz’ora, tutti nel dicembre 2023, come dichiarato dal Crown Prosecution Service (CPS).
  Il CPS ha rivelato che la coppia è apparsa mercoledì alla corte dei magistrati di Stratford, dove è stato imposto loro un ordine di riabilitazione giovanile per 18 mesi. Le due ragazze sono state inoltre poste sotto coprifuoco con un tag elettronico per tre mesi. Il CPS ha poi spiegato di aver chiesto con successo una sentenza più severa in quanto la maggior parte degli attacchi da parte delle due giovani sono stati “motivati dall’odio”. I pubblici ministeri hanno raccontato che, durante il primo incidente, le adolescenti avrebbero chiesto soldi a una donna su St Ann’s Road. Durante la richiesta una delle due ha cercato di colpire la vittima, che è poi riuscita a fuggire. Durante la stessa giornata, circa dieci minuti dopo la coppia ha chiesto soldi a una ragazzina di 12 anni vicino a Holmdale Terrace. Nel giro di cinque minuti, le due hanno iniziato a molestare un gruppo di quattro ragazze di 11 anni, gridando loro frasi antisemite e chiedendo ancora soldi. Secondo il CPS il gruppo è stato poi inseguito e una delle ragazzine è stata afferrata per un braccio violentemente.
  Nell’ultimo incidente, avvenuto mezz’ora dopo il primo, le adolescenti hanno aggredito una donna su Rostrevor Avenue. Le imputate si sono avvicinate alla vittima e le hanno chiesto se avesse dei soldi in tasca. Quando la donna ha cercato di allontanarsi da loro, è stata colpita alla schiena. Il CPS ha aggiunto che le due hanno afferrato il telefono della vittima prima di schiaffeggiarla, toglierle la parrucca, gettarla a terra per prenderla a calci. La donna ha perso brevemente conoscenza e ha riportato “lividi significativi”.
  Le ragazze sono state entrambe giudicate colpevoli di tentata rapina, molestie aggravate dalla religione e lesioni personali durante il processo. “Le prove in questo caso hanno dimostrato che le due adolescenti hanno preso di mira la maggior parte delle vittime solo perché ebree” ha spiegato Jagjeet Saund, del CPS. “Le testimonianze chiave hanno dimostrato che le imputate hanno schernito le vittime, usando un linguaggio antisemita, rendendo chiaramente ovvio che questi attacchi erano crimini d’odio. Evidenziando questo modello di reato, abbiamo chiesto con successo al tribunale di aumentare la pena emessa oggi contro gli imputati – si legge nella nota del CPS – All’udienza di oggi, abbiamo utilizzato una dichiarazione per dimostrare ulteriormente l’impatto che questa dimostrazione di odio può avere sulla comunità locale, causando traumi e paura in tutta la società. Non c’è posto per tale intolleranza e odio, e il Crown Prosecution Service continuerà a lavorare a stretto contatto con la polizia per garantire che coloro che diffondono odio, pregiudizio e ostilità siano perseguiti”.

(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2024)

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Il turpe can can anti-israeliano e i risultati sul terreno

La guerra a Gaza, iniziata con l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele il 7 ottobre 2023, ci ha consegnato due fenomeni interconnessi e paralleli: la più feroce propaganda contro Israele di cui si abbia memoria e il più copioso rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.
Era tutto, a guardare bene, ampiamente prevedibile, dopotutto la propaganda contro lo Stato ebraico è cominciata subito dopo la guerra dei Sei Giorni e ha avuto nell’ONU, fin da allora, una delle sue agenzie principali, quando propose la Risoluzione 242 che i russi e gli arabi cercarono di modificare per obbligare Israele a Israele ritirarsi da tutti i territori conquistati, ovvero anche da Gaza e dalla Cisgiordania che gli erano stati assegnati dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922.
Da allora è stato un crescendo senza sosta, un macinare di risoluzioni avverse sotto regia sovietica con il concorso arabo e degli Stati nell’orbita sovietica, (la Russia è stata il grande laboratorio dove si è costruito tutto l’armamentario lessicale contro Israele in uso ancora oggi, Stato “razzista”, “nazista” “genocida”, dove si pratica l’apartheid), per continuare con lena piena anche dopo il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del Moloch sovietico.
Per quanto concerne l’antisemitismo, va detto che non ha mai abbandonato la scena da duemila anni a questa parte, con alti e bassi, ed è sempre cresciuto tutte le volte che Israele ha dovuto entrare in guerra, perché ciò che proprio agli ebrei non si riesce a perdonare è che sappiano combattere e vincere le guerre, soprattutto nel mondo islamico, dove per secoli erano considerati succubi, dhimmi, e lì, in quel ruolo, dovevano restare per sempre, come fossili.
Acme del processo propagandistico e suo maggiore successo è stata l’invenzione della Palestina, regione popolata da un popolo antichissimo, quello palestinese appunto, anche quando la geografia era ripartita tra Giudea, Samaria e Galilea, regioni dove predicava Gesù, a cui, al posto del talit è stato poi fatta indossare la kefiah in quel processo di appropriazione culturale che ha espropriato gli ebrei anche del Muro Occidentale, rinominato dall’UNESCO in onore del Burak, il mitico quadrupede alato con cui Maometto sarebbe volato a Gerusalemme mai citata nel Corano. Dalla Palestina è disceso per filiazione uno Stato palestinese, senza confini, capitale e moneta, ma accolto all’ONU in virtù di osservatore e oggi riconosciuto virtualmente da Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia.
Si tratta di capolavori, a cui si è aggiunto il vertice odierno, l’accusa di genocidio che Israele avrebbe compiuto a Gaza dove secondo la rivista Lancet, già prodiga in passato di accuse a Israele, non sarebbero morti quarantaduemila civili (nessun miliziano jihadista) ma addirittura centosessantaseimila, in attesa di nuove cifre più cospicue che, a questo punto, presto supereranno i cinquecentomila morti della guerra siriana, anche se nessuno ha mai accusato Assad di genocidio o ha emesso nei suoi confronti mandati di arresto come è successo a Netanyahu.
Si potrebbe continuare ma ci fermeremo qui, lo spazio non basterebbe. Nonostante questo e altro, c’è da dire che Israele la guerra la sta vincendo, non l’ha ancora vinta ma è sulla buona strada, con Hamas a pezzi a Gaza, Hezbollah assai malconcio e privo della parte più consistente del suo quadro dirigente, Assad fuggito in Russia e l’Iran, grande sponsor che guarda affranto il crollo dell'”asse della resistenza” e il volatizzarsi in fumo dei miliardi di dollari spesi per sostenerlo.
C’è da aggiungere che a breve Donald Trump tornerà alla Casa Bianca e Netanyahu e il suo governo ne usciranno rafforzati. Malgrado il turpe cancan anti-israeliano, non sono buoni giorni per gli antisemiti e gli odiatori di Israele.

(L'informale, 20 dicembre 2024)

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7 ottobre – Engelmayer porta le sue cartoline a Torino

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Un uomo assorto cammina per Torino. Passeggia per le vie, sullo sfondo la Mole antonelliana, il Monte dei Cappuccini. Ma il suo pensiero è rivolto altrove: agli ostaggi da 441 giorni prigionieri di Hamas a Gaza. «Io sono a Torino, ma gli ostaggi sono ancora lì. E questo è sempre il mio primo pensiero. Da un anno disegno i loro volti, le loro storie. È una forma di attivismo che non mi abbandona mai, non importa la città in cui sono. Del resto non importa cosa facciamo noi nella nostra quotidianità, la costante è che loro sono ancora prigionieri», afferma a Pagine Ebraiche Zeev Engelmayer. I lettori di questo giornale lo conoscono: il numero di settembre portava in copertina una sua opera, assieme a una lunga intervista. Ora è in Italia per presentare di persona le sue cartoline quotidiane. L’appuntamento era al centro sociale della Comunità ebraica di Torino. «Ho presentato la mia storia di illustratore e di attivista con il personaggio umoristico di Shoshke (una donna sua alter ego), ma soprattutto il mio impegno dopo il 7 ottobre».
Dopo le stragi e i rapimenti di Hamas, Engelmayer ha iniziato a disegnare gli ostaggi. «Ha un tratto completamente diverso dagli altri. Attraverso l’uso di colori e un disegno apparentemente ingenuo riesce a dare un senso di ottimismo anche in questa situazione drammatica», sottolinea il gallerista Ermanno Tedeschi, promotore insieme all’Adei Wizo di Torino dell’incontro con Engelmayer. A portare l’illustratore in Italia per la terza volta è stata l’addetta culturale dell’ambasciata d’Israele, Maya Katzir. «In Israele tutti lo conoscono. Le sue cartoline per gli ostaggi sono ovunque: dalle fermate degli autobus alle manifestazioni dei famigliari dei rapiti».
Al pubblico torinese l’illustratore ha regalato alcune delle sue opere. «È stato un gesto spontaneo», racconta Engelmayer. «Non mi aspettavo di trovare anche qui dei legami così forti con Israele e con la situazione degli ostaggi. Per noi è la quotidianità, siamo immersi in queste storie e sappiamo chi sono Naama Levy, Liri Albag, Matan Zangauker. Ho trovato anche qui a Torino molta consapevolezza e solidarietà».
Nel corso della serata torinese sono state raccolte donazioni per la campagna “Ritorno a Sderot”, in favore della città del sud di Israele duramente colpita il 7 ottobre. d.r.

(moked, 20 dicembre 2024)

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Distrutti 7 km di tunnel a Gaza. Da Stoccolma stop all’Unrwa

A distanza di oltre un anno dall’inizio della guerra a Gaza, Tsahal è ancora impegnata nella distruzione dei tunnel di Hamas. Negli ultimi giorni l’unità Yahalom, corpo d’élite del genio militare israeliano, ha identificato e distrutto tre tunnel. Oltre sette chilometri di reticoli, in cui i soldati hanno trovato attrezzature delle Israel Defence Forces rubate dai terroristi durante l’assalto del 7 ottobre, oltre ad armi e mappe delle comunità israeliane a ridosso del confine con Gaza.
  Nell’enclave palestinese Tsahal continua dunque la sua operazione per smantellare l’infrastruttura di Hamas e degli altri gruppi terroristici. Nel mentre attende come tutto il paese aggiornamenti sulle trattative per una tregua. Dopo le parole di ottimismo del ministro della Difesa Israel Katz, il negoziato è nuovamente rallentato. La firma descritta giorni fa come imminente, ma ora alcuni media arabi parlano di settimane. Resta la speranza, a cui si affida anche il segretario di stato Usa Antony Blinken. Intervistato dall’americana MSNBC, Blinken ha ribadito l’impegno di Washington per arrivare a un cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi. 100 persone, di cui almeno 34 non più in vita, prigioniere da quattordici mesi di Hamas. «Dobbiamo riportarle a casa», ha sottolineato Blinken. Secondo il capo della diplomazia Usa la fine della guerra a Gaza è nell’interesse di Israele, così come evitare un’occupazione prolungata dell’enclave palestinese. «Se finiscono per occupare Gaza, dovranno affrontare un’insurrezione per anni. Non è nel loro interesse». Il futuro di Gaza, ha aggiunto, non deve prevedere Hamas. «È necessario un piano coerente per il futuro».
  Intanto dalla Svezia arriva la notizia che il governo di Stoccolma smetterà di finanziare l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per l’assistenza ai rifugiati palestinesi, accusata da Israele e da altri Paesi di collusione con Hamas. Gli aiuti alla popolazione civile di Gaza verranno allo stesso tempo raddoppiati, ha dichiarato il ministro svedese per la cooperazione Benjamin Dousa. «I fondi andranno a diversi organi Onu che si occupano di distribuire medicine, cibo e altri generi di prima necessità».

(moked, 20 dicembre 2024)

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Erdogan sta per invadere il nord della Siria ma critica Israele per il Golan

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto capire che la Turchia potrebbe intervenire nel nord della Siria per eliminare quelle che, a suo dire, sono minacce alla sua sicurezza poste dai gruppi curdi siriani. Tuttavia, anche se medita un’invasione, Erdogan sostiene che gli Stati Uniti e le potenze occidentali hanno la “responsabilità di impedire a Israele” di operare in territorio siriano.
A differenza della Turchia, i cui proxy controllano ampie zone della Siria settentrionale, l’IDF è entrato in una zona cuscinetto tra la Siria e la parte delle Alture del Golan annessa a Israele solo questo mese, affermando di farlo temporaneamente, fino a quando non sarà istituito un nuovo regime che possa garantire il rispetto dell’accordo di disimpegno del 1974 che ha formato la zona demilitarizzata.
La dichiarazione di Erdogan a un gruppo di giornalisti arriva anche in mezzo a notizie di combattimenti tra combattenti sostenuti dalla Turchia e le Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda sostenute dagli Stati Uniti nel nord della Siria, vicino alla città di confine di Kobani e alla diga di Tishrin sul fiume Eufrate.
“Dimostreremo che è giunto il momento di neutralizzare le organizzazioni terroristiche presenti in Siria”, ha dichiarato Erdogan, secondo una trascrizione delle sue osservazioni. “Lo faremo per prevenire qualsiasi ulteriore minaccia proveniente dal sud dei nostri confini”.
La Turchia considera l’SDF un’organizzazione terroristica perché la sua componente principale è un gruppo allineato con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, o PKK, che è vietato in Turchia. All’inizio della settimana, l’SDF ha dichiarato che gli sforzi di mediazione guidati dagli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere una tregua permanente nel nord della Siria.
“La fine della strada per le organizzazioni terroristiche è vicina”, ha dichiarato Erdogan. “Non c’è spazio per i terroristi nel futuro della regione. La vita dell’organizzazione terroristica del PKK e delle sue estensioni si è esaurita”.
Erdogan afferma che mettendo in sicurezza la zona di confine con la Siria, la Turchia impedirà al PKK di reclutare combattenti.
Il leader turco, nel frattempo, accoglie con favore il fatto che molti Paesi stiano stabilendo contatti con i nuovi leader siriani, affermando che si tratta di “un segno di fiducia” nella nuova amministrazione. Ha dichiarato che la Turchia assisterà il Paese nella creazione di nuove “strutture statali”.
Erdogan aggiunge che il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan si recherà presto in Siria.

(Rights Reporter, 20 dicembre 2024)

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Il caso Le Monde: polemiche e accuse di schieramento ideologico tra filo-palestinismo e critica a Israele. Redazione spaccata

di Marina Gersony

Si respira un’aria pesante nella nuova sede avveniristica del quotidiano Le Monde, un edificio di vetro e acciaio nelle immediate vicinanze della stazione. Nonostante l’architettura trasparente e l’open-space, dove anche gli amministratori condividono le scrivanie con i giornalisti, il clima di collaborazione sembra un lontano miraggio. «La gente ha paura», confessa un redattore sotto anonimato, dando voce al malcontento che da mesi serpeggia tra le scrivanie di tra i giornali più importanti in Francia e non solo.
  Secondo una minuziosa inchiesta condotta da Le Figaro e riservata ai suoi abbonati, il disagio è palpabile e riguarda principalmente il trattamento editoriale del conflitto israelo-palestinese. Tra i temi caldi spiccano il controverso “muro di Gaza” e le polemiche attorno a Benjamin Barthe, vicecaporedattore della sezione internazionale, la cui vita privata e scelte professionali stanno alimentando divisioni profonde nella redazione. Barthe è sposato con Muzna Shihabi, un’attivista palestinese le cui posizioni politiche esplicite sollevano dubbi sull’imparzialità del giornale.

• IL “MURO DI GAZA” E LA QUESTIONE DELL’OMERTÀ
  Ma qual è il punto? All’interno degli spazi comuni della redazione di Le Monde, un angolo è stato ribattezzato “il muro di Gaza”. Qui campeggiano immagini di bambini palestinesi, articoli di denuncia e slogan come “Stop al genocidio” e “Non lasciate che vi dicano che tutto è iniziato il 7 ottobre 2023”. Secondo le testimonianze raccolte da Le Figaro, il muro sarebbe un simbolo della presa di posizione pro-palestinese di una parte della redazione. Un altro disegno, che rappresenta la Statua della Libertà con un drappo insanguinato, reca la scritta “Libertà di uccidere”. La narrazione offerta da questi materiali è giudicata da alcuni redattori come troppo unilaterale e ideologica.
  «Passare davanti a quel muro ogni giorno mi disturba profondamente», ammette turbata una giornalista, aggiungendo che la complessità del conflitto israelo-palestinese richiederebbe una rappresentazione più equilibrata. Tuttavia, il dibattito interno sembra soffocato: «C’è un clima di omertà; chi critica rischia di essere isolato», è il commento di chi denuncia il trattamento riservato a Israele sul quotidiano. Ma oltre al clima teso che sembra regnare all’interno della redazione, è tutta la linea editoriale ad aver suscitato reazioni sia all’interno che tra i lettori.

• LE ACCUSE CONTRO BARTHE E SUA MOGLIE
  Il caso di Benjamin Barthe rappresenta un altro nodo cruciale. Ex corrispondente in Medio Oriente, Barthe è stato accusato di aver adottato una linea editoriale favorevole ai palestinesi, influenzata, secondo alcuni, dall’attivismo della moglie. Muzna Shihabi non ha mai nascosto le sue opinioni: sui social media utilizza spesso hashtag come #FreePalestine e ha espresso solidarietà per figure controverse come Ismaïl Haniyeh, leader di Hamas. Una delle sue dichiarazioni più discusse recita: «Che Dio distrugga il regime sionista».
  Questi legami hanno alimentato un acceso dibattito sulla deontologia e sull’imparzialità di Barthe. Sebbene il comitato etico di Le Monde abbia descritto le critiche come una «campagna di intimidazione», il malcontento interno cresce. Alcuni redattori ritengono che la presenza di Barthe nella sezione internazionale comprometta la credibilità del giornale.
  Nel frattempo, sui social la questione suscita clamore. Come riporta Le Journal du Dimanche (chiamato anche Le JDD),  l’ex redattrice capo di i24News, Noémie Halioua, condanna un «muro in cui convivono odio anti-israeliano, antisemitismo e deliri complottisti». Il giurista Étienne Dujardin paragona a sua volta quel muro al «muro dei cretini» presente nella magistratura e afferma che «il giornale Le Monde è in totale deriva».

• LE MONDE, NESSUN PASSO INDIETRO
  «Deriva anti-israeliana: la risposta sconcertante di Le Monde dopo le rivelazioni di Le Figaro», titola Le JDD che ha ottenuto un comunicato dal CDR (Comitato di Redazione), dal quale non emerge alcuna autocritica o messa in discussione delle posizioni del giornale. Il CDR respinge con fermezza le rivelazioni del quotidiano concorrente, definendo l’inchiesta basata su «interpretazioni errate e fatti distorti». Rivolgendosi all’intera redazione, il Consiglio sottolinea che all’interno del giornale esistono «spazi di confronto e dialogo», nei quali vengono regolarmente discussi temi importanti, spesso con dibattiti accesi durante le riunioni editoriali. Il comunicato esprime inoltre disapprovazione per il fatto che alcuni membri della redazione abbiano scelto di manifestare il proprio dissenso pubblicamente, anziché discuterne nelle sedi interne appropriate. Viene anche condannata la diffusione di immagini degli uffici di una persona estranea al ruolo di giornalista, considerata una grave violazione durante questa vicenda.

• RADICI STORICHE DEL CONFLITTO INTERNO
  Per comprendere la crisi attuale, è utile guardare al passato di Le Monde. Fondato nel 1944 da Hubert Beuve-Méry, il giornale ha sempre cercato di mantenere una reputazione di rigore e imparzialità. Tuttavia, le sue posizioni editoriali hanno spesso rispecchiato un certo impegno politico, soprattutto durante momenti storici critici come la decolonizzazione e il conflitto in Algeria. Questa tradizione di attivismo si intreccia oggi con le dinamiche interne di una redazione che deve confrontarsi con il peso delle opinioni personali e delle pressioni esterne.
  La crescente polarizzazione sociale ha spinto molti giornalisti a rivendicare maggiore libertà espressiva, talvolta a scapito di un approccio neutrale. Questo è evidente non solo nel caso di Barthe, ma anche in altre figure di spicco della redazione, che utilizzano i social media per esprimere opinioni forti, spesso divergenti dalla linea ufficiale del giornale. Il rischio, secondo alcuni osservatori a commento della questione, è che questa frammentazione comprometta la coesione e l’autorevolezza della testata.

• UNA CRISI CHE RIFLETTE IL PANORAMA MEDIATICO
  Il caso di Le Monde non è isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di polarizzazione del giornalismo francese e probabilmente non solo. Negli ultimi anni, molte testate hanno abbandonato la pretesa di neutralità per abbracciare narrative più esplicite, spesso in linea con la sensibilità del proprio pubblico. Tuttavia, quando un giornale come Le Monde, che ha costruito la sua reputazione su rigore e imparzialità, appare schierato, le reazioni sono inevitabilmente più forti.
  L’inchiesta di Le Figaro ha messo in luce una frattura profonda: da un lato, chi difende una linea editoriale più empatica verso i palestinesi, dall’altro, chi chiede un approccio più bilanciato. Nel mezzo, una redazione divisa e un pubblico sempre più critico. «Abbiamo ricevuto centinaia di disdette dopo le prime pagine del 7 e 8 ottobre», rivela una fonte interna, riferendosi alle edizioni pubblicate all’indomani degli attacchi di Hamas contro Israele.

• LE SFIDE DEL GIORNALISMO CONTEMPORANEO
  Il dibattito su Le Monde solleva interrogativi più ampi sul ruolo dei media in una società sempre più polarizzata. Possono i giornali mantenere una neutralità autentica o devono inevitabilmente prendere posizione? Qual è il confine tra legittima sensibilità personale e il rispetto dei principi deontologici?
  In questo contesto, la figura del giornalista si trova sotto pressione. Non è più sufficiente riportare i fatti; oggi, ai professionisti dell’informazione viene richiesto di decodificare una realtà complessa e, talvolta, di orientare il dibattito pubblico. Questa evoluzione ha portato a una tensione crescente tra l’esigenza di preservare la credibilità delle testate e la necessità di attirare un pubblico sempre più segmentato.
  In un mondo in cui le verità assolute sono sempre più rare, la sfida non è solo raccontare i fatti, ma farlo in modo che tutti possano sentirsi rappresentati. La posta in gioco non è solo la credibilità di un giornale, ma il futuro del giornalismo stesso.

(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2024)

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Amichai Chikli al Papa: “Chiarisca le sue dichiarazioni su Israele. Accuse di genocidio infondate e pericolose”

di Luca Spizzichino

In una lettera aperta indirizzata a Papa Francesco, il Ministro israeliano della Diaspora e contro l’antisemitismo, Amichai Chikli, ha espresso profonda preoccupazione per alcune recenti dichiarazioni e gesti del Pontefice. Chikli ha esortato il Papa a chiarire la sua posizione riguardo alle accuse di genocidio rivolte a Israele e a riflettere sulle implicazioni delle narrazioni che rischiano di distorcere la storia e il legame millenario tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele.
  Chikli apre la sua lettera ricordando che Betlemme, città natale di Gesù, è un luogo profondamente legato alla storia ebraica. “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode”, scrive, citando il Vangelo secondo Matteo. Il ministro sottolinea che Betlemme è anche il luogo in cui Rachele, una delle matriarche ebraiche, morì dando alla luce Beniamino. Rievocando il passato, Chikli menziona la rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.) contro l’Impero Romano, un momento cruciale nella storia del popolo ebraico. “Lo storico romano Dione Cassio descrive come 985 villaggi ebraici furono distrutti, e 580 mila uomini persero la vita in battaglia”, scrive Chikli, evidenziando come l’imperatore Adriano cercò di cancellare ogni traccia del legame tra gli ebrei e la loro terra, rinominando la Giudea in “Syria Palaestina” e Gerusalemme in “Aelia Capitolina”.
  Il cuore della lettera è però dedicato alle recenti dichiarazioni di Papa Francesco, che, secondo Chikli, rischiano di alimentare narrazioni pericolose. “Lei ha affermato che le accuse di genocidio a Gaza dovrebbero essere ‘esaminate attentamente’”, scrive il ministro, aggiungendo: “In quanto popolo che ha perso sei milioni di suoi figli nell’Olocausto, siamo particolarmente sensibili alla banalizzazione del termine ‘genocidio’, che si avvicina pericolosamente alla negazione dell’Olocausto”. Chikli denuncia anche il ruolo di organizzazioni come Amnesty International, che nel suo rapporto avrebbe falsamente affermato che Israele ha lanciato un attacco non provocato contro Gaza il 7 ottobre 2023. “In quella terribile giornata, Israele non ha attaccato Gaza. È stato invece oggetto di un’aggressione senza precedenti da parte di Hamas”, chiarisce il ministro, elencando le atrocità commesse durante l’attacco, tra cui massacri, stupri e rapimenti di civili innocenti.
  Rivolgendosi direttamente al Papa, Chikli ricorda l’importanza di combattere la disinformazione e di preservare la verità storica. “Il silenzio del Vaticano durante i giorni bui della Shoah è ancora assordante”, scrive, sottolineando che è necessario evitare che la storia si ripeta. Chikli conclude la sua lettera con un appello a Papa Francesco affinché chiarisca la sua posizione e rafforzi il dialogo tra il Vaticano e il popolo ebraico: “Sappiamo che lei è un caro amico del popolo ebraico. Apprezziamo i suoi sforzi e desideriamo approfondire il rapporto tra il Vaticano e lo Stato di Israele, così come tra il popolo cristiano e quello ebraico”.
  Il 2025 segnerà il 60° anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, un documento fondamentale che ha trasformato il rapporto tra cristiani ed ebrei. Chikli auspica che questo anniversario possa rappresentare un’occasione per rinnovare l’impegno verso la verità e il rispetto reciproco. “Verità e D-o sono una cosa sola”, conclude Chikli, affidando al Pontefice la responsabilità di utilizzare la sua influenza per promuovere giustizia e riconciliazione.

(Shalom, 20 dicembre 2024)

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Israele – Sondaggio rivela nuovo senso di appartenenza della minoranza araba

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L’ingresso della moschea El Jazzar ad Acri, città nel nord d’Israele

Un nuovo sondaggio dell’Università di Tel Aviv rivela un dato imprevisto: il 57,8% degli arabi israeliani – musulmani, drusi e cristiani inclusi – ritiene che la guerra in corso abbia contribuito a creare un «senso di condivisione del destino» con la comunità ebraica. Il risultato, parte di un’indagine del Centro Moshe Dayan, segna un importante cambiamento rispetto al passato. Nel giugno 2024, il 51,6% degli intervistati esprimeva un’opinione simile, mentre a novembre 2023, subito dopo gli attacchi del 7 ottobre, il 69,8% riteneva che la guerra avesse danneggiato la solidarietà tra le due comunità.
  La guerra a Gaza sembra aver stimolato una nuova riflessione sulla soluzione al conflitto israelo-palestinese. Quasi la metà degli arabi israeliani (49,7%) oggi considera la soluzione dei due Stati, basata sui confini del 1967, l’opzione più realistica, in netto aumento rispetto al 17,2% del 2023. Parallelamente, diminuisce il pessimismo: solo il 27,1% crede che non ci siano soluzioni politiche in vista, contro il 55,6% dello scorso anno.
  «Prima degli eventi di ottobre 2023, la maggioranza degli arabi israeliani riteneva che non ci fosse alcuna soluzione politica praticabile,» afferma il rapporto. «Oggi, la prospettiva dei due Stati è vista come l’alternativa più realistica».

• LA CRIMINALITÀ PRIMA PREOCCUPAZIONE
  Nonostante il rinnovato interesse per le questioni politiche, è la violenza criminale a dominare le preoccupazioni della comunità araba israeliana. Il 66,5% degli intervistati la identifica come la sfida più urgente, superando altre priorità come il conflitto israelo-palestinese (10,9%) o la povertà (4,9%). «La crescente violenza, alimentata da decenni di negligenza governativa e dal proliferare di gruppi criminali organizzati, ha lasciato molte comunità arabe in una situazione di insicurezza», denunciano gli autori dell’indagine. Il 65,8% degli intervistati dichiara di sentirsi poco sicuro nella propria vita quotidiana.

• SENTIRSI ISRAELIANI
  Sul piano identitario, l’appartenenza alla cittadinanza israeliana si consolida: il 33,9% degli arabi israeliani la indica come componente dominante della propria identità, seguita dall’affiliazione religiosa (29,2%) e dall’identità araba (26,9%). Solo il 9% considera l’identità palestinese il fulcro della propria appartenenza.
  L’inclusione di partiti arabi nel governo israeliano gode oggi di un ampio sostegno: il 71,8% degli intervistati è favorevole a questa opzione, e quasi la metà (47,8%) sostiene la partecipazione politica dei partiti arabi a prescindere dall’orientamento della coalizione. Il cambiamento è attribuito all’esperienza del partito Ra’am, che ha sostenuto la coalizione Bennett-Lapid del 2021, stabilendo un precedente per la politica araba israeliana.

• NO A HAMAS
  Sul piano regionale, oltre la metà degli arabi israeliani (53,4%) vede un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita come un’opportunità positiva, anche senza una risoluzione preliminare del conflitto con i palestinesi. Solo una minoranza (6,7%) sostiene che Hamas debba continuare a governare Gaza, mentre altre opzioni – tra cui il coinvolgimento dell’Autorità Palestinese o di entità multinazionali – raccolgono molto consenso.
  Per Arik Rudnitzky, responsabile della ricerca, «gli arabi israeliani stanno inviando un messaggio chiaro alle autorità e alla maggioranza ebraica. Sono pronti a collaborare per ricostruire la società israeliana finita questa guerra». d.r.

(moked, 19 dicembre 2024)

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Houthi distruggono scuola, Tsahal colpisce Sana’a

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La scuola distrutta di Ramat Gan

Una scuola elementare di Ramat Gan, a est di Tel Aviv, non c’è più. È stata completamente distrutta dai frammenti di un missile sparato dallo Yemen e intercettato dal sistema di difesa a lungo raggio Arrow. È il secondo attacco degli Houthi in pochi giorni, il primo a creare gravi danni. Fortunatamente, dichiarano le autorità, non ci sono feriti. «L’incidente è avvenuto nel cuore della notte», spiega a Kan il sindaco di Ramat Gan Carmel Shama. La scuola era deserta e anche l’area vicina. L’edificio è completamente collassato, sarà demolito e ricostruito. «Il servizio di sostegno psicologico accompagnerà gli studenti e il personale educativo della scuola. Questa è un’esperienza difficile», ammette Shama. Alcuni studenti sono stati subito trasferiti in altri istituti, mentre per altri è stata attivata la didattica a distanza. «Troveremo per tutti una sistemazione», promette il ministro dell’Istruzione Yoav Kish. Secondo il ministro a distruggere la scuola è stata «la testata di un missile sparato dallo Yemen». Si tratterebbe quindi di un colpo diretto. Secondo altre ricostruzioni i danni sono stati causati dall’intercettazione del missile. Tsahal sta verificando la dinamica dell’incidente.
  Qualsiasi sia la causa del danno, Tsahal ha risposto nella notte all’attacco Houthi, colpendo la città portuale di Hodeida e, per la prima volta, la capitale Sana’a. L’obiettivo della missione, hanno spiegato fonti militari ai media locali, era paralizzare il sistema portuale controllato dai ribelli sostenuti dall’Iran. Dopo le stragi del 7 ottobre, gli Houthi hanno spalleggiato i terroristi di Hamas nella guerra con Israele. Oltre ai missili, in questi mesi hanno lanciato diversi droni kamikaze, uccidendo a Tel Aviv una persona. Israele ha reagito, colpendo per tre volte obiettivi strategici del gruppo in Yemen. «Avverto i leader dell’organizzazione terroristica Houthi: la lunga mano di Israele raggiungerà anche voi. Colpiremo duramente e non permetteremo attacchi e minacce contro il nostro stato», ha dichiarato il ministro della Difesa Israel Katz. Secondo il portavoce militare, il contrammiraglio Daniel Hagari, i caccia israeliani nella notte hanno anche «danneggiato il trasferimento di armi iraniane nella regione».
(moked, 19 dicembre 2024)

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Perché Israele attacca lo Yemen e allarga il fronte del conflitto

Dopo aver sconfitto Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e contribuito al crollo del regime siriano, Israele si occupa dei ribelli Houthi con un’operazione senza precedenti.

di Massimiliano Boccolini

L’offensiva israeliana iniziata con i massacri del 7 ottobre 2023 registra oggi una nuova fase che porta l’esercito israeliano a operare a migliaia di chilometri di distanza dal proprio Paese. Dopo aver annientato le forze di Hamas a Gaza, di Hezbollah in Libano e consentito il crollo del regime di Bashar al-Assad in Siria è la volta dello Yemen. Nonostante questi successi militari del premier Benjamin Netanyahu infatti i ribelli Houthi, proxy yemenita del regime iraniano, hanno proseguito in queste settimane con il lancio di droni e missili, per lo più intercettati, contro lo Stato ebraico.
L’ultimo però, quello lanciato nella notte, è il primo che ha provocato ingenti danni ed ha dato il via ad un’operazione aerea israeliana senza precedenti in Yemen. I detriti frutto dell’intercettazione di un missile balistico Houthi lanciato dallo Yemen verso il centro di Israele questa mattina hanno causato ingenti danni a una scuola a Ramat Gan. Secondo l’esercito israeliano, il missile balistico è stato intercettato dal sistema di difesa aerea a lungo raggio Arrow e le sirene sono suonate nel centro di Israele a causa del timore di caduta di schegge. Un edificio in una scuola a Ramat Gan è crollato apparentemente a causa di un grosso pezzo di detriti che ha colpito la zona.
Non è la prima volta che l’aviazione israeliana conduce attacchi contro obiettivi Houthi. Si tratta infatti del terzo raid sul Paese arabo ma è il primo a prendere di mira le infrastrutture civili e militari del nord dello Yemen controllato dagli uomini di Teheran.
Secondo l’analista e attivista per i diritti umani yemenita, Tawfiq al Hamidi, “bombardando Tel Aviv, gli Houthi cercano di rafforzare il loro ruolo nel conflitto regionale e di presentarsi come una parte influente dell’asse della resistenza, soprattutto alla luce dei colpi ricevuti dagli alleati dell’Iran nella regione, Hezbollah e Assad in Siria”. I ribelli yemeniti vogliono inoltre, secondo quanto ha spiegato l’esperto a “Formiche“, “aiutare anche l’Iran rispetto alle trattative sul suo programma nucleare. Israele, da parte sua, cerca di scoraggiare e dimostrare il proprio potere prendendo di mira direttamente gli Houthi. L’obiettivo dei raid è quello di inviare un chiaro messaggio che qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale subirà una dura risposta, come i leader israeliani hanno annunciato più di una volta, e che rientra nella strategia di Israele di indebolire l’influenza iraniana nello Yemen, oltre a creare uno stato psicologico di ansia a livello popolare e tra il gruppo Houthi alla luce degli sviluppi nella regione, in particolare in Siria”.
In definitiva, secondo al Hamidi, questa escalation “minaccia di trascinare la regione in un confronto regionale più ampio, in cui gli interessi regionali e internazionali si intrecciano in un panorama complesso. È necessario intensificare gli sforzi diplomatici per contenere le violenze ed evitare che la situazione peggiori, ma i rischi sul terreno indicano la possibilità di un rapido deterioramento degli aspetti politici, militari e umanitari se la situazione non verrà messa sotto controllo al più presto possibile”.
Sono nove le persone che sono state uccise negli attacchi israeliani sullo Yemen avvenuti nella notte secondo i media yemeniti. “Al Masirah Tv”, il principale canale televisivo di informazione gestito dal movimento che controlla gran parte del paese, parla di sette persone uccise in un attacco al porto di Salif e il resto in due attacchi all’impianto petrolifero di Ras Issa, entrambi situati nella provincia occidentale di Hodeidah.
Gli attacchi hanno anche preso di mira due centrali elettriche centrali a sud e a nord della capitale, Sanaa, aggiunge. In una dichiarazione, l’esercito israeliano afferma di aver “condotto attacchi precisi su obiettivi militari Houthi nello Yemen, inclusi porti e infrastrutture energetiche a Sanaa. Gli attacchi aerei israeliani notturni nello Yemen erano mirati a paralizzare tutti e tre i porti utilizzati dagli Houthi sostenuti dall’Iran sulla costa del paese. Tutti i rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati colpiti nell’attacco israeliano. Nel precedente attacco di Israele al porto di Hodeidah, le gru utilizzate per scaricare le spedizioni sono state colpite. Ora, Israele ritiene che tutte le attività nei porti controllati dagli Houthi siano paralizzate.
L’aeronautica militare israeliana si è preparata per diverse settimane agli attacchi notturni in Yemen. Secondo l’esercito, decine di aerei dell’aeronautica militare israeliana hanno partecipato agli attacchi in Yemen durante la notte, tra cui caccia da combattimento e aerei spia, a circa 2.000 chilometri da Israele. Gli “obiettivi militari” degli Houthi sono stati colpiti al porto di Hodeidah, che Israele ha già colpito due volte in precedenza, e per la prima volta, nella capitale Sanaa, afferma l’IDF.
Gli attacchi aerei dell’aeronautica militare israeliana contro obiettivi Houthi nello Yemen durante la notte sono stati effettuati in due ondate. Quattordici caccia da combattimento dell’IAF, insieme a rifornitori e aerei spia, sono stati coinvolti negli attacchi, che erano stati pianificati dall’esercito per diverse settimane in risposta agli attacchi del gruppo sostenuto dall’Iran contro Israele. I caccia da combattimento dell’IAF erano già in rotta verso lo Yemen quando gli Houthi hanno lanciato un missile balistico su Israele intorno alle 2:35 del mattino. L’attacco è stato programmato per la notte a causa di varie preoccupazioni operative e sforzi per migliorare l’intelligence sugli obiettivi. Alle 3:15 del mattino è stata effettuata la prima ondata di attacchi lungo la costa dello Yemen, colpendo i porti di Hodeidah Ras Isa e Salif. Otto rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati distrutti negli attacchi. Una seconda ondata di attacchi aerei alle 4:30 del mattino ha colpito due centrali elettriche nella capitale Sanaa. In totale, decine di munizioni sono state sganciate dall’IAF sui cinque obiettivi. Gli Houthi hanno lanciato oltre 200 missili e 170 droni contro Israele nell’ultimo anno. Secondo l’IDF, la stragrande maggioranza non ha raggiunto Israele o è stata intercettata dall’esercito e dai suoi alleati nella regione.
Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha lanciato un avvertimento ai leader Houthi: “Il lungo braccio di Israele vi raggiungerà”, afferma in una dichiarazione. “Chiunque sollevi una mano, verrà mozzata. Chiunque colpisca [noi], verrà colpito più volte”. Nel frattempo, il portavoce capo dell’IDF Daniel Hagari ha affermato che tra gli obiettivi colpiti negli “attacchi precisi” c’erano “porti e infrastrutture energetiche” nella capitale Sanaa controllata dai ribelli che gli Houthi hanno sfruttato per “le loro azioni militari”. “Con i loro attacchi alle navi mercantili internazionali e alle rotte nel Mar Rosso e in altri luoghi, gli Houthi sono diventati una minaccia globale. Chi c’è dietro gli Houthi? L’Iran”, afferma in una dichiarazione video in lingua inglese, mentre giura che l’esercito “agirà contro chiunque in Medio Oriente” minacci Israele.
Da Teheran invece arriva la condanna come “flagrante violazione” agli attacchi israeliani. Il portavoce del ministero degli Esteri Esmaeil Baqaei ha affermato che i raid sono stati “una flagrante violazione dei principi e delle norme del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”.
Dal canto loro, i ribelli yemeniti Houthi continueranno ad attaccare Israele fino a quando non ci sarà una tregua a Gaza. Il leader del gruppo yemenita Ansar Allah (Houthi), Muhammad Ali Al-Houthi, ha dichiarato: “Gli attacchi del nemico israelo-americano contro obiettivi civili sono crimini di guerra terroristici”. Commentando i raid aerei israeliani della notte al-Houthi ha aggiunto che i crimini “terroristici” di Israele e dell’America non dissuaderanno lo Yemen dall’adempiere al proprio dovere di sostenere Gaza. Il membro dell’Ufficio Politico del Movimento Ansar Allah (Houthi), Muhammad Al-Bukhaiti, ha affermato invece che il “bombardamento delle strutture civili nello Yemen rivela la verità dell’ipocrisia dell’Occidente”. Al-Bukhaiti ha aggiunto, in un tweet sul sito X, che le “nostre operazioni militari a sostegno di Gaza continueranno e che incontreremo un’escalation con un’escalation finché i crimini di genocidio a Gaza non saranno fermati e cibo, medicine e carburante non potranno entrare nel territorio della Striscia”.
Al momento non si registrano reazioni da parte del governo legittimo yemenita. Una fonte dell’esecutivo contatta ad Aden da “Formiche” ha spiegato però di ritenere sempre sbagliati questo tipo di azioni che colpisce anche i civili yemeniti. In particolare ci si chiede come mai “Israele applichi una tattica diversa in Yemen rispetto a quanto fatto con Hamas a Gaza o con Hezbollah in Libano e Siria. In Yemen invece di colpire con raid mirati i vertici degli Houthi, Israele colpisce le infrastrutture civili oltre che militari mettendo in ginocchio la già fragile situazione del Paese”.

(Formiche.net, 19 dicembre 2024)

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Arriva “Lasso”, il nuovo software dell’IDF

di Olga Flori

L’ultima invenzione tecnologica israeliana è un software militare creato dall’IDF, chiamato “Lasso”. Progettato per supportare l’esercito nel monitoraggio in tempo reale delle operazioni, questo programma consentirà all’IDF anche di analizzare le azioni sul campo e le tattiche nemiche, ottimizzando le strategie attraverso l’apprendimento dalle azioni militari precedenti. Il software è stato pensato soprattutto come uno strumento in più per aiutare i comandanti ad imparare dall’esperienza accumulata.
Lasso raccoglie i dati trasmessi dalle reti militari, monitorando in particolare i movimenti delle truppe e il rilevamento delle forze nemiche. Il software ha integrato piattaforme già esistenti e in uso presso l’IDF, come Digital Ground Army, che consente di localizzare le posizioni dei nemici e di tracciare in tempo reale, su una mappa, la dislocazione dei soldati israeliani.
Il Capitano Bar Donald, product manager della divisione tecnologica dell’IDF, ha dichiarato al Jerusalem Post che “gli sviluppatori non comprendono sempre le sfide operative. Raccogliamo feedback dai soldati per individuare i loro bisogni, perfezionare le funzionalità ed aggiornare il sistema”. Secondo Donald, l’obiettivo è garantire all’IDF di mantenere uno stato di apprendimento continuo: Lasso, analizzando le operazioni dell’IDF e le tattiche nemiche, potrà contribuire ad un costante miglioramento delle capacità operative dei militari dello Stato ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2024)

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La Svizzera vota per mettere al bando Hezbollah

di Ludovica Iacovacci

La Svizzera mette al bando Hezbollah. Martedì 17 dicembre il parlamento elvetico ha votato per vietare l’organizzazione terroristica libanese, segnando una rara mossa da parte di un Paese neutrale che tradizionalmente segue una politica di promozione del dialogo e della mediazione internazionale. Hezbollah è considerata una minaccia troppo pericolosa per lasciare indifferente perfino la Svizzera.
La misura è stata approvata dalla Camera bassa dopo aver ricevuto il consenso della Camera alta la scorsa settimana. I sostenitori del divieto hanno affermato che l’organizzazione terroristica libanese rappresenta una minaccia per la sicurezza internazionale e che la Svizzera deve proibirla per prendere posizione contro il terrorismo.
Il governo svizzero si è opposto al divieto dopo che il Consiglio federale ha dichiarato che il gruppo terroristico non poteva essere messo al bando poiché la legge vigente richiede sanzioni o un divieto da parte delle Nazioni Unite affinché tale misura possa essere applicata.
Il ministro della Giustizia Beat Jans, durante il dibattito parlamentare, ha affermato: “Se ora la Svizzera si muove per vietare tali organizzazioni con leggi speciali, dobbiamo chiederci dove e come vengono tracciati i confini” ma non ha convinto la maggioranza. La messa al bando è stata approvata dalla Camera bassa con 126 voti a favore, 20 contrari e 41 astensioni.
 Il comitato per la politica di sicurezza, che ha proposto la misura, ha sostenuto che il ruolo di mediazione della Svizzera rimarrà intatto grazie a una disposizione specifica sui colloqui di pace e sugli aiuti umanitari.
La scorsa settimana, il parlamento svizzero ha dichiarato fuorilegge Hamas a causa dell’attacco terroristico del gruppo terroristico palestinese del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, in cui sono state uccise circa 1.200 persone, per lo più civili, e 251 sono state prese in ostaggio. Il governo, che ha redatto il disegno di legge per mettere al bando Hamas, ha affermato di averlo fatto in linea con la pratica di proscrivere le organizzazioni caso per caso solo “per ragioni estremamente serie”.
Il giorno dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato dai terroristi di Hamas, Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi transfrontalieri contro Israele dal Libano. L’organizzazione terroristica libanese ha scagliato razzi e droni contro comunità di confine e avamposti militari, costringendo circa 60.000 israeliani ad abbandonare le loro case nel nord del Paese.
In precedenza la Svizzera aveva messo al bando solo al-Qaeda e lo Stato islamico, che figurano nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dalle Nazioni Unite. Negli ultimi anni, anche altri Paesi del mondo hanno inserito Hezbollah nella lista nera. Nel marzo del 2019, il governo britannico ha designato Hezbollah come organizzazione terroristica. Nel novembre del 2020, la Slovenia si è unita alla lista degli Stati non indifferenti. Sempre quell’anno, la Germania ha emesso un ordine federale che metteva fuori legge Hezbollah nel Paese e ha anche adottato misure esecutive ai sensi delle disposizioni dell’ordine. Nel 2021, il Consiglio regionale della Liguria in Italia ha designato Hezbollah nella sua interezza come organizzazione terroristica.

(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2024)

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Il governo non riconosce lo Stato di Palestina, per Provenzano (Pd) è un “affronto” mentre Hamas nel futuro di Gaza non lo è…

di Iuri Maria Prado

È giusto che il governo italiano sia chiamato a rendere conto del proprio atteggiamento rispetto alla guerra di Gaza, vale a dire la guerra scatenata delle migliaia di miliziani e civili palestinesi che, il 7 ottobre dell’anno scorso, hanno sterminato 1200 israeliani e ne hanno rapiti altri duecentocinquanta, parte dei quali giustiziati un po’ alla volta e gli altri – non si sa quanti ancora in vita – tenuti per quattordici mesi nei tunnel costruiti con i soldi della cooperazione internazionale. Dunque anche i soldi dei cittadini italiani.
  Ma in politica internazionale la “faccia” dell’Italia non coincide esclusivamente con quella del governo: giusto come il profilo statunitense nel mondo non è solo quello di Joe Biden, secondo cui i responsabili di Hamas pagheranno per i loro crimini, ma anche quello del senatore Bernie Sanders che fa propria la propaganda palestinese sull’uso della fame come strumento di guerra; giusto come il Regno Unito non si mostra all’opinione pubblica internazionale solo con gli esercizi equilibristici del primo ministro Keir Starmer, ma anche con la retorica antisemita di Jeremy Corbyn che chiama “amici” i macellai di Hezbollah; giusto come la Francia non è solo i tira e molla dell’abile presidente Macron, ma anche la postura indecente di Jean-Luc Mélenchon, orgoglioso di condividere il palco dei comizi con la filo-terrorista Rima Hassan, quella degli israeliani che addestrano i cani allo stupro dei palestinesi. Insomma – e potremmo continuare con gli esempi – nelle questioni di politica estera è il Paese tutto, non il governo soltanto, a dover rendere conto di sé stesso in faccia al mondo.

• PROVENZANO E “L’AFFRONTO”
  Ora, l’opposizione del nostro Paese fa benissimo a incalzare il governo sui punti critici per cui si segnalerebbe l’azione esecutiva italiana, ma non si sa quanto essa sia consapevole di dover a propria volta rendere conto del proprio operato: che non è necessariamente buono solo perché opposto a un andazzo di maggioranza in ipotesi cattivo. L’altro giorno, alla Camera, in occasione delle comunicazioni della presidente del Consiglio in vista del prossimo Consiglio europeo, l’Onorevole Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Partito Democratico, ha addebitato alla maggioranza di governo di essersi resa responsabile di un “affronto” nei confronti dell’Autorità Palestinese per non aver riconosciuto il cosiddetto Stato di Palestina. Ancora, Provenzano ha rinfacciato al governo non si sa bene quale irriguardoso atteggiamento nei confronti della Corte Penale Internazionale, sollecitata da un discusso prosecutor a emettere i noti ordini di arresto nei confronti di Bibi Netanyahu e dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant.
  Nei pressi di Montecitorio e nelle trattorie della stupenda campagna romana la cosa non risuona in nessun modo, ma altrove – cioè appunto dove queste faccende hanno un peso – una mozione come quella del Partito Democratico, che chiedeva il riconoscimento dello Stato di Palestina senza neppure un accenno all’esigenza prioritaria, e cioè al fatto che i macellai di Hamas non potessero neppure pensare di poter far parte di un qualsiasi futuro di Gaza, ecco, diciamo che presso alcuni una mozione come quella suonava assai male. Suonava anche peggio quando – assicurando “pieno sostegno al segretario generale dell’Onu a fronte di pericolosi tentativi di delegittimazione” – si lasciava andare al vellicamento delle trippe del signore, Antonio Guterres, capace di spiegare che il 7 ottobre non viene dal nulla e dotato del coraggio di chiamare “colleghi” gli assassini dell’Unrwa embedded in Hamas.
  Queste cose contano – these things matter – oltre i confini del Grande Raccordo Anulare. Così come conta porsi quale soggetto politico che in relazione neppure a una sentenza, ma a un ordine di arresto, pretende che l’Italia si esibisca nel girotondo all’Aia agitando le manette da applicare al duo genocida. Fa fatica di suo a essere una cosa seria, quel presunto processo: se diventa la Mani Pulite dal fiume al mare, coi parlamenti che chiedono ai giudici di farli sognare, non onoriamo il diritto ma ciò che ne è cupo e plebeo simulacro. Dio solo sa quanto l’Italia potrebbe fare meglio, sulla guerra di Gaza. C’è caso che sia istigata a fare peggio.

(Il Riformista, 19 dicembre 2024)

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Al Jolani: no ad attacchi dal nostro territorio

La Siria «non verrà utilizzata» come base per attacchi contro Israele o qualsiasi altro stato. Lo ha promesso Abu Mohammad al Jolani, il capo della coalizione islamista che ha preso il potere a Damasco, in un’intervista al britannico Times. Allo stesso tempo il leader siriano ha sottolineato che Gerusalemme deve porre fine agli attacchi aerei in Siria e ritirarsi dal territorio occupato nel Golan siriano dopo la caduta di Bashar al-Assad. «La giustificazione di Israele era la presenza di Hezbollah e delle milizie iraniane, e quella giustificazione è venuta meno», ha sostenuto al Jolani.
  Nell’intervista il leader ha spiegato di non volere «conflitti con Israele o con altre nazioni» e ribadito il concetto che la Siria ora non ha bisogno di guerre, ma di pace».
  Guardando al futuro della Siria, il leader sunnita ha posto l’accento sulla necessità di ricostruire il paese: «La priorità ora deve essere la costruzione di uno stato forte e la creazione di istituzioni pubbliche al servizio di tutti i siriani». Ha inoltre rivelato che potrebbe candidarsi alla presidenza, a condizione di ricevere un sostegno sufficiente. Alla comunità internazionale al Jolani chiede intanto di rimuovere le sanzioni imposte alla Siria per colpire Bashar Assad, ormai fuggito in Russia. Per l’Ue risponde l’alto rappresentante agli Esteri, Kaja Kallas. Dobbiamo «iniziare a riflettere su una possibile revisione del nostro regime di sanzioni, al fine di sostenere il percorso della Siria verso la ripresa mantenendo al contempo la nostra influenza», ha affermato Kallas.
  Secondo l’esperta israeliana di Siria Carmit Valensi, anche Israele dovrebbe valutare possibili aiuti a Damasco e cercare di dialogare con attori ritenuti affidabili. L’esempio sono le forze ribelli dispiegate nell’area vicino al confine con lo stato ebraico. «Si tratta dell’Esercito siriano libero e delle forze druse, che hanno avuto un atteggiamento positivo nei confronti di Israele in passato e con cui ci sono già state collaborazioni», scrive l’analista sul sito dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv. Per Valensi Gerusalemme potrebbe dare l’ok a una missione simile a quella portata avanti tra il 2016 e il 2018, intitolata “Buon vicinato”. All’epoca furono forniti aiuti medici e cibo ai siriani durante la guerra civile. «I meccanismi necessari a mettere in piedi l’operazione e alcuni dei contatti chiave sono ancora disponibili, il che significa che Israele non dovrebbe partire da zero». Oltre a impegnarsi con i vari attori in Siria, Israele, ribadisce Valensi, «dovrebbe mantenere una presenza militare deterrente lungo il confine e continuare a impegnarsi per bloccare la presenza iraniana nell’area». Azioni già intraprese da Tsahal in queste settimane.

(moked, 18 dicembre 2024)

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Chi sarà il prossimo a cadere?

La rivoluzione in Siria si ripercuote sul Medio Oriente, in particolare sul Libano, sulla Giordania e sull'Autorità Palestinese nel cuore biblico della Giudea e della Samaria. Anche l'Egitto è preoccupato - un effetto domino che preoccupa Israele.

di Aviel Schneider

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Un combattente dell'opposizione calpesta la statua decapitata di Hafez al-Assad all'aeroporto militare di Damasco, il 12 dicembre 2024

GERUSALEMME - La caduta del regime siriano di Assad e la sconfitta dei suoi alleati sciiti, Hezbollah e Iran, rappresentano senza dubbio un successo significativo per Israele. Tuttavia, se questo dovesse portare a ulteriori rivoluzioni negli Stati arabi vicini, si tratterebbe di uno scenario deleterio per Israele. In Medio Oriente, tali circostanze vengono sfruttate rapidamente. Non esiste un vuoto di potere e non appena un regime cade nel mondo arabo, l'effetto si diffonde spesso ad altri governi. Uno sguardo al passato lo dimostra: La Primavera araba del 2011 è iniziata in Tunisia e si è diffusa in altri Stati arabi. Ha portato alla caduta di diversi governanti, tra cui il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali, il presidente egiziano Hosni Mubarak e il governatore libico Muammar Gheddafi. Come persona che segue molti canali sunniti e sciiti su Telegram, so che i gruppi terroristici in Medio Oriente stanno già sognando una nuova ondata di rivoluzione.
La più grande preoccupazione di Israele al momento è la stabilità della Giordania. Non è un caso che il capo del servizio di sicurezza israeliano Shin Bet, Ronen Bar, e il capo del servizio di intelligence militare Aman, il maggior generale Schlomi Binder, abbiano visitato la Giordania la scorsa settimana. La questione è stata discussa anche l'altro ieri in una riunione speciale del Gabinetto del Comando centrale. Secondo gli esperti di sicurezza israeliani, la Giordania osserva con grande preoccupazione gli sviluppi nel sud della Siria. L'esercito giordano ha aumentato il livello di allerta al confine con la Siria per timore che civili siriani o gruppi jihadisti possano tentare di infiltrarsi nel Paese. L'ampio smantellamento di Hezbollah ha innescato un drammatico effetto domino che sta ispirando gruppi terroristici armati anche nei territori biblici di Giudea e Samaria - uno sviluppo che ricorda le dinamiche della Primavera araba.
In risposta all'attacco dei ribelli sunniti di quindici giorni fa, la Giordania ha chiuso il valico di frontiera di Jaber. Questo confina con il valico siriano di Nassib, controllato dai ribelli jihadisti. Rapporti sui canali Telegram siriani e giordani descrivono condizioni caotiche al confine tra Siria e Giordania, soprattutto nei pressi della città di Daraa, epicentro delle proteste del 2011 che hanno dato inizio alla guerra civile siriana.

• DI COSA HANNO PAURA GIORDANIA E ISRAELE?
  Un nuovo regime jihadista sunnita in Siria potrebbe allearsi con i Fratelli Musulmani in Giordania e mettere in pericolo il regno hashemita di re Abdullah. Nonostante la relativa stabilità del regno, c'è qualcosa che ribolle sotto la superficie: la maggioranza palestinese e i gruppi islamisti ostili a Israele potrebbero vedere gli sviluppi in Siria come un modello e tentare di provocare un cambiamento di regime anche in Giordania. Un crollo della Giordania avrebbe un impatto diretto sui 300 chilometri di confine orientale di Israele, una sfida immensa per la sicurezza.
I gruppi terroristici sunniti sono profondamente coinvolti nel contrabbando di armi e della droga Captagon dalle regioni siriane di Daraa e As-Suwayda verso la Giordania. L'esercito giordano sta conducendo da anni una feroce battaglia contro questi contrabbandieri. Re Abdullah teme che i gruppi di contrabbandieri, insieme ai Fratelli Musulmani radicali, possano mettere la popolazione palestinese contro di lui.
“Il regime giordano è fondamentalmente diverso da quello siriano. È liberale e gode di legittimità nel Paese. In Giordania non ci sono prigioni segrete come la famigerata prigione di Sednaya in Siria”, spiega a Jediot Achronot il professor Ronen Yitzchak, responsabile degli studi sul Medio Oriente presso il Collegio accademico della Galilea occidentale. Il sistema giordano si basa piuttosto su una politica di inclusione.
Parallelamente alle tensioni sul confine giordano-siriano, la scorsa settimana l'Autorità palestinese (AP), in coordinamento con l'esercito israeliano e lo Shin Bet, ha lanciato un'operazione militare su larga scala contro i gruppi terroristici nei campi profughi della Samaria settentrionale. L'operazione, denominata “Difesa della Patria”, segna un cambiamento di strategia: per la prima volta, le forze di sicurezza palestinesi entrano nei campi profughi di Jenin e Tulkarem per arrestare i terroristi. Due terroristi armati sono stati uccisi durante un'operazione a Jenin, cosa che ha fatto infuriare parte della popolazione palestinese ma ha anche sottolineato la forza di Israele nella regione.
Il leader palestinese Mahmoud Abbas, che in precedenza aveva esitato ad agire in prima persona contro il terrorismo nei campi profughi, si trova sempre più sotto pressione. La sua posizione esitante ha favorito la creazione di nuove strutture terroristiche da parte di Hamas e della Jihad islamica, sostenute da risorse iraniane. Israele sta ora sollecitando Abbas a riprendere il controllo dei territori, anche per evitare un potenziale effetto domino come in Siria. Tuttavia, le autorità di sicurezza israeliane si stanno preparando a intervenire militarmente se il controllo dell'Autorità palestinese a Ramallah dovesse vacillare. Ambienti governativi di alto livello sottolineano che Israele non permetterà ad Hamas di prendere il controllo dei territori palestinesi, come è successo nella Striscia di Gaza nel 2007.
Anche l'Egitto potrebbe essere interessato dagli sviluppi: una vittoria dei jihadisti sunniti sul regime sciita di Assad potrebbe essere percepita come un trionfo ideologico e scatenare una nuova ondata di terrore. I Fratelli Musulmani in Egitto potrebbero trarne ispirazione per riprendere la loro lotta. Gruppi radicali come Wilayat Sinai potrebbero riprendere forza, mentre le tensioni sociali ed economiche potrebbero destabilizzare ulteriormente il regime di Al-Sisi.
Israele deve monitorare attentamente l'impatto del cambio di potere in Siria sull'intera regione. Se il successo dei jihadisti sunniti dovesse alimentare le loro ambizioni, potrebbero essere presi di mira la Giordania, l'Egitto e persino aree della Giudea e della Samaria. Israele ha il compito urgente di prepararsi a questi sviluppi.

(Israel Heute, 18 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Il nostro è un luogo di ritrovo dove la gente si sente ispirata”

Cafe Otef, la catena di food store dei sopravvissuti al 7 ottobre, si espande in Israele

di Pietro Baragiola

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Fondata dall’imprenditore culinario Tamir Barelko, Cafe Otef è una catena di food store israeliani lanciata da e per i sopravvissuti del 7 ottobre.
Il nome “Otef” (“busta” in italiano) si riferisce alla regione di Israele al confine con Gaza che è stata colpita duramente dai terroristi di Hamas.
La catena è gestita interamente da sfollati provenienti dalle comunità del sud del Paese e offre un’ampia gamma di prodotti provenienti proprio da quelle aree: formaggi di Be’eri, miele del kibbutz Erez, marmellate, creme, muesli e torte, oltre a numerosi articoli di marca come magliette e grembiuli.
La prima filiale è stata aperta agli inizi del 2024 nel quartiere Sarona a Tel Aviv e il suo personale era composto da residenti di Netiv HaAsara.
Presto, però il locale ha avuto un così grande successo da permettere l’apertura di una seconda filiale, oggi situata nel quartiere di tendenza Florentin e gestita dall’israeliana Reut Karp.

• REUT E DVIR KARP

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Ritratto di Dvir, ucciso il 7 ottobre al kibbutz Re'im

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Il poster con i messaggi inviati il 7 ottobre dagli abitanti del sud

Jewish Telegraphic Agency, Reut ha raccontato che ‘quando tutti pensavano di morire per la pandemia’ aveva esortato il marito Dvir, chocolatier, a scrivere le sue ricette e, nonostante l’iniziale resistenza, alla fine lui ha acconsentito.
Durante la strage del 7 ottobre, Dvir è stato ucciso nel kibbutz Re’im davanti ai loro figli, all’epoca di 10 e 8 anni, e Reut ha sentito subito la profonda responsabilità di preservare il ricordo del marito in ogni modo possibile.
Oggi i cioccolatini preparati con le ricette di Dvir sono il pezzo forte della sua filiale del Cafe Otef e Reut è convinta che suo marito sarebbe fiero di lei.
“Probabilmente direbbe solo che ho esagerato” ha affermato la proprietaria del locale, spiegando di aver creato un nuovo logo per i cioccolatini ispirandosi al rinomato brand Cartier. “Negli ultimi sei mesi ho detto tante volte ‘grazie’ a Dio per questo locale che mi spinge ad alzarmi dal letto e a dare un senso alle mie giornate. È bello sapere che anche i miei collaboratori la pensano come me”.
Il locale è diventato presto un luogo di ritrovo per tutti coloro che sono stati direttamente colpiti dagli eventi del 7 ottobre: che siano sopravvissuti al Nova Music Festival, genitori in lutto o molti altri, Cafe Otef offre loro uno spazio per raccontare le proprie storie e affrontarle insieme.
“Vogliono sentire un senso di connessione” ha affermato Reut, la cui filiale è stata battezzata Cafe Otef-Re’im per rendere omaggio al proprio kibbutz dove 80 terroristi hanno ucciso sette residenti (tra cui Dvir) e ne hanno rapiti altri QUATTRO.

• IL CAFE OTEF-RE’IM
  Posizionato nell’area centrale di Tel Aviv, Cafe Otef-Re’im è diventato un punto d’incontro naturale per gli sfollati provenienti dal nord e sud di Israele, che hanno creato tra loro un senso di cameratismo all’interno del locale.
Reut nel corso della sua intervista ha raccontato di come una donna del kibbutz Manara, oggi ritenuto ‘una Chernobyl israeliana’ per la quantità di frammenti di razzi e detriti sparsi a terra, si sia recata nel suo store qualche settimana fa solo per abbracciarla.
“Quel contatto è stato come un caricatore umano per me” ha affermato Reut. “Ho capito che avevo fatto la scelta giusta nel prendere in gestione questo posto.”
L’anemone coronaria, il fiore nazionale israeliano onnipresente nella regione di Re’im, è ovunque anche nel locale di Reut: ricamato sulle uniformi del personale, stampato sulle tazze da asporto ed esposto sugli oggetti in ceramica in vendita.
Sulla parete principale è appeso un poster creato da Adi Drimer, un insegnante d’arte di Re’im che ha raccolto insieme i messaggi disperati inviati nel gruppo WhatsApp del kibbutz durante la strage del 7 ottobre.
Tra i frammenti di testo presenti c’è anche un messaggio di Reut in cui implorava gli altri membri del kibbutz di salvare i suoi figli: “Urgente! Urgente! Daria e Levi sono soli. Mio marito Dvir è stato ucciso.”
“È importante ricordare che non è nostra intenzione far sprofondare gli ospiti nel nostro dolore” ha spiegato Reut alla Jewish Telegraphic Agency. “Questo è innanzitutto un luogo di ritrovo, quando la gente ci vede andare avanti, si sente ispirata.”
Tra i dipendenti di Reut c’è anche il 20enne Ziv Hai, che si è trasferito a Tel Aviv dopo che ha dovuto abbandonare il suo kibbutz al confine con l’Egitto.
“Mi sento come se avessi lasciato un pezzo di me stesso a Sufa e qui a Tel Aviv sto cercando di ricostruirmi. Il locale mi dà un posto dove posso sentirmi a mio agio. Posso raccontare una barzelletta scurrile e tutti qui – perché anche loro vengono dal sud – la capiscono” ha raccontato Hai alla Jewish Telegraphic Agency.
Oggi circa 100 dei 450 residenti di Re’im sono tornati a casa, tra cui molti dipendenti di Reut, ma non tutti sono lieti di questa notizia.
“Molti nostri clienti hanno sentimenti contrastanti sulla nostra partenza. Da un lato sono felici che torniamo a casa, ma dall’altro vogliono che restiamo perché la nostra presenza qui ha dato un volto al 7 ottobre” ha spiegato la proprietaria del locale, fiera dell’impatto che sta portando con il suo lavoro.
Oggi il fondatore di Cafe Otef, Barelko, ha grandi progetti per espandere sempre più i suoi store in Israele e, già nelle prossime settimane, aprirà due nuove filiali: Cafe Otef-Sderot e Cafe Otef-Kiryat Shmona.
L’obiettivo è quello di introdurre l’utilizzo di food truck in varie località del Paese e coinvolgere il più possibile i numerosi soldati rimasti invalidi a causa del conflitto in Medio Oriente, per aiutarli a reintegrarsi nelle loro comunità.

(Bet Magazine Mosaico, 18 dicembre 2024)

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La Columbia University assegna un corso sul sionismo al professore che ha lodato il 7 ottobre

“La Columbia ha perso non solo la sua bussola morale, ma anche quella intellettuale”, dice un professore dimissionario

La Columbia University sta affrontando una nuova controversia dopo aver assegnato un corso sullo “sviluppo del sionismo” a Joseph Massad, un accademico giordano che il 7 ottobre ha approvato pubblicamente le azioni di Hamas. La decisione ha provocato scosse nella comunità accademica e non solo.
In un articolo pubblicato sul sito web “Electronic Intifada” il giorno successivo agli attacchi, Massad ha definito “straordinarie” le azioni di Hamas, descrivendo con ammirazione “i combattenti della resistenza palestinese che assaltano le barriere israeliane”. Ha anche descritto gli israeliani come “occupanti brutali”.
La polemica ha già avuto ripercussioni concrete. Il professor Lawrence Rosenblatt, specialista in relazioni internazionali, si è dimesso dal suo incarico per protesta. Nella sua lettera di dimissioni, ha dichiarato che “la Columbia ha perso non solo la sua bussola morale, ma anche la sua bussola intellettuale”, sottolineando l'incompatibilità tra la missione educativa dell'università e l’attribuzione di un corso a qualcuno “che sostiene lo sterminio di un popolo”.
Le critiche vanno oltre l'università. Il rappresentante democratico Richie Torres ha messo pubblicamente in dubbio la pertinenza dei finanziamenti pubblici per un insegnamento che, a suo dire, “glorifica l'uccisione, lo stupro e il rapimento di ebrei e israeliani”. Il movimento StopAntisemitism ha ironizzato sulla situazione chiedendo se “Kim Jong-un avrebbe tenuto un corso sulla democrazia”.
Questa polemica si inserisce in un contesto più ampio di tensione nei campus americani, dove la Columbia è già stata teatro di numerosi incidenti antisemiti dopo il 7 ottobre.

(i24, 18 dicembre 2024)

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Rinvenute prove di riti di culto risalenti a 35.000 anni fa

Una roccia con guscio di tartaruga nella Grotta di Manot testimonia le riunioni religiose. Probabilmente esistevano già nelle culture preistoriche.

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I numeri indicano grandi gruppi di stalagmiti nella grotta.

MANOT - I ricercatori hanno trovato prove di incontri religiosi risalenti a 35.000 anni fa in un sito archeologico nella Grotta di Manot, nella Galilea settentrionale di Israele. Si tratta del primo ritrovamento di questo tipo nel Levante e di uno dei primi a livello mondiale. Lo ha riferito la scorsa settimana la rivista scientifica PNAS nell'articolo “Early human collective practices and symbolism in the early Upper Palaeolithic of Southwest Asia”. Gli autori sono gli scienziati Omry Barsilai, Ofer Marder, José-Miguel Tejero e Israel Herschkovitz.
Una roccia con incisioni geometriche che ricordano il guscio di una tartaruga costituisce il fulcro del ritrovamento. È stata “deliberatamente collocata in una nicchia nella parte più profonda e buia della grotta”, ha spiegato Barsilai. “Il disegno del guscio di tartaruga indica che potrebbe trattarsi di un totem o di una figura mitologica o spirituale”.
L'archeologo ha aggiunto che la particolare posizione della roccia depone a favore di un oggetto di culto: è lontana dall'ingresso della grotta, dove si svolgeva la vita quotidiana.
Altri elementi nella grotta testimoniano attività come la preghiera, il canto e la danza: l'acustica naturale della grotta serviva alla comunità. Resti di cenere nell'area intorno alla roccia del guscio di tartaruga indicano l'uso del fuoco per l'illuminazione.

• UNA MIGLIORE COMPRENSIONE DELLE POPOLAZIONI PREISTORICHE
   La scoperta “arricchisce la nostra comprensione delle popolazioni preistoriche, del loro mondo simbolico e della natura dei rituali di culto che univano le antiche comunità”, afferma il quotidiano online “Times of Israel”. Si tratta di una “svolta nella nostra comprensione della società umana, che rivela il ruolo centrale dei rituali e dei simboli nella formazione dell'identità collettiva e nel rafforzamento dei legami sociali”.
I ricercatori dell'Autorità israeliana per le antichità e dell'Università Ben-Gurion di Be'er Sheva hanno scoperto la Grotta di Manot nel 2008, considerata una testimonianza di culture preistoriche.

(Israelnetz, 18 dicembre 2024)

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Le pressioni di Trump e i progressi nei negoziati per il rilascio degli ostaggi

Attesa una svolta per Chanukkah

di Luca Spizzichino 

Il Presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato lunedì di essere attivamente impegnato per garantire il rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza. “Stiamo cercando di aiutare con grande impegno per riportare a casa gli ostaggi”, ha detto Trump durante una conferenza stampa al suo resort Mar-a-Lago a Palm Beach, Florida.
  Trump ha confermato inoltre di aver avuto una “chiamata di aggiornamento” con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante il fine settimana, senza però entrare nei dettagli. “Abbiamo avuto una conversazione molto positiva, abbiamo discusso di ciò che accadrà e sarò pienamente disponibile dal 20 gennaio. Vedremo” ha dichiarato. Il Presidente eletto ha aggiunto che, se gli ostaggi non saranno rilasciati entro il giorno del suo insediamento, “scoppierà l’inferno”.
  Secondo fonti israeliane e arabe citate dal Times of Israel, i negoziati mediati dal Qatar e dall’Egitto avrebbero registrato significativi progressi negli ultimi giorni, anche se restano ostacoli da superare. L’obiettivo è garantire il rilascio iniziale degli ostaggi più vulnerabili, tra cui donne, anziani e malati, in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane.
  Netanyahu, in un comunicato ufficiale, ha ribadito il suo impegno a “massimizzare il numero di ostaggi vivi che verranno liberati in qualsiasi possibile quadro di accordo”. Il premier israeliano lunedì ha incontrato Adam Boehler, inviato speciale per gli affari legati agli ostaggi nominato da Trump, insieme ad alti funzionari israeliani. Il Ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha dichiarato che Israele è “più vicino a un accordo per il rilascio degli ostaggi rispetto all’ultima volta”. Durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, Katz ha sottolineato che Hamas ha mostrato una nuova flessibilità. “È una questione morale e la missione più importante che abbiamo davanti,” ha affermato.
  Il Segretario di Stato Antony Blinken ha chiesto alla Turchia di esercitare pressioni su Hamas per accettare un accordo. Il portavoce Matthew Miller ha sottolineato che le discussioni sono vicine a una conclusione, ma ha avvertito che negoziati simili in passato sono falliti all’ultimo momento. Trump ha inoltre inviato i suoi inviati Steve Witkoff e Massad Boulos nella regione per incontri con i leader di Arabia Saudita e Qatar. Parallelamente, una delegazione israeliana è attualmente a Doha per proseguire i negoziati.
  Il principale ostacolo resta la durata del cessate il fuoco. Israele insiste per avere il diritto di riprendere le operazioni militari dopo la prima fase dell’accordo, mentre Hamas richiede un ritiro definitivo delle forze israeliane. Secondo i negoziatori, l’accordo potrebbe essere concluso entro Chanukkah, ma l’attuazione richiederebbe un periodo più lungo. Le famiglie degli ostaggi hanno espresso speranza e preoccupazione durante una manifestazione presso il parlamento israeliano. Hadassah Lazar, sorella di Shlomo Mansour, prigioniero a Gaza, ha dichiarato: “Spero e credo che ci sarà un miracolo di Chanukkah. Esigiamo che tutti gli ostaggi tornino insieme in un unico accordo, senza lasciare nessuno indietro”.

(Shalom, 17 dicembre 2024)

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"Se vincessero i nemici il prossimo bersaglio sarebbe l’Occidente"

Intervista a Jonathan Peled, nuovo Ambasciatore di Israele in Italia

di Maurizio Caprara

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L'ambasciatore Jonathan Peled

«Sulle prospettive per il Medio Oriente sono prudentemente ottimista. Sulle relazioni tra Israele e Italia assolutamente ottimista», dice il nuovo ambasciatore dello Stato ebraico a Roma. Jonathan Peled, 63 anni, è stato mandato a rappresentare il Paese governato dal conservatore Benjamin Netanyahu dopo aver ricoperto, tra l’altro, la carica di consigliere politico aggiunto di Shimon Peres quando lo statista di formazione laburista era ministro degli Esteri. A differenza del candidato originario per la sede di Roma Benny Kashriel, al quale non è stato dato il gradimento perché molto legato agli insediamenti in Cisgiordania, Peled è un diplomatico di carriera. Già maggiore dell’Aeronautica, abitava in un kibbutz della Galilea a soli 36 chilometri dal Monte Hermon sul cui versante siriano, due domeniche fa, soldati israeliani hanno innalzato una bandiera con la stella di Davide. Peled ha presentato le credenziali al Quirinale il 5 dicembre e questa è la sua prima intervista nel nuovo incarico.

- Lei rappresenta uno Stato alle prese con una guerra a Gaza e una in Libano mentre in una nazione confinante, la Siria, è crollato un regime nemico e ci si interroga su come governeranno i ribelli islamici che ne hanno preso il posto. Per il 2025 cosa ha nella sua agenda uno che fa il suo lavoro?
  «Dobbiamo riportare le relazioni tra Israele e Italia a prima delle stragi compiute da Hamas il 7 ottobre 2023, mentre si era concentrati su nuove tecnologie, spazio, energia, acqua. Apprezziamo molto la posizione avuta dal governo italiano dal 7 ottobre e la forte amicizia tra i rispettivi popoli. Adesso c’è da riprendere un forte flusso di scambi accademici, commerciali, tecnologici, politici. Per fine ottobre 2023 era previsto un incontro da noi tra i due governi. Non fu possibile tenerlo. Speriamo si possa nel 2025».

- La Corte penale internazionale ha chiesto l’arresto di Netanyahu per crimini di guerra. Se il suo primo ministro venisse a Roma lei si aspetta che in Italia sarebbe catturato?
  «Al momento non ci sono inviti sul tavolo. È una domanda ipotetica che andrebbe posta alle autorità italiane».

- Israele il 7 ottobre 2023 è stato attaccato con ferocia, ma nella continuazione della guerra di Gaza la sua immagine è stata percepita negativamente in settori di larga parte dell’Occidente. Per invertire la tendenza suo avviso quali azioni servirebbero?
  «Innanzitutto si dovrebbe distinguere tra il diritto di Israele all’autodifesa, la guerra che il Paese combatte per l’Occidente e anche per l’Italia, e la sua leadership politica. Non è un segreto che la nostra è una democrazia molto autocritica. Parti di Israele criticano il governo, tuttavia nessuno mette in dubbio che Israele stia facendo ciò che deve fare a Gaza e su un totale di sette fronti, dagli attacchi degli Houthi dallo Yemen a quelli di milizie irachene. Questa guerra la stiamo vincendo, però se non la vincessimo il prossimo nemico di chi ci attacca sarebbe l’Occidente».

- Anche se i numeri di vittime forniti da Hamas sono difficili da verificare, a Gaza i palestinesi morti sono tanti.
  «Proviamo rimpianto per ogni morte di innocenti. La popolazione civile non viene colpita intenzionalmente. Facciamo il nostro massimo per ridurre al minimo le vittime civili anche quando questi sono usati come scudi umani. La guerra è tragica e in guerra viene uccisa gente, sebbene incolpevole. Poi ci sono disinformazione, incitamento all’odio. Noi stiamo combattendo una guerra asimmetrica. Nessuna altra democrazia viene aggredita ai suoi confini da soggetti non statali, come Hamas e Hezbollah, che possono nascondersi tra la popolazione, non rispettare nostri valori, norme, prigionieri e civili né obblighi di moderazione o della Convenzione di Ginevra».

- L’Italia ha un migliaio di militari nella Forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano, Unifil. Come potrebbe contribuire al consolidamento del cessate il fuoco o al mantenimento degli accordi di pace in Medio Oriente una volta raggiunti?
  «L’Italia sta ricoprendo un ruolo costruttivo, ne può avere ancora dal “giorno dopo”. Sia come parte di Unifil, sia come membro di un comitato di coordinamento, sia nello sviluppo delle forze armate libanesi».

- E Unifil, che negli ultimi anni ha potuto soltanto misurare l’espansione degli arsenali di Hezbollah, rimarrebbe com’è?
  «Più che la quantità di personale da impiegare, il problema è che cosa deve fare, e questo non spetta a Israele stabilirlo. Certo, dovrebbe cambiare le sue regole di ingaggio e avere compiti più efficaci».

- Ambasciatore, nei canali diplomatici quali spiegazioni ha dato dei colpi sugli italiani partiti da unità israeliane in Libano?
  «Abbiamo reso molto chiaro che si è trattato di incidenti, e non di atti intenzionali. Non dimentichiamo che Hezbollah si nascondeva dietro le postazioni di Unifil».

- Lei prevede che nel 2025 si occuperà di Iran?
  «Dobbiamo essere sicuri che non disponga di armi nucleari e agiremo affinché le sue “guardie rivoluzionarie” vengano sanzionate per gli attacchi all’estero. Unione Europea e Italia, per noi, su questo sono importanti».

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2024)

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La Turchia sta per invadere il Kurdistan siriano

Tutto lascia pensare che la Turchia stia per dare il via ad una invasione su larga scala del Kurdistan siriano.

Fonti di alto livello statunitensi affermano che la Turchia e i miliziani suoi alleati stanno accumulando forze lungo il confine con la Siria, suscitando il sospetto che Ankara si stia preparando per un’incursione su larga scala nel territorio detenuto dai curdi siriani sostenuti dagli americani.
Le forze includono combattenti della milizia, commando in uniforme turca e artiglieria in gran numero che si concentrano vicino a Kobani, una città a maggioranza curda in Siria al confine settentrionale con la Turchia. Un’operazione transfrontaliera turca potrebbe essere imminente, ha detto uno dei funzionari statunitensi.
Il rafforzamento, iniziato dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad all’inizio di dicembre, sembra simile alle mosse militari turche in vista dell’invasione del 2019 del nord-est della Siria. “Siamo concentrati su questo aspetto e stiamo facendo pressione per la moderazione”, ha detto un altro funzionario statunitense.
Ilham Ahmed, un funzionario dell’amministrazione civile dei curdi siriani, lunedì ha detto al presidente eletto Donald Trump che un’operazione militare turca sembrava probabile, invitandolo a fare pressione sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan affinché non invii truppe oltre il confine.
L’obiettivo della Turchia è quello di “stabilire un controllo de facto sulla nostra terra prima che lei entri in carica, costringendola a impegnarsi con loro come dominatori del nostro territorio”, ha scritto Ahmed a Trump in una lettera visionata dalla stampa. “Se la Turchia procederà con la sua invasione, le conseguenze saranno catastrofiche”.
La minaccia della Turchia ha lasciato le Forze Democratiche Siriane a guida curda, che si uniscono alle truppe statunitensi nel nord-est della Siria per cacciare i resti dello Stato Islamico, in una posizione vulnerabile settimane prima che l’amministrazione Biden lasci il suo incarico. Il Segretario di Stato Antony Blinken si è recato in Turchia la scorsa settimana per discutere del futuro della Siria con Erdogan e ottenere garanzie che Ankara avrebbe ridotto le operazioni contro i combattenti curdi.
Ma secondo un portavoce delle Forze Democratiche Siriane i colloqui per il cessate il fuoco tra i curdi siriani e i ribelli sostenuti dalla Turchia a Kobani, mediati dagli Stati Uniti, sono crollati lunedì senza un accordo. L’SDF sta ora assistendo a “significativi assembramenti militari” a est e a ovest della città, ha detto il portavoce.
“Dall’altra parte del confine, possiamo già vedere le forze turche che si stanno ammassando e i nostri civili vivono nel costante timore di morte e distruzione imminenti”, ha scritto Ahmed a Trump.
L’estromissione del leader siriano Assad da parte dei gruppi ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente affiliato ad al-Qaeda, ha lasciato il futuro del Paese in uno stato di incertezza e ha dato il via a nuovi combattimenti tra i curdi siriani e i gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia.
La caduta di Assad ha portato a un’intensificazione delle operazioni turche contro l’SDF, che Ankara considera un’estensione del vietato Partito dei Lavoratori del Kurdistan.
Lunedì Trump ha insinuato che la Turchia ha orchestrato la conquista della Siria da parte di Hayat Tahrir al-Sham, dicendo ai giornalisti nella sua residenza in Florida che “la Turchia ha fatto una presa di potere non amichevole senza perdere molte vite”.
Ahmed ha avvertito Trump che un’invasione turca provocherebbe lo sfollamento di oltre 200.000 civili curdi nella sola Kobani e di molte comunità cristiane.
Durante il suo primo mandato, Trump ha parzialmente ritirato le truppe statunitensi dal nord-est della Siria, aprendo la strada a un’invasione turca su larga scala che ha ucciso e sfollato centinaia di migliaia di siriani. L’amministrazione Trump ha infine contribuito a mediare un cessate il fuoco in cambio della cessione da parte dei curdi di chilometri di territorio di confine ai turchi.
Anche se Trump subentrerà al presidente Biden solo il 20 gennaio, Ahmed ha esortato il presidente eletto a usare il suo “approccio unico alla diplomazia” per convincere Erdogan a fermare qualsiasi operazione pianificata. Ha fatto riferimento a un precedente incontro con Trump, ricordando che l’allora presidente aveva promesso che “gli Stati Uniti non avrebbero abbandonato i curdi”.
“Crediamo che lei abbia il potere di impedire questa catastrofe. Il Presidente Erdogan l’ha già ascoltata in passato e confidiamo che ascolterà di nuovo il suo appello”, ha scritto Ahmed. “La sua leadership decisiva può fermare questa invasione e preservare la dignità e la sicurezza di coloro che sono stati solidi alleati nella lotta per la pace e la sicurezza”.

(Rights Reporter, 17 dicembre 2024)

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Uno sguardo all'interno dell'Unità 504

Potete immaginare l’interrogatorio di un terrorista?

di David Shishkoff 

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Sorveglianza in una prigione nel sud di Israele ai terroristi di Hamas catturati il 7 ottobre e durante l'operazione dell'IDF a Gaza

GERUSALEMME - Nell'ultima settimana di novembre 2024, il Corpo di Intelligence delle Forze di Difesa Israeliane ha fornito una panoramica su una delle sue unità.
L'Unità 504 del Corpo di Intelligence è responsabile della ricognizione "umana" (in contrapposizione alla ricognizione tecnologica). Uno dei loro compiti è l'interrogatorio dei prigionieri di guerra. Sono stati molto impegnati dal 7 ottobre. Quando le forze israeliane hanno posto fine al massacro, hanno catturato migliaia di terroristi di Gaza. Nei mesi seguenti l'Unità 504 ha interrogato più di 2.500 terroristi, ottenendo decine di migliaia di "informazioni" sulle posizioni nemiche e identificando migliaia di obiettivi per gli attacchi delle forze israeliane.
Molti di questi terroristi avevano informazioni che potevano fare la differenza tra la vita e la morte per i soldati israeliani che penetravano nella zona grigia di Gaza, fatta di tunnel nascosti e trappole esplosive. Le informazioni potevano essere, ad esempio, la posizione di un tunnel, una casa con una trappola esplosiva o il luogo in cui sono conservati i razzi.
Gli inquisitori dell'Unità 504 sono stati chiamati urgentemente in servizio attivo dopo il 7 ottobre per cercare di ottenere queste informazioni cruciali dai terroristi catturati. Gli inquisitori parlano tutti correntemente l'arabo. Molti di loro hanno superato l'età normale per il servizio di riserva nelle Forze di Difesa israeliane e tuttavia sono rimasti volentieri in servizio dopo il 7 ottobre. Gli interrogatori possono durare molte ore e continuare per giorni mentre l'inquisitore guarda il terrorista negli occhi. Gli esperti del 504 paragonano gli interrogatori a una partita di poker in cui nessuna delle due parti sa esattamente quali "carte" (conoscenze) ha in mano l'altra.
Uno degli inquisitori, il Capitano "A", è sposato e padre di sei figli. Dice: "Paragono un interrogatorio a una partita di poker. Due persone siedono lì, ognuna ha delle carte e ognuna cerca di scoprire cosa ha l'altra. Tutti cercano di imbrogliare, di bluffare - e il vostro compito di interrogane  è capire se la persona che avete di fronte sta mentendo o no. Se quello che sta dicendo è vero o no. Più informazioni portate in un interrogatorio, più forti sono le vostre carte e più probabilità avete di avere successo. Se riesco a far capire che il gioco è finito e che solo un idiota continuerebbe a giocare, ho vinto".
"I terroristi della Jihad islamica a Gaza sono stati sottoposti a interrogazione. Uno di loro ha insistito sul fatto di non essere collegato ad alcuna attività militare. A un certo punto gli ho detto: "Se ti dico il nome del tuo comandante diretto, dirai che la partita è finita?". Mi ha guardato e ha detto: "Sì". Gli ho detto il nome del suo comandante diretto, Abdullah. Mi chiese: "Qual è il suo [di Abdullah] cognome?". Gli ho detto il cognome del comandante. Dopo di che, era pronto a "parlare" perché aveva capito che uno degli altri prigionieri era crollato e ci aveva raccontato tutto".
Gli inquisitori delle Forze di Difesa israeliane iniziano a interrogare i terroristi islamici il prima possibile dopo la cattura, con il chiaro scopo di salvare la vita dei soldati che stanno per entrare in quartieri di Gaza minati o con trappole esplosive. A volte le informazioni appena ottenute da un terrorista catturato sono state immediatamente trasmesse alle truppe da combattimento, salvando vite umane e aiutandole a evitare l'ingresso in aree minate o con tunnel nascosti.
Gli esperti della 504 raccontano il fenomeno surreale di interrogare un prigioniero che solo poco tempo prima ha commesso i peggiori e immaginabili omicidi e stupri. Eppure, devono passare dubito alla prioritaria necessità di capire quali altre informazioni questo mostruoso individuo possa avere che domani potrebbero ancora diminuire il pericolo per un soldato delle Forze di Difesa israeliane. Gli esperti della 504 riferiscono che i terroristi ammettono apertamente tutti i crimini commessi, spesso con orgoglio e mai con vero rimorso. Il massimo che esprimono è che sono dispiaciuti che le loro azioni abbiano portato distruzione al loro stesso popolo e imprigionamento a loro stessi. Tuttavia, nessuno di loro si pente delle azioni commesse dicendo che sono moralmente sbagliate.
Alla domanda su come mantenere la distanza emotiva durante un interrogatorio, un inquisitore ha risposto: "Non hai scelta. Se qualcuno si siede con te durante un interrogatorio e dice: 'Ho messo tre ebrei contro il muro e gli ho sparato al cuore uno dopo l'altro', e subito, senza fermarsi, ti chiede: 'Posso avere un bicchiere d'acqua?", allora puoi rispondergli, se serve all'interrogatorio: "Come preferisci l'acqua, fredda o a temperatura ambiente?". Il mio obiettivo è ottenere le informazioni che conosce alla fine della giornata. Se mi lascio trasportare dalle emozioni, non posso raggiungere il mio obiettivo".
Anche durante i mesi necessari per interrogare i terroristi originali del 7 ottobre, nuovi terroristi sono stati catturati e/o si sono arresi.Spesso il tempo è fondamentale quando gli inquisitori cercano la "chiave" per aprire la bocca del prigioniero e ottenere informazioni. Diventa una gara di abilità contro abilità. Gli inquisitori devono essere in grado di distaccarsi dalle emozioni che provano quando sentono un terrorista raccontare con orgoglio le sue imprese omicide. L'investigatore deve pensare con freddezza e creare una sorta di "piattaforma" psicologica sulla quale il terrorista rivela le informazioni che conosce al suo nemico israeliano.
Il ruolo dei soldati combattenti come eroi negli scontri a fuoco diretti era già noto. Ora le Forze di Difesa israeliane hanno dato uno sguardo a un altro tipo di eroe e a un altro aspetto di questa lunga guerra. Gli uomini dell'Unità 504 stanno servendo Israele perché sono disposti a impegnarsi in una conversazione lunga e prolungata e in una lotta psicologica con un nemico vile. La loro disponibilità a esporsi alla cattiveria, settimana dopo settimana, come parte della guerra di intelligence, salva delle vite di soldati israeliani.
Alla domanda sulla differenza tra i terroristi di Hamas e i civili di Gaza, un inquisitore ha risposto che la resistenza violenta a Israele è una parte così radicata della vita a Gaza che si trova in quasi tutte le famiglie, i quartieri e i principali gruppi tribali.
"La si vede [a Gaza] da nord a sud. Tutti sono coinvolti, non se ne vergognano e fa parte della loro vita. Se non è lui, è suo fratello, e se non è suo fratello, è il cugino".
Ai bambini di Gaza viene chiesto di tenere il coltello e macellare la capra durante la festa musulmana del sacrificio. Nella cultura gazana, la morte e l'odio sono trattati in modo molto diverso dalla cultura israeliana.
Un inquisitore ha detto: "Credo che il nostro modo di pensare e il nostro desiderio di vita sia diverso dal loro. Sono cresciuti in modo diverso e allevano i loro figli in modo diverso. L'omicidio non è estraneo a loro, fa parte della loro vita. All'inizio siamo rimasti molto sorpresi dal numero di persone apparentemente "non coinvolte" che sono entrate in territorio israeliano il 7 ottobre. È comprensibile che un terrorista di Hamas, addestrato per anni, invada un Paese nemico. Ma ci sono stati anche civili che sono entrati in gran numero e hanno preso parte ad atti di omicidio e saccheggio. Questo fa pensare a qualcos'altro".
Altri inquisitori hanno espresso un parere leggermente diverso, sottolineando che alcuni civili di Gaza temono Hamas più delle forze israeliane. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, dove siano tutti i civili innocenti di Gaza che ci si potrebbe aspettare che cambino schieramento se odiano così tanto Hamas.
Alcuni degli inquisitori conoscono molto bene il Corano e usano questa conoscenza per creare un'intesa con i terroristi che conoscono bene il libro sacro musulmano.
Onore all'Unità 504! un altro gruppo di coraggiosi soldati delle Forze di Difesa israeliane.

(Israel Heute, 17 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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In Canada, l’antisemitismo ha raggiunto livelli record

Gli ebrei sono le vittime principali dei crimini d’odio nel paese nord-americano. Un esempio? Gli spari contro la vetrina del ristorante Falafel Yoni a Montréal, dopo che i filopalestinesi avevano chiesto di boicottarlo. Intervista a Ron East, direttore di TheJ.Ca.

di Nathan Greppi

All’inizio di dicembre, durante una conferenza stampa organizzata a Toronto dalla Jewish Medical Association of Ontario (JMAO), il dottor Sam Silver ha raccontato: “Lavoro con studenti di medicina brillanti, compassionevoli e che si impegnano per diventare il futuro del settore sanitario in Canada. Eppure, stanno navigando in un ambiente ostile in cui la loro identità ebraica li rende vittime di odio ed esclusione. Non si può andare avanti così”.
  Questa testimonianza è giunta dopo che un sondaggio commissionato dalla JMAO ha rivelato che in seguito ai massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023, l’80 per cento degli ebrei canadesi che lavorano in ambito medico ha dovuto affrontare l’antisemitismo sul luogo di lavoro. Prima del 7 ottobre, la percentuale di medici ebrei che aveva avuto esperienze di antisemitismo sul lavoro era solo dell’1 per cento.

• LE STATISTICHE
  Più in generale, il Canada ha visto crescere considerevolmente l’antisemitismo dall’inizio della guerra in corso: secondo l’ultimo rapporto annuale, uscito nel maggio 2024, dell’organizzazione ebraica B’nai Brith Canada, in tutto il 2023 si sono registrati 5.791 episodi di antisemitismo nel paese nordamericano, che ospita la quarta più grande comunità ebraica al mondo (398.000 persone nel 2023, dietro solo a Israele, Stati Uniti e Francia). Questi episodi erano più del doppio rispetto ai 2.769 del 2022 e ai 2.799 del 2021. In termini percentuali, l’aumento degli episodi di antisemitismo risultava essere all’incirca del 109 per cento.
  In tale occasione, il principale quotidiano canadese, The Globe and Mail, ha pubblicato un editoriale in cui ha denunciato ciò che stava accadendo dopo il 7 ottobre. Tra i crimini d’odio elencati nell’articolo, figuravano un attacco a un ristorante ebraico di Toronto, colpi di arma da fuoco sparati contro una scuola ebraica di Montréal, un atto di vandalismo contro una libreria Indigo, perché il fondatore della catena è ebreo, e la vandalizzazione di abitazioni private con immagini e scritte antisemite.
  Pur rappresentando appena l’1 per cento di tutta la popolazione canadese, gli ebrei subiscono molte più manifestazioni di ostilità rispetto ad altri gruppi: a Toronto, secondo i dati resi pubblici dalla polizia locale, dopo il 7 ottobre gli ebrei sono stati vittime del 57 per cento dei crimini d’odio. E nel corso di tutto il 2023, gli ebrei hanno subito il 78 per cento di tutti i crimini d’odio su base religiosa avvenuti nella stessa città.
  Le cose non vanno meglio nella regione francofona del Québec: secondo il settimanale francese Le Point, nelle settimane immediatamente successive ai massacri perpetrati da Hamas, 132 crimini d’odio hanno avuto come bersaglio la comunità ebraica di Montréal. Per fare degli esempi, ci sono stati degli spari contro la vetrina di un ristorante di cucina israeliana, il Falafel Yoni. Il ristorante era in un elenco di attività commerciali da boicottare pubblicato dai filopalestinesi.

• UN PAESE CAMBIATO
  «Prima del 7 ottobre, il Canada era un posto dove ebrei, israeliani e sionisti potevano camminare tranquillamente per strada, nei campus e in altri spazi pubblici senza temerne le ripercussioni -, racconta a Bet Magazine Mosaico il giornalista israelo-canadese Ron East, direttore del giornale TheJ.Ca. – Certo, c’erano già delle manifestazioni, ad esempio durante l’Al Quds Day, ma niente che potesse seriamente minacciare la sicurezza della comunità ebraica. Quando è avvenuto il 7 ottobre, sembrava che qualcuno avesse aperto i cancelli e fatto uscire allo scoperto tutti gli antisemiti. Da quel momento, un paese che fino ad allora era stato assai pacifico, dove gli ebrei sentivano di poter crescere i loro figli, è diventato un luogo dove temi per la tua sicurezza quasi ogni giorno».
  A dispetto di questi fatti, non sono mancati casi di ebrei di estrema sinistra filopalestinesi che si sono prestati a fare da “foglia di fico” agli odiatori: a dicembre, un gruppo di manifestanti è entrato nella sede del Parlamento canadese ad Ottawa per chiedere un embargo sulla vendita di armi ed equipaggiamenti militari a Israele. Tra le sigle che hanno preso parte alla manifestazione, figurava l’organizzazione antisraeliana Independent Jewish Voices Canada. Se gli attivisti propal possono arrivare ad entrare in Parlamento, per quelli filoisraeliani spesso le cose possono mettersi male quando si espongono pubblicamente: East racconta che «CJPME (Canadians for Justice and Peace in the Middle East), una lobby filopalestinese molto influente, ha contattato tutti i nostri sponsor e coloro con i quali TheJ.Ca ha accordi pubblicitari, e ha fatto molta pressione su di loro affinché interrompessero le loro pubblicità sul mio giornale. Hanno anche contattato i media che mi intervistavano per cercare di convincerli a smettere di offrirmi uno spazio».
  In taluni casi, dietro le manifestazioni si nascondono finanziamenti di dubbia provenienza: nel gennaio 2024, in seguito a una manifestazione filopalestinese nella città di Victoria, è emerso che una delle ONG che la organizzavano, Plenty Collective, pagava le persone per andare a manifestare, senza tuttavia specificare nel dettaglio da dove arrivassero quei soldi.
  Mondo accademico
  Come nel resto dell’Occidente, questa ondata non ha risparmiato le università, che al contrario si sono rivelate tra i principali incubatori dell’odio: per fare un esempio, a settembre gruppi pro-Palestina hanno fissato delle teste di maiale sui cancelli dell’Università della Columbia Britannica, assieme a uno striscione che recitava “maiali fuori dal campus”, in riferimento ad ebrei e filoisraeliani. E all’inizio di quest’anno, gli stessi collettivi proPal hanno condotto una campagna per espellere dal campus l’organizzazione ebraica Hillel.
  Episodi analoghi si sono verificati anche in altri atenei: a marzo, gli studenti ebrei che frequentavano la Concordia University di Montréal hanno raccontato alla rivista ebraica americana Algemeiner di essere stati costretti a cavarsela da soli quando i loro compagni di classe antisionisti li hanno aggrediti e molestati. Su tutti, spicca un episodio avvenuto il 12 marzo, quando degli studenti ebrei si sono ritrovati intrappolati nella sede Hillel dell’ateneo, mentre membri del gruppo Supporting Palestinian Human Rights (SPHR) sbattevano contro le finestre e le porte. Quando gli agenti di sicurezza del campus sono arrivati sulla scena, si sono rifiutati di punire i delinquenti e hanno accusato gli studenti ebrei di aver istigato l’incidente, solo perché avevano filmato ciò che era accaduto.
  Sempre a Montréal, a inizio dicembre il governo del Québec ha annunciato di aver avviato una indagine su due college dove sono stati denunciati degli episodi di molestie e di istigazione all’odio nei confronti degli studenti ebrei all’interno dei campus. Mentre all’Università del Manitoba, a Winnipeg, a maggio un laureando in medicina ha tenuto un discorso in cui accusava Israele di prendere di mira deliberatamente medici e ospedali a Gaza.
  La situazione che si è venuta a creare è stata denunciata dal medico Lior Bibas, co-fondatore dell’Association des médecins juifs du Québec (AMJQ), che a novembre ha twittato: “Sono un ebreo del Québec e canadese di prima generazione, e guardo la mia città natale, Montréal, precipitare nel caos, con la legge e l’ordine apparentemente abbandonati per placare gli odiosi codardi mascherati”.

(Bet Magazine Mosaico, 17 dicembre 2024)

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Gaza, anche Israele conferma che l’accordo sulla tregua è più vicino

Katz: “Sarà temporaneo, sanno che la guerra non è finita”

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Parlando al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa, il ministro Israel Katz ha confermato che l'intesa è sempre più vicina

Per la prima volta dall’inizio del conflitto a Gaza, tutte le parti sembrano guardare nella stessa direzione, quella di un cessate il fuoco di medio-lungo termine. Il primo passo pubblico è stato compiuto dagli Stati Uniti, con la scarcerazione anticipata di Mofid Abdul Qadir Meshaal, fratellastro del più noto ex leader politico di Hamas, Khaled Meshaal. Il giorno dopo era stata Hamas, tramite un suo funzionario, ad aprire a una tregua “entro il 2024”, sollevando però dubbi sulla disponibilità di Israele. E lunedì è arrivata anche la risposta di Tel Aviv per bocca di una delle figure più radicali del governo Netanyahu, il ministro della Difesa Israel Katz. A porte chiuse, ad alcuni deputati della Knesset l’esponente dell’esecutivo ha assicurato che il governo è più vicino che mai a un accordo per la liberazione degli ostaggi a Gaza.
Quali siano, nello specifico, i termini dell’intesa che appare sempre più imminente non è ancora chiaro. Di sicuro questa prevederà un cessate il fuoco a medio-lungo termine, la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e la contestuale scarcerazione di centinaia di prigionieri palestinesi dai penitenziari israeliani. “Siamo più vicini che mai a raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri”, sempre che il primo ministro israeliano “Netanyahu non ostacoli l’accordo”, ha ribadito un leader di Hamas in anonimato al giornale saudita Asharq News. La fonte ha spiegato che il partito armato palestinese ha presentato una proposta di accordo mostrando una “grande flessibilità” per arrivare a una “fine graduale della guerra e a un ritiro graduale delle forze israeliane in base a una tempistica condivisa e alle garanzie dei mediatori internazionali”.
Da Tel Aviv è arrivata poi la conferma, con le dichiarazioni di Katz, che le contrattazioni hanno imboccato la strada giusta. I commenti del ministro al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa della Knesset sono stati fatti a porte chiuse, ma le sue osservazioni sono state riprese dalla stampa ebraica. “Israele è più vicina che mai a un altro accordo sugli ostaggi”, ha dichiarato sottolineando che meno se ne parla e meglio è. Il ministro prevede che l’intesa sarà sostenuta dalla maggior parte della coalizione e non dovrebbe incontrare ostacoli interni. Katz sembra inoltre indicare che questo non includerà una sospensione a tempo indeterminato delle ostilità, come richiesto da Hamas: “C’è flessibilità dall’altra parte. Hanno capito che non metteremo fine alla guerra”.

(il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2024)

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Perché Israele vuole chiudere la sua ambasciata in Irlanda

Il governo irlandese è uno dei più filopalestinesi in Europa, a quello di Netanyahu questa cosa piace molto poco

Domenica il governo israeliano di destra guidato da Benjamin Netanyahu ha annunciato che intende chiudere l’ambasciata israeliana in Irlanda, a Dublino, per via di alcune posizioni che giudica “anti-israeliane” del governo irlandese, guidato da una coalizione che va dal centrodestra ai Verdi.
È una decisione che non ha precedenti nella storia contemporanea: finora Israele non aveva mai chiuso una propria ambasciata in un paese europeo. In un certo senso però era nell’aria. L’Irlanda è uno dei paesi più filo-palestinesi nell’Unione Europea, e i suoi governi – a prescindere dalla composizione – criticano da tempo le azioni del governo di Netanyahu, come l’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e più di recente l’invasione della Striscia di Gaza. La decisione di Israele peraltro è arrivata cinque giorni dopo che l’Irlanda aveva annunciato di volersi unire alla causa per genocidio avanzata dal Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia.
Per contro, il governo israeliano sta adottando una politica estera sempre più aggressiva nei confronti dei paesi che percepisce come alleati poco affidabili. Netanyahu critica sempre più duramente i leader stranieri che avanzano dubbi sulla condotta israeliana nell’invasione della Striscia di Gaza e del Libano. Finora però alle sue dichiarazioni non erano seguite implicazioni particolarmente concrete.
I rapporti fra Irlanda e Israele sono sempre stati piuttosto difficili. In Irlanda esiste una simpatia trasversale per la causa palestinese, considerata una campagna anti-coloniale simile a quella che gli irlandesi condussero per secoli contro l’Impero britannico. Nel 1980 l’Irlanda diventò il primo stato dell’allora Comunità Economica Europea (l’antenato dell’Unione Europea) a chiedere la nascita di uno stato indipendente palestinese. Negli anni più recenti la comunità di residenti di religione musulmana si è molto allargata, quasi raddoppiando dal 2011 a oggi.
In un sondaggio realizzato a febbraio è emerso che il 79 per cento degli irlandesi ritiene che Israele stia compiendo un genocidio nella Striscia di Gaza (in Italia, che pure ha percentuali superiori a vari paesi dell’Europa occidentale, lo crede il 49 per cento, secondo un sondaggio di aprile).
Dall’inizio dell’invasione della Striscia di Gaza peraltro il governo irlandese aveva intensificato le sue critiche, ma aveva anche preso alcuni provvedimenti ufficiali.
A maggio aveva formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina insieme a Norvegia e Spagna: in quel caso il governo di Netanyahu aveva richiamato brevemente l’ambasciatore israeliano in Irlanda. A ottobre aveva annunciato una norma per impedire l’importazione in Irlanda di merce prodotta nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Pochi giorni fa, come detto, è arrivata la notizia che l’Irlanda si sarebbe unita alla causa per genocidio alla Corte internazionale di giustizia.
Più nello specifico l’Irlanda chiederà alla Corte di ampliare la sua interpretazione di ciò che rientra nella definizione di genocidio, su cui ormai da anni sono in corso dibattiti e discussioni accademiche che hanno ripreso forza dopo l’invasione della Striscia di Gaza.
Un funzionario israeliano ha detto all’Irish Times che al momento il governo non prevede di chiudere ulteriori ambasciate in altri paesi europei. Non è chiaro se le cose cambieranno in futuro, anche perché il ministro degli Esteri israeliano è cambiato da poco. A inizio novembre, nell’ambito di un rimpasto interno al governo, il politico conservatore Gideon Sa’ar aveva lasciato il proprio incarico di ministro dell’Interno ed era diventato ministro degli Esteri sostituendo Israel Katz, uno degli storici leader del partito di Netanyahu.

(il Post, 16 dicembre 2024)

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Israele: pilota ‘disegna’ in cielo un nastro per la liberazione degli ostaggi

di Luca Spizzichino

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Questa mattina, nei cieli di Israele, il simbolo della lotta per la liberazione degli ostaggi israeliani ha catturato l’attenzione e l’emozione di tutto il Paese. Un pilota, o forse più di uno, ha “disegnato” delle strisce che richiamano i nastri simbolici, visibili dal nord al sud dello Stato ebraico.
  Resta ancora incerto se si tratti di semplici scie di condensazione o di un sistema di fumogeni appositamente installato a bordo dell’aereo. Anche l’identità del pilota rimane sconosciuta, alimentando il mistero intorno a questo gesto. Tuttavia, il messaggio trasmesso è stato potente e capace di unire gli israeliani sotto un cielo che per qualche ora si è fatto voce delle loro speranze.
  Le immagini delle strisce luminose nel cielo hanno rapidamente invaso i social media, accompagnate da commenti carichi di emozione. Tra le fotografie più toccanti, spicca quella scattata al confine con Gaza, che ritrae il simbolo stagliarsi nel cielo sopra il memoriale dedicato alle osservatrici uccise il 7 ottobre.
  In molti hanno interpretato il gesto come un segno di speranza. “Anche il cielo vuole che gli ostaggi tornino a casa”, ha scritto un utente. “Che sia un segno che siamo vicini a una soluzione”, ha commentato un altro, riferendosi alle delicate trattative per il rilascio degli ostaggi, ancora avvolte dal massimo riserbo.
  Un gesto semplice, ma carico di significato, che ha unito per un attimo tutto il Paese sotto uno stesso cielo.

(Shalom, 16 dicembre 2024)

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Perché il successo dell'Università israeliana Technion ha radici tedesche

Il Technion di Haifa ha iniziato ad insegnare un secolo fa. La storia dell'università è molto tedesca all'inizio e allo stesso tempo ha un nucleo sionista. I suoi successi sono impressionanti.

di Sandro Serafin

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L'edificio del primo centro tecnico in Israele è stato progettato da un architetto prussiano

Quest'anno l'università tecnica israeliana può vantare cento anni di insegnamento: Il Technion di Haifa ha iniziato la sua attività alla fine del 1924. Da allora, ha prodotto innumerevoli scienziati che hanno contribuito a plasmare l'economia e le innovazioni israeliane, alcuni dei quali hanno vinto il Premio Nobel.
Le prime idee per un istituto di questo tipo sono emerse all'inizio del XX secolo. Nel 1902, Martin Buber, Chaim Weizmann e Berthold Feiwel pubblicarono un memorandum intitolato “Un'università ebraica”. La loro analisi: in molti Paesi gli ebrei erano discriminati ed esclusi dall'istruzione superiore, con conseguenze intellettuali, economiche e sociali nefaste che “non possono essere descritte o anche solo immaginate per il futuro”.
La soluzione è stata individuata nella fondazione di una “università ebraica”. Il modo migliore per farlo è in Palestina, poiché non c'è dubbio che l'esistenza di un'università palestinese “aumenterebbe e consoliderebbe notevolmente la fiducia nella possibilità di creare una patria”. I tre visionari presentarono la loro idea al Congresso sionista.

• SIONISTI E NON SIONISTI
   Tuttavia, inizialmente non furono i sionisti a portare avanti in pratica il progetto  con il sostegno finanziario di ebrei facoltosi, ma fu soprattutto l'“Hilfsverein der Deutschen Juden”, che si distanziava dal sionismo. Si occupava dello “sviluppo dei compagni di fede”, soprattutto nell'Europa orientale e in Palestina. Gestiva diverse scuole in quello che all'epoca era ancora territorio ottomano.
Anche Paul Nathan, uno dei fondatori, accolse l'idea di un'università tecnica. Egli vedeva un grande potenziale di sviluppo soprattutto in Oriente: questa regione poteva ancora essere “conquistata dalla tecnologia moderna quasi all'infinito”. Secondo l'Hilfsverein, ciò non avrebbe giovato solo agli ebrei stessi, ma anche alla “patria ottomana”. L'enfasi sulla “patria ottomana” non era una prospettiva molto sionista.
La sede migliore per il Technikum - questo era inizialmente il nome tedesco del Technion - era stata individuata da Paul Nathan in Haifa. Questa città mediterranea nel nord della Palestina era da preferire perché Haifa “ha un grande futuro grazie alla sua posizione sul mare e al suo collegamento ferroviario con Damasco”.

• UN PRUSSIANO PROGETTÒ L'EDIFICIO
   Alcuni abitanti di Gerusalemme si opposero senza successo a questa scelta: Nel 1908, la società acquistò un terreno sul versante inferiore del monte Carmelo. La prima pietra dell'edificio centrale fu posata nel 1912. L'architetto incaricato fu l'ebreo prussiano Alexander Baerwald, che aveva progettato anche la ristrutturazione della Staatsbibliothek Unter den Linden.
L’influenza tedesca nei primi anni del Technikum è stata immensa, come ha dimostrato in particolare Se'ev Sadmon in uno studio esaustivo. Secondo questo studio, le attrezzature per le officine e i laboratori furono inizialmente ordinate esclusivamente ad aziende tedesche. Dal 1909 due professori della Königliche Technische Hochschule di Berlino-Charlottenburg erano a capo di un comitato scientifico consultivo.
Quando fu aperto il centro tecnico, quattro dei sette docenti delle materie principali provenivano dalla Germania. A volte il progetto ha attirato l'attenzione del governo tedesco. James Simon, presidente dell'organizzazione di aiuti con buoni contatti nella politica tedesca, una volta spiegò che lui stesso aveva promesso volentieri al Kaiser di “trasformare il centro tecnico in un'istituzione tedesca”.

• BEN-JEHUDA MINACCIAVA SPARGIMENTI DI SANGUE
   Negli anni Dieci, il progetto si arenò a causa di due eventi imprevisti. Il primo aveva uno sfondo interno ebraico interno: nel 1913, le tensioni latenti tra sionisti e non sionisti sul Technikum scoppiarono apertamente. Il motivo fu una decisione del Consiglio di amministrazione, secondo la quale nessuna lingua ufficiale di insegnamento era considerata obbligatoria.
Per quanto riguarda l'ebraico moderno, una delle forme più alte di espressione del sionismo, si affermava soltanto che avrebbe dovuto ricevere “la cura più accurata”. Paul Nathan dell'Hilfsverein spiegò la scelta con considerazioni pratiche: Mancavano libri di testo, insegnanti e parole in ebraico.
La decisione suscitò indignazione non solo tra i sionisti in Palestina, ma in tutto il mondo: ed è passata alla storia come la “guerra delle lingue”. In Palestina furono organizzate manifestazioni di protesta e scioperi in molti luoghi. Elieser Ben-Jehuda, ideatore della nuova lingua ebraica, minacciò in una lettera a Nathan dicendo che l'apertura “non avrebbe avuto luogo senza lo spargimento di sangue ebraico”. Si sentivano “violati e derubati dell'unico santuario che speravano presto di possedere”.

• “L’EBRAICIZZAZIONE DEL TECHNIKUM
   Per i sionisti si trattava anche della loro emancipazione dalla diaspora: “Vogliamo tollerare che gli assimilazionisti dell'Europa occidentale agitino una scure sulle nostre tenere piantagioni?”, si indignava il giornale di Gerusalemme “HaCherut”. Il Consiglio di amministrazione fu infine costretto a rivedere la sua decisione e ad assegnare all'ebraico un ruolo maggiore. Il giornale sionista “Die Welt ‘ definì questa decisione ’l'ebraicizzazione del Technikum”.
Oltre alla “guerra delle lingue”, anche lo scoppio della Prima Guerra Mondiale causò dei ritardi. A volte, il centro tecnico servì come campo per i militari tedeschi, turchi e poi britannici. In questo periodo si è perso l'inventario. Infine, si sviluppò un lungo tira e molla che si concluse con l'acquisto dell'istituzione da parte dell'Organizzazione Sionista Mondiale nel 1920. Nell'inverno del 1924/25 iniziò finalmente l'attività didattica.
Un anno prima, Max Hecker, il primo presidente dell'università, aveva riassunto il nucleo del progetto da una prospettiva sionista: il Technikum porta con sé “una sana forza di contrasto contro il pericolo dell'intellettualismo unilaterale”e “svolge un ruolo essenziale nella creazione della nuova generazione ebraica verso la quale sono rivolte le nostre speranze”. In altre parole: d’ora in poi, il “nuovo ebreo” deve essere costruito qui, diverso dal vecchio “ebreo della diaspora”.

• 15 NUOVE AZIENDE OGNI ANNO
   Qualche anno dopo, i primi 17 studenti si laurearono in ingegneria e architettura. Uno di loro era una donna. Da allora, il Technion è cresciuto enormemente. Con il cambiare dei tempi, è cambiata anche l'università: sono state istituite, tra l'altro, le facoltà di ingegneria aerospaziale e di ingegneria elettrica. Negli anni '30 e '40, il Technion ha beneficiato dell'ammissione di molti ebrei europei che si sono rifugiati in Palestina per sfuggire al regime nazista.
Nel corso degli anni, l'università si è anche trasferita in una nuova sede su un versante del Carmelo. Secondo l'università, “Technion City” copre ora un'area di 1,2 chilometri quadrati. All'inizio di quest'anno, studiavano qui circa 15.000 studenti in 18 facoltà (da biologia e chimica a scienze informatiche, architettura e ingegneria). L'università conta oggi un totale di circa 100.000 ex-alunni.
“Ogni anno vengono fondate al Technion 15 nuove aziende ”, ha spiegato il presidente dell'università Uri Sivan al quotidiano ‘Israel Hajom’ a febbraio: ‘La maggior parte delle infrastrutture civili di oggi in tutto Israele - strade, ferrovie, acqua, desalinizzazione, agricoltura - è opera di laureati e membri del Technion’, ha aggiunto. Un esempio concreto: circa l'80% degli ingegneri che lavorano al sistema di difesa missilistica Iron Dome, oggi famoso a livello internazionale, sono laureati del Technion.

(Israelnetz, 16 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’antisemitismo online è dilagante: come combatterlo

di Nathan Greppi

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Una conferenza del Foa
Già prima dei fatti del 7 ottobre, internet e i social erano diventati negli ultimi decenni i principali veicoli dell’antisemitismo. Ma dopo quel giorno, i livelli di odio e aggressività nei confronti degli ebrei e Israele hanno raggiunto dei livelli record, destando non poche preoccupazioni tra gli addetti ai lavori.
  Per capire come si sta evolvendo la situazione e come può essere affrontata, abbiamo parlato con Dina Maharshak, direttrice del Content Team del FOA (Fighting Online Antisemitism), tra le principali organizzazioni specializzate nel contrasto dei crimini d’odio antiebraici che si verificano nel mondo digitale.

- Su quali piattaforme social sono più diffusi i contenuti antisemiti e antisraeliani?
  Sono diffusi soprattutto sulle principali piattaforme come X (ex-Twitter), Facebook, Instagram, TikTok e YouTube, così come su spazi meno regolamentati come Telegram, VKontakte e Gab. Il FOA ha identificato X come l’hotspot principale per i contenuti antisemiti nel 2023, rappresentando il 40% di tutti i contenuti segnalati, seguito da Facebook (8,5%), Instagram (6,5%), TikTok (2%) e YouTube (2,5%). Queste piattaforme sono diventate dei focolai per la diffusione di narrazioni nocive, soprattutto dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha triplicato l’antisemitismo online rispetto al 2022.

- Quali sono stati i cambiamenti più significativi avvenuti dopo il 7 ottobre e durante la guerra in corso?
  Dopo il 7 ottobre, il brutale attacco di Hamas e la successiva guerra, c’è stata un ’impennata di incidenti antisemiti a livello globale, con le comunità ebraiche della diaspora che hanno ricevuto sempre più minacce. Questa crisi ha rimarcato l ‘unità globale tra il popolo ebraico dentro e fuori da Israele, e l’impatto significativo che gli eventi in Israele esercitano sugli ebrei di tutto il mondo.
  Anche l’antisemitismo online si è intensificato. Le piattaforme dei social media si sono inondate di disinformazione, teorie del complotto e discorsi di odio contro il popolo ebraico e Israele, tra cui la negazione della Shoah e la glorificazione della violenza contro gli ebrei.

- Può farci qualche esempio?
  Tra i principali cambiamenti, spiccano: l ’amplificazione di hashtag e slogan antisemiti, come #FromTheRiverToTheSea, che molti ritengono essere un appello allo sradicamento di Israele; l’aumento delle molestie nei confronti degli utenti e delle comunità ebraiche su piattaforme come X, Instagram e TikTok, con episodi di trolling e minacce di morte coordinate; la glorificazione del terrorismo di Hamas da parte di alcuni utenti e influencer, assieme alla giustificazioni della violenza contro i civili; teorie del complotto antisemite, che ad esempio incolpano gli ebrei per la guerra; shadowbanning degli account pro-Israele, in cui gli utenti hanno segnalato che i loro post a sostegno di Israele o che condannavano l’antisemitismo venivano soppressi, mentre i contenuti antisemiti rimanevano visibili.
  Il monitoraggio da parte del FOA ha dimostrato come le lacune nella moderazione dei contenuti abbiano permesso a narrazioni dannose di prosperare incontrollate. Ad esempio, alcuni contenuti antisemiti sono stati mascherati da retorica “antisionista”, rendendone più difficile l’identificazione e la rimozione da parte degli algoritmi. Ciò è stato successivamente esaminato da Meta, che ha classificato alcuni casi dell’uso della parola “sionista” o delle sue abbreviazioni come incitamento all’odio.

- Che tipo di strategie mette in atto il FOA per combattere l’antisemitismo online?
    Il FOA impiega una strategia su più fronti per combattere l’antisemitismo online, combinando innovazione tecnologica, iniziative didattiche, il coinvolgimento della comunità e progetti di advocacy su scala globale. Questo approccio garantisce non solo l’individuazione e la rimozione di contenuti pericolosi, ma anche la responsabilizzazione degli individui e delle istituzioni per combattere attivamente l’odio online.
  Monitoriamo rigorosamente l’antisemitismo online utilizzando metodologie allineate con la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Il FOA aggrega i dati in report mensili e annuali suddivisi per piattaforma, tipo di contenuto e regione. Inoltre, è stato sviluppato un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale per migliorare il rilevamento di contenuti antisemiti, che in questo modo vengono identificati e classificati automaticamente in base a parole chiave, immagini e modelli mirati.
  Lo status del FOA come “Trusted Flagger” sulle principali piattaforme come Facebook, X, TikTok e YouTube garantisce che i contenuti da esso segnalati abbiano la priorità per la revisione e la rimozione. Questo status, assieme alle partnership di FOA con giganti della tecnologia come Google e la sua appartenenza all’International Network Against Cyber Hate (INACH), nel 2023 ha portato ad un tasso medio di rimozione dei contenuti d’odio del 41% sui principali social.

- Svolgete anche attività educative rivolte ai giovani, per contrastare l’odio in rete?
  Il FOA riconosce che la lotta all’antisemitismo richiede non solo la rimozione di contenuti nocivi, ma anche l’educazione per cambiare gli atteggiamenti degli utenti. L’organizzazione offre, tra le altre cose, workshop e sessioni di formazione per attivisti, educatori e comunità ebraiche di tutto il mondo per aiutarli a identificare, segnalare e contrastare efficacemente i contenuti antisemiti.
  A ciò si aggiungono le partnership con università, scuole superiori e organizzazioni comunitarie per fornire ai giovani gli strumenti per riconoscere e opporsi all’antisemitismo. In Israele, il programma del FOA, accreditato dal Ministero dell’Istruzione, educa studenti di diverse origini religiose ed etniche su argomenti come la negazione della Shoah, l’antisemitismo sui social media e il razzismo. Inoltre, organizziamo iniziative su scala globale per coinvolgere i giovani, tra cui corsi online e opportunità di volontariato. I nostri volontari sono in grado di lavorare in otto lingue, e grazie a queste conoscenze monitorano gli spazi online alla ricerca di contenuti antisemiti, ne chiedono la rimozione e partecipano ad attività educative e di advocacy.

- Presentate mai i risultati del vostro lavoro alle istituzioni internazionali (ONU, UE, ecc.)?
    Oltre a collaborare con il governo israeliano, il FOA presenta i risultati del suo lavoro a istituzioni internazionali come l’INACH, l’IHRA, la Commissione europea e diverse ONG.

- Cosa possono fare le comunità ebraiche per combattere l’odio online?
    Le comunità ebraiche possono adottare diverse misure proattive per combattere l’antisemitismo online. Innanzitutto, occorre imparare a identificare l’antisemitismo, anche quando è mascherato da antisionismo, per poi condividere le conoscenze e fare rete per creare consapevolezza su come l’incitamento all’odio si diffonde online e sul suo impatto.
  Poi, occorre imparare ad utilizzare gli strumenti di segnalazione sulle piattaforme social per segnalare i contenuti antisemiti. Inoltre, bisogna saper costruire una resilienza digitale: rafforzare le misure di sicurezza online, proteggere gli account sui social media ed evitare la condivisione eccessiva di informazioni personali per prevenire il doxing, che consiste nell’esporre pubblicamente online le informazioni di qualcuno rendendolo un bersaglio.

(Bet Magazine Mosaico, 16 dicembre 2024)

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La manipolazione dei dati sui decessi civili a Gaza

Uno studio britannico smaschera la propaganda

di Luca Spizzichino

Un nuovo studio, pubblicato dalla Henry Jackson Society, con sede nel Regno Unito, accusa il Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, di manipolare i dati sui decessi per rafforzare la narrativa secondo cui Israele prenderebbe di mira deliberatamente i civili durante il conflitto. Lo studio, intitolato “Questionable Counting: Analysing the Death Toll from the Hamas-Run Ministry of Health in Gaza“, denuncia come i numeri forniti siano stati sistematicamente alterati per rafforzare l’idea della crudeltà israeliana e degli attacchi svolti in modo indiscriminato.
  Il rapporto offre una serie di evidenze che mettono in discussione la narrativa prevalente. Tra le pratiche più discutibili, spiccano la registrazione di uomini come donne per gonfiare il numero di vittime femminili, la classificazione di adulti come bambini, e persino l’inclusione di morti naturali – come pazienti oncologici o decessi preesistenti al conflitto – nel conteggio delle vittime della guerra.
  L’analisi dei dati mostra infatti una sproporzione nei decessi dichiarati di donne e bambini rispetto agli uomini in età da combattimento. Per esempio, il 62% delle vittime riportate dalle famiglie erano uomini, contro il 42% registrato nei dati ospedalieri. Questo suggerisce che molti combattenti possano essere stati classificati come civili. Inoltre, il rapporto sottolinea casi in cui la percentuale di donne e bambini morti superava il numero complessivo di vittime riportate nello stesso periodo. Ad esempio, il 5 dicembre 2023 il Ministero della Salute di Gaza ha dichiarato un aumento di 1.041 decessi, ma i nuovi casi di donne e bambini ammontavano a 1.353.
  Secondo lo studio, l’obiettivo di queste manipolazioni è chiaro: rafforzare l’immagine di un conflitto in cui la popolazione civile, in particolare donne e bambini, sopporta il peso maggiore della violenza. È una strategia che sfrutta l’emotività di certi numeri per orientare l’opinione pubblica internazionale e alimentare una narrativa di condanna verso Israele. Tuttavia, un’analisi più approfondita dei dati mostra una realtà diversa. Ad esempio, la maggior parte delle vittime registrate sono uomini in età da combattimento – un dato che suggerisce che molte di queste persone potrebbero essere combattenti di Hamas, non semplici civili. Israele, infatti, ha stimato che oltre 17.000 militanti di Hamas siano stati uccisi durante il conflitto, ma questi numeri raramente trovano spazio nei report internazionali. I media, invece, tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sui dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza, nonostante il suo legame diretto con Hamas.
  Un altro aspetto centrale dello studio riguarda proprio il modo in cui i media trattano questi dati. Uno studio su 1.378 articoli pubblicati tra febbraio e maggio 2024 ha rilevato che l’84% non ha distinto tra morti civili e combattenti. Solo il 5% degli articoli ha menzionato i dati israeliani, mentre il 98% ha citato le statistiche del Ministero della Salute di Gaza senza verifiche. Secondo il rapporto, questo approccio contribuisce a una narrativa distorta che amplifica le sofferenze civili, riducendo la complessità del conflitto e influenzando l’opinione pubblica internazionale.
  Questo approccio, denuncia il rapporto, “perpetua una narrativa parziale, ma oscura la complessità del conflitto”. La distinzione fondamentale tra civili e combattenti viene spesso ignorata, contribuendo a dipingere Israele come un aggressore che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile.
  Secondo l’associazione manipolare i numeri per scopi propagandistici non solo mina la comprensione del conflitto, ma ostacola anche gli sforzi di pace. “Ogni vita persa è una tragedia, ma per trovare soluzioni sostenibili dobbiamo partire da dati onesti e verificati”, conclude il rapporto.

(Shalom, 15 dicembre 2024)

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Diario minimo (di un conflitto). La strada verso casa

di Luciano Assin

Come un infante che compie i suoi primi passi incespicando in cerca di equilibrio e solidi basi, così appare la tregua siglata col governo libanese: ancora traballante e con più dubbi che risposte. L’improvvisa e inaspettata implosione della Siria non fa che aumentare le incertezze e gli imprevisti.
  Il desiderio di tornare, per chi ha ancora la casa intatta, è enorme ma le variabili che influiscono su una decisione definitiva sono numerose e legate a interessi e decisioni al di sopra della volontà del singolo individuo. Non è solo una questione di quanto e come durerà la tregua, ci sono numerose questioni pratiche e psicologiche da risolvere.
  Quanto tempo sarà necessario per rimettere in piedi il sistema educativo? L’anno scolastico è iniziato a settembre, e i bambini in età scolastica si trovano attualmente in scuole lontane e in classi diverse con nuovi compagni. In questi ultimi 14 mesi la gente ha dovuto trovare un nuovo lavoro, affittare un appartamento e cambiare drasticamente le abitudini quotidiane.
  Ma il tema centrale che frena un ritorno di massa è la sicurezza personale. L’esercito ha perso buona parte del prestigio di cui ha sempre goduto, il governo, che ha sempre rifiutato di assumersi la piena responsabilità del pogrom del 7 ottobre, è impegnato a portare avanti una politica che aumenta le divisioni all’interno della società israeliana invece di cercare di saldare una frattura che alla fine potrà rivelarsi insanabile. Né Bibi né il resto dell’esecutivo si è ancora pronunciato su una possibile data che segni in qualche modo la fine di un incubo che ci accompagnerà per tutta la nostra vita.
  In una tale realtà il ritorno alle proprie case diventa una priorità, la seconda per importanza dopo la liberazione degli ostaggi, ma l’orizzonte non è ancora abbastanza limpido e chiaro per imboccare la strada verso casa.
  Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di tutti noi.

(Bet Magazine Mosaico, 15 dicembre 2024)

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Il crollo dell’ “asse della resistenza”

di Niram Ferretti

Dopo un anno e due mesi dall’eccidio del sette ottobre 2023 perpetrato da Hamas in Israele, il panorama del Medio Oriente ha subito una scossa tellurica che è ancora in pieno corso e le cui ripercussioni, attualmente non sono pienamente decifrabili, tuttavia, alcuni elementi appaiono sufficientemente chiari.
  A seguito dello shock del 7 ottobre e l’apertura di due fronti di guerra, il principale a Gaza e quello secondario nei confronti di Hezbollah, a cui si sono poi successivamente aggiunti gli houti dallo Yemen e gli attacchi dell’Iran, Israele si è trovato stretto in una morsa di fuoco che ha goduto del sostegno incondizionato del regime di Teheran. Questa morsa di fuoco non si è limitata ai teatri della guerra, ma si è allargata ben oltre il Medio Oriente includendo una massiccia propaganda anti-israeliana di cui non si era mai visto uguale precedentemente e sulla quale l’Iran ha inciso tramite i suoi canali finanziari e i suoi emissari.
  La demonizzazione di Israele nell’arena internazionale è, dal 1967, anno della Guerra dei Sei Giorni, un costitutivo essenziale dell’offensiva contro di esso ma mai come in questa guerra, la più lunga che lo Stato ebraico abbia combattuto, ha raggiunto tali livelli parossistici. Più Israele è avanzato nella sua offensiva, maggiore è stato lo scatenamento della propaganda, la cui potenza distorcente ha persino portato alla ridefinizione se non allo spappolamento del concetto di “genocidio” purché esso diventasse funzionale a criminalizzare la risposta israeliana all’aggressione di Hamas.
  Nonostante ciò, e nonostante abbia subito dal suo principale alleato, gli Stati Uniti, una serie di pesanti condizionamenti che non solo hanno rallentato la campagna militare ma hanno contribuito ulteriormente a danneggiare la sua immagine, Israele ha perseguito con tenacia gli obiettivi prefissati fin dall’inizio della guerra, mettere fine al dominio di Hamas a Gaza e mettere Hezbollah nella condizione di non rappresentare più una minaccia alla propria sicurezza.
  A partire dall’estate, con l’uccisione di Ismail Haniyah a Teheran, che seguiva quella di altri esponenti di spicco di Hamas e di Hezbollah, e successivamente con l’uccisione di Hassan Nasrallah, capo supremo della formazione sciita e quindi di Yahya Sinwar, Israele ha messo in atto una clamorosa rimonta che oggi, dopo la tragedia del 7 ottobre, lo ha riposizionato come forza egemone del Medio Oriente, ripristinando l’immagine che Hamas aveva clamorosamente infranto.
  La caduta del regime di Assad in Siria, privato improvvisamente del sostegno fornito dall’Iran tramite Hezbollah, è un’altra tessera dell’effetto domino provocato dalla rimonta israeliana e dal successo della sua offensiva. Quale che sarà il futuro assetto della Siria, l’Iran ha perso un alleato importante che gli consentiva uno sbocco verso il Mediterraneo e un consolidamento regionale.
  Nell’arco degli ultimi sei mesi, l’Iran ha visto crollare il suo cosiddetto asse resistenziale, cioè la compagine radicale islamica che si era costituita contro Israele e che aveva a Teheran il suo epicentro. Si tratta di un colpo duro per il regime degli ayatollah che si trova in una fase di oggettiva debolezza e incapace da solo di potere reagire ai successi israeliani, oltretutto in prossimità dell’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump il quale non ha escluso, in una recente dichiarazione, di mettere Israele nelle condizioni di colpire i siti nucleari iraniani.
  Il ritorno della convergenza Trump-Netanyahu, per l’Iran non è una buona notizia in uno scenario già ampiamente sfavorevole.

(L'informale, 15 dicembre 2024)

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USA – Cerchi lavoro? Meglio un curriculum non ebraico ‍‍

Farsi riconoscere come ebrei o come israeliani porta ad essere discriminati sul mercato del lavoro, negli Stati Uniti? È la domanda cui prova a rispondere il sondaggio condotto da Bryan Tomlin, professore di Economia e presidente del Dipartimento di Economia della Martin V. Smith School of Business and Economics della California State University Channel Islands, grazie a una sponsorizzazione della Anti-Defamation League (ADL). Tremila curriculum dal contenuto identico, tranne per il nome del candidato, sono stati inviati in risposta ad altrettante offerte di lavoro, da persone che poteva sembrare avessero un nome ebraico, un nome israeliano, o un nome più genericamente europeo. I risultati hanno confermato la presenza di un pregiudizio: i candidati dal nome ebraico hanno dovuto inviare il 24,2% di richieste in più per ricevere lo stesso numero di risposte; quelli dal nome israeliano ne hanno dovuto il 39% in più. Nulla di sorprendente: secondo un recente rapporto dell’ADL nei primi tre mesi del 2024 negli USA si sono verificati 3.264 episodi di antisemitismo, tra aggressioni fisiche (56), vandalismo (554), molestie verbali o scritte (1.347) e ben 1.307 raduni nei campus in cui è stata usata una retorica antisemita. Ma a differenza di quando vengono commessi crimini violenti, in questi casi è estremamente difficile dimostrare di aver subito un trattamento sfavorevole per motivi religiosi o di appartenenza, sia perché le interazioni su cui basare le proprie conclusioni sono limitate sia perché non potendo conoscere le competenze o le qualifiche degli altri candidati il singolo non può dimostrare che sta perdendo un’opportunità di lavoro a causa della sua religione. Ma l’esperimento ha dato risultati conformi al modello generale di comportamento antisemita osservato nei report dell’ADL.

• METODOLOGIA
  La metodologia usata è analoga a quella utilizzata in altre ricerche sul mercato del lavoro, con l’invio di un numero cospicuo di richieste di informazioni, via e-mail, che sono state mandate in tutti gli Stati Uniti tra maggio e ottobre 2024. Tutte le richieste sono state inviate da candidati il cui nome è stato scelto per essere “femminile”: Kristen Miller (Europa occidentale – gruppo di controllo), Rebecca Cohen (“gruppo ebraico”) e Lia Avraham (“gruppo israeliano”). A ciascun annuncio di lavoro è stata inviata una singola mail da parte di una singola candidata, assegnata in modo casuale, e gli annunci sono stati scelti sul portale craigslist perché è uno dei pochi in cui il processo di candidatura online o di screening dei curriculum non è guidato dall’intelligenza artificiale. Gli annunci sono stati tutti selezionati nel settore dell’assistenza amministrativa che spesso comporta un’interazione diretta con i clienti e può essere perciò sensibile sia ai pregiudizi del datore di lavoro sia a quelli percepiti dai clienti. I candidati avevano curriculum identici, solo “adattati” alla località dove si offriva un posto di lavoro, e con una seconda lingua coerente con il gruppo di appartenenza. Nonostante sia impossibile verificare in che misura i segnali di “trattamento” dei nomi siano in effetti percepiti dai datori di lavoro, alcuni dati qualitativi contenuti nelle risposte suggeriscono che i segnali fossero chiari: per esempio diverse risposte al “gruppo israeliano” erano scritte in ebraico. Non è mai successo con il gruppo di controllo, che non ha mai ricevuto risposte nella seconda lingua (segnalata nel CV, in questo caso era francese o tedesco), né ha ricevuto risposte che parlassero del patrimonio personale.

• RISULTATI
  L’antisemitismo non è presente solo in uno spazio verbale o fisico facilmente identificabile ma esiste anche nel mercato del lavoro. Non è possibile stabilire quanto i risultati di questo studio siano applicabili ad altri ambiti lavorativi, ma di sicuro la ricerca ha dimostrato che un’ulteriore indagine sul potenziale trattamento avverso sarebbe auspicabile. O necessaria.

(moked, 15 dicembre 2024)

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Futuro!

Incoraggiati dalla profezia biblica

di Andreas Heimbichner

Molti cristiani che si occupano di profezia biblica sono accusati di vedere il mondo in nero e di essere pessimisti. Sono visti come profeti di sventura. Forse questo vale per qualcuno di loro, ma fondamentalmente è vero il contrario. Chi si impegna in una sana profezia biblica è incoraggiato, si rallegra, è grato, guarda al futuro con fiducia e può incoraggiare e contagiare altri. Serve il suo Signore con gioia.
  Se ora ci chiediamo: “Dove sta operando Dio profeticamente in questo mondo?”, la risposta è abbastanza semplice: nel suo popolo Israele. In altre parole: osserviamo Israele per interpretare i segni dei tempi. Gesù rimproverò i farisei perché non erano in grado di valutare i segni dei tempi (Matteo 16). Ma le Scritture ci invitano a vedere ciò che Dio sta facendo in questo mondo. E quando lo riconosciamo, siamo incoraggiati.
  Rivolgiamo la nostra attenzione al profeta Ezechiele. Egli visse 2.600 anni fa in un'epoca molto eccitante per lui, un'epoca di sconvolgimenti. Fu testimone del trasporto del popolo d'Israele. Dio aveva ripetutamente inviato i suoi profeti e ammonito il popolo a tornare a lui, ma essi non lo ascoltavano. Alla fine il Signore disse: “Allora vi strapperò dal paese e vi porterò a Babilonia”. Anche il profeta Ezechiele era tra questi esuli. Fu testimone di come la gloria del Signore lasciò il tempio e di come il tempio fu definitivamente distrutto. Fu un periodo drammatico. Ma Dio non mise un punto fermo, bensì una virgola, promettendo di radunare di nuovo un giorno il popolo d'Israele e di riportarlo nella terra.
  Questa promessa si realizzò parzialmente sotto Esdra e Neemia, ma il profeta Ezechiele guardava lontano, nel futuro. Dio promise che avrebbe radunato il popolo in modo pubblico, davanti agli occhi delle nazioni. Questo dunque non avverrà in segreto. Ezechiele 20:41 dice: “Io mi compiacerò di voi come di un profumo di soave odore, quando vi avrò fatti uscire di mezzo ai popoli e vi avrò radunati dai paesi nei quali siete stati dispersi; e sarò santificato in voi davanti agli occhi delle nazioni”. Ezechiele dice qualcosa di simile nel capitolo 28, versetto 25:” Così parla il Signore, l'Eterno: 'Quando avrò raccolto la casa d'Israele di mezzo ai popoli fra i quali essa è dispersa, io mi santificherò in loro in presenza delle nazioni, ed essi abiteranno il loro paese che io ho dato al mio servo Giacobbe’”.
  Viviamo in tempi entusiasmanti. Non è mai stato così facile scoprire cosa succede in Israele nel mondo, soprattutto grazie alla tecnologia degli smartphone. Nel 2019, gli utenti di smartphone nel mondo erano circa 3,5 miliardi. Entro il 2022, questa cifra è salita a 4,7 miliardi. Ciò significa che oltre due terzi della popolazione mondiale ha accesso alle notizie tramite smartphone. Ora avete il conflitto in Medio Oriente in tasca e potete sapere cosa sta succedendo in Israele in pochi secondi. Magari non siete ben informati, ma potete scoprire rapidamente cosa sta accadendo.
  A volte le persone che non sono sul posto sanno le notizie più velocemente delle persone che vivono in Israele. La tecnologia ci permette di osservare tutto ciò che accade in Israele. Ma cosa succede quando le persone vengono ancora di più  influenzate da questa tecnologia? Sono già in corso ricerche per impiantare chip nel cervello, al fine di esercitare un'influenza ancora maggiore sulle persone. Neuralink, una società di proprietà di Elon Musk, sta lavorando a questo progetto. L'obiettivo a lungo termine è che le persone siano in grado di scambiare telepaticamente i propri pensieri e di memorizzarli esternamente in un cloud. Lo storico israeliano Yuval Noah Harari sostiene che gli smartphone si stanno sempre più fondendo con le persone e influenzano la nostra visione del mondo.
  Non sappiamo esattamente come si svolgeranno questi sviluppi, ma è possibile. Non vogliamo essere pessimisti, ma tuttavia abbiamo bisogno di un quadro generale. Sappiamo che alcuni sviluppi sono allarmanti, ma Dio ci dice che agirà davanti agli occhi delle nazioni alla fine dei tempi. Come guarda il mondo Israele e come guardiamo noi Israele? Quando guardiamo Israele, questo dovrebbe incoraggiarci. È esattamente il contrario di come il mondo guarda Israele.
  Qualche tempo fa è stata pubblicata la “World Press Photo of the Year 2024”. Ancora una volta, Israele ha “vinto”. La foto mostra una donna palestinese di 36 anni che si china sul corpo della nipote di cinque anni, uccisa nel conflitto. La giuria l'ha definita una visione struggente di una sofferenza incommensurabile. Non è la prima volta che un'immagine del conflitto mediorientale viene premiata come “World Press Photo of the Year” e probabilmente non sarà l'ultima. Il mondo guarda spesso in modo negativo a Israele, e potrei elencare molti altri esempi che lo dimostrano. Prendiamo la famosa poesia di Dieter Hallervorden “Gaza, Gaza”, in cui l'autore accusa Israele di genocidio.
  Le proteste anti-israeliane nelle università degli Stati Uniti e della Germania sono un altro esempio di come il mondo vede negativamente Israele. Ma la domanda rimane:
  Come guardiamo noi Israele? A volte ho l'impressione che l'argomento non ci interessi affatto. Il mondo guarda a Israele, anche se in modo negativo. Ma in molte comunità cristiane non si parla quasi mai di Israele. In passato, molti cristiani non hanno nemmeno riconosciuto il significato di Israele.
  Nel mio libro “2000 anni di ebrei e cristiani”, ho cercato di mostrare il difficile rapporto tra ebrei e cristiani. Questa relazione è stata spesso molto tesa e i cristiani hanno a lungo considerato gli ebrei come maledetti. Vorrei citare alcune frasi tratte dalla storia.
  Il padre della chiesa Giovanni Crisostomo, ad esempio, descriveva la sinagoga come un “covo di iniquità del diavolo” e un'“assemblea di assassini di Cristo”. Allo stesso modo, il vescovo Ambrogio parlò di un “luogo di incredulità” e di un “luogo di follia”. Questi padri della chiesa avevano un cuore per la chiesa di Gesù, ma nessuna visione per Israele.
  Se si osservano molte chiese in Europa, si vedono spesso raffigurazioni di due donne: Una rappresenta la chiesa, in piedi con corona e scettro, mentre l'altra, la “sinagoga”, è raffigurata piegata e bendata. Queste immagini mostrano che Israele era visto come cieco e sconfitto. Ma a volte penso che questa cecità si applichi più ai cristiani che non vedono il piano di Dio per Israele.
  Se andiamo più avanti nella storia, arriviamo a Martin Lutero, a cui dobbiamo molto, come la traduzione tedesca della Bibbia e la riscoperta dell'eredità della Riforma. Ma Lutero non aveva una visione per il popolo ebraico. In una delle sue lettere scrisse: “Se gli ebrei tornassero nel loro Paese e lo costruissero, allora ci sarebbe un buon motivo per  diventare ebrei”. Non so se fosse serio o ironico, ma mi chiedo come avrebbe reagito alla fondazione dello Stato di Israele.
  Lutero avrebbe riconsiderato la sua teologia antiebraica? Avrebbe continuato, come molti teologi di oggi, ad attenersi a una teologia che non attribuisce alcun futuro a Israele? Non lo sappiamo. Ma la nostra reazione dovrebbe essere quella di essere incoraggiati quando guardiamo a Israele e vediamo ciò che Dio sta facendo lì.
  Ci sono state altre voci nella storia della chiesa. Nel 1642, l'arcivescovo Robert Layton predicò a Glasgow su Isaia 60:1 e disse: “Senza dubbio questo popolo di ebrei sarà riportato in vita e diventerà luce, e la sua restaurazione sarà la ricchezza del mondo”. Quasi 400 anni prima della fondazione dello Stato di Israele, quest'uomo si aggrappò alle promesse di Dio.
  200 anni dopo visse Charles Spurgeon, uno dei più grandi predicatori del XIX secolo. Egli disse di Israele: “Non diamo abbastanza importanza alla restaurazione degli ebrei. Non ci pensiamo abbastanza. Sicuramente, se c'è qualcosa di promesso nella Bibbia, è proprio questo”. Spurgeon riconosceva che la restaurazione di Israele avrebbe portato al mondo benefici senza precedenti. Queste parole hanno ancora oggi un grande significato.
  Dipende da quali occhiali indossiamo quando guardiamo Israele. Se indossate gli occhiali del mondo, avrete paura e timore quando osservate gli eventi in Medio Oriente. Ma se indossate gli occhiali della Bibbia e vedete ciò che Dio sta facendo, sarete incoraggiati.
  Ora vorrei sottolineare alcuni aspetti di come la profezia biblica può incoraggiarci nella nostra vita quotidiana. Il primo punto: essere incoraggiati dal piano di salvezza di Dio. Come cristiani, a volte corriamo il rischio di concentrarci solo su noi stessi. Siamo attivi nella nostra chiesa, il che è ottimo, ma non dobbiamo dimenticare che il piano di salvezza di Dio è molto più grande e comprende il mondo intero. Dio non ha lasciato questo mondo a se stesso, ma ha un piano che sta portando avanti. Questo consiglio include anche Israele e Gerusalemme.
  Gerusalemme è citata più di 2.500 volte nella Bibbia, Israele più di 2.500 volte. Ciò dimostra che questo argomento è di grande importanza per Dio. Il suo amore per il suo popolo è visibile ovunque nella Bibbia. Dobbiamo solo indossare gli occhiali giusti per scoprirlo.
  Se guardiamo un po' indietro: I padri della chiesa di cui ho parlato prima applicavano le parole maledette dell'Antico Testamento al popolo ebraico e rivendicavano le promesse per sé e per la chiesa. Ma se prendiamo alla lettera la parola di Dio, scopriamo che l'amore di Dio per il suo popolo trabocca ovunque nella Bibbia. Uno sguardo al libro di Isaia ce lo mostra chiaramente. Dio si definisce “il Santo d'Israele” (Isaia 41,20), “il Creatore d'Israele” (Isaia 43,15), “il Re d'Israele” (Isaia 44,1), “il Dio d'Israele” (Isaia 45,15) e parla del suo amore eterno per il suo popolo.
  Possiamo quindi essere incoraggiati dal piano di salvezza di Dio. Questo piano ci aiuta a guardare oltre i nostri orizzonti. Voi siete parte di questo piano, così come la chiesa. Il mondo fa parte di un piano più grande, e colui che porta avanti questo piano è Dio Onnipotente.
  La prossima volta che vi sveglierete preoccupati, ricordate che questo grande Dio tiene la vostra vita nelle sue mani. Così come dirige la storia e porterà Israele a destinazione, porterà anche voi a destinazione.
  Siate incoraggiati dal futuro di Israele. Dio ha detto in Isaia 44:21: “Considera questo, Giacobbe, e tu, Israele, perché sei mio servo! Io ti ho formato, tu sei il mio servo; o Israele, tu non sarai dimenticato da me!”. Che promessa meravigliosa! In Isaia 66:22, il Signore lega il futuro di Israele ai nuovi cieli e alla nuova terra. Israele ha un futuro e questo significa che non dobbiamo mettere in dubbio ciò che Dio ha promesso.
  Israele ha un futuro, e cosa significa concretamente per noi? Se Dio dice così chiaramente nella sua parola che non dimenticherà Israele e che ha un futuro, allora dovremmo chiederci come possiamo mettere in dubbio questo. Se affermiamo che Israele è stato sostituito, come possiamo essere sicuri che il nostro futuro come chiesa sia sicuro? Se Dio non dimenticherà il suo popolo Israele, non dimenticherà nemmeno la chiesa. Il nostro futuro dipende dal futuro di Israele. Dio ha promesso che porterà Israele a destinazione, e questo rimane vero.
  Siate incoraggiati dal ritorno di Gesù. Gesù tornerà per noi nel Rapimento e per Israele apparirà visibilmente nella gloria sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Probabilmente non esiste un altro Paese al mondo in cui l'attesa del Messia sia così forte come in Israele. In Israele si attende il Messia e questo tema permea molti ambiti della vita quotidiana: dalle preghiere ai matrimoni e ai funerali. Questa attesa del Messia può ispirare e incoraggiare anche noi cristiani a sperare nel ritorno di Gesù.
  Da quando il popolo d'Israele è stato riunito e possiamo vedere come Dio sta realizzando le sue promesse davanti ai nostri occhi, il tema è diventato più esplosivo e attuale. Gesù sta per tornare, non a Berlino, Parigi o New York, ma prima per la sua chiesa e poi per il suo popolo Israele a Gerusalemme. Questo dovrebbe incoraggiarci a vivere in vista della profezia biblica e ad aspettare il ritorno di Gesù. Paolo ci incoraggia: “Confortatevi a vicenda con queste parole” (1 Tessalonicesi 4,18). Anche Gesù, in Luca 21:28, ci invita ad alzare il capo quando queste cose inizieranno ad accadere, perché la nostra redenzione si avvicina.
  Israele è un'immagine per noi e quando vediamo come Dio è fedele al suo popolo, dobbiamo essere incoraggiati anche noi. Dio è fedele e arriverà alla fine con noi, così come arriverà alla fine con Israele.
  In Romani 15:8-13, Paolo riassume il piano di salvezza di Dio dicendo che Cristo è diventato servo della circoncisione per confermare le promesse fatte ai padri. Dio non solo ha adempiuto a queste promesse, ma le ha anche confermate. Queste promesse includono la terra, la benedizione, la discendenza e il Messia, e sono solide e affidabili. Paolo usa la stessa parola qui e in 1 Corinzi 1:8, dove scrive che Dio ci stabilirà fino alla fine.
  Lo scopo di questo piano è che le nazioni glorifichino Dio e lo lodino insieme a Israele. Paolo cita qui diversi passi dell'Antico Testamento per dimostrare che questo era il piano di Dio fin dall'inizio. Le nazioni devono lodare e glorificare Dio insieme a Israele. Dio ha promesso il Messia e Gesù è venuto a confermare queste promesse. Non ha sostituito Israele, ma ha confermato le promesse. Questo ci dà fiducia come chiesa, perché Dio è fedele al suo popolo e altrettanto fedele a noi. Paolo parla di Gesù che viene come servo della circoncisione per confermare la verità di Dio. Questo ci mostra che Dio non ha dimenticato le sue promesse e ci dà speranza per il futuro.
  Siate incoraggiati mentre benedite Israele. Ci sono migliaia di popoli che hanno bisogno del Vangelo e come cristiani abbiamo il mandato di diffondere il Vangelo. Ma abbiamo anche un rapporto speciale con Israele e dobbiamo benedire questa nazione, sia con la preghiera che con il sostegno pratico. Paolo incoraggia la chiesa a fare collette per i bisognosi a Gerusalemme. Dice che le nazioni sono debitrici di Israele perché hanno partecipato ai suoi beni spirituali (Romani 15,25-27). Sono quindi obbligati a servire Israele anche nelle cose corporali.
  È interessante la storia di Hudson Taylor, il noto missionario in Cina, che ogni anno inviava un assegno a un missionario ebreo di Londra con la nota “Prima agli ebrei”. Il missionario rispondeva con un assegno a Hudson Taylor, con la nota “E anche ai gentili”. Questo bel gesto dimostra che Dio ha in mente sia gli ebrei che i gentili. Noi possiamo benedire Israele e Dio ci benedirà in contraccambio.
  Siate dunque incoraggiati dal piano di salvezza di Dio, dal futuro di Israele, dal ritorno di Gesù e dalla benedizione che sperimentiamo quando benediciamo Israele. Dio è fedele e raggiungerà il suo obiettivo con il suo popolo e la sua chiesa. 

(Nachrichten aus Israele, dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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La caduta di Bashar al-Assad segna la vittoria di Israele sull'Iran

Intervista a Frédéric Encel

di Antoine de Lagarde

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Frédéric Encel

L'improvviso crollo della dinastia el-Assad, al potere da più di mezzo secolo, è una diretta conseguenza degli assalti che lo Stato ebraico sta conducendo contro l'Iran e Hezbollah, analizza il dottore in geopolitica Frédéric Encel*.

- LE FIGARO. - Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha dichiarato domenica che la caduta del regime di al-Assad è “una diretta conseguenza dei colpi che (Israele) ha inferto all'Iran e a Hezbollah, (suoi) principali sostenitori”. È una spacconata politica o una realtà militare?
  FRÉDÉRIC ENCEL - È vero in larga misura. Non è l'unica spiegazione, ma è la principale. Quando tra il 2015 e il 2017 il regime di Bashar al-Assad era in agonia di fronte agli assalti della potente coalizione ribelle, Hezbollah ha salvato il regime, insieme all'aviazione russa. Tuttavia, nelle ultime settimane Hezbollah è stato talmente indebolito da Israele che non è stato in grado di venire in aiuto del regime, soprattutto perché gli israeliani avevano bloccato il flusso di truppe e attrezzature iraniane verso il Libano attraverso la Siria.
  L'altra spiegazione ha a che fare con la Turchia e la Russia. Così come a El-Assad mancavano i soldati di Hezbollah, gli mancavano anche gli squadroni di Mosca. La Russia sta così rivelando di essere incapace di sostenere il suo unico alleato militare nella regione dal 1959, grazie al quale aveva le sue uniche due basi nell'intera area del Mediterraneo-Medio Oriente: non ha altri alleati in questa zona strategica. Ciò dimostra sia la doppiezza di Putin che la sua debolezza militare. Inoltre, l'efficienza fulminea di questo attacco può essere collegata solo all'aiuto della Turchia: è l'unico Paese confinante con la sacca di Idlib e molti gruppi ribelli hanno legami con essa. È evidente che c'è stata una preparazione militare e un finanziamento da parte della Turchia.

- Israele si ritrova quindi con una potenza sostenuta dalla Turchia al suo confine. Che legami hanno questi due Stati?
  Le due potenze hanno interessi comuni che sono stati serviti da questa coalizione di ribelli guidata da Hayat Tahrir al-Cham (HTC). La caduta di Bashar al-Assad offre alla Turchia una mano libera nel nord della Siria, dove sta cercando di spezzare i tentativi curdi di stabilire un'autonomia. La caduta di Bashar al-Assad permette inoltre alla Turchia di rimandare a casa più di tre milioni di rifugiati siriani e di avere un regime al proprio confine con cui ha una complicità ideologica.
  L'interesse di Israele nella caduta del governo di al-Assad è quello di spezzare l'“ asse di resistenza” iraniano. Tuttavia, da quando l'AKP (il partito islamo-nazionalista di Erdogan) è salito al potere nel 2002, i loro rapporti sono sempre stati freddi, e sono addirittura rimasti in ghiaccio, almeno retoricamente, dopo la vicenda della Mavi Marmara nel 2010 (una nave turca che faceva parte di una flottiglia che cercava di rompere il blocco di Gaza, abbordata da Israele), ma non sono mai stati interrotti.

- La fine della dinastia el-Assad è davvero una buona notizia per Israele?
  Di per sé, la caduta di el-Assad è una buona notizia per Israele, ma è più simbolica e politica che militare. Hafez el-Assad, padre di Bashar, è stato uno dei principali artefici della Guerra dello Yom Kippur del 1973, che un'intera generazione di israeliani ricorda (morirono più di 2.200 soldati israeliani). Anche prima degli el-Assad, la Siria aveva accolto il criminale nazista Alois Brunner, aveva mantenuto una terribile presa sugli ebrei siriani (fino alla loro partenza nel 1994) e aveva guidato coalizioni arabe contro lo Stato ebraico.
  Israele aborriva questa dinastia ma, dal 1974, non ha avuto la capacità di danneggiarla militarmente. La caduta di Bashar al-Assad è soprattutto il risultato dello schiacciamento di Hezbollah da parte di Israele: Benyamin Netanyahu può ora mostrare alla sua popolazione, ancora traumatizzata dal gigantesco pogrom del 7 ottobre, una prova tangibile degli effetti della guerra che sta conducendo. È anche la traduzione della vittoria di Israele sull'Iran, che non aveva i mezzi per sostenere el-Assad e ora si trova isolato da un Hezbollah molto indebolito.

- C'era una sorta di alleanza oggettiva tra i gruppi ribelli e Israele contro l'Iran?
  Avevano un nemico comune. Oggi, la coalizione islamista sunnita che ha preso il potere in Siria sta cercando di rompere il continuum pan-sciita che è asservito all'Iran, perché la divisione politica e teologica tra sciiti e sunniti è abissale. Questa divisione è molto più efficace per comprendere il Medio Oriente rispetto a quella tra Israele e il mondo arabo, che è obsoleta se non addirittura fittizia. Da quando è salita al potere, questa coalizione ha stigmatizzato l'Iran e Hezbollah nelle sue dichiarazioni, e per il momento non ha menzionato Israele o l'Occidente. Non per dissimulazione, ma per ideologia: per i sunniti, gli sciiti sono veri e propri eretici. Lo dimostra l'attacco condotto da Daech in Iran il 3 gennaio.
  Domenica l'esercito israeliano ha lanciato una serie di raid sulle principali installazioni militari siriane e si è spostato sulle alture del Golan. Questo presuppone l'ostilità del nuovo governo?
  L'obiettivo di Israele è distruggere tutto ciò che potrebbe costituire un futuro esercito siriano. Per il momento, i ribelli non rappresentano una vera minaccia. È un attacco preventivo, come l'investimento militare nella terra di nessuno della zona cuscinetto del 31 maggio 1974 e del Monte Hermon, che si erge a 2.800 metri: si può vedere fino a Damasco a est e alla Bekaa a ovest!
  Il messaggio era: state lontani dai nostri confini. L'incursione nelle alture orientali del Golan ha anche lo scopo di rassicurare i drusi israeliani, fornendo loro una possibile protezione sul Jebel al-Druze (catena montuosa) in Siria. Tuttavia, lo Stato ebraico non sta espandendo il suo territorio: interverrebbe solo se la coalizione al potere decidesse di attaccare il Jebel al-Druze.

- Chi sono i gruppi ribelli che confinano con il Golan e che non dichiarano di far parte della coalizione guidata da HTC?
  Molti di loro sono ex membri di movimenti jihadisti, diverse centinaia, che non si sono mai arresi o che sono fuggiti dall'Iraq. In realtà, l'attuale coalizione detiene solo le principali città della Siria: non domina ancora pienamente la montagna marina alawita, il nord-est curdo, il deserto nell'est del Paese (dove Daech è ancora attivo), o il jebel al-Druze nell'estremo sud-ovest.
  Per di più, al-Joulani è considerato un traditore da Daech, che ha lasciato: tra i gruppi islamisti radicali è una permanente “notte dei lunghi coltelli” da almeno due decenni! Come nella vera e propria guerra tra Daech e al-Qaeda nello Yemen di qualche anno fa, con migliaia di morti. L'obiettivo è più o meno lo stesso, ma le strategie non lo sono di certo. Di conseguenza, a priori, Daech non si schiererà a favore di HTC senza negoziati preliminari.

- Quali sono le conseguenze del cambio di potere in Siria per le operazioni militari di Israele in Libano e a Gaza?
  A differenza di quanto accaduto alla fine della Seconda guerra del Libano nel 2006, gli israeliani non permetteranno a Hezbollah di scendere a sud del Litani (il fiume nel Libano meridionale e orientale) contro la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a causa del trauma del 7 ottobre. L'immediata vicinanza fisica al nemico è diventata intollerabile e Francia e Stati Uniti stanno esercitando una pressione maggiore su Hezbollah rispetto al 2006.
  Tuttavia, sono ottimista sul fatto che la situazione si calmerà, perché Hezbollah è guidato da fanatici ma non da pazzi: è consapevole dell'equilibrio di potere. La prova è che hanno accettato il cessate il fuoco quando erano vicini all'annientamento. Hezbollah è isolato e l'Iran non può più inviare truppe o attrezzature.
  Quanto ad Hamas, è militarmente morto. I suoi leader sono stati eliminati, non domina più la Striscia di Gaza e non ha tutti gli ostaggi, il che significa che non può nemmeno proporre a Israele un accordo globale. Tuttavia, il centinaio di ostaggi è ancora il tallone d'Achille di Israele. La Siria è persa per gli sciiti, quindi né l'Iran né Hezbollah possono venire in suo aiuto.
  Quanto all'Arabia Saudita, i suoi servizi segreti stanno già collaborando con gli israeliani. Il fallimento di Hamas, Hezbollah e dell'Iran è completo e totale.
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*Frédéric Encel ha un dottorato (HDR) in geopolitica, è docente a Sciences Po Paris e fondatore degli Incontri geopolitici di Trouville. È autore di Voies de la puissance (Prix de l'Académie des sciences morales et politiques, Odile Jacob, 2023).

(JForum fr, 14 dicembre 2024)

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Blinken in Turchia per parlare di Siria e di Hamas

Al centro dei colloqui anche la questione dei curdi siriani

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Il Segretario di Stato americano Antony Blinken stringe la mano al Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan dopo una conferenza stampa congiunta presso la sede del Ministero nella capitale turca Ankara il 13 dicembre 2024

Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan hanno concordato venerdì sulla necessità di proseguire gli sforzi per contrastare qualsiasi rinascita dello Stato islamico in Siria dopo la caduta di Bashar al-Assad.
Nei suoi colloqui con il presidente e il ministro degli esteri della Turchia, Blinken ha detto di aver discusso anche dell’imperativo che Hamas dica “sì” a un accordo di cessate il fuoco a Gaza. Una fonte statunitense ha detto che Hamas ha ammorbidito la sua posizione nei colloqui di cessate il fuoco.
Blinken sta girando il Medio Oriente per creare un fronte unito con gli alleati arabi e turchi sui principi che Washington spera possano guidare la transizione politica della Siria, come l’inclusività e il rispetto delle minoranze.
Lunedì ha affermato che lo Stato islamico avrebbe cercato di sfruttare questo periodo per ripristinare le sue capacità in Siria, ma gli Stati Uniti erano determinati a non permettere che ciò accadesse.
“I nostri Paesi hanno lavorato duramente e hanno dato molto nel corso di molti anni per garantire l’eliminazione del califfato territoriale dell’ISIS, per garantire che la minaccia non si ripresenti, ed è fondamentale che continuiamo a impegnarci”, ha affermato Blinken insieme a Fidan dopo il loro incontro ad Ankara.
I colloqui si sono concentrati anche su un aspetto cruciale per il ripristino della stabilità in Siria: gli scontri nel nord del Paese tra le Forze democratiche siriane (SDF) guidate dai curdi e sostenute dagli Stati Uniti e i ribelli sostenuti dalla Turchia.
Le SDF sono il principale alleato di una coalizione statunitense contro i terroristi dello Stato islamico. Sono guidate dalla milizia YPG, un gruppo che Ankara vede come un’estensione dei militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).
Gli alleati della NATO Washington e Ankara hanno sostenuto i ribelli siriani durante i 13 anni di guerra civile, ma i loro interessi si sono scontrati quando si è trattato della fazione SDF.
I leader turchi hanno concordato con Blinken sul fatto che le SDF non dovrebbero essere distratte dal loro ruolo di proteggere i campi in cui sono detenuti i combattenti dello Stato Islamico e dal combattere i resti di quel gruppo, ha affermato una fonte statunitense, che ha parlato a condizione di mantenere l’anonimato.
All’inizio di questa settimana, le forze sostenute dalla Turchia hanno sequestrato la città settentrionale di Manbij alle SDF, che si sono poi dirette a est del fiume Eufrate. Una fonte dell’opposizione siriana ha detto che gli Stati Uniti e la Turchia avevano raggiunto un accordo sul ritiro.
Né Blinken né Fidan hanno fatto alcun riferimento all’accordo, ma il funzionario statunitense che viaggiava con Blinken ha affermato che era uno dei punti centrali dei colloqui.
Il funzionario ha affermato che il cessate il fuoco ha generalmente retto, ma che risolvere le tensioni più ampie tra i curdi in Siria e la Turchia richiederà più tempo, aggiungendo che Washington sta monitorando attentamente qualsiasi mossa della Turchia o delle forze sostenute dalla Turchia nella città di Kobani, controllata dai curdi.
Dopo l’incontro con Blinken, Fidan ha affermato che “la priorità della Turchia in Siria è garantire la stabilità… il prima possibile, impedire al terrorismo di guadagnare terreno e impedire allo Stato islamico e al PKK di dominare il Paese”.
“Abbiamo discusso in dettaglio cosa possiamo fare al riguardo, quali sono le nostre preoccupazioni comuni e quali dovrebbero essere le nostre soluzioni comuni”, ha affermato.
In un’intervista rilasciata all’emittente turca NTV venerdì sera, Fidan ha affermato che l’eliminazione delle YPG era “l’obiettivo strategico” della Turchia e ha esortato i comandanti del gruppo a lasciare la Siria.
Ha inoltre criticato l’Occidente, affermando che sta utilizzando il PKK per mettere in sicurezza i campi di detenzione in cui sono detenuti i combattenti dello Stato Islamico e che, attraverso questo ruolo, il PKK sta “ricattando” la comunità internazionale.

• CESSATE IL FUOCO A GAZA
  Durante i suoi incontri in Turchia, Blinken ha anche insistito sull’importanza di un cessate il fuoco per porre fine alle ostilità tra Hamas e Israele a Gaza, mentre Washington tenta nuovamente di concludere un accordo che sfugge all’amministrazione del presidente Joe Biden da oltre un anno.
“Nei miei colloqui con il presidente Erdogan e con il ministro Fidan abbiamo parlato dell’imperativo che Hamas dica sì all’accordo (di Gaza) affinché sia possibile contribuire finalmente a porre fine a tutto questo”, ha affermato Blinken dopo l’incontro con Fidan.
“Apprezziamo molto il ruolo che la Turchia può svolgere nell’usare la sua voce presso Hamas per cercare di porre fine a questa situazione”.
Hamas ha ammorbidito la sua posizione nei colloqui di cessate il fuoco e la Turchia ha iniziato a esercitare la sua influenza sul gruppo da quando molti leader di Hamas si sono trasferiti da Doha a Istanbul, ha affermato un funzionario statunitense.

(Rights Reporter, 14 dicembre 2024)

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Le donne riserviste israeliane: in divisa dal 7 ottobre lontane dai figli per amore d’Israele

di Michelle Zarfati

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Da quando il 7 ottobre del 2023 Hamas ha colpito Israele con un pogrom senza precedenti, centinaia di migliaia di riservisti hanno preso di nuovo servizio nell’IDF. Non solo uomini, ma anche moltissime donne: mogli e madri che hanno lasciato i loro figli, i loro mariti e la loro vita per trascorrere giorni e notti in uniforme. Le donne che hanno dato, e danno quotidianamente, così tanto ad Israele hanno parlato delle difficoltà del lungo servizio di riserva delle difficoltà e dei successi al notiziario Israeliano Ynet.
  Tra loro c’è il Soldato Maggiore S, 44 anni, da Ein HaBesor. La donna, che presta servizio come ufficiale operativo in un’unità classificata, ha già completato più di 300 giorni nelle riserve dal 7 ottobre. Non appena è atterrata in Israele il 7 ottobre da una vacanza all’estero, ha guidato dall’aeroporto a Ofakim e si è unita al sostegno dei feriti al Magen David Adom. Durante il suo volo di rimpatrio, i suoi figli Koren e Inbar sono stati chiusi nella casa del padre a Ein HaBesor. “Appena prima del decollo, sono riusciti a dirmi che avevano sentito degli spari e delle urla in arabo fuori dal finestrino. Ho detto loro di nascondersi. Ero terrorizzata”. Dopo una notte insonne in ambulanza, tra l’evacuazione dei feriti e la fornitura di cure a terra, S. è andata a trovare i suoi figli. “È stato un grande sollievo, ho potuto respirare di nuovo”, ha raccontato la donna. Da allora, i due non hanno avuto modo di vedere molto la madre, che viaggia tra le basi in tutto il paese. “Sto facendo qualcosa di grande, ma non posso condividere nulla con loro, e questa è la cosa più difficile”. Koren ha rivelato che le manca sua madre, soprattutto quando ha iniziato una nuova scuola a Tel Aviv, dove sono stati evacuati, o durante il suo quindicesimo compleanno, che avrebbe voluto festeggiare assieme a lei”.
  C’è anche Noa Tom e i suoi figli Gali di 8 anni, Omer di 5 e Yuval di 2, una famiglia di Zikhron Ya’akov. “Ho prestato servizio nelle riserve per 20 anni, sono stata anche chiamata nella seconda guerra del Libano”, dice il maggiore Noa Tom, 41 anni, ufficiale di addestramento nella 55a divisione. “I bambini sono abituati a vedere la madre in uniforme, ma non con questa intensità. Ora è davvero come se fossi tornata in servizio”. La donna, per più di un anno, ha accompagnato le forze, spostandosi tra la Striscia di Gaza e il Libano , dormendo in una tenda per mesi. “La divisione è composta principalmente da uomini, dal soldato al comandante di divisione – ha raccontato – di solito sono l’unica donna nella divisione. Vorrei davvero vivere in un mondo in cui non ci sia bisogno di fare articoli sulle madri riserviste. In un mondo che funziona è ovvio che sia l’uomo che la donna prestano servizio come riserve. In questo modo, smetteranno di dire a mio marito, ‘Bel lavoro con i bambini’, e di dire a me, ‘Grazie per il tuo servizio'”. Il 7 ottobre, Noa ha fatto la valigia, ha salutato il marito e i figli ed è partita per la base militare. “I miei figli sono fortunati perché il papà è più tenero della mamma, è il migliore”. Da allora, ogni volta che fa la valigia e prende la sua arma in mano “i bambini capiscono che il mio tempo a casa è finito e che sto tornando nell’esercito. Piangono molto, quindi li calmo e prometto di tornare presto”.
  C’è poi il soldato Maggiore A. e i suoi figli Yiftah, 9 anni, Eti, 7 anni, e Negev, 5 anni, residenti in un moshav nel centro di Israele. “Da quando è scoppiata la guerra, A. e suo marito, il Maggiore Assaf, indossarono l’uniforme insieme. Lei controlla i voli dell’aeronautica e lui è un soldato combattente. Da ottobre, lasciano i loro tre figli e cinque cani a casa “Grazie al cielo ci sono i nonni”, ha detto A. descrivendo con orgoglio il suo lavoro: “Sono responsabile della gestione dello spazio aereo di Israele. Sono in allerta 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per identificare le minacce nell’area e realizzare una valutazione precisa”. Grazie al suo ruolo, è anche responsabile del coordinamento delle forze di terra. “Sapevo sempre dove si trovava mio marito”, ha raccontato. “Da un lato, dovevo restare concentrata sulla missione, dall’altro, avevo paura quando lui era sul campo. In qualsiasi evento insolito o evacuazione di soldati feriti, dovevo disconnettere le mie emozioni e non farmi trasportare dalla paura che mio marito poteva esser ferito o peggio.
  A. afferma che la sfida più significativa sono le transizioni. “Dal gestire vite umane e missioni di importanza nazionale, torno a casa ad una pila di panni da lavare e al fare la spesa”. “La mamma dice agli aerei dove volare e papà sta combattendo a Gaza. In un attimo, entrambi i miei genitori hanno lasciato il lavoro per andare nell’esercito e da allora sono nella riserva. È dura perché non sono con me, o vengono per un po’ e poi vanno via – ha detto Yiftah, la figlia di nove anni – nel frattempo, sono con i miei nonni, che amo molto, ma non possono sostituire i miei genitori. Sto aspettando che la guerra finisca così da tornare presto ad essere una famiglia come prima”.

(Shalom, 13 dicembre 2024)

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Antisemitismo – Torna l’indagine triennale del JDC

«Immagino che il trauma sia ancora in corso. Sembra che sia il 7 ottobre ancora e ancora, ogni giorno. La mia vita e la vita di ogni ebreo che conosco sono cambiate da allora. Mi sento meno al sicuro, meno accettato, meno integrato in una società in cui pensavo di appartenere». A parlare è un professionista iscritto a una Comunità ebraica italiana. Il suo pensiero rispecchia l’opinione della maggioranza degli ebrei non solo italiani, ma europei, come emerge dalla sesta Indagine sui dirigenti e sui professionisti delle comunità ebraiche europee realizzata dal Centro internazionale per lo sviluppo comunitario (JDC-ICCD) e diretta da Marcelo Dimentstein. Uno strumento nato nel 2008 per inquadrare le sfide presenti e future dell’ebraismo europeo, che oggi fa i conti con una società stravolta dal 7 ottobre. «La simultanea crescita degli incidenti antisemiti e delle proteste antisraeliane in tutta Europa è stata la principale preoccupazione per i dirigenti ebrei del continente. Questo sondaggio fornisce dati preziosi sull’aumento dei livelli di isolamento, insicurezza e paura tra gli ebrei europei, assieme al crescente desiderio di riunirsi in comunità», spiega Stefano Oscar, direttore regionale di JDC Europa, nella presentazione dell’indagine. Una ricerca a cadenza triennale a cui ha lavorato la sociologa Betti Guetta della Fondazione Cdec e a cui ha collaborato l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il sondaggio è stato condotto online in dieci lingue, hanno risposto 879 intervistati provenienti da 32 paesi europei ed è stata inserita una sezione dedicata agli effetti del 7 ottobre.
  Come nell’edizione precedente (2021), la lotta all’antisemitismo si conferma in cima alle priorità della leadership ebraica. Pensare che nel 2011 era al settimo posto. Un passato lontano. Il senso di insicurezza e di isolamento, raccontano i dati dell’indagine, sono cresciuti ovunque. «Un significativo 38% degli intervistati ha riferito che le proprie istituzioni hanno subito episodi di antisemitismo dal 7 ottobre, e un’ampia maggioranza (78%) afferma che è diventato meno sicuro vivere e praticare il proprio ebraismo», si legge nella ricerca, che sarà presentata durante il prossimo Consiglio Ucei. Ci si sente molto meno liberi di girare per le strade con la kippah o con segni che possano identificare la propria identità ebraica. Anche con gli amici fuori dal mondo ebraico sono aumentate le distanze e le incomprensioni.
  All’insicurezza e al senso di isolamento, sottolinea la leadership ebraica, le persone hanno risposto con una maggiore partecipazione alle attività delle rispettive comunità e con un maggior sostegno a Israele. «La stragrande maggioranza degli intervistati, l’82%, ha riferito che il proprio impegno nei confronti di Israele è stato più forte dopo il 7 ottobre e una maggioranza crescente ha affermato che tutti gli ebrei hanno la responsabilità di sostenere Israele e di farlo incondizionatamente», spiegano gli autori dell’indagine.
  In un clima di timori e diffidenza ci si attenderebbe anche una maggior propensione all’emigrazione e invece questo dato rispetto al 2021 non è aumentato. Segno di un impegno a resistere agli stravolgimenti dell’ultimo anno. Il pessimismo sul futuro dell’Europa non viene nascosto – pur con significative differenze tra Europa occidentale (più negativa) ed orientale (più ottimista) – ma si risponde rafforzando i legami interni.

• IL PANORAMA ITALIANO
  L’indagine ha poi un focus sull’Italia in cui si registrano trend coerenti con il resto d’Europa, con alcune differenze. Ad esempio l’80% degli intervistati dichiara di sentirsi al sicuro a vivere come ebreo nella propria città contro il 73% della media europea (considerando l’Europa occidentale la media è ancor più bassa, 67%). Resta, come in passato, una significativa preoccupazione per il declino demografico di cui risente l’ebraismo italiano (per l’85% degli intervistati italiani è una minaccia seria, contro il 64% dei colleghi europei).
  Tanti da mettere in fila e analizzare, sottolineano gli autori della ricerca, per cercare di trarne delle politiche concrete da applicare per il futuro. «La speranza di JDC-ICCD», scrive a riguardo Oscar, «è che le informazioni contenute in questa indagine servano da guida per la leadership delle comunità ebraiche in tutta Europa per aiutare a pianificare e innovare, rafforzare la vita ebraica per le generazioni a venire, trasformando le sfide in opportunità». d.r.

(moked, 13 dicembre 2024)

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Parashat Vayishlach. La fede, un viaggio continuo

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Perché Giacobbe è il padre del nostro popolo, l’eroe della nostra fede? Noi siamo “la comunità di Giacobbe”, “i figli di Israele”. Eppure è stato Abramo a iniziare il cammino ebraico, Isacco a essere disposto al sacrificio, Giuseppe a salvare la sua famiglia negli anni della carestia, Mosè a condurre il popolo fuori dall’Egitto e a darne le leggi. Fu Giosuè a portare il popolo nella Terra Promessa, Davide a diventarne il più grande re, Salomone a costruire il Tempio e i profeti che, attraverso i secoli, divennero la voce di Dio.
Il racconto di Giacobbe nella Torà sembra essere inferiore a queste altre vite, almeno se leggiamo il testo alla lettera. Ha rapporti tesi con il fratello Esaù, con le mogli Rachel e Leah, con il suocero Labano e con i tre figli maggiori, Ruben, Simone e Levi. Ci sono momenti in cui sembra pieno di paura, altri in cui agisce – o almeno sembra agire – con meno di una totale onestà. Rispondendo al Faraone, dice di sé: “I giorni della mia vita sono stati pochi e difficili” (Genesi 47:9). È meno di quanto ci si possa aspettare da un eroe della fede.
Ecco perché gran parte dell’immagine che abbiamo di Giacobbe è filtrata attraverso la lente del Midrash, la tradizione orale conservata dai Saggi. In questa tradizione, Giacobbe è tutto buono, Esaù tutto cattivo. Doveva essere così – sosteneva Rabbi Zvi Hirsch Chajes (1805-1855) nel suo saggio sulla natura dell’interpretazione del midrash – perché altrimenti avremmo avuto difficoltà a trarre dal testo biblico un chiaro senso di giusto e sbagliato, di buono e cattivo. La Torà è un libro eccezionalmente impercettibile, e i libri così tendono a essere fraintesi. Così la Tradizione orale ha semplificato le cose: bianco e nero invece di sfumature di grigio.
Tuttavia, forse, anche senza il Midrash, possiamo trovare una risposta – e il modo migliore per farlo è pensare all’idea di un viaggio. L’ebraismo parla di fede come di un viaggio. Inizia con il viaggio di Abramo e Sara, che si lasciano alle spalle la loro “terra, il luogo di nascita e la casa paterna” e viaggiano verso una destinazione sconosciuta, “la terra che ti mostrerò”.
Il popolo ebraico è definito da un altro viaggio, in un’epoca diversa: il viaggio di Mosè e degli israeliti dall’Egitto attraverso il deserto fino alla Terra Promessa. Quel viaggio diventa una litania nella parashà di Masè: “Partirono da X e si accamparono in Y. Partirono da Y e si accamparono in Z”. Essere ebrei significa muoversi, viaggiare e solo raramente, se non mai, stabilirsi. Mosè mette in guardia il popolo dal pericolo di stabilirsi e di dare per scontato lo status quo, anche nello stesso Israele: “Quando avrete figli e nipoti e vi sarete stabiliti nel paese per molto tempo, potreste diventare decadenti”. (Deuteronomio 4:25)
Da qui le regole per cui Israele deve sempre ricordare il suo passato, non dimenticare mai gli anni di schiavitù in Egitto, non dimenticare mai a Succot che i nostri antenati un tempo vivevano in abitazioni temporanee, non dimenticare mai che la terra non è di nostra proprietà – appartiene a Dio – e che noi siamo lì solo come gherim ve-toshavim di Dio, “stranieri e residenti di Dio” (Levitico 25:23).
Perché? Perché essere ebrei significa non essere pienamente a casa nel mondo. Essere ebrei significa vivere nella tensione tra cielo e terra, tra creazione e rivelazione, tra il mondo che è e il mondo che siamo chiamati a creare; tra esilio e casa, tra l’universalità della condizione umana e la particolarità dell’identità ebraica. Gli ebrei non stanno fermi se non quando si trovano davanti a Dio. L’universo, dalle galassie alle particelle subatomiche, è in costante movimento, e così l’anima ebraica.
Siamo, crediamo, in una combinazione instabile di polvere della terra e respiro di Dio e questo ci chiama costantemente a prendere decisioni, a fare scelte, che ci faranno crescere fino a diventare grandi come i nostri ideali o, se scegliamo male, ci faranno raggrinzire in piccole e petulanti creature ossessionate dalla banalità. La vita come viaggio significa sforzarsi ogni giorno di essere più grandi del giorno prima, individualmente e collettivamente.
Se il concetto di viaggio è una metafora centrale della vita ebraica, qual è la differenza tra Abramo, Isacco e Giacobbe?
La vita di Abramo è incorniciata da due viaggi che utilizzano entrambi la frase Lech Lechà, “intraprendere un viaggio”: una volta in Genesi 12 quando gli viene detto di lasciare la sua terra e la casa paterna, l’altra in Genesi 22:2 al momento della legatura di Isacco, quando gli viene detto “Prendi tuo figlio, l’unico che ami – Isacco – e vai [lech lecha] nella regione di Moriah”.
Ciò che è così commovente in Abramo è che egli va, immediatamente e senza fare domande, nonostante il fatto che entrambi i viaggi siano strazianti in termini umani. Nel primo deve lasciare suo padre. Nel secondo deve lasciare suo figlio. Deve dire addio al passato e rischiare di dire addio al futuro. Abramo è fede pura. Ama Dio e si fida assolutamente di Lui. Non tutti possono raggiungere questo tipo di fede. È quasi sovrumana.
Isacco è l’opposto. È come se Abramo, conoscendo i sacrifici emotivi che ha dovuto fare, conoscendo anche il trauma che Isacco deve aver provato al momento della “Legatura”, cercasse di proteggere suo figlio per quanto è in suo potere. Si assicura che Isacco non lasci la Terra Santa (cfr. Genesi 24:6 – per questo Abramo non lo lasciò viaggiare per cercare una moglie). L’unico viaggio di Isacco (nella terra dei Filistei, in Genesi 26) è limitato e locale. La vita di Isacco è una breve tregua rispetto all’esistenza nomade di Abramo e Giacobbe.
Giacobbe è ancora diverso. Ciò che lo rende unico è che ha i suoi incontri più intensi con Dio – sono i più drammatici di tutto il libro della Genesi – nel mezzo del viaggio, da solo, di notte, lontano da casa, fuggendo da un pericolo all’altro, da Esaù a Labano nel viaggio di andata, da Labano a Esaù nel ritorno.
Nel mezzo del primo viaggio ha la rivelazione sfolgorante della scala che si estende dalla terra al cielo, con gli angeli che salgono e scendono, che lo porta a dire al risveglio: “Dio è veramente in questo luogo, ma io non lo sapevo…”. Questa deve essere la casa di Dio e questa la porta del cielo” (Genesi 28:16-17). Nessuno degli altri patriarchi, nemmeno Mosè, ha una visione simile.
Il secondo viaggio, nella nostra Parashà, ha l’inquietante ed enigmatico incontro di lotta con l’uomo/angelo/Dio, che lo lascia zoppicante ma trasformato in modo permanente – l’unica persona nella Torà che ha ricevuto da Dio un nome completamente nuovo, Israele, che può significare “uno che ha lottato con Dio e con gli uomini” o “uno che è diventato un principe [sar] davanti a Dio”.
L’aspetto affascinante è che gli incontri di Giacobbe con gli angeli sono descritti dallo stesso verbo – פגע’ -‘p-g-‘a, (Genesi 28:11 e Genesi 32:2) che significa “un incontro casuale”, come se avessero colto Giacobbe di sorpresa, cosa che evidentemente fecero. I momenti più spirituali di Giacobbe sono quelli che non aveva pianificato. Pensava ad altre cose, a ciò che si lasciava alle spalle e a ciò che lo aspettava. È stato, per così dire, “sorpreso da Dio”.
Giacobbe è una persona con cui possiamo identificarci. Non tutti possono aspirare alla fede amorevole e alla fiducia totale di Abramo o alla solitudine di Isacco. Ma Giacobbe è una persona che possiamo capire. Possiamo sentire la sua paura, comprendere il suo dolore per le tensioni nella sua famiglia e simpatizzare con il suo profondo desiderio di una vita di quiete e di pace (i Saggi dicono, a proposito dell’incipit della Parashà della prossima settimana, che “Giacobbe desiderava vivere in pace, ma fu immediatamente spinto nei problemi di Giuseppe”).
Il punto non è solo che Giacobbe è il più umano dei patriarchi, ma piuttosto che, nel profondo della sua disperazione, viene innalzato alle più alte vette della spiritualità. È l’uomo che incontra gli angeli. È la persona sorpresa da Dio. È colui che, proprio nei momenti in cui si sente più solo, scopre di non esserlo, che Dio è con lui, che è accompagnato dagli angeli.
Il messaggio di Giacobbe definisce l’esistenza ebraica. Il nostro destino è viaggiare. Siamo un popolo inquieto. Rare e brevi sono state le nostre parentesi di pace. Ma nel buio della notte ci siamo trovati sollevati da una forza di fede che non sapevamo di avere, circondati da angeli che non sapevamo esistessero. Se camminiamo sulla via di Giacobbe, anche noi possiamo trovarci sorpresi da Dio.
- Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz

(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2024)
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Parashà della settimana: Va-ishlach (Mandò avanti)

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Il mondo è stupito e l'Iran è arrabbiato

Forse l'Iran stesso è stupito di come le cose sono andate a favore di Israele negli ultimi mesi.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Se i chierici e i leader sciiti sono così religiosi come fingono di essere nei loro discorsi di odio contro Israele e i sionisti, devono chiedersi, a porte chiuse, che tipo di Dio potente stia combattendo per Israele. Tutti i loro slogan su Allah Al-Aksa, Al-Quds, la conquista di Gerusalemme e la distruzione di Israele sono andati in frantumi. Le continue grida di “Allah hu Akbar” non sono altro che un trauma pop e non hanno contribuito in alcun modo ai loro desideri e piani.
Naturalmente, gli iraniani sono frustrati e arrabbiati perché ammettere la sconfitta è percepito nella nostra regione come un segno di debolezza, che indebolisce la posizione del governo a livello interno e internazionale. Il regime dei mullah di Teheran ha una struttura politica caratterizzata da orgoglio e forza ideologica, soprattutto quando si tratta di resistere all'Occidente e ai suoi alleati.
I terroristi palestinesi di Gaza hanno coinvolto l'Iran e Hezbollah in una costosa avventura militare per la quale l'Iran sta pagando un prezzo altissimo e ha perso l'esistenza dell'asse sciita. Peggio ancora, Hamas è sunnita e non sciita come Hezbollah. E ora sono maledetti mille volte di più a Teheran solo perché sono terroristi sunniti. Gli Hezbollah, alleati dell'Iran in Libano, e il regime di Assad in Siria sono finiti, e devono ringraziare i sunniti di Gaza. È così che ragionano le loro teste.
L'attacco a sorpresa di Hamas ha costretto l'Iran e Hezbollah a combattere contro Israele per venire in aiuto di Hamas nella Striscia di Gaza. Israele non solo ha eliminato l'intera leadership di Hamas sul terreno, ma anche Ismail Haniyeh e il suo vice Saleh al-Arouri all'estero, così come l'intera leadership terroristica e politica di Hezbollah, compreso Hassan Nasrallah. Israele ha anche distrutto circa il 70% dell'arsenale missilistico della milizia terroristica. L'Iran ha investito più di 40 anni nell'asse del terrore sciita in Medio Oriente e ora tutto è crollato. Secondo fonti di intelligence occidentali, l'Iran è il principale perdente dell'attacco a sorpresa contro Israele del 7 ottobre. L'imminente insediamento del neoeletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 20 gennaio, rischia di peggiorare ulteriormente la situazione strategica dell'Iran.
Il quotidiano britannico The Telegraph ha riferito che la leadership iraniana si è sentita in imbarazzo per la situazione in Siria e si stanno accusando a vicenda. “L'atmosfera qui è quasi da scontro fisico, con persone che sbattono sui muri, si urlano addosso e prendono a calci i bidoni della spazzatura. Si accusano a vicenda e nessuno si assume la responsabilità”, ha dichiarato una fonte. Dalla caduta del regime di Assad, si è sviluppata una “guerra di recriminazioni” all'interno delle Guardie rivoluzionarie, in cui i responsabili del fallimento sono ricercati a Teheran. La fonte ha aggiunto: “Nessuno ha mai pensato che Assad sarebbe fuggito perché per dieci anni ci si è concentrati solo sul mantenerlo al potere. Non perché ci piacesse, ma perché volevamo garantire la vicinanza a Israele e a Hezbollah”. Le lamentele iraniane continuano. Un comandante delle Guardie Rivoluzionarie sul crollo del regime di Assad: “Sapevamo dei movimenti dei ribelli diversi mesi fa, ma non facciamo la guerra in un altro Paese mentre l'esercito di quel Paese se ne sta con le mani in mano”.
Fonti di intelligence occidentali riferiscono che l'Iran è furioso con la leadership di Hamas, in particolare con Yahya Sinwar, che nel frattempo è stato eliminato. Sinwar si era servito dell'Iran e di Hezbollah per costruire le infrastrutture militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, non ha rivelato la data esatta dell'attacco a sorpresa alle città israeliane di confine, il 7 ottobre 2023. A seguito di questa mossa e del massacro nel sud di Israele, l'Iran ha perso il suo prestigio terroristico. Di conseguenza, il regime di Assad è crollato pochi giorni fa con un effetto domino. Secondo fonti di intelligence occidentali, la guerra in Siria tra le milizie jihadiste e l'esercito siriano di Assad (che non esiste più) ha rivelato la profondità della crisi in cui si trova l'Iran.
Sinwar voleva raccogliere una gloria personale per il suo attacco “Flood Jerusalem” e passare alla storia come l'architetto musulmano sunnita dell'operazione, simile al capo militare musulmano Saladino, che liberò Gerusalemme dai crociati nel 1187. Sinwar non voleva dare il minimo riconoscimento all'asse sciita guidato dall'Iran. A posteriori, la sua strategia si è rivelata vincente, poiché l'Iran e i suoi alleati sono stati involontariamente coinvolti nel conflitto contro Israele. Secondo fonti di intelligence occidentali, l'attacco di Sinwar a Israele ha portato infine a un confronto militare diretto tra Iran e Israele. Di conseguenza, l'Iran ha perso il suo sistema di difesa aerea strategica e le sue strutture nucleari sono ora vulnerabili agli attacchi israeliani. Inoltre, l'attacco ha innescato un effetto domino in Medio Oriente che mette a rischio gli interessi dell'Iran. La Turchia, membro della NATO ed economicamente molto più forte dell'Iran, sta intervenendo nel conflitto siriano e anche Israele minaccia di intervenire militarmente in Siria se i suoi interessi di sicurezza sono minacciati. L'Iran sta quindi perdendo il dominio militare ed economico che ha costruito in Siria dal 2011.
Un'altra fonte delle Guardie Rivoluzionarie ha commentato la possibilità di continuare a rifornire Hezbollah di armi dopo la perdita della sua influenza in Siria: “Ci deve essere qualcuno sul terreno che può inviare armi, ma loro (la gente e i soldati di Assad) o vengono uccisi o fuggono. Al momento ci stiamo concentrando per uscire da questa impasse. Non ci sono discussioni sulle forniture di armi perché tutti cercano di capire cosa stia realmente accadendo e quanto questo metta a rischio l'Iran”.
All'esterno, il regime iraniano sta cercando di fingere la normalità. Ebrahim Rezaei, portavoce del Comitato per la sicurezza nazionale in Parlamento, ha parlato della sessione a porte chiuse del comitato in un'intervista all'agenzia di stampa iraniana Mehr. Alla riunione hanno partecipato il Comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie, generale Hossein Salami, e cinque parlamentari che hanno espresso le loro opinioni su questioni nazionali e regionali. Rezaei ha dichiarato: “Il generale Salami ha analizzato la situazione nella regione e ha sottolineato che non siamo stati indeboliti e che il potere dell'Iran non è diminuito in alcun modo. Ha anche ribadito che il rovesciamento del regime sionista rimane nella nostra agenda”.
La Bibbia descrive situazioni in cui i nemici di Israele riconoscono la potenza del Dio di Israele e il suo ruolo nei successi di Israele nelle guerre. Durante le dieci piaghe, il faraone e gli egiziani riconobbero il potere di Dio come sovrano di tutto il creato. Anche se era difficile per il Faraone ammetterlo apertamente, a volte dice che “il Signore è giusto” e capisce che il potere che sta dietro le piaghe è di origine divina.
Rahab, la prostituta di Gerico, disse alle spie: “Abbiamo sentito come il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando siete usciti dall'Egitto, e cosa avete fatto ai due re degli Amorrei, Sihon e Og, al di là del Giordano, sui quali avete eseguito il bando” (Giosuè 2).
Quando i Filistei seppero che l'Arca dell'Alleanza era stata portata nell'accampamento di Israele, furono presi dal panico e dissero: “Guai a noi! Chi ci libererà dalla mano di questi potenti dèi? Questi sono gli dèi che hanno colpito gli Egiziani nel deserto con ogni sorta di piaghe!” (1 Samuele 4).
Oppure, dopo che i tre testimoni della fede Shadrach, Meshach e Abednego erano usciti illesi dalla fornace ardente, Nabucodonosor disse: “Benedetto sia il Dio di Shadrach, Meshach e Abednego, che ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui e hanno trasgredito il comandamento del re e hanno rinunciato ai loro corpi perché non adoravano e non adorano altro dio che il loro Dio soltanto!” (Daniele 3).
Sì, i nemici di Israele nella Bibbia riconoscono spesso la potenza del Dio di Israele, soprattutto quando sperimentano apparenti miracoli o subiscono sconfitte che naturalmente sembrano loro inspiegabili. Questo riconoscimento non sempre li portava a cambiare strada, ma rifletteva la soggezione e la comprensione del potere del Dio di Israele nelle guerre e nella storia. E sì, Israele sta vedendo miracoli davanti ai suoi occhi in questi giorni, e i nostri nemici non vogliono ammetterlo davanti alle telecamere, ma abbiamo agenzie di intelligence e fonti che lo rivelano a porte chiuse.

(Israel Heute, 13 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Si sarà notata la facilità con cui il direttore di "Israel heute" cita passi della Bibbia. Questo dipende certamente dalla famiglia in cui è cresciuto, in cui il padre Ludwig Schneider (che ho personalmente conosciuto) era un ebreo tedesco convertito a Cristo che ha fatto crescere i suoi nove figli in Israele. Per favorire la conoscenza di Israele in Germania, ha scritto un libro dal titolo 100 Fragen an Israel: was Sie schon immer wissen wollten (100 domande a Israele: quello che Lei avrebbe sempre voluto sapere). Riportiamo qui la domanda numero 32. M.C.


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“Possono essere salvati gli ebrei senza Gesù?”

Il Nuovo Testamento afferma inequivocabilmente che Gesù (in ebraico Yeshua) è diventato la pietra angolare e che la salvezza non si trova in nessun altro, perché non c'è altro nome sotto il cielo con cui noi uomini possiamo essere salvati (Atti 4:11-12). La validità di questa affermazione non può essere contestata. Gesù stesso dice: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Questo ricorda la storia di Giuseppe (Genesi, capitoli 37-50), in cui Giuseppe funge da prototipo del Messia. I fratelli di Giuseppe sono stati salvati da Giuseppe molto prima che lo riconoscessero come loro fratello. La consapevolezza che lo “straniero” fosse in realtà Giuseppe, il loro fratello, arrivò solo in seguito. Allo stesso modo, la consapevolezza che Yeshua è il Messia arriverà solo dopo, quando “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zaccaria 12:10). Gli ebrei pregano da tempo nella loro benedizione settimanale della Hawdala: “L’Eterno è diventato Yeshua (salvezza) per me. Berrete con gioia l'acqua delle sorgenti di Yeshua (salvezza). Alzo il calice di Yeshua (salvezza) e invoco il nome dell'Eterno”.
Yeshua, non ancora riconosciuto dagli ebrei, provvede già ai suoi fratelli? Così come c'è una grazia che segue, c'è forse anche una grazia che precede? “O Signore, Tu lo sai!”.

(da “100 Fragen an Israel: was Sie schon immer wissen wollten”, Hänssler Verlag, 1997)

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Ora Israele valuta seriamente un attacco ai siti nucleari iraniani

Il controllo completo dei cieli siriani permette a Israele di studiare con più facilità un attacco ai siti nucleari iraniani

di Paola P. Goldberger

Le Forze di difesa israeliane (IDF) ritengono che, in seguito all’indebolimento dei gruppi paramilitari iraniani in Medio Oriente e alla drammatica caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, ci sia la possibilità di colpire gli impianti nucleari iraniani.
L’aeronautica militare israeliana (IAF) ha quindi continuato ad aumentare la propria prontezza e i preparativi per possibili attacchi in Iran.
L’IDF ritiene inoltre che l’Iran, isolato dopo la caduta del regime di Assad e dall’indebolimento di Hezbollah in Libano, potrebbe proseguire con il suo programma nucleare e sviluppare una bomba, nel tentativo di ricostruire la propria deterrenza.
L’Iran ha sempre negato di voler dotarsi di armi nucleari e afferma che sia il suo programma spaziale sia le sue attività nucleari hanno scopi puramente civili.
Tuttavia, le agenzie di intelligence statunitensi e l’AIEA affermano che l’Iran aveva un programma nucleare militare organizzato fino al 2003 e ha continuato a sviluppare il suo programma nucleare oltre le necessità civili. Israele sostiene che la Repubblica islamica non ha mai veramente abbandonato il suo programma di armi nucleari e molti dei suoi siti nucleari sono sepolti sotto montagne pesantemente fortificate.
L’Iran è impegnato nella distruzione di Israele. Nell’ultimo anno, ha lanciato due volte massicce raffiche di missili contro Israele, che ha giurato di impedire a Teheran di ottenere armi nucleari. Israele, dal canto suo, ha colpito importanti strutture militari iraniane come rappresaglia per entrambi gli attacchi, avvenuti nel contesto di una guerra su più fronti aperta dai terroristi iraniani contro lo stato ebraico.

• SUPERIORITÀ AEREA COMPLETA IN SIRIA
  Giovedì, l’IAF ha dichiarato che, dopo oltre un decennio di elusione delle difese aeree sui cieli della Siria durante una campagna contro la fornitura di armi da parte dell’Iran a Hezbollah, aveva raggiunto la superiorità aerea totale nella zona.
Questa superiorità aerea sulla Siria potrebbe consentire un passaggio più sicuro agli aerei dell’IAF per lanciare un attacco contro l’Iran, hanno affermato fonti militari.
Una campagna di bombardamenti israeliana condotta all’inizio di questa settimana in Siria, volta a distruggere armamenti avanzati che potrebbero cadere nelle mani di elementi ostili dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, ha distrutto anche la maggior parte delle difese aeree del Paese.
Secondo l’esercito, l’IAF ha distrutto l’86% dei sistemi di difesa aerea dell’ex regime di Assad in Siria, per un totale di 107 componenti separati di difesa aerea e altri 47 radar.
I numeri includono l’80% del sistema di difesa aerea a corto e medio raggio SA-22, noto anche come Pantsir-S1, e il 90% del sistema di difesa aerea a medio raggio russo SA-17, noto anche come Buk.
Entrambi i sistemi di fabbricazione russa avevano rappresentato una sfida per l’IAF durante la cosiddetta campagna tra le campagne, o Mabam , come è nota con l’acronimo ebraico, volta a contrastare le consegne di armi iraniane a Hezbollah in Libano e i tentativi da parte di gruppi sostenuti dall’Iran di mettere piede nel paese, campagna iniziata nel 2013.
Ora in Siria restano solo pochi sistemi di difesa aerea, che non sono considerati una minaccia seria per l’IAF, che ha dichiarato di poter operare liberamente nei cieli del Paese.
“Il sistema di difesa aerea siriano è uno dei più potenti in Medio Oriente e il colpo infertogli rappresenta un risultato significativo per la superiorità dell’Aeronautica nella regione”, ha affermato l’IDF in una nota.
La nuova libertà di azione aerea offre all’IAF anche nuove opportunità in Siria, oltre a potenziali attacchi in Iran.
Se in passato l’IAF non avrebbe sorvolato direttamente Damasco quando effettuava attacchi su obiettivi legati all’Iran nella capitale, ora può farlo. L’IAF può anche inviare droni di sorveglianza sulla capitale siriana senza il timore che vengano abbattuti dagli avanzati sistemi di difesa aerea di fabbricazione russa.

• HEZBOLLAH CERCA DI IMPOSSESSARSI DELLE ARMI DI ASSAD
  Nonostante la caduta del regime di Assad, sostenuto dall’Iran, Israele ha affermato che avrebbe continuato a operare in Siria per garantire che le armi avanzate dell’esercito di Assad non raggiungessero Hezbollah in Libano o qualsiasi altro gruppo ostile a Israele nella regione.
La campagna di bombardamenti di domenica e lunedì, iniziata ore dopo la caduta del regime di Assad, ha colpito anche basi aeree siriane, depositi di armi, siti di produzione di armi e siti di armi chimiche, oltre ai sistemi di difesa aerea. Gli attacchi hanno distrutto centinaia di missili e sistemi correlati, 27 jet da combattimento, tra cui SU-22 e SU-24, 24 elicotteri e altro ancora. Gli attacchi della Marina israeliana hanno anche distrutto 15 navi militari siriane.
In totale, l’IAF ha utilizzato 1.800 munizioni negli attacchi, distruggendo quasi tutti i siti con “capacità militari strategiche” di cui Israele era a conoscenza.
L’IDF ha valutato di non aver distrutto tutte le capacità militari del regime di Assad e Hezbollah cercherà sicuramente di mettere le mani su tutte le armi avanzate finora risparmiate.
Secondo le valutazioni dell’IDF, le possibilità che armi provenienti dalla Siria raggiungano Hezbollah in Libano sono considerate elevate.
Per impedire che le armi raggiungano Hezbollah, l’IAF ha bombardato tutti i valichi di frontiera tra Siria e Libano, lasciandone solo uno, Masnaa, aperto al traffico pedonale. L’IAF ha affermato di monitorare costantemente i valichi per assicurarsi che Hezbollah non vi ritorni per prelevare armi.
Allo stesso tempo, l’esercito ritiene anche di aver inferto un duro colpo alle capacità di produzione di armi dell’intero asse guidato dall’Iran, in Libano, Siria e nello stesso Iran, con l’attacco di ottobre in risposta all’attacco missilistico balistico di Teheran.

(Rights Reporter, 13 dicembre 2024)

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Drusi del sud della Siria chiedono l'annessione del loro villaggio a Israele

La richiesta di annessione segna un radicale cambiamento di atteggiamento tra gli abitanti di Hader, un tempo fedeli al regime di Assad.

I video diffusi venerdì mattina mostrano un insolito raduno nel villaggio druso di Hader, nel sud della Siria, vicino al confine con Israele. Gli abitanti chiedono pubblicamente di essere legati allo Stato ebraico, esprimendo la loro riluttanza a vivere sotto la nuova autorità siriana.
  Queste richieste però non sono unanimi, secondo un attivista dell'opposizione citato da Ynet, e stanno causando preoccupazione tra gli altri gruppi della Siria meridionale.
  Hader presenta una situazione particolare: il villaggio è stato separato durante la Guerra dei Sei Giorni dagli altri quattro villaggi drusi che sono passati sotto il controllo israeliano - Majdal Shams, Restaurant, Buqaata e Ein Kiniya. Nel 2017, dopo un attacco mortale in cui sono state uccise nove persone, Tsahal si è impegnato pubblicamente a “proteggere i drusi e impedire l'occupazione del villaggio siriano di Hader”.
  Questa richiesta di annessione segna un cambiamento radicale di atteggiamento. Gli abitanti di Hader, in passato fedeli al regime di Assad, si erano opposti a Tsahal anche con la violenza, in particolare durante le operazioni condotte con Hezbollah. Gli incidenti del 2013 e del 2015 hanno provocato diverse vittime, tra cui quattro abitanti del villaggio uccisi mentre preparavano un attacco.
  Questa richiesta arriva sullo sfondo di una più ampia rivolta drusa. La scorsa settimana, la comunità ha preso il controllo di al-Sweida, una storica roccaforte drusa, dopo scontri con l'esercito siriano. Questa azione, approvata dal leader spirituale druso Sheikh Hekmat al-Hajri, ha portato al rilascio di prigionieri del regime.
  Il comandante della forza che ha preso al-Sweida, Sheikh Lui, ha sottolineato che questa azione contro il regime è stata coordinata con l'organizzazione ribelle Hayat Tahrir al-Sham, un attore chiave nella caduta di Damasco.

(i24, 13 dicembre 2024)

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Le comunità ebraiche: 'Lo sciopero non è una piazza per l'odio per Israele'

"Se da cittadini comprendiamo le ragioni di uno sciopero pur con tutti i disagi, da cittadini di questo paese ribadiamo che uno sciopero non è una piazza dalla quale si annunciano slogan di odio e distorsione".
Così Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in merito allo sciopero oggi. "Leggiamo attoniti tra le motivazioni dello sciopero indetto per oggi e avallate anche dal Tar quella di esprimersi "contro il crescente coinvolgimento dell'Italia nei teatri di guerra tanto ad est quanto nel sostegno al genocida governo israeliano", trasformando così anche questo momento di rivendicazione salariale/sindacale in uno spazio prettamente prestato alla strumentalizzazione politica e alla distorsione che semina odio", aggiunge la presidente Ucei.
"In altre parole - prosegue Di Segni - il concetto è questo: va di moda il binomio Israele-genocidio e attrae attenzione? Usiamolo anche come sindacati per qualsiasi pretesa. E non importa che in altre parti del Medioriente e del mondo si è visto l'orrore proprio in questi giorni. Continuiamo ad insistere non solo per stigmatizzare l'abuso divenuto abitudine dei diritti costituzionali e dei fondamentali strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori, per di più attraverso un'azienda municipalizzata, ma anche sul diritto di Israele di difendersi e favorire negoziati in corso sostenendoli anziché frenarli con slogan e sentenze cieche di quanto realmente avviene e le minacce presenti anche nelle nostre democrazie europee".

• LA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA: NON RIMANIAMO IN SILENZIO
  "Sgomento e sconcerto. Non ci sono altre parole per descrivere quello che proviamo leggendo che tra le motivazioni dello sciopero indetto dall'Unione sindacale di base c'è il sostegno dell'Italia al 'genocida governo israeliano'. Purtroppo, siamo di fronte all'emergere di un sentimento di odio verso Israele che prescinde da qualsiasi ragionevole contesto, e che non può avere altra spiegazione se non l'urgenza di esprimere - anche fuori luogo - un antisemitismo che cova da sempre. Che non è mai stato debellato. Il nostro compito è non restare in silenzio e denunciarlo. Sempre e comunque". Così Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, in merito allo sciopero di oggi.

(ANSA, 13 dicembre 2024)
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La comunità ebraica dovrebbe chiedersi se non avrebbe dovuto opporsi con maggiore convinzione e forza all'equiparazione tra guerra in Ucraina e guerra in Gaza, come guerre in cui entrambi vanno difesi in quanto parti dell'Occidente libero e buono contro il barbaro Oriente tirannico e cattivo. Adesso in piazza contro Israele ci sono Oriente (propal) e Occidente (sindacati) ben assortiti che parlano genericamente di "teatri di guerra tanto ad est quanto ad ovest". E ci sono i buoni che si mettono contro i cattivi, tra cui naturalmente emerge come sempre il governo israeliano, quello del genocidio. Viva l'Occidente! M.C.
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Rivelazione choc per legami con Hamas. La World Central Kitchen licenzia 62 dipendenti a Gaza

di Anna Coen

In questi giorni la World Central Kitchen (WCK), nota organizzazione umanitaria statunitense specializzata nell’assistenza alimentare durante le emergenze, è finita al centro di una controversia dopo aver licenziato 62 dipendenti nella Striscia di Gaza. La decisione segue le accuse di Israele secondo cui alcuni di questi lavoratori avrebbero legami con Hamas e con altre organizzazioni terroristiche che governano la zona. Secondo Reuters, alcuni di questi dipendenti avrebbero addirittura preso parte agli attentati del 7 ottobre costati la vita a oltre 1.200 persone in Israele.
In un messaggio al personale, WCK ha confermato di aver «apportato delle modifiche» dopo che Israele ha chiesto un’indagine sulle sue pratiche di assunzione a Gaza.
Tra i dipendenti licenziati spicca il caso di Kahad Azmi Kadih (noto anche come Ahed Azmi Qudeih), un palestinese accusato di aver preso parte agli attacchi di Nir Oz e successivamente ucciso in un raid aereo il 30 novembre. La WCK ha dichiarato di aver agito con i licenziamenti per motivi di sicurezza, ma ha sottolineato che Israele non ha fornito prove sufficienti per verificare pienamente le accuse e che non ha condiviso le sue informazioni di Intelligence: «Non conosciamo su cosa Israele si sia basata per denunciare questi individui», ha affermato l’organizzazione, aggiungendo che queste misure sono state adottate «per proteggere la nostra squadra e le nostre operazioni».
L’organizzazione ha sospeso temporaneamente le operazioni a Gaza, manifestando preoccupazione per il suo personale e per la neutralità delle sue attività.

• IL COINVOLGIMENTO DI UNRWA E ALTRE ORGANIZZAZIONI
  Questa vicenda come noto non è isolata. L’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, è stata oggetto di critiche pesanti in questi mesi di conflitto  per il presunto coinvolgimento di alcuni suoi dipendenti con Hamas e altre fazioni armate. Secondo quanto riportato da The Jewish Press a seguito di interviste e di un’analisi dei registri condivisi con il New York Times  dall’esercito israeliano e dal Ministero degli Esteri, Israele avrebbe scoperto che almeno 24 dipendenti dell’UNRWA erano legati ad attività militanti, utilizzando le infrastrutture dell’agenzia per scopi bellici, come il deposito di armi e il lancio di razzi contro obiettivi israeliani.

(Bet Magazine Mosaico, 13 dicembre 2024)

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Trecentocinquanta attacchi aerei in sole 48 ore: cosa sta facendo l’IDF in Siria e perché?

di Sofia Tranchina

Dopo 14 truci anni di cui l’orrore si può soltanto evocare e non comprendere, tra torture e massacri insensati, il popolo siriano si concede di esultare. Ma, in mezzo ai festeggiamenti, i nodi irrisolti, le paure, le rivalità tra etnogruppi e le insidie ancora incombono sul Paese.
Tra questi, i bombardamenti dell’IDF, che nel caos della rivoluzione ha trovato una finestra per condurre la più riuscita operazione di smantellamento delle forze siriane, senza temere di innescare una guerra diretta.
L’IDF stima di aver annientato tra il 70 e l’80% delle capacità militari del precedente regime, con l’obiettivo dichiarato di impedire che – a seguito del crollo delle infrastrutture statali e della ritirata dell’esercito siriano – armi sofisticate abbandonate cadessero in mani sbagliate: Hezbollah, jihadisti, o altri gruppi ostili ancor più pericolosi dei precedenti proprietari.
Con trecentocinquanta attacchi aerei, le IDF hanno colpito obiettivi strategici – basi aeree, depositi di armi, siti di produzione di armamenti e infrastrutture militari – a Damasco, Homs, Tartus, Palmira e Latakia, dove hanno distrutto le quindici navi che componevano la flotta della marina militare siriana.
Quanto è vero che Assad era nemico di Israele e permetteva all’Iran di armare Hezbollah, è anche vero che dei nuovi padroni di casa si sa troppo poco per poter lasciare la sicurezza al caso.
Nei quattordici anni di guerra civile Israele ha dato supporto umanitario, economico e bellico ai ribelli. Nel 2016 ha avviato l’iniziativa umanitaria Operazione Buon Vicino per fornire assistenza ai civili siriani colpiti dalla guerra e a costruire relazioni positive con la popolazione siriana. Sono stati inviati 360 tonnellate di cibo, distribuite 12.000 confezioni di latte artificiale e 1800 pacchi di pannolini, fornite otto automobili e sei muli per le operazioni locali. Sono state costruite due cliniche in Siria, nella zona di Quneitra, e una clinica presso l’avamposto 116 in Israele, e oltre tremila siriani feriti sono stati trattati in ospedali israeliani.
Israele ha anche fornito armi leggere ai gruppi ribelli siriani nel Golan, ufficialmente destinate all’autodifesa, per contrastare l’influenza di Iran e Hezbollah nella regione (lo ha confermato nel 2019 l’ex capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eisenkot).
Lo stesso crollo del regime di Assad è in gran parte stato favorito (oltre che dalla resistenza dell’Ucraina che ha distolto la Russia dalle sue aspirazioni mediorientali) dalla resistenza di Israele, che ha decimato le forze di Hezbollah e messo in crisi la mezzaluna sciita dell’Iran.
Ciononostante, Israele guarda con circospezione i nuovi vicini.
Il leader della coalizione al Fatah al Mubin – che in dieci giorni ha respinto il vecchio regime e “liberato” la Siria – è Abu Muhammad al Jolani (o al Golani, prendendo il soprannome dalle alture del Golan di cui è originario), jihadista salafita dal passato a dir poco controverso.
Alleato di Al Baghdadi nel 2011, al Jolani fondò Jabat al Nusra come costola siriana dell’ISIS e si unì alla guerra civile, non con le aspirazioni democratiche dei ribelli della prima ora, bensì per fondare uno Stato fondamentalista basato sulla sharìa. Come i talebani afghani, le sue milizie non disdegnavano decapitazioni sommarie, torture, e attacchi terroristici.
Nel 2013 al Jolani voltò faccia e giurò fedeltà ad Al Qaida, ma tra il 2016 e il 2017 – per salvarsi dai bombardamenti americani e russi e aprire le porte all’approvazione e ai finanziamenti internazionali – al Jolani abbandonò anche questa, si mise in proprio, cambiò due volte il nome della sua organizzazione (attualmente conosciuta come Hayat Tahrir al Sham) e abbandonò la jihad globale per concentrarsi su obiettivi nazionali. Iniziò a mostrarsi in pubblico in abiti civili, a parlare di moderazione e rispetto delle minoranze, e permise la riapertura delle chiese a Idlib, la regione sotto il suo potere.
Adesso che ha preso il controllo di tutto il Paese, al Jolani ha scelto come nuovo Primo Ministro Mohammad al Bashir, incarnazione di quello che pare essere un nuovo “islamismo moderato in barba e cravatta”, come dice l’inviato del Corriere della Sera Andrea Nicastro. È stata una combinazione di incomprensione e di comportamenti sbagliati ad aver travisato l’Islam, spiega al Bashir, ma i membri di Hayat Tahrir al Sham, «proprio perché islamici», garantiranno «i diritti di tutte le genti e tutti i popoli della Siria». Ma, quando Nicastro gli chiede se sarebbe disposto alla pace con Israele, Bashir ‘ringrazia e se ne va;.
«Questo è l’accampamento dei musulmani. Da qui, veniamo Gerusalemme: sii paziente, popolo di Gaza! Allah uAkbar!», gridano alcuni militanti di Hayat Tahrir al Sham in un video pubblicato da Althawra Network Media, verificato e tradotto da MemriTV. «Così come siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco, entreremo nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme».
Hamas ha espresso il suo sostegno e si è congratulata «con il fratello popolo siriano per il successo nel raggiungere le sue aspirazioni di libertà e giustizia», auspicando che la nuova Siria continui «il suo ruolo storico e fondamentale nel sostenere il popolo palestinese».
Dal canto suo Israele, pur mantenendosi – almeno a parole – aperta all’eventualità di trovare accordi con il nuovo governo siriano, si è preparata al peggior scenario. «Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime» e «non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria», ha dichiarato il premier israeliano Netanyahu, «ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario a garantire la nostra sicurezza. Se il nuovo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o consente il trasferimento di armi a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli faremo pagare un caro prezzo».
Le truppe dell’IDF si sono dunque schierate al confine tra Israele e Siria occupando anche la zona cuscinetto concordata nell’Accordo di Disimpegno del 1974.
A seguito della guerra del Kippur del 1973 – quando la Siria e l’Egitto attaccarono a sorpresa Israele, che si difese energicamente e vinse – l’Accordo di Disimpegno prevedeva il mantenimento di una Area di Separazione smilitarizzata di circa 235 chilometri quadrati, tra le linee alpha dal lato israeliano (dove è stato allestito il Camp Ziouani) e bravo dal lato siriano (con il Camp Faouar). Prevedeva inoltre che milleduecento soldati della Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite (UNDOF) effettuassero pattugliamenti regolari e monitorassero eventuali attività militari dai posti di osservazione.
Dopo la ritirata dell’esercito siriano, la situazione sulle strategiche alture del Golan è diventata critica. Da lì, infatti, è facile “dominare dall’alto” Israele; da lì, tra gli anni ’50 e ’60 la Siria lanciava numerosi attacchi contro civili israeliani in Galilea (come quelli che uccisero Ra’aya Goldschmidt al kibbutz Gadot e Kamus Ben Atiya al kibbutz Gonen).
Per prevenire infiltrazioni da parte di gruppi ribelli o jihadisti, che potrebbero aver acquisito tecnologie militari avanzate e droni di sorveglianza per spiare o attaccare Israele, l’IDF ha ritenuto necessario prendere il controllo del monte Hermon, rimasto vuoto.
«Non sappiamo chi ci contrasterà dalla parte siriana, che si tratti di Al Qaida, dell’ISIS, o di altri, quindi dobbiamo essere pronti a proteggere i nostri civili», ha spiegato il membro dell’intelligence Citrinowicz. Va stabilita una «zona di difesa sterile libera da armi e minacce terroristiche nella Siria meridionale», ha rincarato il ministro della Difesa Israel Katz.
Qatar, Turchia ed Egitto hanno accusato Israele di sfruttare e violare la sovranità della Siria, e le Nazioni Unite hanno accusato Israele di violare l’accordo di disimpegno. «L’accordo del 1974 è collassato», ha risposto Netanyahu, e in ogni caso si tratterebbe soltanto di una misura temporanea di sicurezza, chiarisce. Gli Stati Uniti ne comprendono la necessità, ma evitano di stabilire le tempistiche di quel “temporaneo” per adattarsi a una situazione in rapido svolgimento. Anche il Regno Unito ha riconosciuto le «legittime preoccupazioni per la sicurezza» di Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 12 dicembre 2024)

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500 anni della Comunità Ebraica di Roma moderna

di Claudio Procaccia

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Ettore Roesler Franz, Ghetto. Via Rua in fondo al Portico d’Ottavia (1878). Museo di Roma. Copia fotografica dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma

Era il 12 dicembre 1524, esattamente 500 anni fa: la bolla papale, emessa da Clemente VII, decretava la nascita dell’Universitas Hebraeorum Urbis, una sorta di federazione delle molte collettività ebraiche presenti sul territorio. In sostanza, era l’atto che segnava la nascita di una comunità con una struttura centralizzata. La presenza degli ebrei nella Città Eterna è attestata sin dal II secolo avanti l’era cristiana e nella prima età moderna nell’Urbe vi erano diverse compagini ebraiche, come si evince da una bolla del 1519, emessa durante il pontificato di Leone X nella quale erano annoverate ben 11 sinagoghe fra spagnole, francesi, tedesche e italiane.
  La creazione di una struttura comunitaria di tipo moderno si può ricondurre a più fattori, come la regolamentazione della rivalità tra le varie compagini ebraiche e le necessità associate alla formazione di uno Stato moderno, quello pontificio, che progressivamente stava accentrando le funzioni governative rispetto all’epoca medievale. Le diverse collettività ebraiche furono organizzate attraverso una sorta di statuto (i Capitoli) redatto da un banchiere toscano ed ebreo, Daniele da Pisa. Il nuovo organigramma prevedeva la Congrega dei Sessanta, una specie di organo legislativo formato da banchieri e mercanti. Questi nominavano i Fattori, che rappresentavano una sorta di esecutivo necessario per regolare la vita cultuale e materiale delle diverse collettività divise per sinagoghe di appartenenza. Pertanto, si stabilì un unico interlocutore per le autorità ecclesiastiche, quelle laiche e le altre comunità ebraiche.
  I primi anni della neonata comunità furono però contrassegnati da eventi drammatici: il sacco di Roma dei lanzichenecchi del 1527 e le crisi successive; l’istituzione del Sant’Uffizio (1542) e della Casa dei catecumeni (1543) per la conversione anche degli ebrei al cattolicesimo. Culmine di questo processo e di un rapporto sempre più difficile con la Chiesa di Roma furono il rogo dei libri del Talmud (1553) e l’istituzione del ghetto da parte di Paolo IV, il 14 luglio 1555. Segregata in spazi angusti e messa ai margini della società coeva, la comunità ebraica fu segnata da un periodo di declino economico, culturale e sociale. Ciononostante, la tenuta della vita ebraica si mantenne viva sia in termini materiali, sia identitari, grazie all’attività delle sinagoghe (le cosiddette “Cinque Scuole”) e alle confraternite, impegnate in opere di sostegno economico e spirituale. Dopo alcuni illusori momenti di libertà tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento legati alle guerre napoleoniche e alla Repubblica romana del 1849, la svolta si ebbe il 20 settembre 1870, con la breccia di Porta Pia, la fine dell’era del ghetto e dello Stato Pontificio, nonché l’inizio dell’emancipazione, che si inserì nell’impetuoso processo di crescita demografica, urbanistica, economica e politica che caratterizzò Roma nel periodo post risorgimentale. Questo periodo felice durò pochi decenni: le leggi razziali del 1938 impoverirono e marginalizzarono gli ebrei romani, facendo da preludio al periodo più drammatico, l’occupazione nazista della città (1943-1944), durante il quale maturarono le deportazioni di molti membri della compagine ebraica romana nei campi di sterminio e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. La ripresa nel dopoguerra fu tanto faticosa quanto significativa, grazie alla guida di rabbini come David Prato (1945–1951) ed Elio Toaff(1951–2001) e al sostegno delle istituzioni ebraiche romane, italiane e internazionali.
  L’arrivo degli ebrei dalla Libia, tra il 1967 e il 1970, favorì trasformazioni economiche e culturali rilevanti in seno alla collettività ebraica della capitale.
  Successivamente, un evento drammatico ha colpito la nostra comunità: l’attentato al Tempio Maggiore del 9 ottobre 1982, in cui morì un bambino di soli due anni, Stefano Gaj Taché, e furono ferite 42 persone.
  Tuttavia, dagli anni Sessanta del secolo scorso, fino agli inizi del nuovo millennio, vi sono stati cambiamenti in positivo dovuti alla forte crescita economica e demografica della compagine ebraica romana, ma anche importanti trasformazioni nelle relazioni ebraico-cristiane segnate, tra l’altro, dalla visita al Tempio Maggiore di Roma di ben tre pontefici (Giovanni Paolo II nel 1986, Benedetto XVI nel 2010 e Papa Francesco nel 2016).
  A cinquecento anni dalla nascita dalla moderna struttura comunitaria, e a distanza di oltre due millenni dai primi stanziamenti, gli ebrei rappresentano una componente della città di Roma produttiva e culturalmente vivace.

(Shalom, 12 dicembre 2024)

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Il Paraguay riapre l'ambasciata a Gerusalemme

Nel 2018 per cinque mesi il Paraguay trasferì la sua ambasciata a Gerusalemme. Un gesto simbolico, sulla scia della decisione dell’allora presidente Usa Donald Trump di insediare la rappresentanza diplomatica statunitense nella capitale israeliana. Poi però il paese sudamericano aveva fatto marcia indietro. Il presidente Abdo Benitez, cancellando l’iniziativa del suo predecessore Horacio Cartes, aveva riportato a Tel Aviv l’ambasciata. Nelle prossime ore si prospetta un nuovo trasferimento, forse l’ultimo. L’attuale guida del Paraguay, Santiago Peña, è arrivato in Israele per riaprire gli uffici diplomatici a Gerusalemme. «È un punto di svolta per il nostro paese», ha dichiarato Peña incontrando il presidente d’Israele Isaac Herzog. È un gesto, ha aggiunto, che rappresenta «l’amicizia tra i due paesi e la fede in un futuro luminoso». Herzog ha ringraziato e si è detto contento dell’inaugurazione domani dell’ambasciata «nella nostra città santa, la capitale eterna dello stato d’Israele e del popolo ebraico».
  Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha elogiato Peña. Durante una sessione speciale della Knesset, Netanyahu ha dichiarato: «La sua importante visita avviene nel mezzo di una guerra esistenziale che stiamo conducendo su sette fronti contro chi cerca di distruggerci». Il premier ha ricordato la lunga amicizia tra Paraguay e Israele, risalente al sostegno del Paraguay alla creazione dello stato ebraico nel 1947, e ha sottolineato come durante la Seconda guerra mondiale il rilascio di passaporti paraguaiani salvò dalla Shoah centinaia di ebrei, inclusa la famiglia di suo suocero. «Anche se migliaia di chilometri separano Israele dal Paraguay, le nostre due nazioni provano simpatia l’una per l’altra», ha affermato Netanyahu.
  Il Paraguay diventerà il sesto paese con un’ambasciata a Gerusalemme, insieme a Stati Uniti, Guatemala, Honduras, Kosovo e Papua Nuova Guinea.

(moked, 11 dicembre 2024)

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Premi Michelin USA, trionfo dei ristoranti con chef israeliani

di Michelle Zarfati

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La cucina israeliana è stata tra i protagonisti della cerimonia di premiazione Michelin per i migliori ristoranti degli Stati Uniti, tenutasi ieri sera a New York. Ancora una volta, è stata data una stella al ristorante Shmoné che continua a brillare, grazie ai suoi chef Eyal Shani e Nadav Greenberg. Una stella confermata e un posto unico nella prestigiosa lista Michelin in cui è entrato l’anno scorso. In tipico stile israeliano, i premiati sono arrivati in ritardo per ricevere l’ambita stella, che significa “vera cucina di alta qualità”.
  “Questo spazio piccolo ed elegante colpisce ben oltre il suo peso con l’abbagliante cucina neo-levantina. Molte cucine vantano di utilizzare ingredienti freschi, ma Shmoné porta questa filosofia a un altro livello, creando un nuovo menù ogni giorno (anche se alcuni elementi rimangono)” ha descritto la guida Michelin la cucina di Shmoné. “La cucina si basa sulla griglia fino al dessert. Un luogo in cui si possono trovare fichi grigliati sopra la crema chantilly. I piatti non si ripetono ma semplicemente certamente memorabili – continua la descrizione. I sapori sono composti in modo impressionante e rendono il posto sorprendente nella sua umiltà. L’interno del locale ha un’atmosfera unica: puoi prendere un posto al bancone per ammirare il bar e la cucina a vista”.
  Un altro rappresentante della cucina israeliana negli States è Galit a Chicago, che ha ricevuto anch’esso una stella Michelin. Lo chef Zachary Engel, porta nel suo locale quello che la guida definisce un “marchio personale della moderna cucina mediorientale”. “Il suo prezzo fisso consente ai commensali di fare le proprie selezioni tra una vasta gamma di opzioni. Un primo piatto generoso dà il via alle danze: hummus cremoso con petto e salatim (creme spalmabili e sottaceti) accompagnato da pita appena cotta dalla fiamma”, si legge nella guida. “Anche i piatti must come i falafel croccanti e croccanti con labneh di mango offrono un sapore sorprendente. L’impressionante intenzionalità del team si estende al suo programma di bevande, poiché i vini esoterici provenienti da Armenia, Libano, e Israele raccontano le loro storie e creando bellissimi abbinamenti” prosegue la recensione della guida.
  Diversi rappresentanti israeliani a New York sono stati premiati con il Bib Gourmand Award, che non assegna stelle ma riconosce “una cucina di buona qualità e di buon valore”, come “Miss Ada” dello chef Tomer Blechman. Tra loro anche Tanoreen, gestito da Rawia Bishara, sorella dell’ex deputato Azmi Bishara, fuggito in Qatar dopo le accuse di spionaggio. Ma anche il ristorante fusion Shalom Japan, che mescola influenze ebraiche e giapponesi, e locali classici come Katz’s Delicatessen e Russ & Daughters. Situato a Washington, D.C., anche Sababa ha ricevuto riconoscimenti. “Sababa”, che in gergo ebraico significa ‘figo’, è un ristorante cool di nome e di fatto. “Condividendo un muro e collegato da una splendida barra di zinco a Bindaas della porta accanto, questa ode al Medio Oriente è inondata di piastrelle mediterranee. Ma nonostante gli scavi alla moda, qui è tutta una questione di cibo” commenta la guida. “Il menu raffinato offre insalate israeliane, salse e kebab, ma i piccoli piatti sono il suo cuore e la sua anima. Si inizia infatti con le salatim, un antipasto di cinque insalate. L’elenco potrebbe continuare, ma una cosa da non saltare mai è l’hummus. È molto più del solito che è persino elencato come specialità del giorno. In linea con lo spirito c’è la loro carta dei vini incentrata su Israele e Grecia”.
  Ed infine c’è l’Ash’kara di Denver, guidato dallo chef Reggie Dotson, riconosciuto dalla lista Michelin. “In questo quartiere vivacemente ospitale, lo chef Reggie Dotson offre un’esplorazione della cucina israeliana contemporanea, attingendo alle influenze del Mediterraneo, del Nord Africa e del Medio Oriente. Il menu si apre con mini-antipasti, delle versioni di prim’ordine di prodotti familiari come hummus, babaganoush e falafel, abbinati a un’eccellente pita integrale cotta a legna a base di grano antico. La cena offre piatti più sostanziosi, come le tagine salate con melanzane o filetto di agnello – si legge nella recensione. La cucina è a base di verdure e si preoccupa di soddisfare tutte le restrizioni dietetiche (c’è anche un’opzione pita senza glutine), ma qui non ci sono espedienti, solo piatti premurosi e saporiti realizzati con ingredienti di alta qualità e un po’ di stile in più” conclude la recensione.

(Shalom, 12 dicembre 2024)

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Pure Forza Italia è per la vessazione eterna

di Carlo Tarallo 

Un Paese senza speranza (con la «s» minuscola): in Italia la politica arriva a dividersi pure sulla cancellazione di una multa che quasi nessuno ha pagato, che nessuno dei «morosi» avrebbe mai più pagato, sospesa già più volte e che appartiene a un'epoca fortunatamente chiusa, quella della pandemia da Covid. 
  Parliamo della famigerata contravvenzione da 100 euro che il governo Draghi, nel gennaio 2022, aveva previsto per chi avesse disatteso l'obbligo di vaccinazione anti Covid, obbligo che riguardava gli ultracinquantenni e alcune categorie di lavoratori, tra i quali medici e insegnanti. Queste multe sono state poi sospese dal governo guidato da Giorgia Meloni, e ora, con il decreto Milleproproghe, definitivamente annullate. 
  Due milioni circa sono state le multe comminate, pochissime quelle pagate (e la vera ingiustizia è non rimborsare i valorosi contribuenti che hanno versato i 100 euro) e intorno a questa decisione del governo si infiamma una polemica politica meritevole, a nostro parere, di argomenti di ben maggiore importanza per gli italiani. 
  Si spacca addirittura la maggioranza, con Forza Italia che va all'assalto: «Quello della vaccinazione», scrive sui social il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulé, «era un dovere morale e civico durante la pandemia, sottrarsi a quel dovere avrebbe significato mettere in pericolo la salute altrui. È come passare col semaforo rosso: non si mette a rischio solo la propria vita ma anche quella degli altri. Siccome non c'è nessuna evidenza», aggiunge Mulé, «che dimostri che i vaccini hanno fatto male, anzi, hanno salvato questo paese e il mondo intero dalla pandemia, non vedo perché adesso si debba fare un atto che va nella direzione di asseverare una condotta che è andata contro quello che era un dovere morale e civico. Si può agire in Parlamento, certamente io non voterò l'amnistia delle multe». 
  Sulla stessa lunghezza d'onda la vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli, anche lei esponente di Fi: «Trovo assurda», sottolinea la Ronzulli, «la decisione del governo di annullare le multe per coloro che non si erano sottoposti alla vaccinazione Covid. Ritengo doveroso sollevare interrogativi importanti sulla responsabilità collettiva e sul valore della prevenzione. E non lo dico in una chiave etica, morale, alcuni dicono persecutoria, di chi non ha dato seguito ad una legge dello Stato. L'obbligo vaccinale», aggiunge la Ronzulli, «non era una misura coercitiva, punitiva, come qualcuno la descrive. Rappresentava invece il dovere per uno Stato serio di proteggere l'intera popolazione, di metterla in sicurezza da una malattia che era potenzialmente letale. L'assenza di una adeguata copertura vaccinale avrebbe potuto avere conseguenze devastanti». Maurizio Gasparri, capogruppo azzurro in Senato, ha detto che fu «giusto multare» i renitenti, ma ha precisato che il governo di centrodestra resta «favorevolissimo» all'uso dei vaccini. 
  Per il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Galeazzo Bignami, «l'obbligo vaccinale ha rappresentato una sconfitta per lo Stato, perché fu un'imposizione con cui si obbligava qualcuno a un trattamento sanitario. Lo Stato aveva il compito di convincere spiegando e non di obbligare. Con questa scelta», precisa Bignami, «abbiamo deciso di chiudere una vicenda che potrebbe avere più ombre che luci, senza considerare che i costi delle contravvenzioni rischiavano di rendere non economica l'esazione». Anche Maurizio Lupi, di Noi moderati, ne ha fatto una questione pratica:« Trattandosi di una cifra esigua, si rischia di spendere, per incassarla, più soldi di quanti ne entrerebbero». E invece è una questione di principio . 
  «Era una misura che avevamo già annunciato», spiega all'Adnkronos il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, «un impegno mantenuto. Parliamo anche di aspetti banalmente burocratici: creare del contenzioso per 100 euro significa arrecare un danno alle casse dello Stato, o comunque una burocratizzazione enorme in un'Italia che non ha bisogno di altra burocrazia». 
  Fornisce una spiegazione più articolata la deputata Alice Buonguerrieri, capogruppo di Fdi in Commissione Covid: «E’ ormai chiaro che i vaccini imposti surrettiziamente alla popolazione non impedivano il contagio, dunque manca il presupposto fondante obbligo e sanzioni». 
  Italia viva cerca di incunearsi nelle divisioni del centrodestra: « Se per Forza Italia la cancellazione delle multe ai no vax è uno schiaffo alle leggi dello Stato e un pericolo per la popolazione», sottolinea il capogruppo renziano alla Camera, Davide Faraone, «la soluzione è semplice: quando si tratterà di votare, Fi si comporti di conseguenza. Il partito di Tajani ha finalmente l'occasione per dimostrare che, al contrario di quanto accaduto sullo ius culturae o le carceri, non si limita sempre e solo alle chiacchiere ma fa quel che dice». Contrarissimi al condono anche Pd e M5s.

(La Verità, 12 dicembre 2024)


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Gli invasati delle multe covid

Il vaccino non impediva i contagi né la trasmissione del virus. L’obbligo era illegittimo e antiscientifico. Abolendo le sanzioni si è sanato un abuso di potere, un vulnus alla Costituzione.

di Maurizio Belpietro

Non è una questione sanitaria e nemmeno di giustizia, ma solo di ideologia. Anzi, di fondamentalismo ideologico. Roberto Burioni, Licia Ronzulli, Maria Elena Boschi, Roberto Speranza e tutti i virologi da salotto che abbiamo conosciuto durante la pandemia non si scagliano contro la decisione di annullare le multe a chi non si è vaccinato per tutelare la salute degli italiani, e neppure per onorare la memoria delle vitti me del Covid.
  Vogliono solo punire quanti non hanno offerto il braccio alla patria (ma forse sarebbe meglio dire ai fanatici dell'iniezione, visto il loro comportamento) per poter dire di averla avuta vinta. Non c'è alcuna motivazione scientifica nel continuare a dire che obbligare le persone a vaccinarsi fosse giusto. E non c'è alcuna spiegazione giuridica che consenta di insistere a sostenere che costringere le persone a sottoporsi all'immunizzazione minacciando la perdita del lavoro e dello stipendio fosse legittimo. In nessuna democrazia al mondo si è arrivati al punto di vessare i cittadini limitando diritti fondamentali come quello di circolare liberamente, prendere i mezzi pubblici, usufruire dei servizi di ristorazione e avere diritto al proprio lavoro. Ciò che è stato fatto negli anni del Covid è un palese abuso di potere e se allora politici, magistrati e alti papaveri delle istituzioni si sono inchinati al volere di un pugno di incompetenti e invasati, non significa che oggi, a distanza di anni, quando lentamente emerge la verità, si debba continuare nell'abuso.
  Non era vero, e ora lo ammettono anche i sassi, che vaccinarsi equivaleva a essere sicuri di non contagiarsi e non contagiare, come ebbe a dire l'allora presidente del Consiglio Mario Draghi, introducendo il green pass, ovvero la tessera annonaria per poter usufruire dei diritti sanciti dalla Costituzione. Essere vaccinati non era una garanzia di nulla se non, dopo l'istituzione di un lasciapassare legato al vaccino, di avere garantiti quei diritti che secondo la nostra Carta non possono essere negati ad alcun cittadino. La nostra Repubblica è fondata sul lavoro e assicura a tutti i cittadini pari dignità sociale, specificando che tutti sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di condizioni personali e sociali ed è compito dello Stato rimuovere ogni ostacolo che limiti la libertà e l'eguaglianza dei cittadini. Durante la pandemia invece, non soltanto la Repubblica non ha rimosso gli ostacoli che impedivano a una parte degli italiani di poter lavorare, avere pari dignità sociale, esercitare i propri diritti. Ma addirittura, quegli ostacoli sono stati posti dai governi - quello di Giuseppe Conte prima, di Mario Draghi dopo - con il dichiarato intento di dividere in due categorie gli italiani vaccinati e i non vaccinati. Contravvenendo così al dettato costituzionale, che vuole i cittadini uguali davanti alla legge, senza discriminazione alcuna.
  Lo so che la Corte costituzionale, a cui alcuni erano ricorsi, ha sostenuto la legittimità delle decisioni dei governi coinvolti. E che avreste voluto che facesse una corte nominata dalla politica e dalla sinistra se non assecondare le decisioni di esecutivi di sinistra e benedetti dai poteri forti? C'era da aspettarsi un pronunciamento in favore della violazione dei diritti e a tutela dell'establishment. A essere obbligati a vaccinarsi non erano i migranti, i quali hanno potuto continuare a sbarcare indisturbati, ma gli italiani e per loro non era prevista alcuna esenzione dai diktat di Palazzo Chigi.
  Che l'obbligo vaccinale fosse antiscientifico e illegittimo ormai è noto anche a chi si è sottoposto a prima, seconda, terza e quarta dose. E infatti ormai solo alcuni talebani in camice bianco insistono sull'urgenza di iniettare vaccini a chiunque (anche se alla comparsa della prima influenza in tanti ci provano). Però gli effetti collaterali del green pass ancora si sentono, prova ne sia che l'annullamento delle multe nei confronti di chi non aveva accettato di chinare il capo di fronte agli abusi ha scatenato gli haters dell'iniezione. Non so che cosa vorrebbero che si facesse Burioni, Boschi, Speranza e Ronzulli: forse privare del diritto di voto i non vaccinati, in modo da poterli escludere dal consesso civile? Può darsi: togliendo i diritti elettorali a milioni di italiani probabilmente pensano di poter vincere le elezioni. In tal caso farebbero meglio a farsi eleggere in qualche altro Paese, dove non c'è una Costituzione in cui, all'articolo 1, si sostiene che il popolo è sovrano. Se vogliono cancellare i diritti a chi non la pensa come loro, fondino la repubblica di Burioni, Boschi, Speranza o Ronzulli e vedremo quanti italiani vorranno farne parte. Così ci sarà da ridere.
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Quei 100 euro imposti per legge a sostegno della menzogna sono una cosa seria. Non per tutti, certamente, perché in fondo si tratta “soltanto” di una questione di coscienza. E per molti, come dice Trilussa, “in fatto di coscienza, male che vada se ne po’ fa senza”. M.C.

(La Verità, 12 dicembre 2024)

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Dopo Damasco si sbriciolerà anche Teheran?

Il fattore decisivo dell'uscita di scena di Assad è stata la crisi politico-militare dell'Iran dopo la sconfitta quasi totale di Hamas e il ridimensionamento di Hezbollah.

di Lodovico Festa

Sono sorprendenti la velocità e la facilità con cui un gruppo di ribelli ex Isis ha liquidato una dittatura degli Assad iniziata nel 1971 e durata dunque be 53 anni. Fattore decisivo di questa “velocità” è stata la crisi verticale politico-militare dell’Iran, che con gli Hezbollah e i rifornimenti via Iraq, costituiva il vero sostegno del potere di Bashar al Assad, ben più importante di quello dei russi, quest’ultimo comunque depotenziato dalla guerra in Ucraina.
Spesso troppo attenti alla cronaca colorata dei fatti invece che all’analisi, si è sottovaluto che cosa abbia significato per Teheran la sconfitta quasi totale di Hamas, il duro ridimensionamento degli Hezbollah, e non si è riflettuto adeguatamente sulla prova che l’aviazione israeliana ha dato (cento apparecchi, nessuno abbattuto) di dominare i cieli di Teheran e paraggi: una dimostrazione che ha gettato nel panico gli ayatollah e i loro alleati, a partire dalle milizie filoiraniane irakene che, pur sollecitate, non si sono mosse in soccorso del regime siriano.
E adesso che cosa accadrà? Non è irragionevole essere preoccupati di un regime di ex Isis insediato a Damasco. Però per inquadrare la situazione attuale non vanno sottovalutati alcuni altri fattori: c’è innanzi tutto il peso che Ankara gioca nella partita. E con tutte le sue spregiudicatezze Recep Erdogan resta pur sempre nella Nato e sebbene si muova su tutti i fronti (è entrato anche nei Brics) alla fine le sue velleità di restaurazione di un’egemonia ottomana sul mondo islamico si intrecciano a precisi interessi economici (a partire dai gasdotti). E queste implicazioni “economiche” ne condizionano i comportamenti.
Altro elemento da tener ben presente sarà quello delle reazioni di sauditi preoccupati dall’attivismo turco nel mondo musulmano e dal disordine che questo provoca. Con Teheran, Riyad aveva trovato (soprattutto dopo le batoste inferte da Israele al regime degli ayatollah) una qualche intesa per cercare di convivere senza troppi conflitti, adesso dovrà rimettere in moto la sua iniziativa diplomatica di fronte ai neo rischi neo ottomani. Infine va considerato quel che succederà in un Iran sempre più umiliato.
Due piccoli avvenimenti ci possono aiutare a capire quel che potrebbe avvenire. Il premio Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani incarcerata nel 2016, è stata rilasciata per tre settimane dalla galera per motivi medici. Ahu Daryaei, giovane studentessa,  arrestata nei giorni scorsi per aver camminato in biancheria intima all’interno dell’Università Islamica Azad protestando contro soprusi che le Guardie rivoluzionarie avevano commesso contro di lei, è stata rimandata in famiglia per curarsi.
È evidente come solo qualche tempo fa la Mohammadi sarebbe stata lasciata morire nella sua cella e la Daryaei fustigata su una pubblica piazza. Questi piccoli ma significativi avvenimenti ci parlano del panico diffuso in un regime che da 45 anni opprime il popolo iraniano. Oggi a Damasco, domani a Teheran?

(Startmag, 11 dicembre 2024)

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Le mosse strategiche di Israele dopo il crollo di Assad

di Luca Spizzichino

Il collasso improvviso del regime di Bashar al-Assad, avvenuto in seguito a una rapida offensiva delle forze ribelli, ha scatenato una serie di operazioni strategiche da parte di Israele. L’obiettivo è stato duplice: garantire la sicurezza nazionale e impedire che tecnologie militari avanzate e armamenti siriani cadessero nelle mani di gruppi jihadisti o altre forze ostili.

• DISTRUZIONE DI INFRASTRUTTURE MILITARI
  Nei giorni successivi al collasso del regime, l’aviazione israeliana ha intensificato le operazioni contro obiettivi militari in Siria, conducendo centinaia di raid aerei. Tra i bersagli principali figurano basi militari, aeroporti e centri di ricerca collegati allo sviluppo di armi avanzate, incluso un importante impianto nella zona di Barzeh, a Damasco, già colpito da attacchi occidentali nel 2018 per la sua presunta connessione al programma chimico siriano. Questi raid hanno portato alla distruzione di decine di elicotteri, jet da combattimento e risorse dell’esercito siriano, azzerando di fatto le capacità militari residue. La marina israeliana, dal canto suo, ha eliminato una significativa porzione della flotta navale siriana, compresi missili antinave, attraverso attacchi mirati nelle località costiere di Latakia e Minet el-Beida.

• IL CONTROLLO DEL MONTE HERMON
  Il Monte Hermon, con un’altitudine di 2.814 metri, rappresenta uno dei punti strategici più importanti della regione. Situato al confine tra Israele, Siria e Libano, offre una posizione privilegiata per il monitoraggio e l’intercettazione di segnali nemici, fungendo anche da barriera naturale contro potenziali incursioni dal nord. Nelle ultime ore, l’unità d’élite Shaldag dell’aeronautica israeliana ha raggiunto il picco del monte senza incontrare resistenza, consolidando il controllo israeliano sull’area. Questo intervento permette a Israele di rafforzare la propria capacità di sorveglianza e difesa, trasformando il Monte Hermon in una postazione avanzata di monitoraggio e intelligence.

• ESTENSIONE DELLA BUFFER ZONE NEL GOLAN
  Con l’intento di prevenire incursioni ostili e proteggere il confine settentrionale, Israele ha inoltre esteso il controllo sulla zona cuscinetto del Golan creata nel 1974. Le forze di terra israeliane si sono temporaneamente posizionate in quest’area strategica, stabilendo presidi difensivi per monitorare i movimenti lungo il confine. Il governo israeliano ha sottolineato che tale presenza è “limitata e temporanea” e finalizzata esclusivamente a garantire la sicurezza nazionale.

• IL FUTURO DELLE ALTURE DEL GOLAN
  La situazione nelle alture del Golan rimane una questione centrale nella strategia di Israele. Il governo, guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha riaffermato che il Golan è e rimarrà parte integrante del territorio israeliano, una posizione riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti nel 2019. Israele, anticipando le possibili minacce, ha adottato misure decisive per consolidare la propria sicurezza e preservare l’equilibrio strategico, rafforzando al contempo il controllo su aree chiave come il Monte Hermon e le alture del Golan, per evitare che diventino un punto di lancio per attacchi da parte di milizie ostili.

(Shalom, 10 dicembre 2024)
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Ecco cosa sta facendo Israele in Siria

A seguito di un’importante campagna di bombardamenti di 48 ore in Siria, le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato martedì di aver distrutto la maggior parte delle capacità militari strategiche dell’ex regime di Bashar al-Assad, nel tentativo di impedire che armi avanzate cadano nelle mani di elementi ostili.
In un comunicato, l’IDF ha affermato che l’aviazione e la marina hanno effettuato oltre 350 attacchi contro “obiettivi strategici” in Siria dalla caduta del regime di Assad nel fine settimana, eliminando “la maggior parte delle scorte di armi strategiche in Siria”.
L’esercito ha stimato di aver distrutto il 70-80% delle capacità militari strategiche dell’ex regime di Assad.
L’operazione è stata soprannominata dall’esercito “Freccia di Bashan”, dal nome biblico delle alture del Golan e della regione meridionale della Siria.
L’IDF ha pubblicato i filmati della campagna, durante la quale sono stati colpiti oltre 320 obiettivi in tutta la Siria.
Gli attacchi sono iniziati sabato scorso, eliminando le difese aeree siriane per dare più libertà all’aviazione israeliana.
Ondate dopo ondate di attacchi aerei condotti da jet da combattimento e droni dell’IAF hanno poi colpito basi aeree siriane, depositi di armi e siti di produzione di armi a Damasco, Homs, Tartus, Latakia e Palmira, secondo i militari.
L’esercito ha dichiarato che gli attacchi aerei hanno distrutto molti proiettili a lungo raggio, missili Scud, missili da crociera, missili coast-to-sea, missili di difesa aerea, jet da combattimento, elicotteri, radar, carri armati, hangar e altro ancora.
L’IAF ha anche preso di mira diversi siti di armi chimiche in Siria durante le ondate di attacchi, hanno dichiarato i funzionari israeliani.
Nel frattempo, lunedì sera, le navi missilistiche della Marina israeliana hanno distrutto 15 imbarcazioni appartenenti all’ex regime nella baia di Minet el-Beida e nel porto di Latakia, sulla costa siriana, hanno dichiarato i militari.
Il regime di Assad, caduto domenica dopo un’offensiva lampo delle forze ribelli, era un alleato del regime iraniano e faceva parte del suo cosiddetto Asse della Resistenza contro Israele.
Per molti anni, la Siria è stata utilizzata come via di passaggio per le armi iraniane, dirette ai gruppi terroristici, tra cui Hezbollah in Libano, con cui Israele ha raggiunto un traballante cessate il fuoco il mese scorso.
Israele temeva che, in seguito al crollo del regime di Assad, le armi dell’ex esercito siriano potessero cadere nelle mani di forze ostili nel Paese, oltre che degli Hezbollah sostenuti dall’Iran in Libano.
In un messaggio al nuovo regime che sta prendendo forma in Siria, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato martedì che Israele cercherà di stabilire relazioni, ma non esiterà ad attaccare se minaccerà lo Stato ebraico.
“Non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria”, ha dichiarato in una dichiarazione video, ‘ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario per garantire la nostra sicurezza’.
Per questo, ha detto, l’aviazione israeliana sta bombardando le “capacità militari strategiche” lasciate dall’esercito siriano del deposto regime di Assad, “in modo che non cadano nelle mani dei jihadisti”.
“Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime siriano”, ha proseguito. “Ma se questo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o permette il trasferimento di armi iraniane o di qualsiasi altra arma a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli chiederemo un prezzo pesante”.
“Ciò che è accaduto al regime precedente accadrà anche a questo regime”, ha avvertito.
Il Ministro della Difesa Israel Katz ha anche lanciato un avvertimento ai ribelli siriani, affermando che qualsiasi entità che rappresenti una minaccia per Israele sarà presa di mira senza sosta.
“L’IDF ha agito negli ultimi giorni per attaccare e distruggere le capacità strategiche che minacciano lo Stato di Israele”, ha dichiarato il ministro, durante una visita alla base navale di Haifa, nel corso della quale è stato informato degli attacchi della Marina contro le strutture navali del regime di Assad.
Ha avvertito i ribelli che “chiunque segua le orme di Assad farà la stessa fine di Assad. Non permetteremo a un’entità terroristica estremista islamica di agire contro Israele da oltre i suoi confini… faremo di tutto per eliminare la minaccia”.
Katz ha ribadito che l’IDF sta creando un’area smilitarizzata e ha detto di aver ordinato la creazione di una “zona difensiva sterile” nel sud della Siria, senza una presenza israeliana permanente, per prevenire qualsiasi minaccia terroristica a Israele.
Israele ha di nuovo smentito le notizie secondo cui le sue forze di terra si sarebbero spinte oltre una zona cuscinetto nelle alture del Golan, che l’IDF ha conquistato domenica, sottolineando che il suo controllo dell’area è una misura temporanea e difensiva.
“Le notizie che circolano su alcuni media e che affermano che le truppe dell’IDF stanno avanzando o si stanno avvicinando a Damasco sono completamente errate”, ha scritto su X il col. Avichay Adraee, portavoce dell’IDF in lingua araba.
“Le truppe dell’IDF sono presenti all’interno della zona cuscinetto e in posizioni difensive vicino al confine per proteggere la frontiera israeliana”, ha aggiunto.
Israele ha dichiarato che i suoi attacchi aerei continueranno per giorni, ma ha detto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che non sta intervenendo nel conflitto siriano. Ha dichiarato di aver preso “misure limitate e temporanee” solo per proteggere la propria sicurezza.

(Rights Reporter, 11 dicembre 2024)

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I ribelli siriani attaccheranno Israele?

L'Occidente è impegnato a dare una nuova veste ai vecchi terroristi dell'ISIS e di Al-Qaeda, ma i loro sostenitori stanno chiarendo che non hanno intenzione di fermarsi a Damasco.

di Ryan Jones

Abu Mohammed al-Julani, il leader dei ribelli che hanno conquistato la Siria, è impegnato a trasformare la sua immagine in quella di un “moderato” con l'aiuto dei media mainstream occidentali. Tuttavia, alcuni dei suoi combattenti subordinati (direttamente o indirettamente) stanno rivelando le loro vere intenzioni a lungo termine attraverso minacce registrate contro Israele e gli ebrei.
In una dichiarazione rilasciata all'emittente pubblica israeliana Kan 11, un leader dei ribelli siriani ha affermato che Israele sta “iniziando male” con la sua massiccia campagna aerea e l'incursione nel sud della Siria.
“Israele sta rovinando la gioia dei siriani invadendo il loro territorio”, ha sottolineato il portavoce.
In un video diffuso da un gruppo di ribelli della Grande Moschea di Damasco, essi promettono di continuare a combattere e conquistare Israele.
Nel video dichiarano che il loro prossimo obiettivo è Gerusalemme e Al-Aqsa, per poi passare a Gaza. “Siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco e abbiamo gridato Allahu Akbar, e con l'aiuto di Allah entreremo anche nella moschea di Al-Aqsa e anche nella moschea del Profeta Maometto (ad Al-Madinah, in Arabia Saudita) e nella Kaaba alla Mecca”.
Un altro video pubblicato sui social media mostra i ribelli che festeggiano al mercato di Al-Hamdia a Damasco e si impegnano a dichiarare la Siria un califfato islamico e a giurare fedeltà a un califfo musulmano per “combattere gli ebrei”.
In un'altra clip, i combattenti siriani rispondono al Capo di Stato Maggiore israeliano, il generale Herzi Levi, che aveva precedentemente rilasciato una dichiarazione sulle operazioni in corso delle Forze di Difesa israeliane in Siria. “Noi diciamo al Capo di Stato Maggiore israeliano: 'Dove stiamo andando? A Gerusalemme!“ Stiamo venendo a prendere voi ebrei”.
È proprio per questo motivo che questa settimana Israele ha condotto un'operazione militare senza precedenti per distruggere tutte le rimanenti armi pesanti detenute dalle forze siriane. Non è ancora chiaro quale sarà la prossima mossa delle orde jihadiste che hanno conquistato la Siria. Se dovessero tentare di affrontare Israele, sarebbe meglio che fossero armati il meno possibile.
Le Forze di Difesa israeliane hanno dichiarato che l'operazione era volta a impedire che le armi dell'esercito siriano “cadessero nelle mani dei terroristi”.
A tal fine, l'esercito israeliano ha annunciato i seguenti dettagli delle sue attività in Siria per un periodo di 48 ore:
Operazioni navali: Lunedì sera, le navi missilistiche della marina israeliana hanno attaccato contemporaneamente due strutture navali siriane: il porto di Al-Bayda e il porto di Latakia, dove erano attraccate 15 navi della marina siriana.
Obiettivi: Sono state distrutte decine di missili mare-mare con una gittata compresa tra 80 e 190 chilometri. Ogni missile trasportava una carica esplosiva significativa, che rappresentava una minaccia per le navi civili e militari della regione.
Ore di volo: Gli aerei con equipaggio hanno sorvolato per centinaia di ore lo spazio aereo siriano e insieme ai caccia hanno effettuato oltre 350 attacchi aerei.
Obiettivi attaccati: Sono stati attaccati diversi obiettivi, tra cui batterie di difesa aerea, campi di aviazione dell'Aeronautica militare siriana e decine di siti di produzione di armi a Damasco, Homs, Tartus, Latakia e Palmira.
Scorte neutralizzate: Sono state neutralizzate numerose armi strategiche, tra cui missili Scud, missili da crociera, missili terra-mare, superficie-aria e superficie-superficie, veicoli aerei senza pilota, jet da combattimento, elicotteri d'attacco, installazioni radar, carri armati, hangar e altro ancora.

(Israel Heute, 11 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Riccardo Calimani: Gesù con la kefiah sciocchezza antistorica

di Adam Smulevich

Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione di Gesù ebreo, uno dei libri di maggior successo di Riccardo Calimani. «Chi si ricorda più del perché il capodanno arrivi otto giorni dopo Natale? Quanti ricordano, nel momento in cui brindano all’anno nuovo, che festeggiano la circoncisione di un bambino ebreo? Conoscere le origini di questa storia può, forse, avvicinare uomini che credono di essere molto diversi», premetteva lo studioso dell’ebraismo italiano all’inizio della sua dotta ricostruzione per calare «nel reale contesto storico» la vita di Gesù.
  Anche per questo Calimani si dice amareggiato per la “palestinizzazione” del presepe vaticano omaggiato da papa Francesco venerdì scorso, con al centro della scena il bambin Gesù avvolto da una kefiah. «Una vera sciocchezza. Lo dico da pacifista assoluto, che soffre senza distinzioni per tutte le popolazioni di quell’area. La guerra è lunga e logorante e sinceramente non capisco dove vada a parare. Ma prendere una posizione di quel tipo, farlo in quel modo, mina la comprensione dei fatti», sostiene Calimani, già presidente del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara e della Comunità ebraica di Venezia. Lo studioso si è dato una spiegazione per l’accaduto: «Il fatto è che gli ebrei sono “perturbanti”, ancor di più in una situazione di conflitto estenuante come questa. Ma non bisogna perdere di vista la realtà: Gesù è stato un ebreo osservante e come tale visse tutta la sua esistenza dalla nascita fino alla morte. Nel saggio mi sembra di averlo dimostrato in modo esauriente».
  Il libro di Calimani ricevette all’epoca «un positivo riscontro nell’opinione pubblica», sottolinea l’autore. Ma ci fu anche chi in ambito ecclesiastico non gradì, «come ad esempio il cardinal Gianfranco Ravasi, che scrisse una stroncatura: anni dopo comunque ci siamo rincontrati ed è stato più affettuoso rispetto ad allora; tra l’altro ha letto con attenzione e citato un mio successivo lavoro su Paolo di Tarso». Calimani ricorda che all’uscita del libro ci fu «anche qualche diffidenza nel mondo ebraico e ancora oggi in quest’ambito c’è chi fa confusione tra la proiezione messianica del “Cristo” e la figura storica di Gesù l’ebreo: la prima evidentemente non ci riguarda, la seconda invece sì». Non fosse altro per affrontare con maggiore consapevolezza eventuali storture e strumentalizzazioni come quelle di cui sopra, sostiene l’autore di Gesù ebreo. Per Calimani, «il Dialogo deve servire a progredire in ogni senso e per questo è bene essere franchi e schietti, mai dimenticando che il mondo ebraico è anche abbastanza anarchico di per sé; noi il papa non ce l’abbiamo e ogni ebreo pensa con la sua testa».

(moked, 11 dicembre 2024)
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E' proprio sicuro Calimani che "la proiezione messianica del Cristo" non riguardi gli ebrei? Ed è proprio sicuro che la presentazione di Gesù con la kefiah sia soltanto una "sciocchezza storica"? Che strana sorte quella degli storici, che da una parte pensano sia atteggiamento scientifico la "riduzione al minimo" della presentazione particolare dei fatti e dall'altra si esibiscono in un "innalzamento al massimo" della loro interpretazione generale. "Calzolaio, non oltre la scarpa!" M.C.
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Sul confine settentrionale di Israele con migliaia di contadini thai

Sul confine settentrionale di Israele con migliaia di contadini thai

di Rebecca Tan e Heidi Levine

Da circa un anno il confine settentrionale di Israele con il Libano è stato in gran parte sgomberato dalla presenza di civili. Anche prima che iniziasse a vacillare il cessate il fuoco con Hezbollah il governo israeliano aveva detto che il ritorno a casa dei residenti non era sicuro.
C’è stato un gruppo di civili, però, che sono rimasti lì per tutta la guerra.
Quando Israele ha ordinato l’evacuazione dalle regioni di frontiera per i 143 mila civili oltre un anno fa, permise ai lavoratori agricoli migranti, che provengono per lo più dalla Thailandia, di restare per innaffiare i raccolti, gli alberi delle prugne e raccogliere la frutta mentre i missili cadevano attorno a loro.
Secondo le autorità, migliaia di lavoratori thailandesi lavorano da mesi vicino alle frontiere di Israele, alcuni dentro zone militari chiuse dove sono i soli civili presenti insieme ai soldati israeliani.
Durante gli attacchi lungo la frontiera questo anno sono morti almeno sei migranti, cinque thailandesi ed un indiano. Quattro lavoratori thai sono stati uccisi dal fuoco dei missili ad ottobre dopo aver ricevuto il permesso militare di Israele di lavorare nella città evacuata di Metula, a qualche centinaio di metri dalla frontiera, hanno detto le autorità thailandesi.
“Abbiamo provato tutto il possibile per fermare questa situazione” ha detto l’ambasciatrice thai in Israele, Pannabha Chandraramya in un’intervista a Tel Aviv.
Anche prima dell’incidente a Metula, le autorità thai avevano pregato le autorità israeliane tantissime volte di non permettere di lavorare nelle zone ad alto rischio, ha detto l’ambasciatrice, ed ogni volta aveva ricevuto le rassicurazioni degli israeliani.
La legalità di inviare lavoratori stranieri nelle zone militari è vaga, dicono i gruppi dei diritti, fino ad ottobre, quando fu ucciso un thailandese. Poi il ministro degli interni israeliano Moshe Arbel disse che era illegale impiegarli in aree che erano state evacuate.
In incontro privato il mese seguente, dice Pannabha, Arbel promise di nuovo che non sarebbero stati mandati lavoratori thai sulle prime linee. E tuttavia, l’ambasciatrice sa che ci sono ancora cittadini thailandesi nei campi aperti della battaglia del nord come del sud di Israele, lontani dai rifugi e senza quasi nulla che li ripari dalle granate.
Quando a metà novembre si sono intensificati gli scontri sulla frontiera con il Libano, i giornalisti del WP vedevano camion di lavoratori thai entrare nelle zone militari chiuse presso i posti di blocco di Israele.
“E’ una cosa inaccettabile” dice l’ambasciatrice con la voce esasperata. La Thailandia ha già perso troppo in questa guerra, aggiunge. Sono infatti 41 i cittadini thailandesi uccisi il 7 ottobre 2023 dai militanti di Hamas, il terzo numero di morti maggiore dopo Israele e USA. Circa 30 sono stati presi in ostaggio e sei sono ancora lì.
La Federazione degli Agricoltori Israeliani, che rappresenta gli agricoltori del paese, non ha risposto alle richieste di commento. Il ministro degli Interni ha diretto le domande all’Autorità della Popolazione e Immigrazione, che ha detto che la responsabilità di permettere ai lavoratori di entrare nelle zone ad alto rischio sta nelle mani dei militari.
“L’agricoltura è una componente fondamentale dell’economia dei cittadini nel nord, e per bilanciare i vari bisogni e permettere il mantenimento dell’agricoltura per quanto possibile, sono riviste le richieste degli agricoltori nelle zone militari chiuse. Secondo la valutazione del caso si fanno eccezioni per permettere il lavoro agricolo nelle aree militari ristrette” si legge in una dichiarazione dei militari israeliani.

• UNA LIBERA SCELTA?
  Il governo israeliano dice che i lavoratori thai non sono costretti a lavorare nelle regioni di frontiera né a stare in Israele. Per i gruppi di difesa del lavoro si tratta di pura ipocrisia.
“Non si tratta di una scelta libera, per niente affatto” dice Nir Dvortchin, regista israeliano che ha prodotto un documentario sui lavoratori thailandesi in Israele. Anche se volessero cambiare datore di lavoro o cantiere, la maggior parte dei lavoratori thailandesi ha troppa paura di chiederlo o non è in grado di farlo perché parla poco o niente l’inglese, ha dichiarato Orit Ronen, responsabile del dipartimento per i lavoratori agricoli di Kav LaOved, un gruppo israeliano per i diritti.
Una decina di lavoratori thai intervistati da WP dicono che guadagnano in Israele dieci volte di più di quanto guadagnano nel povero Nordest Thailandese da cui proviene la maggioranza di loro. Hanno inoltre giovani figli da mantenere ed alcuni hanno fatto i debiti per poter raggiungere Israele.
Se scelgono in un dato giorno di non lavorare per questioni di sicurezza, i datori di lavoro non li pagano. Perciò lavorano quasi tutti giorni.
I video fatti dagli stessi li mostrano mentre raccolgono le mele e i kiwi durante il suono delle sirene, nascondendosi dietro gli alberi o sotto i camion mentre i missili scorrono sulle loro teste, e correre a piedi nei campo quando inizia il panico.
Non è un lavoro normale, dice Thitiwat Klangrit, mentre pota un albero di pesche a Metula durante un pomeriggio recente. Vestito con una camicia di cotone sottile e un cappello da sole, ha fatto una smorfia mentre i razzi scoppiavano nelle vicinanze.
Si era abituato ai rumori della guerra, dice, ma è diventato più nervoso qualche settimana fa, dopo che un gruppo di quattro operai che conosceva è andato a lavorare vicino alla collina dietro di lui. Thitiwat ha strizzato gli occhi al sole, indicando la direzione della linea di confine. I suoi amici hanno superato quella collina, ha detto, e non sono più tornati indietro.

• LASCIARE E RITORNARE
  Israele si è trovata sotto la forte pressione di far crescere il proprio settore agricolo dopo che la Turchia, che era un grande esportatore di alimenti, ha fermato tutti gli scambi a maggio.
La maggior parte dei raccolti nazionali di Israele, però, si trovano nelle regioni settentrionali e meridionali dove mancano i lavoratori. Ai lavoratori palestinesi è stato vietato di lavorare in Israele dopo la guerra e molti lavoratori israeliani sono stati arruolati per combattere.
Prima dell’attacco del 7 ottobre, circa 30.000 thailandesi lavoravano nelle aziende agricole israeliane, il risultato di uno sforzo di reclutamento pluridecennale da parte di Israele per liberarsi della forza lavoro palestinese, secondo i ricercatori del lavoro.
Circa 9.000 di loro sono tornati a casa subito dopo l’attacco. Ma gli agricoltori israeliani hanno offerto salari più alti a quelli disposti a tornare – e molti hanno accettato, arrivando a ondate dall’inizio dell’anno. A novembre, secondo i dati del governo, c’erano 35.000 lavoratori thailandesi in Israele.
Lior Bez, 51 anni, membro dell’unità di riservisti delle Forze di Difesa israeliane che sorveglia il posto di blocco a Metula, ha detto che ci sono “un sacco” di thailandesi che lavorano nella città pesantemente bombardata e nei dintorni.
“Hanno le loro ragioni per tornare”, ha detto Bez. “Non possiamo certo chiedere loro di andarsene”.
Suraphut Theerawuth lavorava ai sistemi di irrigazione lungo il confine con Gaza durante l’assalto di Hamas e ha detto di essere sopravvissuto chiudendosi in un bunker.
Ritornò nella sua provincia di Udon Thani in Thailandia, dove però non c’erano posti di lavoro che potessero competere con la sua paga in Israele, circa 2.700 dollari al mese, ha detto. Così è tornato alla sua vecchia fattoria, che era “abbandonata”, ha detto, tranne che per i thailandesi.
Il suono dei bombardamenti israeliani su Gaza settentrionale sono una costante. Occasionalmente razzi e granate arrivano sul lato israeliano della frontiera.
“Naturalmente ho paura ma devo lavorare” dice Suraphut che condivide la foto della figlia di cinque anni dagli occhi belli e scuri e dalle sopracciglia folte.
Anuchat Khokham, un uomo di 43 anni, ha detto di essere tornato a Metula dopo che sua moglie ha partorito due gemelli otto mesi fa.
Pradoemchai Samart ha detto di essere tornato nei terreni agricoli a nord di Haifa perché ha accumulato debiti in Thailandia che ora deve saldare. Pensava che a nord sarebbe stato più sicuro che a sud. Ma anche lì i suoni dei missili, dei jet e dei droni suonano a ripetizione e lo tengono sveglio di notte, ha detto Pradoemchai.
“Non sapevo che sarebbe stato così”, ha detto.

• NON AVEVO IDEA DI COME SENTIRMI
  Quando Thitiwat è arrivato ad aprile per lavorare a Metula, Prahyat Pilasrum era lì da sei mesi. I due condividevano una stanza, insieme a un terzo lavoratore, in un hotel a circa 17 miglia dal confine, ha raccontato Thitiwat. Cucinavano cibo thailandese l’uno per l’altro su una stufa a gas che avevano montato sul balcone e si scambiavano birre il sabato, il loro unico giorno libero.
Negli ultimi mesi hanno parlato di più della guerra. Prahyat è più ottimista di lui, dice Thitiwat. Una volta che la situazione fosse diventata meno pericolosa, gli ha detto il suo compagno di stanza, sarebbero andati a pescare insieme.
Il 31 ottobre, Thitiwat era al lavoro in un pescheto quando ha visto un’esplosione che sembrava più vicina del solito. Poco dopo, lui e altri lavoratori hanno visto un elicottero scendere sul luogo dell’esplosione. Thitiwat ha raccontato di aver chiamato più volte il telefono di Prahyat, ma il suo coinquilino non ha risposto.
“Non avevo idea di cosa fare. Non sapevo come sentirmi”, ha ricordato Thitiwat.
Prahyat era uno dei quattro lavoratori thailandesi uccisi quel giorno. Aveva 42 anni, era padre di tre figli ed era il capofamiglia della sua famiglia.
I resti dei lavoratori sono stati raccolti e inviati all’aeroporto Ben Gurion di Israele, dove Pannabha ha guidato i funzionari thailandesi e israeliani in una cerimonia. Pannabha ha detto che rimpatriare i resti dei cittadini thailandesi, cosa che ha dovuto fare più volte nell’ultimo anno, è stato l’incarico più difficile della sua carriera. “Ogni volta”, ha detto, “prego che sia l’ultima”.
Dopo l’incidente, il ministro degli Esteri thailandese ha inviato a Israele una lettera di protesta e ha chiesto a tutti i cittadini thailandesi di evacuare le regioni di confine. L’ambasciata thailandese a Tel Aviv ha diffuso degli opuscoli per informare i lavoratori che il nord non è sicuro. Ma alla fine, ha detto Pannabha, la Thailandia non ha autorità nel Paese.
Thitiwat ha detto di non essere riuscito ad andare al lavoro il giorno dopo l’uccisione di Prahyat. Non è andato nemmeno il secondo giorno. Il terzo giorno ha chiamato la moglie, che era a casa in Thailandia e si occupava della loro figlia di 2 anni.
Il quarto giorno, ha detto Thitiwat, si è alzato prima dell’alba, ha lasciato la stanza d’albergo con il letto vuoto di Prahyat ed è tornato al lavoro. (Le Terre Sotto Vento, 11 dicembre 2024)

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Netanyahu: “Stiamo smantellando l’asse iraniano pezzo per pezzo”

Lo Stato di Israele sta affermando il suo status di centro di potere nella nostra regione, come non accadeva da decenni
Con la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria si è aperto un nuovo capitolo in Medio Oriente. Lo ha affermato ieri (lunedì) il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa a Gerusalemme, la prima in 99 giorni.
Parlando ai giornalisti, ha affermato che Israele stava sconfiggendo i suoi nemici “passo dopo passo” in una “guerra per l’esistenza che ci è stata imposta”, e ha citato la Siria di Assad come “elemento centrale dell’asse del male dell’Iran”.
Domenica mattina, i ribelli siriani hanno preso il controllo di Damasco dopo un’offensiva lampo durata due settimane, ponendo fine a 13 anni di guerra civile contro il governo siriano e a oltre 50 anni di governo della famiglia Assad.
Netanyahu ha sottolineato i miliardi di dollari investiti dall’Iran per mantenere Assad al potere e la crudeltà del regime nei confronti dei suoi cittadini, sottolineando che ha “massacrato centinaia di migliaia di suoi connazionali”.
La Siria di Assad ha “fomentato ostilità e odio” verso Israele, lo ha attaccato nella guerra dello Yom Kippur del 1973, è stata “una postazione avanzata del terrore iraniano” e un canale di trasporto di armi dall’Iran a Hezbollah, ha aggiunto.
Facendo riferimento alla conquista delle alture del Golan da parte di Israele nel 1967 e alla successiva annessione, Netanyahu ha affermato che “oggi tutti comprendono la grande importanza della nostra presenza lì, sul Golan, e non sulle sue pendici”, aggiungendo che il controllo di Israele sul Golan garantisce la sua sicurezza e sovranità.
Il premier ha ringraziato il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump per aver “riconosciuto la sovranità israeliana” sul Golan nel 2019.
“Le alture del Golan saranno per sempre una parte inseparabile dello Stato di Israele”, ha affermato.
Netanyahu ha ribadito la sua precedente affermazione secondo cui la caduta di Assad è stata il “risultato diretto dei duri colpi che abbiamo inferto ad Hamas, a Hezbollah e all’Iran”, e ha affermato che fin dagli attacchi del 7 ottobre, Israele ha lavorato in modo “sistematico, misurato e ordinato” per smantellare l’asse iraniano.
A Gaza, ha affermato, Israele sta ora agendo “per smantellare i resti delle capacità militari di Hamas e tutte le sue capacità di governo” e per riportare indietro tutti gli ostaggi.
Passando al Libano, Netanyahu ha sottolineato che il leader di Hezbollah eliminato Hassan Nasrallah era stato il collegamento chiave tra Hezbollah, Siria e Iran. Era “l’asse dell’asse: colpiscilo e colpisci duramente l’asse”.
L’eliminazione di Nasrallah è stata una svolta nel crollo dell’asse,
ha sostenuto, aggiungendo che “Nasrallah non è più con noi e l’asse non è più quello di una volta”. Israele lo sta “smantellando passo dopo passo”.
Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi transfrontalieri contro Israele il giorno dopo l’attacco di Hamas dell’anno scorso, lanciando razzi e droni contro comunità di confine e postazioni militari, costringendo a sfollare circa 60.000 israeliani dalle loro case nel nord del paese. Nasrallah è stato ucciso a fine settembre 2024 da un attacco aereo israeliano a Beirut, mentre Israele intensificava la sua campagna contro Hezbollah, lanciando infine un’incursione di terra nel Libano meridionale.
Alla fine di novembre, le parti hanno concordato un cessate il fuoco, che ha sostanzialmente retto, nonostante alcuni attacchi aerei da parte di Israele contro gli agenti di Hezbollah, in seguito a violazioni della tregua.
“L’Iran ha creato una rotta del terrore dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo, dall’Iran all’Iraq, dall’Iraq alla Siria, dalla Siria al Libano. A sud, hanno armato Hamas. Ancora più a sud, gli Houthi, che abbiamo anche duramente colpito”, ha detto, ma ha aggiunto che “l’asse non è ancora scomparso”.
“Chiunque collabori con noi, ne trae grandi benefici. Chiunque ci attacchi, perde molto”.
“Ma come ho promesso, stiamo trasformando il volto del Medio Oriente”, ha detto Netanyahu. “Lo Stato di Israele sta affermando il suo status di centro di potere nella nostra regione, come non accadeva da decenni”. ha detto, aggiungendo che vuole vedere una Siria diversa, a beneficio sia di Israele che dei siriani.
“Lo abbiamo dimostrato all’inizio della guerra civile quando abbiamo costruito un ospedale da campo al confine, e abbiamo curato migliaia di [civili] siriani feriti”, ha ricordato. “Centinaia di bambini siriani sono nati in Israele. Ancora oggi, [stiamo] tendendo una mano a chiunque voglia vivere con noi in pace, e taglieremo la mano a chiunque cerchi di farci del male”.
Passando alle nuove posizioni delle IDF in una zona cuscinetto tra Israele e Siria sulle alture del Golan, Netanyahu ha osservato di aver ordinato all’esercito di prendere il controllo della zona cuscinetto e dei punti di accesso, “incluso quello che viene chiamato l’Hermon siriano”.
L’IDF ha sottolineato che la mossa, che ha visto le forze israeliane prendere posizione all’interno della zona cuscinetto per la prima volta dall’Accordo di disimpegno del 1974, è temporanea, ma hanno riconosciuto che le truppe probabilmente rimarranno all’interno del territorio siriano per il prossimo futuro.
Guardando più lontano, Netanyahu ha affermato che la guerra su più fronti condotta da Israele ha avuto successo grazie a tre elementi: il coraggio dei soldati, la resilienza del fronte interno e la volontà sua e del suo governo di resistere alle forti pressioni interne e internazionali “per fermare la guerra prima di aver raggiunto tutti i nostri obiettivi”.
“Le nostre azioni stanno smantellando l’asse mattone dopo mattone, e tutto questo perché abbiamo resistito, io ho resistito, alla pressione” di fermare la guerra prematuramente, ha affermato, aggiungendo di essersi attenuto “agli obiettivi della guerra fino alla vittoria totale”.
L’obiettivo della vittoria totale – che “la gente derideva”, ha detto – “sta oggi diventando realtà”.
“L’isolamento di Hamas apre un’altra possibilità di progredire verso un accordo che riporterà indietro i nostri ostaggi”,
ha detto, promettendo che lui e il governo stanno “girando ogni pietra” per riportare a casa tutti gli ostaggi, “i vivi e i caduti”.
Parlando di Hamas, ha detto che il gruppo terroristico di Gaza è “più isolato che mai” dopo la caduta di Assad in Siria. “Sperava in un’unificazione dei fronti. Invece, ha ottenuto un crollo dei fronti. Si aspettava aiuto da Hezbollah, glielo abbiamo tolto. Si aspettava aiuto dall’Iran, gli abbiamo tolto anche quello. Si aspettava aiuto dal regime di Assad, beh, ora non succederà”, ha detto seccamente.
Le trattative per un accordo sugli ostaggi si sono arenate e sono fallite più volte nell’ultimo anno, ma sono state recentemente riprese in seguito al cessate il fuoco in Libano e ad altri sviluppi nella regione, insieme alla minaccia del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump che “sarà dura pagare l’inferno” se gli ostaggi non verranno rilasciati entro la sua entrata in carica il 20 gennaio.
Israele ritiene che 96 dei 251 ostaggi rapiti il 7 ottobre siano ancora a Gaza, compresi i corpi di almeno 34 morti confermati dalle Forze di difesa israeliane. Negli ultimi 14 mesi, le truppe dell’IDF hanno salvato otto ostaggi e recuperato i corpi di 38.
“Eravamo qui prima dei nostri nemici e saremo qui dopo i nostri nemici”, ha concluso Netanyahu, avvertendo che Israele ha ancora “grandi sfide” davanti a sé, ma è fiducioso che lo Stato ebraico prevarrà.

(Rights Reporter, 10 dicembre 2024)

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Il mondo si meraviglia di Israele

La guerra di Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza sta cambiando il Medio Oriente e dimostra le straordinarie capacità militari di Israele. In un effetto domino che nessuno avrebbe potuto prevedere, soprattutto nei primi mesi di guerra, gli arcinemici di Israele stanno cadendo uno dopo l'altro: Hamas, Hezbollah, altre milizie terroristiche sciite, la Siria e un Iran strategicamente e moralmente indebolito. Né l'Iran né la Russia hanno voluto o potuto salvare il loro alleato di lunga data in Siria, il regime di Assad.

di Aviel Schneider

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Una foto di Nasrallah appesa durante il funerale di 30 combattenti di Hezbollah uccisi nel combattimento contro le forze israeliane

GERUSALEMME - La guerra in corso di Israele contro Hezbollah in Libano ha avuto ripercussioni strategiche nella regione e alla fine ha portato al collasso dell'asse iraniano nel nord di Israele. Fonti di intelligence occidentali sostengono che il regime degli ayatollah di Teheran sia furioso per i danni che Hamas ha inflitto all'intero “asse della resistenza”. L'asse sciita è stato costruito in quattro decenni e ora tutto è stato distrutto. È colpa di Israele e perché questo asse voleva distruggere Israele. Ma tutto è andato storto perché i nemici hanno colpito la sicurezza di Israele, il popolo di Israele, la biblica pupilla dell'occhio di Dio.
Dopo la caduta del regime di Assad, John Spencer, ex ufficiale dell'esercito statunitense, ha parlato al quotidiano Maariv della nuova realtà strategica di Israele: “I Paesi della regione devono assumersi la responsabilità della loro sicurezza e Israele è il chiaro leader. Israele ha difeso i suoi interessi di sicurezza con capacità militari eccezionali che lo rendono oggi uno dei Paesi più forti della regione”.
La gente vede il cambiamento nella guerra, ma non tutti vogliono o possono riconoscere il cambiamento positivo in Israele. Che sia per odio, stupidità o pura follia. Chi ha occhi vede, chi ha orecchie sente, ma non capisce. Non è forse di questo che parlava il profeta Isaia quando diceva: “Con le orecchie udrete ma non capirete, con gli occhi vedrete ma non riconoscerete”? Senza sicurezza, Israele non ha il diritto di esistere in questa regione. È una responsabilità del popolo, non solo del governo e dell'esercito. Il popolo israeliano, in senso collettivo, ha dimostrato il suo dovere in questo senso, nonostante le divisioni politiche tra i cittadini.
Il punto di svolta nella guerra è arrivato poco prima delle festività ebraiche di settembre, quando migliaia di cercapersone sono esplosi nelle tasche dei terroristi sciiti di Hezbollah in Libano. “Nonostante tutte le sfide, e dopo 14 mesi di combattimenti, Israele è più forte che mai, sia militarmente che politicamente”, ha dichiarato Spencer. “Si è affermato come potenza centrale nella regione e difensore dei valori democratici”. La distruzione delle basi iraniane e l'interruzione delle forniture di armi a Hezbollah sono elementi centrali della politica di deterrenza di Israele. “Israele non sta compromettendo la sua sicurezza e sta conducendo un'efficace campagna militare per ridurre la minaccia iraniana evitando un'escalation”.
Oltre a Spencer, anche il comandante dell'esercito britannico ha espresso il suo stupore per le capacità militari di Israele. “Israele ha quasi completamente distrutto il sistema di difesa aerea dell'Iran e paralizzato la sua capacità di missili balistici per un anno”. L'ammiraglio Tony Radakin, comandante dell'esercito britannico, ha dichiarato ieri in un discorso al Royal United Services Institute. “Israele ci ha dimostrato il vantaggio sproporzionato della guerra moderna nella sua risposta all'Iran”, ha detto Radakin. “Non entrerò nei dettagli, ma negli attacchi di rappresaglia contro l'Iran in ottobre, Israele ha schierato più di 100 aerei che trasportavano meno di 100 armi. Gli aerei sono rimasti a più di 100 miglia (160 km) di distanza dagli obiettivi della prima ondata. Questo dimostra la potenza dei velivoli di quinta generazione combinata con eccellenti tecniche di attacco e un'eccezionale ricognizione. E tutto questo in un'unica missione”.
Lo Stato di Israele considera la sua sicurezza di altissimo valore per ragioni storiche, geografiche, sociali e spirituali. Il popolo ebraico ha vissuto generazioni di persecuzioni, antisemitismo e Olocausto, che hanno portato alla consapevolezza dell'importanza dell'indipendenza e dell'autoprotezione. Lo Stato è stato fondato per garantire che il popolo ebraico non debba mai più affrontare una simile minaccia.
Dalla sua fondazione nel 1948, Israele ha affrontato una costante minaccia alla sua sicurezza da parte di Stati ostili e organizzazioni terroristiche. Conflitti come le guerre con gli Stati confinanti, gli attacchi terroristici e i lanci di razzi hanno evidenziato la necessità di una costante attenzione alla sicurezza. Israele si trova nel cuore del Medio Oriente, una regione caratterizzata da tensioni geopolitiche, conflitti religiosi ed etnici e interessi contrastanti delle potenze globali e regionali. Una forte sicurezza è considerata essenziale per preservare la sovranità di Israele e per poter condurre i negoziati di pace da una posizione di forza. Rispetto ai suoi vicini, Israele è geograficamente e demograficamente piccolo, il che lo rende più vulnerabile.
Gli investimenti nella sicurezza consentono al Paese di affrontare queste sfide. La società israeliana attribuisce grande valore alla coscrizione, al servizio militare e all'autodifesa come elementi centrali dell'identità nazionale. Israele sviluppa ed esporta tecnologie di sicurezza avanzate, non solo per garantire la propria sicurezza, ma anche per posizionarsi come potenza tecnologica e rafforzare le relazioni con altri Stati. La combinazione di tutti questi fattori porta Israele a investire notevoli risorse nella sua sicurezza, sapendo che questa è una condizione necessaria per la sua sopravvivenza e prosperità. Questo è ciò che vedono le persone che vogliono veramente vedere.

(Israel Heute, 10 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Siano confusi e voltino le spalle tutti quelli che odiano Sion! Siano come l'erba dei tetti, che secca prima di crescere!" (Salmo 129:5-6). Stiano attenti quelli anche soltanto a parole esprimono ad alta voce il loro odio verso Israele. La maledizione di Dio può essere tremendamente pratica (Genesi 12:3). M.C.

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Evento zoom con Ugo Volli e Emanuel Segre Amar

Martedì 10 dicembre - Ore 21

La guerra di Israele su sette scenari + ONU

Modera Bruno Guazzo
Presidente Federazione Associazioni Italia Israele ì

Link

(Notizie su Israele, 10 dicembre 2024)

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Mosaico siriano

di Davide Cavaliere

Nel 1961, dopo lo scioglimento della Repubblica Araba Unita con l’Egitto, il governo siriano decise di «riconoscere i curdi» come entità allogena e nell’estate del 1962 avviò un censimento della popolazione della provincia di Jazira. Tutti i curdi identificati furono privati ​​della cittadinanza siriana e dichiarati «estranei». Nello stesso periodo fu lanciata una campagna mediatica contro i curdi con slogan come «Salvate l’arabismo in Jazira» e «Combattete la minaccia curda». Queste politiche coincisero, non a caso, con l’inizio della rivolta curda di Mustafa Barzani in Iraq e la scoperta di giacimenti petroliferi proprio nella provincia di Jazira. Nell’estate del 1963, le forze armate siriane si unirono all’esercito iracheno per attaccare la rivolta guidata da Barzani.
  La rapida avanzata delle fazioni dei ribelli in Siria e la fuga di Assad mette in luce alcuni aspetti di forte rilievo geopolitico sullo scacchiere mediorientale, al centro di una guerra che si protrae da un anno e due mesi tra Israele e Hamas spalleggiato da Hezbollah. I
  l primo è che con la caduta del regime di Assad, il cui esercito si è squagliato come neve al sole, Israele incassa un altro risultato favorevole.
  Dal 2013 ad oggi sono state centinaia le incursioni aeree israeliane sul territorio siriano per colpire le infrastrutture di Hezbollah, oggi che Hezbollah si trova fortemente indebolito, non ha potuto soccorrere il regime fantoccio russo alawita, lasciando di fatto spazio aperto all’avanzata dei ribelli. L’Iran, principale sponsor della formazione sciita libanese, viene così ulteriormente indebolito.
  Negli ultimi mesi ha dovuto incassare l’uccisione del proprio plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, la decapitazione dei vertici militari di Hezbollah, e la distruzione di una parte consistente dell’arsenale del proprio principale delegato. Ora perde anche la sponda siriana, mentre a Gaza, quel che resta di Hamas, si avvia all’inevitabile conclusione della sua egemonia politico-militare all’interno della Striscia.
  Tutto ciò mostra con evidenza che la strategia iraniana di accerchiamento di Israele, di un suo strangolamento dentro un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto idealmente contemplare anche una sollevazione contro Israele in Cisgiordania, è fallito. Il cerchio è stato spezzato e sembra assai difficile che esso possa ricostruirsi in tempi brevi.
  Il secondo è che la Russia, grande protettrice della Siria, non è in grado di garantire ad Assad il supporto militare necessario. È sicuramente prematuro affermare che con la caduta del regime di Assad, la Russia abbia perso il suo avamposto in Medio Oriente acquisito dopo la rinuncia americana ad avere un ruolo risolutivo nel contesto della guerra civile siriana, ma certo la sua mancanza di determinazione nel fare da argine all’avanzata delle forze anti Assad, denuncia la difficoltà a impegnarsi su un altro fronte che non sia quello ucraino.
  Una Russia debole in Medio Oriente sicuramente non dispiace a Israele, considerando oggettivamente che le alleanze russe sono esplicitamente anti-israeliane come lo sono sempre state dal 1956 ad oggi. Nel dopo Assad, quale che sarà la fisionomia politica che assumerà il paese, se la Russia non si impegnerà a inviare forze per combattere i ribelli, essa perderà progressivamente peso.
  Lo scenario che si inaugura è ancora fluido, ma apre indubbiamente una prospettiva di consolidamento americana e rilancia Israele come la principale potenza regionale. Spetterà dunque alla nuova Amministrazione Trump cogliere l’opportunità che si presenta, consentire a Israele di indebolire ulteriormente l’Iran e congiungere agli anelli già forgiati degli Accordi di Abramo, l’anello più importante, quello saudita.

(L'informale, 10 dicembre 2024)

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Il New York Times conferma la presenza di Hamas nelle scuole dell’ONU

di Michelle Zarfati

“Almeno 24 persone impiegate dall’UNRWA – in 24 scuole diverse – appartenevano ad Hamas o alla Jihad islamica palestinese (PIJ)” ha riferito il New York Times. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), responsabile dell’istruzione e dei servizi sociali nella Striscia di Gaza, ha dunque assunto membri di Hamas, come conferma il noto quotidiano americano, ribadendo la rivelazione fatta un anno fa da Israele.
  Il giornale ha richiesto ad Israele documenti relativi ai dipendenti scolastici dell’UNRWA, dopo la distribuzione, ad opera dello Stato ebraico, di una lista di cento lavoratori dell’agenzia. Attraverso l’analisi dei documenti, ottenuti da Israele durante la sua campagna militare a Gaza, e le interviste con “attuali ed ex dipendenti dell’UNRWA, residenti ed ex studenti a Gaza”, il Times ha scoperto che “almeno 24 persone impiegate dall’UNRWA – in 24 scuole diverse” appartenevano ad Hamas o alla Jihad islamica palestinese (PIJ). La maggior parte erano amministratori di alto livello delle scuole – presidi o vicepresidi – il resto erano consulenti scolastici e insegnanti”, si legge nei documenti. “Quasi tutti gli educatori erano legati ad Hamas – secondo i registri – Erano quasi interamente combattenti delle Brigate Qassam”, ha riferito il giornale.
  “I residenti di Gaza hanno rivelato nelle interviste che l’idea che Hamas avesse agenti nelle scuole dell’UNRWA era un “segreto di Pulcinella”. Un educatore sulla lista dei cento d’Israele è stato regolarmente visto dopo ore in divisa di Hamas con un kalashnikov al collo”, ha detto il giornale. Il Times ha puntato i riflettori su Ahmad al-Khatib, vicepreside di una scuola elementare gestita dall’UNRWA a Gaza. Era un terrorista di Hamas attivo a Khan Younis. Al-Khatib era un comandante di squadra con “almeno una dozzina di armi, tra cui un kalashnikov e bombe a mano”, secondo dettagliati documenti di Hamas. I protocolli mostrano inoltre che Hamas considerava le scuole e le altre strutture civili come “i migliori ostacoli per proteggere la resistenza” nella guerra del gruppo contro Israele.
  L’uso da parte di Hamas delle scuole dell’UNRWA è andato oltre i confini di Gaza. Il Times ha osservato che a settembre Hamas ha annunciato la morte del suo leader in Libano. Si chiamava Fateh Sherif Abu el-Amin ed è stato ucciso in un attacco aereo nell’area di Tiro, nel sud del Paese, il 30 settembre. UN Watch ha rivelato che el-Amin era il preside della scuola secondaria Deir Yassin di El-Buss, gestita dall’UNRWA, e dirigeva il sindacato degli insegnanti dell’UNRWA in Libano, che supervisionava circa 39.000 studenti in 65 scuole. Nel corso degli ultimi mesi, Israele ha rivelato che l’UNRWA ha impiegato centinaia di terroristi grazie alle strutture scolastiche.
  A luglio, il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato quello che ha detto essere solo un elenco parziale, contenente i nomi e i numeri di identificazione di 108 dipendenti dell’UNRWA che, secondo Israele, lavoravano per Hamas. L’elenco più ampio non è stato ancora rilasciato a causa di considerazioni di sicurezza, secondo il ministero. “Abbiamo fornito molte prove che l’UNRWA lavorasse fianco a fianco con Hamas”, ha detto il portavoce dell’Ufficio del Primo Ministro David Mencer, riferendosi alla server farm di Hamas scoperta sotto il quartier generale dell’UNRWA a Gaza City e ai tunnel di Hamas sotto le scuole dell’UNRWA nella Striscia. A ottobre, la Knesset ha votato per bandire l’UNRWA, con il ministero degli Esteri che ha definito l’agenzia per i rifugiati “marcia”. “Non si tratta solo di poche mele marce, come sta cercando di sostenere il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres. L’UNRWA a Gaza è un albero marcio completamente infettato da terroristi”, ha aggiunto il ministero.

(Shalom, 10 dicembre 2024)

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L’ambasciatore Di Gianfrancesco visita il museo degli ebrei del Caucaso

L'ambasciatore d'Italia a Baku (Azerbaigian), Luca Di Gianfrancesco, ha visitato il museo 'Mountain Jews" a Qirmizu Qeseba.Il Museo degli Ebrei di Montagna è stato inaugurato nel 2020 ed è ospitato nella sinagoga Karzhog del XIX secolo.
Gli ebrei della montagna, ebrei del Caucaso o juhuro sono i gruppi ebraici del Caucaso orientale, principalmente del Daghestan e delle regioni settentrionali dell'Azerbaigian.
E' stata la fondazione "Stmeqi" che si è assunta la responsabilità di fornire reperti al museo. Questa fondazione è la più grande organizzazione che unisce gli ebrei di montagna nel mondo.
Durante la preparazione del museo, la fondazione ha invitato la diaspora e le comunità a trovare antichi manufatti.
"Il museo testimonia lo storico multiculturalismo e la secolare tolleranza religiosa in Azerbaigian" ha commentato l'ambasciatore.

(ANSA, 10 dicembre 2024)

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Milano – Beteavòn, dieci anni di mensa per tutti

di Daniel Reichel

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Le cuoche di Beteavòn

Era il 2014 quando a Milano apriva i battenti Beteavòn, la prima cucina sociale kasher d’Italia, nata su iniziativa del Merkos l’Inyonei Chinuch, il ramo educativo del movimento Chabad-Lubavitch. Da dieci anni la missione non è cambiata: offrire pasti gratuiti a quanti si trovano in difficoltà dentro e fuori la comunità ebraica. «Quello che è cambiato», testimonia Sonia Norsa, tra le prime cuoche volontarie di Beteavòn, «è la quantità. Quando ho iniziato, il mercoledì preparavamo le challot (il pane per il sabato) e il giovedì i piatti da consegnare il giorno seguente per shabbat. Parliamo di qualche decina di pasti». Oggi dalla stessa cucina, condivisa con la scuola ebraica del Merkos, escono centinaia di pasti al mese distribuiti a persone bisognose della comunità e ai senzatetto assieme ai volontari dell’associazione City Angels, come anche ai centri di accoglienza presenti sul territorio. «Ci siamo accorti ben presto che la necessità e il bacino di utenza erano molto più ampi e non potevamo rimanere indifferenti», spiega Igal Hazan, rabbino del movimento Chabad di Milano e fondatore di Beteavòn, che in ebraico significa «Buon appetito». «In questi dieci anni», prosegue Hazan, «uno dei più importanti risultati è stato riunire, attraverso un’iniziativa ebraica, diversi enti e associazioni del territorio e della società civile. Non bisogna sottovalutare il valore della coesione e dell’unità nell’aiutare il prossimo». Un impegno riconosciuto dalla città di Milano, che negli scorsi giorni ha conferito a Beteavòn l’attestato di benemerenza civica.
Tra i progetti più recenti c’è la collaborazione con il Centro accoglienza ambrosiano di via Tonezza. «Due anni fa abbiamo cercato un’associazione da aiutare nella nostra zona. Il centro è praticamente dietro di noi», racconta Nathalie Silvera, tra i responsabili di Beteavòn. «Abbiamo parlato con la direzione e c’è stata subito sintonia. Così è iniziata una nuova collaborazione: ogni mercoledì, da due anni, portiamo una quarantina di pasti per chi è ospite del centro». Si tratta di una struttura attiva da oltre 40 anni in cui sono accolte e sostenute mamme in difficoltà. «Offriamo alle madri e ai loro bambini una casa e le aiutiamo in un percorso verso l’autonomia», spiega Francesca Magna del Centro accoglienza ambrosiano. «L’obiettivo è integrare o reintegrare le donne che arrivano da noi nella società, evitando che entrino nel circolo vizioso dell’assistenzialismo. I motivi per cui sono qui sono diversi: difficoltà economiche, abusi o sfruttamento da parte del partner o di un altro membro della famiglia». Il focus iniziale, quando le madri sono accolte in comunità «è soprattutto il benessere del bambino: creare le condizioni perché cresca in un ambiente sano che tuteli la sua infanzia. Dopo l’attenzione alle capacità genitoriali, ci concentriamo sulle competenze per permettere alle donne di migliorare ad esempio la lingua, di trovare un lavoro, di conoscere tutti i servizi territoriali di cui possono aver bisogno: dai servizi scolastici, al doposcuola, ai presidi sanitari, fino all’assistenza legale». Un aiuto, aggiunge Magna, è arrivato da un’altra collaborazione legata al mondo ebraico: l’associazione Human in progress. «Sono un gruppo di professionisti che ci stanno aiutando su alcuni profili per dare sostegno terapeutico e assistenza legale». Coma Hazan, anche Magna sottolinea l’importanza di fare rete. «Con Beteavòn ci siamo conosciuti per un fattore di prossimità ». Gestire le case accoglienza ha molti costi e il vitto è uno di questi. «Poter contare ogni mercoledì sui pasti monoporzione della cucina sociale ebraica è un aiuto importante. In più, ci mettono la massima cura e attenzione, tutti gli alimenti sono ben specificati».
Chi da due anni porta fisicamente in via Tonezza i pasti è Yonathan Ferri Abarbanel, genovese, nato in Israele, e gestore di due locali a Genova e Milano. «Ho visto un post su Instagram di una mia amica in cui raccontava di essere andata la sera a distribuire cibo ai senzatetto in stazione Garibaldi. Per me l’orario serale vuol dire lavoro, ma volevo dare anch’io un contributo ». E così è iniziata la collaborazione con Beteavòn il mercoledì pomeriggio. «Io non faccio molto, se non andare a prendere il cibo già pronto, metterlo in macchina e consegnarlo al Centro di accoglienza. Mi sento però utile e nel mio piccolo do una mano». Ad eccezione di un incontro, non c’è interazione tra lui e le persone ospitate nel centro. «Se non sbaglio, per l’ebraismo la forma di beneficenza più nobile è quando chi dà non sa a chi sta dando e chi riceve non sa da chi sta ricevendo. E mi ritrovo in questa idea».
Anche per Norsa l’importante è fare, nel suo caso cucinare. «Per chiunque siano i nostri piatti, ci mettiamo amore. Vogliamo sentano che è una cucina di famiglia. Se faccio un brasato, lo faccio come lo farei per i miei figli e nipoti. Abbondante e saporito». Si cucina pesce, carne, verdure, e le ricette vengono decise a seconda di cosa viene comprato o regalato da chi sostiene Beteavòn. «Facciamo dal cholent (stufato della tradizione ebraica ashkenazita) al pollo al curry. Alcune ricette un po’ le inventiamo. L’importante è la cura e il sapore di casa». Nell’ultimo periodo Norsa ha rallentato. «Ho avuto un infarto per cui purtroppo non posso andare quanto vorrei, ma tutte le cuoche sono bravissime. Io ho mandato anche mio figlio e mio nipote a distribuire il cibo ai senzatetto. In passato distribuivamo direttamente dai pentoloni ed era bello vedere i sorrisi delle persone. Cucinare bene per loro significa anche rispettarne la dignità. Dire con il cuore Beteavòn».
Per ogni festa ebraica escono dalla cucina sociale pasti ad hoc. «Per Chanukkah (quest’anno il primo giorno è il 25 dicembre) prepariamo alcuni dolci per i nostri utenti e per la casa di riposo della Comunità ebraica», sottolinea Hazan, che ricorda anche il significato di Chanukkah. «È la festa in cui accendiamo i lumi. Per farlo deve necessariamente essere buio, questo perché è in quel momento che si vede il valore della luce. Quando il periodo è più buio, ancor più importante è portare la luce».

(moked, 10 dicembre 2024)

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Israele nel Golan siriano: per la prima volta dal ‘73

Netanyahu: il regime di Assad è finito e così l’armistizio del 1974. “Questo accordo è durato 50 anni e ieri sera è crollato”.

di Rossella Tercatin

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GERUSALEMME – Le immagini diffuse dall’esercito mostrano soldati con pesante equipaggiamento invernale farsi strada in un paesaggio vasto e deserto, con i versanti brulli delle montagne parzialmente ricoperti di neve. Per la prima volta dalla guerra del Kippur nel 1973, Israele è rientrata in territorio siriano, e ha schierato le sue truppe non solo nella zona cuscinetto demilitarizzata ma anche sul lato sotto controllo di Damasco nelle alture del Golan - quello israeliano, annesso dallo Stato ebraico nel 1981 viene considerato territorio occupato da gran parte della comunità internazionale. Il complesso montuoso è considerato strategico perché consente di mantenere la visuale sulla zona circostante.
La mossa israeliana è stata descritta dal primo Ministro Benjamin Netanyahu come necessaria per evitare che “forze ostili si insedino proprio presso il nostro confine”. Netanyahu però ha anche descritto il crollo del regime di Bashar al-Assad come un evento che potrebbe aprire nuove porte per un futuro diverso in Medio Oriente.
“Questa è una giornata storica,” ha sottolineato ieri il premier visitando il confine. “Il crollo del regime di Assad, della tirannia di Damasco, offre grandi opportunità, ma è anche irto di pericoli significativi”.
Netanyahu ha descritto gli eventi in Siria come una diretta conseguenza dell’azione israeliana contro Hezbollah e l’Iran, che avevano sostenuto il dittatore nel corso dei 14 anni di guerra civile. Allo stesso tempo però il primo ministro israeliano ha anche affermato che il collasso del regime segna anche quello dell’armistizio tra i due paesi risalente al 1974. “Questo accordo è durato 50 anni e ieri sera è crollato”, le parole di Netanyahu. “L'esercito siriano ha abbandonato le sue posizioni. Così abbiamo dato all'esercito israeliano l'ordine di prendere il controllo di queste posizioni per garantire che nessuna forza ostile si insedi proprio accanto al confine di Israele. Questa è una posizione difensiva temporanea finché non verrà trovato un accordo adatto”. In seguito ai movimenti delle truppe israeliane, il portavoce dell’Idf in lingua araba ha chiesto agli abitanti di cinque villaggi nelle zone limitrofe, Ofaniya, Quneitra, al-Hamidiyah, Samdaniya al-Gharbiyya and al-Qahtaniyah, di rimanere nelle proprie case fino a nuovo ordine. Israele non si è limitata a blindare il confine, con truppe e nuove trincee.
Nelle ultime 48 ore, l’aviazione ha compiuto ripetuti raid in territorio siriano per distruggere fabbriche e depositi di armi, incluse armi chimiche. L’Idf ha affermato di aver anche aiutato una postazione delle Nazioni Unite a sud della Siria a respingere un attacco di uomini armati non identificati.
Negli ultimi anni, Israele ha effettuato centinaia di raid nel paese, in massima parte senza assumersene ufficialmente la responsabilità, per contrastare le attività di Hezbollah e dell’Iran nella regione, con una sorta di patto di non belligeranza con la Russia, che della Siria ha controllato i cieli dall’inizio della guerra civile, e ha tollerato le attività dell’Idf in cambio dell’assicurazione che le sue forze non venissero in alcun modo coinvolte. Un equilibrio di interessi e attori in campo anche questo sgretolato dalla fine di Assad.
Negli anni più cruenti della guerra siriana, Israele rimase alla finestra e riuscì a evitare scontri tanto con le truppe governative quanto con i ribelli. Addirittura, la stessa Idf si dedicò all’operazione Buon Vicino, mettendo su un ospedale da campo proprio sulle alture del Golan, evacuando pazienti siriani nei propri ospedali al nord e organizzando un servizio di clinica dentistica e pediatrica per i bambini della zona.
Se oggi Israele guarda agli eventi in Siria con cautela, leader e analisti offrono qualche segnale di speranza.“Tendiamo la mano a tutti coloro che sono oltre il nostro confine in Siria: ai drusi, ai curdi, ai cristiani e ai musulmani che vogliono vivere in pace con Israele”, ha affermato Netanyahu. “Seguiremo gli eventi con molta attenzione. Se sarà possibile stabilire relazioni di buon vicinato con le nuove forze emergenti in Siria, questo è il nostro desiderio. Ma se non lo sarà, faremo tutto il necessario per difenderci.”

(la Repubblica, 9 dicembre 2024)

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Katz ordina una zona di sicurezza al confine con la Siria

L'Aeronautica militare israeliana (IAF) ha effettuato diversi attacchi in Siria nella notte di lunedì, distruggendo armi che Gerusalemme teme possano cadere nelle mani delle forze nemiche

di Akiva van Koningsveld e Amelie Botbol

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Truppe dell'unità d'élite Shaldag dell'Aeronautica israeliana sul versante siriano del Monte Hermon, 8 dicembre 2024

Il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha ordinato alle Forze di Difesa Israeliane (IDF) di creare una zona di sicurezza al di là della zona cuscinetto con la Siria, priva di “armi strategiche pesanti e infrastrutture terroristiche”, ha annunciato lunedì il Ministero della Difesa.
Katz ha dichiarato di aver ordinato all'IDF di assumere il pieno controllo della zona cuscinetto demilitarizzata sulle alture del Golan, creata dall'accordo di separazione delle forze del 1974 tra Damasco e Gerusalemme che pose fine alla guerra dello Yom Kippur del 1973.
Inoltre, Katz ha ordinato l'ulteriore distruzione di armi strategiche precedentemente detenute dal regime e dalle milizie sostenute dall'Iran per evitare che cadano nelle mani delle forze terroristiche. Secondo il ministero, queste armi includono “missili terra-aria, sistemi di difesa aerea, missili superficie-superficie, missili da crociera, missili a lungo raggio e missili da crociera costieri”.
Katz ha anche incaricato l'esercito di “prevenire e impedire il ripristino della via del contrabbando di armi dall'Iran al Libano attraverso la Siria, sul territorio siriano e ai valichi di frontiera”.
Infine, Katz ha detto di aver chiesto all'esercito di cercare di stabilire contatti con la comunità drusa in Siria e con altre popolazioni locali.
L'ex presidente siriano Bashar al-Assad è fuggito da Damasco domenica dopo che i gruppi di ribelli hanno preso d'assalto la capitale, ponendo fine al governo della sua famiglia durato cinque decenni.
Un portavoce dei ribelli ha dichiarato domenica mattina alla televisione di Stato: “Il tiranno Bashar al-Assad è stato rovesciato”.
In seguito agli eventi in Siria, l'IDF è stato schierato nella zona cuscinetto e in “alcune altre posizioni di difesa necessarie”. L'esercito ha spiegato che questa misura è stata presa a seguito di una valutazione della situazione, al fine di “garantire la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele”.
I capi dell'intelligence hanno avvertito che il crollo del regime potrebbe portare a un caos che potrebbe sfociare in minacce contro Israele.
L'IDF ha dichiarato nella tarda serata di domenica di continuare a operare lungo la nuova linea di confine con la Siria e di concentrarsi sulla ricognizione e sulla protezione della popolazione israeliana, in particolare sulle alture del Golan.
Il versante siriano del Monte Hermon è stato conquistato domenica dalle forze speciali israeliane, che non hanno incontrato resistenza durante l'operazione.
Tra le altre cose, le forze israeliane starebbero lavorando per portare avanti la costruzione di una barriera fortificata lungo il confine tra i due Paesi, il cosiddetto “Nuovo Oriente”.
Nel frattempo, due “fonti di sicurezza del Medio Oriente” hanno riferito alla Reuters che l'IDF ha attaccato una struttura di ricerca a Damasco che sarebbe stata utilizzata dall'Iran per sviluppare missili di precisione a lungo raggio.
L'IAF ha effettuato diversi attacchi in Siria nella notte di domenica e ha distrutto armi che Gerusalemme teme possano cadere nelle mani delle forze nemiche. Gli attacchi sono stati diretti contro depositi di armi, sistemi di difesa aerea e impianti di produzione di armi.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che domenica ha visitato il confine siriano, ha accolto con favore il crollo del regime di Assad, che ha descritto come un “anello centrale dell'asse del male dell'Iran”, e lo ha definito un “giorno storico nella storia del Medio Oriente”.
Tuttavia, Israele proteggerà innanzitutto i suoi confini. “Quest'area è stata controllata da una zona cuscinetto per quasi 50 anni”, ha detto durante una visita al Monte Bental, un vulcano spento nelle Alture del Golan.
“Ieri ho dato istruzioni all'IDF di prendere il controllo della zona cuscinetto e dei posti di blocco vicini. Non permetteremo alle forze nemiche di insediarsi ai nostri confini”, ha dichiarato il Primo Ministro.
L'ex deputato israeliano e tenente colonnello dell'IDF in pensione Anat Berko ha dichiarato domenica a JNS: “Vediamo chiaramente il conflitto secolare - che risale al VII secolo tra sunniti e sciiti - e gli effetti domino della risposta di Israele dopo il massacro del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas e della Jihad islamica sul suolo israeliano, e dopo l'indebolimento di Hezbollah, che è stato coinvolto nel conflitto siriano per molti anni”.
Sebbene il crollo del governo di Assad potrebbe avvantaggiare Israele nel breve termine, Berko ha affermato che “la Siria potrebbe diventare una terra di nessuno, simile a quella che io chiamo l'era dell'ISIS e del turismo jihadista”. Quando è iniziata la guerra civile, ha osservato Berko, cittadini di oltre 70 Paesi si sono recati in Siria per unirsi allo Stato Islamico, compresi cristiani convertiti all'Islam e arabi israeliani.
“Spero che gli israeliani abbiano imparato la lezione del 7 ottobre”, ha detto l'ex parlamentare del Likud. “Dobbiamo presumere che ci siano tunnel al confine siriano con Israele e dobbiamo essere preparati a questo e analizzare la situazione molto attentamente. Non abbiamo a che fare con il nemico del nostro nemico. Sono entrambi nemici; i sunniti e gli sciiti odiano gli ebrei”.
L'ex ambasciatore Jeremy Issacharoff, che è stato vicedirettore generale del Dipartimento di Stato a Gerusalemme e ha diretto la Divisione Affari Multilaterali e Strategici, ha osservato che mentre ci sono “elementi di pericolo e molta incertezza su ciò che accadrà e su chi prenderà il controllo”, la caduta di Assad è una “opportunità” in quanto “gli eventi attuali portano molti svantaggi ai nemici di Israele”.
“Il popolo siriano è intelligente; si renderà conto che, dopo tanti anni di governo della famiglia Assad, potrebbe esserci l'opportunità di stabilizzare lo Stato, ricostruire le istituzioni e unire il Paese; questo potrebbe essere difficile, poiché molte aree devono essere riunite”, ha detto Issacharoff.
“Stiamo seguendo da vicino e speriamo che in Siria possa emergere una leadership che possa creare maggiori opportunità per Israele”, ha aggiunto.
Allo stesso tempo, secondo l'ex diplomatico israeliano, Gerusalemme “osserva sempre ciò che accade in Siria e siamo sempre preoccupati di come l'Iran stia usando la Siria per trasferire armi a Hezbollah”.
“Penso che oggi ci sia un chiaro incentivo per i siriani a cercare una via di mezzo moderata invece di presentarsi come jihadisti islamici estremi”, ha concluso Issacharoff.

(Israel Heute, 9 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele distrugge le armi chimiche di Assad prima che finiscano in mano dei jihadisti

Decine di attacchi hanno distrutto anche arsenali di armi avanzate, missili e armi pesanti.

di Sarah G. Frankl

Domenica, i caccia dell’aeronautica militare israeliana hanno colpito decine di obiettivi in tutta la Siria, distruggendo armamenti che Israele temeva potessero cadere nelle mani di forze ostili, alla luce della drammatica caduta del regime di Bashar al-Assad.
Sempre domenica, le Forze di difesa israeliane hanno preso il controllo di una zona cuscinetto tra il confine tra Israele e Siria sulle alture del Golan, in quella che hanno descritto come una misura difensiva temporanea.
Decine di aerei dell’IAF hanno colpito numerosi obiettivi, concentrandosi sulla distruzione di “armi strategiche”, hanno riferito fonti della difesa, descrivendo gli attacchi come “molto intensivi”.
Le armi colpite dagli aerei da guerra includevano siti avanzati di stoccaggio di missili, sistemi di difesa aerea e strutture di produzione di armi. Israele ha anche colpito un sito di armi chimiche nella notte tra sabato e domenica.
Il regime di Assad, caduto domenica dopo un’offensiva lampo delle forze ribelli, era alleato del regime iraniano e faceva parte del cosiddetto Asse di resistenza contro Israele.
Per molti anni la Siria è stata utilizzata come passaggio per le armi iraniane, dirette verso gruppi terroristici tra cui Hezbollah in Libano, con cui Israele ha stipulato un traballante cessate il fuoco il mese scorso.
Secondo quanto riferito da fonti della sicurezza regionale, domenica Israele ha colpito almeno sette obiettivi nella Siria sudoccidentale.
Tra queste, la base aerea di Khalkhala a nord della città di Sweida, da cui le truppe dell’esercito siriano si sono ritirate sabato sera. Le fonti regionali hanno affermato che l’esercito ha lasciato dietro di sé un’ampia scorta di missili, batterie di difesa aerea e munizioni, che sono state colpite domenica.
Gli attacchi alla base aerea di Mezzeh a Damasco hanno preso di mira altri depositi di munizioni, hanno riferito le fonti.
Filmati pubblicati sui social media presumibilmente mostrano i grandi attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira la base aerea di Mezzeh. I video hanno mostrato un pesante bombardamento della base aerea.
Successivamente, Israele ha condotto un’altra ondata di almeno tre attacchi aerei nella capitale siriana, prendendo di mira un complesso di sicurezza e un centro di ricerca governativo.
Tali attacchi hanno causato ingenti danni alla sede principale della dogana e agli edifici adiacenti agli uffici dell’intelligence militare all’interno del complesso di sicurezza, nel quartiere Kafr Sousa di Damasco, dove Israele aveva precedentemente affermato che gli scienziati iraniani stavano sviluppando missili.
Anche il centro di ricerca è stato danneggiato, ha riferito una fonte.
Una delle fonti regionali ha affermato che gli attacchi hanno colpito le infrastrutture utilizzate per immagazzinare dati militari sensibili, equipaggiamenti e componenti di missili guidati.
Secondo i media locali, sono stati segnalati attacchi anche nei governatorati di Daraa e Suwayda, nella Siria meridionale.

• PROTEGGERE IL CONFINE
  Nel frattempo, l’IDF ha diramato un “avviso urgente” ai residenti di diversi villaggi siriani vicini al confine israeliano, durante le operazioni nella zona cuscinetto tra Israele e Siria.
“I combattimenti nella vostra zona stanno costringendo l’IDF ad agire e non intendiamo farvi del male”, ha detto il colonnello Avichay Adraee, portavoce in lingua araba dell’IDF su X. “Per la vostra sicurezza, dovete restare a casa e non uscire fino a nuovo avviso”.
L’avvertimento è stato lanciato ai residenti di Ofaniya, Quneitra, al-Hamidiyah, Samdaniya al-Gharbiyya e al-Qahtaniyah, tutti vicini al confine israeliano.
Domenica l’IDF ha preso il controllo della zona cuscinetto tra Israele e Siria, sottolineando che si trattava di una misura difensiva e temporanea, dato il caos nel Paese dopo la caduta del regime di Assad.
È la prima volta dalla firma dell’Accordo di disimpegno del 1974, in seguito alla guerra dello Yom Kippur, che le forze israeliane prendono posizione all’interno della zona cuscinetto tra Israele e Siria, sebbene in passato l’IDF sia entrato brevemente nella zona in diverse occasioni.
“Stiamo agendo prima di tutto per proteggere il nostro confine”, ha detto il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, in visita alle Alture del Golan. “Quest’area è stata controllata per quasi 50 anni da una zona cuscinetto, concordata nel 1974, l’Accordo di separazione delle forze. Questo accordo è crollato, i soldati siriani hanno abbandonato le loro posizioni”.
Secondo l’esercito, le truppe israeliane sono state dispiegate in specifiche posizioni strategiche nella zona cuscinetto per impedire la presenza di uomini armati non identificati nella zona.
Israele ha informato gli Stati Uniti prima di assumere il controllo della zona, ha riferito Axios domenica sera, dicendo all’amministrazione Biden che si trattava di una mossa temporanea, che sarebbe durata solo pochi giorni o al massimo alcune settimane.
L’IDF ha affermato che lo spiegamento è stato effettuato in coordinamento con la United Nations Disengagement Observer Force (UNDOF), che ha il compito di gestire la zona cuscinetto. I membri dell’UNDOF, fino a domenica, sono rimasti nelle loro posizioni.
L’emittente pubblica Kan ha riferito domenica che il governo stava valutando di estendere ulteriormente l’area sotto il controllo delle IDF nelle alture del Golan, “prima che qualcun altro entri nel vuoto che si è creato”, citando una fonte anonima a conoscenza dell’argomento.
Tra i movimenti in atto nella zona, domenica le truppe dell’unità d’élite Shaldag dell’aeronautica militare israeliana hanno conquistato il versante siriano del monte Hermon, situato a circa 10 chilometri dal confine, senza incontrare alcuna resistenza durante l’operazione.
Un’immagine circolata domenica sui social media e ampiamente pubblicata sui media ebraici mostrava un gruppo di soldati dell’IDF che reggevano una bandiera israeliana sulla cima della montagna.

(Rights Reporter, 9 dicembre 2024)

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Diario minimo (di un conflitto). La casa di carta

di Luciano Assin

È bastata meno di una settimana per far crollare, come un castello di carte, il sanguinoso regime della famiglia Assad, che da oltre 54 anni governava incontrastata la Siria. Anche questa volta, come è accaduto troppe volte in questo recente passato, le maggiori agenzie di Intelligence mondiali non sono state in grado di prevedere un simile collasso. Nonostante i proclami di Abu Muhammed el Julani, il nuovo astro nascente dello scacchiere mediorientale, la prolificazione di etnie, minoranze e correnti sunnite e sciite unite nell’odio contro la dittatura halawita ma profondamente distanti fra di loro su come affrontare il futuro non promette nulla di buono. Paradossalmente in una regione così martoriata come la nostra sono proprio i regimi più sanguinari e crudeli quelli che hanno garantito una discreta “stabilità” politica. Basti pensare a ciò che succede in Iraq e Libia dopo l’eliminazione di due figure chiave come Sadam Hussein e Gheddafi. Gli avvenimenti si sono svolti ad un ritmo così serrato che nessuna analisi è ancora possibile. Questa volta preferisco sottolineare alcuni spunti di riflessione.

• L’INCRINAMENTO DELL’ASSE SCIITA
Questo è sicuramente il risultato più eclatante di questi ultimi avvenimenti. Hezbollah ha siglato, con l’assenso iraniano, una tregua con Israele per riorganizzare le proprie fila. Hamas, lasciato solo al suo destino, cercherà anche lui di arrivare ad un compromesso col quale possa mantenere il suo potere nella striscia di Gaza. Proprio questo indebolimento dei tradizionali alleati degli Ayatollah porterà a mio avviso ad una accelerazione del programma nucleare iraniano. In questo Khamenei punta sulle incertezze europee e sulle dichiarazioni di Trump che preludono ad un graduale distacco dallo scacchiere mediorientale.

• IL MANCATO INTERVENTO RUSSO
   Putin è sempre stato attento a garantire una copertura politica e militare ai suoi alleati. Non aver saputo reagire in tempo reale all’implosione del regime halawita lede enormemente il suo prestigio e i suoi interessi geopolitici. La Russia ha in territorio siriano delle basi navali che rappresentano il suo unico sbocco sul Mediterraneo, è un patrimonio di vitale importanza per lo zar, che farà di tutto per non perderlo.

• L’IMPORTANZA STRATEGICA DEL GOLAN
  Oggi più che mai l’altopiano del Golan ha assunto un’importanza strategica che dopo la guerra del Kippur sembrava definitivamente scomparsa. Nel caso di un attacco sul fronte siriano le alture in questione rappresenterebbero un cuscinetto abbastanza profondo per arrestare un’operazione terrestre in larga scala. Proprio per evitare un simile scenario l’esercito israeliano ha già occupato delle postazioni strategiche nella zona cuscinetto stabilita negli accordi di non belligeranza siglati nel ’74.

• L’ATOMICA DEI POVERI
  Anche i siriani tentarono di realizzare un progetto nucleare che si concluse con la distruzione da parte di Israele nel 2007, di una centrale atomica in costruzione di progettazione nordcoreana. In mancanza della bomba atomica la famiglia Assad sviluppò un programma basato su ordigni chimici e batteriologici, usato con triste “successo” sia dal padre che dal figlio contro il loro stesso popolo. Una minaccia da non prendere assolutamente sottogamba.

• FIDARSI E BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
  Anche la Giordania è governata da una minoranza, quella hascemita, non si tratta di una vera e propria dittatura ma esiste indubbiamente un pugno di ferro. Nonostante un’economia malandata e oltre 650mila profughi siriani, fuggiti dalla guerra civile, Re Hussein è riuscito fino a mantenere una buona stabilità politica nel paese, ma tutto è possibile e Israele, nonostante gli accordi di pace, dovrà guardare al vicino orientale con un certo sospetto.
  A proposito di vicini, sulle alture del Golan esistono 4 villaggi drusi che da sempre si considerano parte della Siria. Già stasera, nella piazza principale di Majdal Shams, sventolavano in segno di solidarietà diverse bandiere siriane. Per il momento è da considerarsi più come un fatto di folklore che non come una rivolta civile, a mio avviso la minoranza drusa del Golan ha solo da perdere in tal caso.
  Insomma, per il momento tutti navigano a vista, e nemmeno il capitano più esperto è in grado di prevedere dove soffierà il vento.
  Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi.

(Bet Magazine Mosaico, 9 dicembre 2024)

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Il tribunale di Gerusalemme assegna 2,3 milioni di dollari ai “collaboratori” torturati dall’Autorità Palestinese

di Michelle Zarfati

La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha ordinato all’Autorità Palestinese di pagare un risarcimento a cinque palestinesi per un totale di circa 8 milioni di shekel (2,3 milioni di dollari) dopo che i civili sono stati torturati dalle forze dell’Autorità Palestinese con l’accusa di “collaborare” con le autorità israeliane. La sentenza è stata riportata per la prima volta domenica dal quotidiano israeliano Maariv.
  Il giudice incaricato Miriam Ilany ha affermato che l’Autorità Palestinese “è responsabile dell’incarcerazione illegale e della tortura dei collaboratori”, aggiungendo che la condotta in corso di Ramallah “costituisce una palese violazione dei diritti umani fondamentali”. Ilany ha anche scritto che “non si tratta solo della perdita della libertà dei querelanti, ma anche di torture fisiche e psicologiche prolungate che lasceranno cicatrici per tutta la vita”.
  Lo studio legale Arbus, Kedem e Tzur con sede a Gerusalemme, che ha rappresentato i palestinesi e le vittime del terrorismo, ha detto che le sentenze della corte inviano “un chiaro messaggio che lo Stato di Israele sosterrà chiunque gli tenda la mano nella sua lotta contro il terrorismo”. “Queste sentenze non riguardano solo il risarcimento, ma anche il ritenere responsabile un’autorità malvagia che perpetua il terrorismo a tutti i livelli”, ha condiviso l’azienda. Lo studio legale di Gerusalemme è attualmente coinvolto in un caso della Corte Suprema che mira ad espandersi, portando della legge israeliana a tutti coloro che hanno collaborato con lo Stato ebraico contro il terrorismo, nel tentativo di fornire un risarcimento aggiuntivo alle vittime della tortura palestinese.
  A settembre, la Corte distrettuale di Gerusalemme ha emesso sentenze che ordinano all’Autorità Palestinese di risarcire tre “collaborazionisti” palestinesi che sono stati torturati per circa 3 milioni di shekel (840.000 dollari). Tra gli altri metodi di tortura, le vittime sarebbero state picchiate su tutto il corpo con fucili, manganelli e cavi elettrici, private del sonno, costrette a bere sapone. Sarebbero stati rotti anche dei denti alle vittime, con minacce e torture ai familiari.
  “Gli atti definiti dai terroristi di ‘tradimento’ avevano lo scopo di prevenire ulteriore terrorismo contro Israele e contro gli israeliani – ha detto il giudice – cosa che l’Autorità Palestinese si era impegnata a prevenire nell’accordo provvisorio [degli Accordi di Oslo]”. Secondo i termini degli accordi di Oslo, che lo Stato ebraico ha firmato con Yasser Arafat negli anni ’90, la neonata Autorità Palestinese aveva il compito di combattere il terrorismo in alcune parti della Giudea e della Samaria.
  Secondo Ilany, l’Autorità Palestinese “ha il diritto di proteggere la propria sicurezza e di agire contro spie e collaboratori, purché ciò non danneggi gli interessi di sicurezza di Israele”. Il 4 settembre, Kedem ha ottenuto un ordine provvisorio che consente a un gruppo di famiglie israeliane, che hanno perso i propri cari a causa del terrorismo, di sequestrare 160 milioni di shekel (42 milioni di dollari) di fondi dell’Autorità Palestinese congelati da Gerusalemme in attesa del procedimento. La causa ha segnato la prima azione intrapresa da quando la Knesset israeliana ha approvato il “Compensation for Terror Victims Bill” a marzo. La legge richiede ai tribunali di concedere danni punitivi di 10 milioni di shekel (2,66 milioni di dollari) per ogni decesso. Per facilitare la riscossione dei risarcimenti punitivi da parte delle vittime e dei loro eredi, le sentenze possono essere eseguite contro “qualsiasi proprietà dell’imputato, comprese le proprietà sequestrate o congelate dallo Stato di Israele”. L’Autorità Palestinese ha una delle più grandi forze di sicurezza pro capite del mondo, addestrata e armata dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali. L’amministrazione Biden aveva avanzato una proposta nei mesi precedenti che vedeva l’Autorità Palestinese al centro, assumendo il controllo della Striscia di Gaza dopo la fine della guerra contro Hamas, una proposta finora non vista di buon occhio a Gerusalemme.

(Shalom, 9 dicembre 2024)

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La caduta di Assad è una vittoria di Israele

di Ugo Volli

• LA SIRIA PRESA DAI RIBELLI
  Il regime siriano è caduto la notte scorsa. Con un’operazione straordinariamente rapida i ribelli della HTS (Commissione per la salvezza della Siria) hanno conquistato in dieci giorni prima Aleppo, la seconda città del paese, e poi sono avanzati a sud fino a prendere le città della fascia più fertile e popolosa (Hama e poi Homs), fino ad arrivare a Damasco. Nel frattempo crollavano anche i bastioni del regime a sud, al confine con Israele, e a est, verso la Giordania e l’Iraq. Stamattina sono entrati a Damasco; il primo ministro siriano, Ghazi al-Jalali, ha sancito il passaggio del potere politico, il presidente Assad è fuggito in aereo per direzione ignota. Non vi è stata sostanzialmente resistenza militare e anche i protettori del regime (Russia, Iran con i suoi satelliti di Hezbollah e delle milizie sciite dell’Iraq), pur avendo basi e forze militare nel paese, non hanno tentato di resistere.

• UN CAMBIAMENTO STORICO
  È un fatto storico. Il partito Baath controllava il paese dal 1961, la famiglia Assad ne aveva preso le redini nel 1970, prima col generale Hāfiẓ al-Asad, poi dopo la sua morte nel 2000 col figlio ed erede designato, Bashār al-Asad. Sotto la loro guida e quella dei loro predecessori la Siria era stata fra i nemici più pericolosi di Israele, partecipando a tutte le guerre contro lo Stato ebraico. Il suo esercito era temuto, nel ’73 solo l’eroica resistenza di un reparto carrista impedì alle truppe siriane di dilagare dal Golan in Galilea, fino a Haifa. Per un lungo periodo la Siria degli Assad esercitò un potere di fatto anche sul Libano. Poi l’inefficienza e la corruzione del regime e il fatto di essere basato sulla minoranza religiosa degli alawuiti (più simili agli sciiti dell’Iran che alla maggioranza sunnita) produsse una forte resistenza che fra il 2011 e il 2016 divenne rivolta e guerra civile. Questa fu repressa da Assad con atroce violenza, anche con l’uso di gas contro le città ribelli, nonostante la velleitaria opposizione di Obama. Alla fine il regime riuscì a stare il piedi, ma solo grazie all’aiuto militare di Russia, Iran e Hezbollah. Larghe zone del paese restavano fuori controllo, presidiate dai curdi appoggiati dagli americani e dai sunniti sostenuti dalla Turchia.

• IL DOPPIO ROVESCIAMENTO STRATEGICO
  Il regime però era diventato un satellite dell’Iran e la base militare mediterranea della Russia. Per l’Iran, la Siria era l’anello centrale del suo progetto di un “ponte terrestre” fra il territorio persiano e il Mediterraneo e di un “anello di fuoco” mirato a distruggere lo Stato di Israele. Per la Russia era il punto di partenza per conservare e restaurare il potere che l’URSS aveva avuto nel Mediterraneo e nell’Africa. Entrambe queste grandi strategie imperialiste oggi sono crollate, per merito esclusivo di Israele. È stato lo smantellamento di Hezbollah e la distruzione delle difese aeree dell’Iran che hanno permesso ai ribelli di prendere l’iniziativa e di vincere. Gli ayatollah iraniani che pensavano il 7 ottobre del 2023 di dare il via alla distruzione dell’“entità sionista” ora si ritrovano con la liquidazione dei principali satelliti (Hamas e Hezbollah) che avevano addestrato, finanziato, armato e con l’instaurazione di un potere nemico nel paese centrale del loro progetto geopolitico, che avevano pure sostenuto con armi, finanziamenti, soldati. È un fallimento sostanziale, il crollo di un progetto decennale che ha impegnato centinaia di miliardi di dollari, tutto il potere militare e politico degli ayatollah: un crollo che potrebbe avere echi importanti anche dentro l’Iran. La Russia ha subito pure una sconfitta durissima, che mostra il costo enorme della guerra in Ucraina, che ha consumato le sue forze.

• LA PROSPETTIVA DI PACE
  C’è ora una possibilità di pace per il Medio Oriente, condizionata però alla distruzione (negoziata o armata) del progetto nucleare dell’Iran e al problema del panturchismo che diventa improvvisamente di attualità. La vittoria dei ribelli siriani è stata infatti sostenuta logisticamente e politicamente dalla Turchia, che ha ambizioni imperiali neo-ottomane sull’Asia centrale, sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, con toni sempre più aggressivi nei confronti di Israele. Bisognerà anche vedere se il nuovo regime siriano manterrà la faccia non aggressiva che ha ostentato finora, in particolare nei confronti di Israele, ma anche dei curdi. Israele si è preparata a tutti i possibili scenari, rafforzando il dispositivo militare nel Golan e occupando anche delle posizioni difensive nella fascia smilitarizzata tra il suo confine e quello siriano. Ma la sconfitta del tentativo imperialista iraniano apre comunque una finestra di pace possibile.

• UNA VITTORIA PER ISRAELE
  Questi sviluppi hanno un grande significato per Israele. È chiaro che la strategia della guerra fino alla vittoria sostenuta dal governo Netanyahu contro il freno dell’amministrazione Biden e anche di importanti forze interne (l’opposizione di sinistra, ma anche parte dell’apparato militare e dei servizi) ha pagato. Israele potrebbe uscire da questa guerra con una vittoria militare che significa un sostanziale ridimensionamento dei suoi nemici, e – nella logica politica mediorientale – la possibilità di consolidare i rapporti con il mondo sunnita, in particolare con l’Arabia Saudita. Per concludere la terribile pagina di storia aperta dal pogrom del 7 ottobre, Israele deve però ottenere la liberazione dei rapiti, eliminare del tutto la struttura militare di Hamas e Hezbollah e soprattutto liquidare la minaccia nucleare iraniana. È probabile che con la presidenza Trump questi obiettivi siano a portata. Sarebbe una vittoria per tutto il mondo libero, ottenuta nonostante la freddezza di buona parte della politica europea e americana, in particolare dei suoi settori che a torto si dicono progressisti.

(Shalom, 8 dicembre 2024)





La caduta di Assad e la saldatura degli anelli

di Niram Ferretti

La rapida avanzata delle fazioni dei ribelli in Siria e la fuga di Assad mette in luce alcuni aspetti di forte rilievo geopolitico sullo scacchiere mediorientale, al centro di una guerra che si protrae da un anno e due mesi tra Israele e Hamas spalleggiato da Hezbollah.
  Il primo è che con la caduta del regime di Assad, il cui esercito si è squagliato come neve al sole, Israele incassa un altro risultato favorevole.
  Dal 2013 ad oggi sono state centinaia le incursioni aeree israeliane sul territorio siriano per colpire le infrastrutture di Hezbollah, oggi che Hezbollah si trova fortemente indebolito, non ha potuto soccorrere il regime fantoccio russo alawita, lasciando di fatto spazio aperto all’avanzata dei ribelli. L’Iran, principale sponsor della formazione sciita libanese, viene così ulteriormente indebolito.
  Negli ultimi mesi ha dovuto incassare l’uccisione del proprio plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, la decapitazione dei vertici militari di Hezbollah, e la distruzione di una parte consistente dell’arsenale del proprio principale delegato. Ora perde anche la sponda siriana, mentre a Gaza, quel che resta di Hamas, si avvia all’inevitabile conclusione della sua egemonia politico-militare all’interno della Striscia.
  Tutto ciò mostra con evidenza che la strategia iraniana di accerchiamento di Israele, di un suo strangolamento dentro un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto idealmente contemplare anche una sollevazione contro Israele in Cisgiordania, è fallito. Il cerchio è stato spezzato e sembra assai difficile che esso possa ricostruirsi in tempi brevi.
  Il secondo è che la Russia, grande protettrice della Siria, non è in grado di garantire ad Assad il supporto militare necessario. È sicuramente prematuro affermare che con la caduta del regime di Assad, la Russia abbia perso il suo avamposto in Medio Oriente acquisito dopo la rinuncia americana ad avere un ruolo risolutivo nel contesto della guerra civile siriana, ma certo la sua mancanza di determinazione nel fare da argine all’avanzata delle forze anti Assad, denuncia la difficoltà a impegnarsi su un altro fronte che non sia quello ucraino.
  Una Russia debole in Medio Oriente sicuramente non dispiace a Israele, considerando oggettivamente che le alleanze russe sono esplicitamente anti-israeliane come lo sono sempre state dal 1956 ad oggi. Nel dopo Assad, quale che sarà la fisionomia politica che assumerà il paese, se la Russia non si impegnerà a inviare forze per combattere i ribelli, essa perderà progressivamente peso.
  Lo scenario che si inaugura è ancora fluido, ma apre indubbiamente una prospettiva di consolidamento americana e rilancia Israele come la principale potenza regionale. Spetterà dunque alla nuova Amministrazione Trump cogliere l’opportunità che si presenta, consentire a Israele di indebolire ulteriormente l’Iran e congiungere agli anelli già forgiati degli Accordi di Abramo, l’anello più importante, quello saudita.

(L'informale, 8 dicembre 2024)

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Scandalo Wikipedia: un gruppo di editor sta riscrivendo le voci contro Israele

Da enciclopedia libera a megafono di propaganda pro-pal. Smascherata operazione per rimodellare la percezione del conflitto israelo-palestinese: alterati migliaia di articoli.

In tempi recenti, diverse ricerche e analisi hanno dimostrato come Wikipedia, pur essendo nata come un enciclopedia digitale aperta a tutti e con l’obbligo dell’imparzialità, si sia sempre più spesso prestata a riflettere i pregiudizi degli utenti che vi creano e modificano contenuti, rivelando un bias politico sbilanciato a sinistra. Tanto che persino il suo co-fondatore Larry Sanger, intervistato nel luglio 2021 dalla testata online UnHerddisse che la sua creazione non era più affidabile.
  Tale pregiudizio è diventato particolarmente evidente nelle pagine dedicate a Israele e al popolo ebraico: dopo che già nel marzo 2024 una ricerca condotta dall’accademica israeliana Shlomit Aharoni Lir e pubblicata dal World Jewish Congress, dal titolo The Bias Against Israel on Wikipedia, ha rivelato un forte sbilanciamento contro lo Stato ebraico da parte dell’enciclopedia, ulteriore conferma è giunta di recente dal giornalista investigativo americano Ashley Rindsberg, che in una recente inchiesta ha smascherato un’operazione coordinata da parte di un gruppo di utenti di Wikipedia per rimodellare la percezione del conflitto israelo-palestinese.
  Intervistato a inizio dicembre dalla rivista Algemeiner, Rindsberg ha dichiarato che questa campagna telematica ha “cambiato quello che sembra essere il volto non solo del conflitto israelo-palestinese, ma dell’intera giustificazione e legittimità del diritto di Israele a esistere, che è il loro vero obiettivo”.

• PULIZIA IDEOLOGICA
  Nel report, pubblicato ad ottobre dalla testata digitale Pirate Wires, Rindsberg ha messo in luce una coalizione di circa 40 editor di Wikipedia che ha sistematicamente alterato migliaia di articoli per spostare l’opinione pubblica contro Israele. Questi individui, agendo in maniera coordinata, hanno eseguito circa 850.000 modifiche su quasi 10.000 articoli legati al conflitto, spostando sottilmente il fondamento ideologico dei contenuti relativi a Israele, ai palestinesi e più in generale alla geopolitica del Medio Oriente. Nell’inchiesta si legge:
  Questi sforzi hanno un successo notevole. Digita “Sionismo” nella casella di ricerca di Wikipedia e, a parte l’articolo principale sul sionismo (e una pagina di disambiguazione), il riempimento automatico restituisce: “Sionismo come colonialismo dei coloni”, “Sionismo nell’era dei dittatori” (in titolo del libro di un trotskista filo-palestinese), “Sionismo dal punto di vista delle sue vittime” e “Razzismo in Israele”.
  Le modifiche in questione spaziano dalla rimozione dei legami tra la storia ebraica e la terra di Israele all’omissione di riferimenti alle atrocità commesse durante l’attacco condotto da Hamas nel sud di Israele lo scorso 7 ottobre, tra cui, in modo più eclatante, riferimenti a stupri e altri atti di violenza sessuale.
  Gli editor filopalestinesi hanno anche ripulito articoli su personaggi storici controversi, tra cui quelli legati alla Germania nazista, come il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, oltre ad aver diluito i riferimenti alle violazioni dei diritti umani da parte del regime iraniano.
  In un articolo sugli “ebrei”, ad esempio, un editor ha rimosso la frase “Terra di Israele” da una frase sull’origine del popolo ebraico, del quale si cerca di negare il legame storico con la terra in cui vivevano prima della distruzione del Secondo Tempio.

• TECH FOR PALESTINE
  L’operazione è stata appoggiata da Tech for Palestine, un gruppo filopalestinese. Secondo l’indagine di Rindsberg, il gruppo lavora in tandem con editor veterani di Wikipedia per eseguire campagne di editing coordinate. Gli editor lavorano quindi in coppia o in trio nel tentativo di non essere smascherati.
  Tech for Palestine ha creato un canale dedicato, Wikipedia Collaboration, allo scopo di semplificare i loro sforzi. L’iniziativa prevedeva il reclutamento di volontari, che andavano guidati attraverso sessioni di orientamento ben strutturate. Il messaggio di benvenuto del canale ha evidenziato il suo intento con questa domanda: “Perché Wikipedia? È una risorsa ampiamente accessibile e il suo contenuto influenza la percezione pubblica”.
  Una editor veterana conosciuta come Ïvana, il cui nome utente presenta come logo un triangolo rosso (simbolo spesso utilizzato dai filopalestinesi per identificare e prendere di mira gli ebrei), è stata nominata esperta di Wikipedia del canale. L’influenza del gruppo si estende oltre gli articoli relativi al conflitto, includendo anche profili di celebrità, con l’obiettivo di amplificare narrazioni vicine alle loro posizioni e di mettere a tacere le critiche verso organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah.

• PERCEZIONE ALTERATA
  Milioni di lettori vengono influenzati da questa campagna. Siccome gli articoli di Wikipedia sono spesso in cima ai risultati dei motori di ricerca, e in particolare di Google, questi cambiamenti dettano di fatto la percezione che l’opinione pubblica mondiale ha del conflitto israelo-palestinese. “Milioni e milioni di persone vengono imbottite di informazioni che sono state essenzialmente prodotte da un gruppo di 40 redattori pro-Palestina che agiscono in modo coordinato”, ha detto Rindsberg ad Algemeiner.
  Gli effetti sono molteplici. Il modello di Wikipedia di editing aperto e guidato da una comunità di utenti si basa sul presupposto della buona fede. Alterando narrazioni storiche e omettendo dettagli chiave, non stanno semplicemente influenzando le opinioni, ma stanno attivamente rimodellando la realtà per un pubblico globale ignaro di queste dinamiche e, in questo caso, come ha detto Rindsberg, “alterando completamente il modo in cui il mondo vede il conflitto e la regione”.
  Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del Pirate Wires, l’utente filopalestinese Ïvana ha dichiarato di essere stata “convocata” dal Wikipedia’s Arbitration Committee, e per le sue violazioni rischia un potenziale ban a vita dalla piattaforma. Rindsberg ha affermato che sono state avviate anche altre indagini in seguito alla pubblicazione dell’articolo.

(ATLANTICO, 8 dicembre 2024)

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Sarà restaurato il regno di Israele?

di Michael Vlach

Un passo della Bibbia che conferma l'attesa di una restaurazione del regno d'Israele è Atti 1:6-7.
“Essi dunque, riuniti, lo interrogarono dicendo: ”Signore, è in questo tempo che ricostituirai il regno a Israele? Egli rispose loro: Non spetta a voi conoscere tempi o date che il Padre ha riservato alla propria autorità”.
Questo passo, in cui sono riportate le ultime parole di Gesù agli apostoli prima della sua ascensione, conferma l'idea di una restaurazione del regno d'Israele in un duplice senso. In primo luogo, è chiaro da questi versetti che a questo punto avanzato del ministero terreno di Gesù, gli apostoli stavano ancora facendo i conti con la restaurazione del regno d'Israele. In secondo luogo, Gesù non li rimprovera né li redarguisce per questo. La sua risposta conferma quindi la correttezza della loro comprensione. Per quanto riguarda il primo punto, Atti 1:6 mostra chiaramente che gli apostoli si aspettavano una futura restaurazione del regno di Davide. McLean afferma che:
  “I termini «Israele» e «Israelita» ricorrono 32 volte nel Vangelo di Luca e negli Atti. Ogni volta si riferiscono al popolo di Israele come unità nazionale. Sembra quindi corretto mettere in relazione la domanda dei discepoli in Atti 1:6 con la restaurazione del dominio del popolo d'Israele. Essi volevano sapere da Gesù quando sarebbe avvenuta la restaurazione del regno di Davide, come descritto e definito nell'Antico Testamento”.
  Che questa aspettativa dei discepoli non fosse un'idea sbagliata è evidente per le seguenti due ragioni: in primo luogo, Atti 1:3 dice che Gesù parlò con i suoi discepoli per quaranta giorni dopo la sua risurrezione “delle cose riguardanti il regno di Dio”. È improbabile che i discepoli avessero ancora idee sbagliate sul regno di Dio dopo questi quaranta giorni di istruzione da parte del Signore risorto. Penney afferma: “La domanda dei discepoli (1,6) non può essere interpretata come un malinteso nazionalistico. È modellata sulle parole di Gabriele dei capitoli iniziali del Vangelo (Luca 1:26-32)” .
  In secondo luogo, la mancanza di un rimprovero da parte di Gesù in Atti 1,7 è una conferma che i discepoli avevano ragione nella loro fede nella restaurazione di Israele. Se i discepoli si fossero sbagliati, Gesù avrebbe corretto il loro errore, come ha fatto in altri casi. La mancanza di rimprovero può essere vista come una conferma del loro punto di vista. McLean afferma che:
  “Il ministero di Gesù consisteva, tra le altre cose, nell'indicare i falsi insegnamenti o nel rimproverare i falsi maestri. È quindi notevole che Gesù non abbia corretto la domanda dei suoi discepoli sulla restaurazione del regno di Israele. Data l'insistenza con cui Gesù correggeva i suoi discepoli ogni volta che erano in errore, sembra ragionevole concludere che la loro domanda in Atti 1:6 esprimesse la legittima aspettativa di una futura restaurazione del regno di Israele”.
  Gesù ha rifiutato di parlare dei tempi della restaurazione di questo regno, ma non ha respinto l'idea che ce ne sarà uno. Chance scrive:
  La risposta di Gesù è, in breve, un rifiuto della speranza di un'imminente restaurazione di Israele. Non è, tuttavia, un rifiuto della speranza di una tale restaurazione in sé e per sé”.
  Sebbene i supersessionisti abbiano spesso ammesso che i discepoli nutrissero aspettative nazionalistiche a questo punto, non ritengono che Atti 1:6 sia una prova di una futura restaurazione di Israele come nazione. I supersessionisti offrono due spiegazioni alternative per il significato di Atti 1,6. In primo luogo, alcuni sostengono che i discepoli avevano semplicemente una falsa comprensione del regno di Dio, o che non avevano ancora capito il vero significato del messaggio di Gesù. Secondo Zorn, Atti 1:6 descrive “l'ultimo guizzo della speranza degli apostoli che la nazione di Israele sarebbe tornata a essere una teocrazia politica”.
  In secondo luogo, altri come Robertson sostengono che Israele sarà effettivamente restaurato, ma in un modo che non ha nulla a che fare con l'aspettativa nazionalistica dei discepoli. Egli scrive:
  “Il regno di Dio sarà restaurato in Israele attraverso il regno del Messia, attraverso l'opera dello Spirito Santo nei discepoli di Cristo, che porteranno la loro testimonianza fino alle estremità della terra”.
  Quindi, la restaurazione del regno di Israele consisterebbe nella proclamazione del messaggio del regno di Dio nel mondo, operata dallo Spirito Santo. A sostegno della sua tesi, Robertson collega la domanda dei discepoli in Atti 1,6 con le parole di Gesù , secondo cui i discepoli riceveranno la forza dello Spirito Santo e saranno testimoni di Gesù fino agli estremi confini della terra:
  “Queste parole [in 1,8] non devono essere disgiunte dalla domanda dei discepoli. Esse hanno un riferimento diretto alla restaurazione del regno di Israele”.
  Nonostante questi tentativi di spiegazione, Atti 1,6 è e rimane un'importante prova del punto di vista non supersessionista. Considerando che i discepoli erano stati istruiti sul regno di Dio dal Signore risorto per 40 giorni (cfr. Atti 1,3), è improbabile che avessero un'idea completamente sbagliata sulla natura di questo regno e sulla relazione di Israele con esso. Sebbene Gesù nella sua risposta non confermi esplicitamente la loro speranza, conferma indirettamente la correttezza della loro aspettativa. Mc Knight ha ragione quando dice: “Poiché Gesù era un così buon maestro, abbiamo il diritto di supporre che le speranze impulsive dei suoi ascoltatori fossero giustificate”. Sono quindi d'accordo con l'opinione di Walaskay secondo cui Gesù “non disse nulla che avrebbe smorzato le speranze dei suoi discepoli per un regno nazionale”.
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Estratto da Hat die Gemeinde Israel ersetzt?

(Nachrichten aus Israele, novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



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Hamas verifica le condizioni degli ostaggi: la mossa in vista di un accordo

La leadership politica di Hamas ha chiesto a vari gruppi nella Striscia di Gaza una verifica delle condizioni degli ostaggi in vista di un possibile accordo che preveda il loro rilascio. Lo scrive il quotidiano arabo Asharq Al-Awsat citando fonti palestinesi secondo le quali appunto Hamas avrebbe chiesto aggiornamenti sugli ostaggi tenuti da altri gruppi a Gaza in quanto prevede possibili sviluppi su un accordo di cessate il fuoco con Israele.
  Israele ritiene che siano 100 gli ostaggi ancora nella Striscia di Gaza, tra vivi e morti. Il Times of Israel riferisce che si ritiene che circa la metà siano vivi.
  Sul fronte dei negoziati per Gaza, ''questa volta c'è la possibilità concreta di raggiungere un accordo sugli ostaggi'' con Hamas, aveva dichiarato il 4 dicembre scorso il ministro della Difesa israeliano Israel Katz, esprimendo il suo ottimismo durante una visita alla base aerea di Tel Nof e sottolineando che ''riportare a casa gli ostaggi è una priorità per Israele''. Katz aveva quindi spiegato che c'è una ''crescente pressione'' su Hamas affinché accetti l'accordo.
  "La cosa più importante oggi nella guerra è riportare a casa gli ostaggi. Questo è l'obiettivo supremo che ci sta di fronte e stiamo lavorando in ogni modo per far sì che ciò accada", aveva poi affermato Katz in una nota diffusa dal suo ufficio. "L'intensità della pressione su questa mostruosa organizzazione chiamata Hamas sta aumentando e c'è la possibilità che questa volta possiamo davvero arrivare a un accordo sugli ostaggi", aveva aggiunto.

(Adnkronos, 7 dicembre 2024)

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Dopo il 7 ottobre

di Micol Flammini

Le milizie di Hayat Tahrir al Sham (Hts) potrebbero nominare il vescovo latino Hanna Jallouf nuovo governatore provvisorio di Aleppo. Il rumor, inizialmente limitato a qualche account su X, è stato ripreso da Hassan I. Hassan, fondatore e direttore di New Lines Magazine. Hassan si è detto “scettico” che ciò possa accadere, ma se invece fosse tutto vero, “non ne sarei sorpreso: ormai è difficile definire qualcosa come impossibile”. L’eventualità pare inverosimile, tant’è che lo stesso Jallouf ha smentito tutto: “Siamo uomini di Dio, non ci occupiamo di politica”. Ma il punto rilevante della questione è un altro. Ciò che conta è la volontà di Hts di farsi percepire dal mondo come una compagine politica “normale”, senza marchi di sorta: niente legami con il terrorismo, tantomeno con quello islamista che fu di Abu Bakr al Baghdadi.
  Gli uomini di Nasrallah impararono a combattere al fianco dei soldati russi e anche dei mercenari della Wagner. Mentre combattevano, Israele li ha osservati per anni, li ha seguiti, ha tracciato la catena di comando: in Siria Hezbollah è diventato un libro aperto per Israele. Nasrallah nel 2015 non poteva sapere che sarebbe successo il contrario, non sapeva che lui sarebbe stato eliminato a Beirut in un pomeriggio di fine settembre e che proprio la caduta di Hezbollah sarebbe stata tra gli elementi determinanti di un possibile crollo del regime di Assad in Siria.
  Negli ultimi giorni Tsahal ha rafforzato la sua presenza lungo il confine con la Siria, mentre l’avanzata dei ribelli guidati dal gruppo Hayat Tahrir al Sham si spinge verso sud e si avvicina alla frontiera con Israele. Contemporaneamente i soldati israeliani e l’intelligence devono tenere sotto osservazione i jihadisti, che stanno sbaragliando l’esercito di Assad, e Teheran, che da sempre è un alleato prezioso del regime siriano e insieme a Mosca ha contribuito alla fortificazione del dittatore mandando i suoi uomini a fare guerra per mantenerlo al potere. Non ci sono alleati per Israele in questo stravolgimento siriano, c’è una situazione da osservare, ci sono opportunità da cogliere con cautela. Se Teheran ha aiutato Assad a sopravvivere, Assad ha dato a Teheran la possibilità di utilizzare la Siria come un crocevia per rifornire le sue milizie, per armare Hezbollah, renderla sempre più numerosa e dotata di un arsenale potente quanto quello di un esercito regolare. Nel 2015, tuonando nel suo discorso, Nasrallah aveva definito la Siria la “spina dorsale” delle milizie iraniane: intendeva Hezbollah in primo luogo, ma poi dal Libano le armi e il denaro di Teheran si spostavano altrove. L’occhio di Israele sulla Siria è sempre stato presente per contenere Teheran e anche adesso, nel caso doppio di un regime che cade sotto i colpi di gruppi che non saranno mai alleati, lo stato ebraico osserva due variabili: fino a che punto i ribelli jihadisti possono essere una minaccia e quanto la Repubblica islamica intende aiutare Assad a sopravvivere e utilizzare il momento per introdurre uomini e armi, da utilizzare poi contro Israele. Alcune fonti vicine a Teheran hanno raccontato del ritorno in Siria di Javad Ghaffari, comandante delle brigate al Quds, conosciuto come tanti con l’appellativo di “macellaio di Aleppo”, la prima città presa dai ribelli nella loro avanzata è stata distrutta da russi e iraniani con attacchi in aree residenziali prive di interesse militare, il titolo onorifico di “macellaio” è stato diviso da molti generali fra Mosca e Teheran. Ghaffari però non è stato soltanto ad Aleppo, ha combattuto in molte parti della Siria, è uno di campo, e nel 2021 venne richiamato: soltanto alcune fonti israeliane diedero una spiegazione per il suo ritorno a Teheran e dissero che il regime siriano era contrario ad alcune sue azioni contro soldati americani e ne comandò l’espulsione. Ghaffari è un generale incauto, vorace, pronto a tutto, il suo ritorno rappresenta una mossa disperata tanto per Teheran quanto per il regime di Assad e a Israele non è sfuggita.
  La Siria è stata un campo di addestramento per le guerre dei russi e degli iraniani, per Israele è stato un campo di osservazione per studiare il combattimento dei nemici, per seguirne i movimenti e per bloccare i crocevia delle armi che Teheran mandava a Hezbollah proprio attraverso la Siria. Dopo il 7 ottobre, Israele ha fatto una valutazione diversa riguardo alla propria sicurezza: l’Iran ha mosso attorno a Israele una strategia di accerchiamento che contava sul Libano, controllato da Hezbollah, come elemento di maggior prestigio; sulla Striscia di Gaza come punto di destabilizzazione; sulla Siria come punto di rifornimento per il passaggio degli interessi del regime e poi sugli houthi nello Yemen e le milizie sciite in Iraq. Per bloccare Hezbollah e non permettere a Teheran di ricostituire in tutta la sua potenza l’anello di fuoco, Israele ha scelto di togliere le certezze del regime iraniano, ha iniziato a colpire la Siria sempre più in profondità, bloccando le autostrade più usate per il trasporto delle armi, ha minacciato Assad, e in questo contesto si sono inseriti i ribelli, che da tempo preparavano l’avanzata. Non ci sono alleati per Israele in Siria, ma se crolla Assad, Teheran perde la sua “spina dorsale”. Dovrà ricostruire tutta la sua infrastruttura contro Israele.

Il Foglio, 7 dicembre 2024)

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L’Iran in fuga dalla Siria. Assad abbandonato a se stesso

La Forza Quds, elite delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, ha lasciato la Siria venerdì mattina, mentre è fuga generale anche dei diplomatici iraniani. Spariti nel nulla i combattenti sciiti iracheni. Assad è solo

Secondo fonti iraniane, l’Iran ha iniziato venerdì a evacuare i suoi comandanti militari e il personale dalla Siria, a dimostrazione dell’incapacità da parte di Teheran di contribuire a mantenere al potere il presidente Bashar al-Assad.
Tra coloro che sono stati evacuati nei vicini Iraq e Libano c’erano anche i comandanti di alto rango delle potenti Forze Quds, il ramo esterno del Corpo delle Guardie della Rivoluzione.
Questa decisione ha segnato una svolta notevole per Assad, il cui regime è stato sostenuto dall’Iran durante i 13 anni di guerra civile in Siria, e per l’Iran, che ha utilizzato la Siria come rotta chiave per fornire armi a Hezbollah in Libano.
Anche il personale delle Guardie, alcuni membri dello staff diplomatico iraniano, le loro famiglie e civili iraniani sono stati evacuati, tra loro anche i funzionari regionali. Gli iraniani hanno iniziato a lasciare la Siria venerdì mattina.
Sono state ordinate evacuazioni presso l’ambasciata iraniana a Damasco e presso le basi delle Guardie rivoluzionarie. Almeno una parte del personale dell’ambasciata è partita.
Alcuni partono in aereo per Teheran, mentre altri via terra diretti in Libano, Iraq e al porto siriano di Latakia, hanno affermato i funzionari.
“L’Iran sta iniziando a evacuare le sue forze e il suo personale militare perché non possiamo combattere come forza consultiva e di supporto se l’esercito siriano stesso non vuole combattere”, ha affermato in un’intervista telefonica Mehdi Rahmati, un importante analista e consigliere iraniano.
“La conclusione”, ha aggiunto, “è che l’Iran ha capito che non può gestire la situazione in Siria in questo momento con alcuna operazione militare e questa opzione è fuori discussione”.
Insieme alla Russia, l’Iran è stato il più potente sostenitore del governo siriano, inviando consiglieri e comandanti alle basi e in prima linea e sostenendo le milizie.
Ha inoltre schierato decine di migliaia di combattenti volontari, tra cui iraniani, afghani e sciiti pakistani, per difendere il governo e riconquistare il territorio dal gruppo terroristico dello Stato islamico al culmine della guerra civile siriana. Alcune delle forze iraniane, come la brigata afghana Fatemiyoun, erano rimaste in Siria presso basi militari gestite dall’Iran; venerdì, sono state trasferite anche a Damasco e Latakia, una roccaforte del governo di Assad. Un video pubblicato su account affiliati alle Guardie mostrava le Fatemiyoun in uniforme che si rifugiavano nel santuario di Seyed Zainab vicino a Damasco.
L’offensiva a sorpresa di una coalizione ribelle ha cambiato radicalmente il panorama della guerra civile. In poco più di una settimana, i ribelli hanno invaso grandi città come Aleppo e Hama, conquistato fasce di territorio in quattro province e si sono mossi verso la capitale siriana, Damasco.
Fonti iraniane hanno affermato che due generali di alto rango delle forze Quds iraniane, schierate per consigliare l’esercito siriano, sono fuggiti in Iraq mentre venerdì vari gruppi ribelli hanno preso il controllo di Homs e Deir al-Zour.
“La Siria è sull’orlo del collasso e noi la guardiamo con calma”, ha detto Ahmad Naderi, membro del Parlamento iraniano, in un post sui social media venerdì. Ha aggiunto che se Damasco cadesse, l’Iran perderebbe anche la sua influenza in Iraq e Libano, dicendo: “Non capisco il motivo di questa inazione, ma qualunque cosa sia, non è un bene per il nostro Paese”.
L’offensiva dei ribelli è arrivata in un momento di relativa debolezza per tre dei più importanti sostenitori della Siria. La capacità dell’Iran di aiutare è stata ridotta dal suo conflitto con Israele; l’esercito russo è stato indebolito dalla sua invasione dell’Ucraina; e Hezbollah, che in precedenza aveva fornito combattenti per aiutare il governo di Assad nella lotta contro lo Stato islamico, è stato duramente colpito dalla sua stessa guerra con Israele.
La caduta di un ulteriore territorio in mano alle forze ribelli, guidate dal gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham, potrebbe anche minacciare la capacità dell’Iran di fornire armi e consiglieri al regime di Assad o a Hezbollah.
Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, si è recato a Damasco questa settimana, incontrando Assad e garantendogli il pieno sostegno dell’Iran.
Ma venerdì a Baghdad, è sembrato fare una dichiarazione più ambigua. “Non siamo cartomanti”, ha detto in un’intervista alla televisione irachena. “Qualunque sia la volontà di Dio accadrà, ma la resistenza adempirà al suo dovere”.

(Rights Reporter, 7 dicembre 2024)

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Siria e poi Iran. Chi sfida Israele finisce a pezzi

Non avremmo assistito alla caduta di Aleppo se la forza complessiva dell'Iran non fosse stata devastata dall'annientamento da parte di Israele dei suoi alleati di Hezbollah e dallo schiacciamento delle difese aeree di Teheran

di Edward Luttwak

Dal quinto giorno della guerra in Medio Oriente (12 ottobre 2023, con l'articolo titolato «Che cosa otterrà l'invasione di Gaza da parte di Israele?»), ho cercato di spiegare e persino di prevedere gli eventi in corso, guidato dalla certezza che questa guerra non poteva essere fondamentalmente diversa dalle precedenti guerre di Israele, che risalgono al 1947 e che hanno portato a una vittoria israeliana decisiva attraverso sconfitte iniziali, aspre controversie politiche e molta confusione.
Non avremmo assistito alla caduta di Aleppo se la forza complessiva dell'Iran non fosse stata devastata dall'annientamento da parte di Israele dei suoi alleati di Hezbollah e dallo schiacciamento delle difese aeree di Teheran. Per questo la caduta di Aleppo suggerisce che il regime iraniano stesso potrebbe crollare, se questa guerra dovesse continuare per qualche altro round.
La situazione era molto diversa quando tutto è iniziato il 7 ottobre 2023 con l'attacco a sorpresa di Hamas e il leader iraniano Ayatollah Khamenei che allegramente vaticinava l'imminente distruzione di Israele.
D'altronde, da sempre tutte le guerre di Israele sono state accompagnate da una costante fiducia dei suoi nemici nella imminente vittoria. Tra la prima e l'ultima guerra, quando il presidente egiziano Abdul Gamal Nasser inviò l'esercito egiziano nel Sinai nel maggio 1967 e impose un blocco del Mar Rosso, sapendo che Israele avrebbe combattuto, accolse con favore l'opportunità: «Gli ebrei minacciano la guerra. Noi diciamo loro che siete i benvenuti. Siamo pronti alla guerra». I combattimenti iniziarono il 5 giugno e l'esercito e l'aviazione egiziana crollarono in quattro giorni.
Nell'ultima guerra, il riuscitissimo attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre è stato accolto con reazioni entusiastiche e senza riserve non solo da parte di folle esaltate, ma anche da parte di professori statunitensi di ruolo, come Joseph Massad della Columbia, che l'ha definito «meraviglioso». L'8 ottobre, Hezbollah si è unito con fiducia alla guerra lanciando il primo di migliaia di razzi e missili, ricordando la profezia ottimistica del suo leader Hassan Nasrallah, per cui «Israele non è più forte di una tela di ragno».
Un altro elemento di continuità è che il primo ministro israeliano di turno è sempre visto come il peggior leader possibile per il Paese in tempo di guerra, o forse per qualsiasi Paese in qualsiasi momento. Alla vigilia della guerra del 1967, il premier e ministro della Difesa era Levi Eshkol, un fedele uomo di partito con l'atteggiamento di un contabile stanco, che rispondeva alle fragorose minacce di annientamento dei leader arabi con parole incerte e inficiate da un difetto di pronuncia, finché la popolazione furiosa non costrinse a promuovere a ministro della Difesa il suo principale nemico politico, l'eroe di guerra guercio Moshe Dayan. Quella fu la guerra che si concluse con la totale sconfitta dei nemici di Israele in soli sei giorni di combattimento.
Nella Guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 il primo ministro era Golda Meir, alla fine molto celebrata come una delle pioniere del Paese, ma all'epoca aspramente criticata per aver rifiutato l'autorizzazione agli attacchi aerei quando le offensive a sorpresa di Egitto e Siria furono imperdonabilmente rilevate troppo tardi per mobilitare l'esercito. Migliaia di morti, ma la guerra si concluse molto bene, con l'esercito israeliano che attraversava il Canale di Suez sulla strada per il Cairo e con entrambi i Paesi pronti a passare da un cessate il fuoco a una pace duratura.
Nella guerra del Libano del 1982, che spinse l'esercito dell'Olp con carri armati e artiglieria fuori dal Libano, il primo ministro Menachem Begin fu platealmente incapace di controllare il ministro della Difesa ed eroe di guerra Ariel Sharon. Tutti concordarono sul fatto che Begin fosse assolutamente inadatto alla carica, come nel caso del primo ministro Ehud Olmert nella guerra del 2006 contro Hezbollah. Con una formazione da ufficiale inferiore, Olmert permise al Capo di Stato maggiore, appartenente all'aeronautica, di condurre una guerra di bombardamenti che non uccise molti combattenti di Hezbollah, ma scatenò in compenso una guerra di propaganda a livello mondiale, quando i giornalisti libanesi sotto il controllo di Hezbollah presentarono all'opinione pubblica i combattimenti come un massacro di donne e bambini, senza mai menzionare gli uomini armati. Proprio come a Gaza dopo il 7 ottobre.
In questa guerra, Netanyahu è stato pre-condannato politicamente per la sua disponibilità ad accettare due imbarazzanti ultra-estremisti nella sua coalizione di governo, per raggiungere i 61 voti di una maggioranza risicata nel Parlamento israeliano di 120 seggi, e ulteriormente condannato dai «progressisti» israeliani per il suo tentativo di riformare il sistema giudiziario con la nomina di giudici da parte dei ministri della Giustizia, in contrapposizione ai giudici più anziani. Netanyahu è così odiato dai suoi oppositori infinitamente frustrati - le sue continue manovre di coalizione lo hanno tenuto al potere per due decenni - che persino la sua riforma giudiziaria, perfettamente democratica, è stata travisata come un «golpe giudiziario» in innumerevoli manifestazioni. I suoi nemici hanno trovato molti simpatizzanti negli Stati Uniti, ma non in Europa, dove tutti i giudici sono nominati da ministri eletti dal governo e non da giudici più anziani.
Un'ultima accusa che Netanyahu non può negare: avendo formato il suo primo governo di coalizione il 18 giugno 1996, a cui ne sono seguiti altri cinque ma con brevi interruzioni, Netanyahu è stato al comando nei due decenni in cui Israele non ha cercato di fermare Hamas mentre costruiva la sua vasta rete di tunnel da combattimento, né Hezbollah mentre accumulava migliaia di missili da bombardamento sempre più efficaci e decine di migliaia di razzi. L'unico rimedio possibile era quello di prevenire entrambe le minacce prima del 7 ottobre 2023, lanciando offensive massicce sia con le forze di terra sia con quelle aeree, ottenendo la sorpresa di attaccare in un giorno perfettamente tranquillo, senza crisi o provocazioni precedenti. Ma in realtà nessun governo democratico può fare una cosa del genere, tanto meno quello di Netanyahu, ogni decisione del quale viene immediatamente interpretata come del tutto egoistica, oltre che ovviamente del tutto sbagliata.
I critici che continuano a trovare nuovi modi per deplorare i due decenni di vergognoso abbandono, non notano però cos'altro è successo in quei vent'anni. L'economia israeliana ha fatto un balzo in avanti (gli israeliani, un tempo molto più poveri della media europea, sono diventati molto più ricchi), sono stati forniti rifugi antiaerei ben costruiti ovunque, evitando decine di migliaia di vittime solo nella guerra in corso. Con uno sforzo immane, Israele ha anche acquisito affidabilissime difese missilistiche balistiche «spaziali» che nessun altro Paese possiede. I combattimenti a terra hanno inoltre rivelato che i veicoli blindati israeliani sono attualmente i più avanzati al mondo, mentre il raid aereo contro la base iraniana più segreta di Parchim ha dimostrato la capacità di Israele di lanciare attacchi di precisione a lungo raggio anche con i suoi caccia F-16 più vecchi e a corto raggio, grazie ai loro missili balistici lanciati in aria. Completamente surclassati, i leader iraniani sanno ora che qualsiasi altro bombardamento missilistico contro Israele potrebbe evocare il bombardamento della sede di Khamenei a Teheran o, più concretamente, del principale terminale di esportazione del petrolio del Paese.
Niente di tutto ciò è bastato a evitare la terribile sorpresa e le uccisioni di massa del 7 ottobre, ma i due decenni di investimenti in tecnologie militari hanno fatto sì che il numero di vittime israeliane nei successivi 14 mesi di combattimenti urbani - normalmente molto letali anche senza i pericoli aggiunti dei tunnel - sia rimasto molto più basso del previsto. Invece di decine di morti o disabili al giorno, la media è di uno o due.
Nel corso di questi due decenni, ci sono stati anche altri sforzi precauzionali, sia da parte degli agenti segreti sia degli ingegneri, che alla fine hanno permesso la decapitazione in tre fasi dell'intera leadership di Hezbollah. Prima sono riusciti a dissuadere dall'uso degli smartphone in quanto irrimediabilmente insicuri, per suggerire invece l'uso di telefoni casuali se sollecitati da avvisi acustici, con nuove radio da campo come back-up. Poi lo stesso ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana che ha convinto i leader di Hezbollah a privarsi dei loro smartphone facilmente compromessi, ha suggerito dove sarebbe stato meglio acquistare dei cercapersone su misura e anche delle ricetrasmittenti portatili. Quando entrambi hanno iniziato a esplodere, l'intera linea di comando si è dovuta riunire faccia a faccia nel bunker di comando di Hezbollah, a sud di Beirut, ultra profondo, multilivello e in ferrocemento, che nessuna bomba poteva penetrare. Ma dove il colpo di grazia è arrivato con una sequenza di bombe da 2000 libbre con rivestimento in acciaio che sono cadute verticalmente esattamente nello stesso punto, uccidendo Hassan Nasrallah e tutto il suo alto comando, insieme al loro responsabile e supervisore delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Una mossa che a sua volta ha reso impossibile il bombardamento concentrato di Israele, pianificato da tempo da Hezbollah con migliaia di missili e più di centomila razzi. Al contrario, l'aviazione israeliana ha così potuto distruggere le batterie di missili e razzi con attacchi aerei giorno dopo giorno, fino al cessate il fuoco.
La guerra rivela i veri punti di forza e di debolezza di ogni nazione, inducendo i suoi nemici alla giusta cautela. Il religioso al potere in Iran e i suoi generali della Guardia Rivoluzionaria, rigorosamente non rasati, si sono finora rifiutati di accettare le prove schiaccianti della superiorità militare di Israele su tutta la linea, così come i sostenitori più accesi della vittoria totale dei palestinesi «dal fiume al mare» in tutto il mondo. Poiché non partecipano mai ai combattimenti, gli entusiasti stranieri non possono mai essere dissuasi, anche se incitano i palestinesi che finiscono prigionieri o morti.
I leader iraniani non sono né studenti ingenui né accademici sprovveduti.
Avendo subìto la pesantissima conseguenza di un attacco aereo di un solo giorno da parte di una manciata di aerei, è probabile che si ritirino prudentemente. Se non lo faranno, ciò che è iniziato con la caduta di Aleppo potrebbe continuare fino in fondo e poi proseguire in Iran. Tutti i regimi devono finire, anche quello iraniano.

(il Giornale, 7 dicembre 2024)

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Palermo – Sinagoga nell’ex oratorio, firmato il nuovo protocollo

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Nel 2017, la notizia che l’Arcidiocesi di Palermo aveva deciso di concedere in comodato d’uso gratuito un oratorio di proprietà ecclesiastica per ricavarne una sinagoga fece il giro del mondo. “500 Years After Expulsion, Sicily’s Jews Reclaim a Lost History”, titolò tra gli altri il New York Times, richiamando la valenza anche simbolica dell’atto a oltre cinque secoli dall’espulsione degli ebrei dall’isola. Un nuovo documento siglato in queste ore nel capoluogo siciliano dà ulteriore slancio al progetto di trasformare l’ex Oratorio di S. Maria del Sabato in un luogo di culto e aggregazione ebraico, stabilendo che sia la città a farsi carico di tutte le spese di ristrutturazione previste nel primo accordo. A garantire una svolta in tal senso il protocollo condiviso dal Comune, dall’Arcidiocesi, dall’Ucei e dalla Comunità ebraica di Napoli, con le firme in calce del sindaco Roberto Lagalla, di monsignor Corrado Lorefice, della presidente Ucei Noemi Di Segni e della presidente della Comunità ebraica partenopea Lydia Schapirer.
  «Siamo molto contenti. Per diverso tempo questo “dono” era rimasto in sospeso, in attesa della possibilità di avviare il restauro. Ciò diventa oggi possibile grazie all’intervento del Comune», sottolinea Di Segni. «In raccordo con il rabbinato italiano, si procederà per far sì che questo spazio diventi luogo non solo di culto, ma anche di cultura ebraica. Un polmone che questa città merita di avere, perché non bisogna mai dimenticare che è la cultura a generare convivenza e dialogo».

• IL RICORDO DI EVELYNE AOUATE
  Di Segni dedica questa giornata a Evelyne Aouate, fondatrice dell’Istituto siciliano di studi ebraici e referente della sezione locale della Comunità di Napoli fino alla morte, avvenuta nel 2022. A rappresentarla erano oggi le sue figlie. Anche l’istituto sarà accolto nei locali della sinagoga. «Evelyne è stata la promotrice di tutto quanto, intessendo rapporti fondamentali», riconosce Di Segni. Concorda l’avvocato Giulio Disegni, vicepresidente Ucei: «Evelyne è stata l’anima della riscoperta dell’ebraismo a Palermo». Disegni, riflettendo sulla giornata odierna, parla di «documento importante per rafforzare la cultura del dialogo, a suo modo esemplare perché mette insieme amministrazione comunale, mondo cattolico e mondo ebraico, forse un unicum a livello europeo». Il progetto è a suo modo peculiare anche perché «la storia del Sud ebraico è spesso una storia di sinagoghe trasformate in chiese, mentre in questo caso abbiamo una chiesa che diventerà sinagoga, nel quartiere un tempo ebraico della città». Disegni loda al riguardo la decisione e lo slancio del sindaco Lagalla, ricordando che già al tempo in cui era rettore dell’Università di Palermo «decretò l’installazione a Palazzo Steri di una lapide in ricordo dei docenti ebrei cacciati nel 1938 dal fascismo; tra loro Emilio Segrè, vincitore nel 1959 del Premio Nobel per la Fisica».
  Il protocollo è un nuovo capitolo di una lunga storia di persecuzione, rimozione e oggi riscoperta e prevede che sarà ora il Comune a provvedere «con proprie risorse e mezzi» a dar corso alla ristrutturazione e all’adeguamento funzionale dello spazio. Sempre il Comune consentirà gratuitamente alla sezione ebraica di Palermo «lo svolgimento delle proprie attività di religione e di culto e di quelle ad esse correlate», mentre la Comunità di Napoli, in raccordo con la sua sezione, «assumerà la custodia dell’edificio e di tutte le sue pertinenze e con essa ogni onere e responsabilità». Tutti e tre i soggetti insieme, Comune, Comunità e sezione locale, promuoveranno poi «iniziative culturali e formative in occasione di ricorrenze ebraiche, per la conoscenza della lingua e della cultura ebraica, per la lotta ad ogni forma di antisemitismo e la Memoria». a.s.

(moked, 6 dicembre 2024)

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L'IDF elimina sette terroristi che hanno partecipato all'attacco del 7 ottobre

Le forze di difesa israeliane hanno affermato questo martedì di aver ucciso sette terroristi palestinesi che hanno partecipato agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, nelle ultime due settimane nel centro della Striscia di Gaza.
"In attacchi selettivi, le truppe della Brigata 990 hanno eliminato numerosi terroristi, tra cui sette terroristi che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre", indicano in un comunicato militare. L'esercito ha identificato i membri di Hamas eliminati come Abd al Razzeq, Marzuk al Hur, Abd Abu Awad Yusri, Omar Abu Abdalah, Ahmed Zahid e Maad Abu Garboua.
Nei loro raid nella zona, le truppe hanno anche smantellato le infrastrutture “terroristiche” di Hamas, come strutture militari, posti di osservazione e postazioni di cecchini.
Il massacro di Hamas, costato la vita a 1.200 persone in territorio israeliano, ha dato origine alla controffensiva delle truppe israeliane contro la Striscia di Gaza che dura da più di un anno e che secondo Israele permette che le infrastrutture militari di Hamas e della Jihad islamica vengano distrutte.
Netanyahu ha anche giustificato la sua offensiva a Gaza garantendolo. Solo così potranno salvare le quasi cento persone – 35 le vittime accertate – che sono ancora sequestrate da Hamas, nonostante i parenti degli ostaggi gli chiedano da mesi di privilegiare i canali diplomatici.
Per ora, Hamas e il partito laico Fatah, antagonista da decenni, hanno concordato al Cairo i dettagli del comitato di professionisti indipendenti che governerà Gaza una volta finita la guerra, hanno confermato fonti palestinesi.
Durante i negoziati sull'accordo di cessate il fuoco a Gaza, Israele ha chiesto che Hamas non facesse parte del futuro governo dell'enclave dopo la guerra.

(Aurora Israel, 6 dicembre 2024)

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Tzahal allerta chi ha combattuto a Gaza

Dopo la decisione della Corte penale, viaggiare all’estero può essere rischioso

di Ludovica Iacovacci

Chi ha prestato servizio a Gaza dovrà scegliere le mete per la villeggiatura con più attenzione rispetto al passato. L’esercito israeliano ha detto di mettere in guardia decine di soldati dal viaggiare all’estero per potenziali accuse di crimini di guerra, in seguito al mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex Ministro della Difesa Yoav Gallant.
Le forze di difesa hanno scoperto che gruppi anti-israeliani hanno presentato denunce contro circa 30 soldati che hanno prestato servizio nella Striscia di Gaza per presunti crimini di guerra. A 8 soldati che hanno viaggiato all’estero è stato immediatamente detto di tornare in patria per paura di essere arrestati o interrogati dal Paese che stavano visitando, riferisce il sito di notizie Ynet. I soldati avevano viaggiato a Cipro, in Slovenia e nei Paesi Bassi.
L’esercito israeliano non ha vietato ai soldati di viaggiare all’estero, ma conduce “valutazioni di rischio” su quanto sia sicuro che chi ha prestato servizio a Gaza si rechi in un determinato Paese. Per questo è consigliato ai riservisti che hanno recentemente combattuto di verificare mediante il Ministero degli Esteri il livello di pericolo di qualsiasi Stato desiderino visitare.
I funzionari sono preoccupati che alcuni alti ufficiali potrebbero affrontare un’azione penale presso la Corte penale internazionale, che il mese scorso ha emesso mandati di arresto per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra. A rafforzare l’allerta ci sono video e foto pubblicati dai soldati sulle piattaforme social che potrebbero essere usate come prova contro loro stessi. Tale contenuto online è servito da materiale per gruppi filo-palestinesi nel compilare “liste nere” di soldati. Gli attivisti anti-Israele stanno monitorando attentamente gli account sui social media dei soldati poiché nel caso in cui condividano anche immagini dei loro viaggi all’estero prevedono di presentare accuse locali contro di loro: è per questo si consiglia ai soldati che stanno pianificando di recarsi all’estero di non pubblicare immagini che rivelino la loro posizione.
Nonostante gli esperti legali di Tzahal hanno valutato che la Corte penale internazionale non ricercherà gli ufficiali e i soldati di rango inferiore che stavano eseguendo gli ordini della leadership politica, i funzionari sono preoccupati che i comandanti anziani come i Capi di Comando nord e sud, o il Capo di Stato maggiore Herzi Halevi, possano essere presi di mira dalla CPI, ha detto il rapporto pubblicato mercoledì. Sebbene finora da parte della Corte non sono state monitorate tali azioni, il potenziale rischio è considerato una minaccia significativa.
“I procedimenti individuali contro soldati e ufficiali minori che viaggiano all’estero potrebbero essere basati su sentenze della CPI”, ha detto Tzahal. “A qualsiasi soldato o ufficiale, se viene arrestato, convocato per l’interrogatorio o sente di essere seguito o fotografato mentre è all’estero, Israele fornirà assistenza legale immediata attraverso la sua ambasciata locale o la stanza della situazione del Ministero degli Esteri”.
Un fattore chiave nella valutazione è vedere quali Paesi dicono che sosterranno i mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant. Ad esempio in Sudafrica, un soldato dell’esercito israeliano in possesso della cittadinanza sudafricana sarebbe probabilmente detenuto per essere interrogato dato che il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor ha detto che i soldati di Tzahal in possesso della doppia cittadinanza israeliano-sudafricana saranno soggetti a arresto immediato. Bisognerà monitorare nei vari Paesi i cambiamenti nella legislazione e nella giurisprudenza relativi ai funzionari israeliani e al personale militare: per questo Israele ha assunto esperti legali locali in dozzine di Stati.

(Bet Magazine Mosaico, 6 dicembre 2024)

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Conosciamo Abu Mohammed al-Golani, il Jihadista che sta conquistando la Siria

In qualità di comandante della divisione di al-Qaeda nella guerra civile siriana, Abu Mohammed al-Golani era una figura oscura che si è tenuta lontana dagli occhi dell’opinione pubblica, anche quando il suo gruppo è diventato la fazione più potente che combatteva il presidente Bashar al-Assad.
Oggi è il ribelle più noto della Siria, salito gradualmente alla ribalta dopo aver reciso i legami con al-Qaeda nel 2016, rilanciando il suo gruppo e affermandosi di fatto come il capo della Siria nordoccidentale controllata dai ribelli.
La trasformazione è stata messa in mostra da quando i ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) di Golani, precedentemente noti come Fronte al-Nusra, hanno conquistato Aleppo la scorsa settimana, con Golani in primo piano e che ha inviato messaggi volti a rassicurare le minoranze siriane che da tempo temono i jihadisti.
Mentre i ribelli entravano ad Aleppo, la città più grande della Siria prima della guerra, un video lo mostrava in tenuta militare mentre impartiva ordini al telefono, ricordando ai combattenti le direttive per proteggere la popolazione e vietando loro di entrare nelle case.
Mercoledì ha visitato la cittadella di Aleppo, accompagnato da un combattente che sventolava una bandiera della rivoluzione siriana, un tempo evitata da Nusra in quanto simbolo di apostasia, ma recentemente adottata da Golani, in omaggio all’opposizione più tradizionale in Siria.
Fin dall’inizio dell’offensiva, ha rilasciato dichiarazioni utilizzando il suo vero nome, Ahmed al-Sharaa.
“Golani è stato più intelligente di Assad. Si è riorganizzato, si è rimodellato, ha trovato nuovi alleati e ha lanciato la sua offensiva di fascino” verso le minoranze, ha affermato Joshua Landis, esperto di Siria e direttore del Center for Middle East Studies presso l’Università dell’Oklahoma.
Aron Lund, membro del think-tank Century International, ha affermato che Golani e HTS sono chiaramente cambiati, pur sottolineando che sono rimasti “piuttosto intransigenti”.
“È presto, ma il fatto che si stiano impegnando in questo sforzo dimostra che non sono più rigidi come una volta. La vecchia scuola di al Qaeda o lo Stato islamico non lo avrebbero mai fatto”, ha detto.
Golani e il Fronte al-Nusra sono emersi come le più potenti tra le numerose fazioni ribelli nate nei primi giorni dell’insurrezione contro Assad, più di un decennio fa.
Prima di fondare il Fronte al-Nusra, Golani aveva combattuto per al-Qaeda in Iraq, dove aveva trascorso cinque anni in una prigione statunitense. Tornò in Siria una volta iniziata la rivolta, inviato dal leader del gruppo dello Stato islamico in Iraq all’epoca – Abu Omar al-Baghdadi – per rafforzare la presenza di al-Qaeda.
Gli Stati Uniti hanno definito Golani un terrorista nel 2013, affermando che al Qaeda in Iraq gli aveva affidato l’incarico di rovesciare il regime di Assad e di stabilire la legge islamica della sharia in Siria, e che Nusra aveva compiuto attacchi suicidi che avevano ucciso civili e sposato una violenta visione settaria.
La Turchia, principale sostenitore straniero dell’opposizione siriana, ha definito HTS un gruppo terroristico, pur sostenendo alcune delle altre fazioni che combattono nel nord-ovest

• RAPIDA ESPANSIONE
  Golani ha rilasciato la sua prima intervista ai media nel 2013, con il volto avvolto in una sciarpa scura e mostrando solo le spalle alla telecamera. Parlando ad Al Jazeera, ha chiesto che la Siria fosse governata secondo la legge della sharia.
Circa otto anni dopo, si è seduto per un’intervista nel programma FRONTLINE dell’emittente pubblica statunitense, rivolto verso la telecamera e indossando una camicia e una giacca.
Golani ha affermato che la definizione di terrorista era ingiusta e che si opponeva all’uccisione di persone innocenti.
Ha raccontato nei dettagli come il Fronte al-Nusra sia cresciuto, passando dai sei uomini che lo avevano accompagnato dall’Iraq a 5.000 nel giro di un anno.
Ma ha detto che il suo gruppo non ha mai rappresentato una minaccia per l’Occidente. “Ripeto: il nostro coinvolgimento con al Qaeda è terminato, e anche quando eravamo con al Qaeda eravamo contrari a svolgere operazioni al di fuori della Siria, ed è completamente contro la nostra politica svolgere azioni esterne”.
Ha combattuto una guerra sanguinosa contro il suo vecchio alleato Baghdadi dopo che lo Stato islamico ha cercato di assorbire unilateralmente il Fronte al-Nusra nel 2013. Nonostante i suoi legami con al-Qaeda, il Fronte al-Nusra era considerato più tollerante e meno duro nei suoi rapporti con i civili e altri gruppi ribelli rispetto allo Stato islamico.
Successivamente, lo Stato Islamico è stato sconfitto nei territori che controllava sia in Siria che in Iraq da una serie di avversari, tra cui un’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti.
Mentre lo Stato Islamico stava crollando, Golani stava consolidando la presa di HTS nella provincia nordoccidentale siriana di Idlib, istituendo un’amministrazione civile chiamata Governo della Salvezza.
Il governo di Assad considera HTS un gruppo terrorista, insieme al resto dei ribelli insorti contro Damasco.
Con i ribelli musulmani sunniti ora in marcia, l’amministrazione HTS ha rilasciato diverse dichiarazioni volte a rassicurare gli alawiti sciiti e altre minoranze siriane. Una dichiarazione ha esortato gli alawiti a staccarsi dal governo di Assad e a far parte di una futura Siria che “non riconosce il settarismo”.
In un messaggio inviato mercoledì ai residenti di una città cristiana a sud di Aleppo, Golani ha affermato che saranno protetti e che le loro proprietà saranno salvaguardate, esortandoli a rimanere nelle loro case e a respingere la “guerra psicologica” del governo siriano.
“È davvero importante. Il principale leader ribelle in Siria, l’islamista più potente”, ha detto Lund.
“Hanno adottato i simboli della più ampia rivolta siriana…, che ora usano e cercano di rivendicare l’eredità rivoluzionaria: ‘noi siamo parte del movimento del 2011, il popolo che si è ribellato ad Assad, e siamo anche islamisti'”.

(Rights Reporter, 6 dicembre 2024)

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Trito canovaccio

Il decino di credibilità di una organizzazione come Amnesty International, dura inarrestabile da anni e non mostra neanche lontanamente di volersi fermare, come attesta il suo recente report, per altro contestato dalla sua stessa filiale israeliana, secondo cui Israele starebbe perpetrando a Gaza un genocidio.
Ormai, l’accusa di genocidio è diventata una boutade, e riesce difficile capire come, dopo più di un anno, le genocide forze israeliane, con i mezzi di cui pur dispongono, non siano state in grado di eliminare nemmeno l’un per cento della popolazione della Striscia, (approssimativamente tra i due milioni e duecento mila abitanti), nulla a che vedere con la efficacissima macchina nazista, e ai nazisti, si sa, gli israeliani vengono paragonati dai loro demonizzatori dalla fine degli anni Sessanta.
Quando questa guerra sarà finita e la spessa coltre della propaganda contro Israele si sarà dissolta, i fatti appariranno nella loro evidenza, come accadde nel 2008 dopo l’Operazione Piombo Fuso a Gaza, quando, come da copione, Israele venne accusato di crimini contro l’umanità, venne istituita all’ONU (e dove, se no?), una apposita commissione che alla fine dei suoi lavori condannò lo Stato ebraico per crimini di guerra, per poi essere ricusata clamorosamente qualche anno dopo, dallo stesso giudice che l’aveva presieduta, o come era accaduto precedentemente con “l’assedio di Jenin” nel 2002, quando i soldati israeliani vennero accusati di avere ucciso migliaia di civili e i numeri veri rivelarono che si era trattato di non più di cinquanta morti.
Attendiamo fiduciosi.
Da anni Amnesty International confeziona requisitorie contro Israele fondate su dati forniti in loco da ONG di estrema sinistra finanziate da governi stranieri o da testimoni collusi con l’Autorità Palestinese, https://www.linformale.eu/la-esibita-parzialita-di-amnesty-international/.
Terzomondismo e antioccidentalismo sono i suoi traini ideologici principali. Tenendo alti i loro stendardi, un paese come Israele, visto come avamposto americano e imperialista in Medio Oriente, secondo la vulgata confezionata a Mosca e sempre attuale, ha un posto fisso nel banco degli imputati.
Non c’è da preoccuparsi troppo, fa tutto parte dell’offensiva propagandistica contro lo Stato ebraico iniziata subito dopo il 7 ottobre, e che ha mobilitato come mai prima d’ora, piazze, media, istituzioni sovranazionali, chiese, tribunali, il mondo glamour degli attori e dei registi “impegnati” e quello degli artisti e degli intellettuali più accorati per la difesa dei diritti umani selettivamente scelti.
Non c’è da preoccuparsi nel senso che alla fine, Israele, come sta facendo, e come si impegnerà a fare con ancora più lena dopo la vittoria di Donald Trump, sta vincendo questa guerra. Ha rotto l’anello di fuoco iraniano, colpendo Hezbollah gravemente e riducendo Hamas al fantasma di se stesso, mettendo l’Iran sul chi vive e contribuendo a fare crollare il suo argine siriano.
Non siamo ancora all’epilogo, ma i risultati iniziano a palesarsi chiari. Un antico proverbio arabo recita, “I cani abbaiano, la carovana prosegue il suo tragitto”.

(L'informale, 6 dicembre 2024)

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Gerusalemme, scoperta la più antica iscrizione cinese sul Monte Sion

di Jacqueline Sermoneta

“Per sempre custodiremo l’eterna primavera”. È quanto riportato sulla base di un frammento di una ciotola in porcellana cinese, risalente a 500 anni fa e rinvenuta durante uno scavo sul Monte Sion, a Gerusalemme. Si tratta della più antica iscrizione in lingua cinese conosciuta in Israele, nonché la prima prova archeologica del legame storico tra la Terra d’Israele e la Cina.
  Il reperto è stato scoperto nell’ambito di un progetto, guidato dal Prof. Dieter Vieweger e coordinato dall’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) e dall’Istituto Protestante Tedesco di Archeologia (GPIA).
  In Israele erano già stati rinvenuti antichi oggetti in porcellana cinese, ma questo è il primo a recare un’iscrizione. La maggior parte dei manufatti scoperti risalgono al periodo bizantino o, anche prima, al periodo del Secondo Tempio, ben oltre 1.500 anni fa. Tuttavia, secondo il ricercatore dell’Università ebraica di Gerusalemme, Jingchao Chen, questo frammento di vaso con l’iscrizione, da lui stesso decifrata, è più recente: è datato tra il 1520 e il 1570 e risale al periodo della dinastia Ming.
  Alcuni documenti dimostrano, infatti, le strette relazioni commerciali fra l’Impero cinese e l’Impero ottomano, che governava in Terra d’Israele nel XVI secolo. Ciò spiega come il vaso cinese sia giunto a Gerusalemme. Tra il XV e il XVII secolo, secondo quanto riportato dagli annali della dinastia Ming, venti delegazioni ottomane visitarono la corte imperiale di Pechino. I rapporti commerciali tra questi due imperi sono descritti anche nei libri di viaggio dei mercanti di quel periodo. Per l’appunto, gli scritti dello studioso cinese Ma Li del 1541 raccontano la presenza di colonie di mercanti cinesi a Beirut e a Tripoli e citano anche altre importanti città come Gerusalemme, Il Cairo e Aleppo.
  “Nella ricerca archeologica sono note testimonianze di relazioni di commercio, per esempio, di varie spezie, tra i mercanti della Terra d’Israele e l’Estremo Oriente già in epoche precedenti. – ha affermato il direttore dell’IAA, Eli Escusido, – Ma è affascinante incontrare prove di queste relazioni anche sotto forma di una vera e propria iscrizione, scritta in lingua cinese, e in un luogo inaspettato, sul Monte Sion a Gerusalemme”.

(Shalom, 6 dicembre 2024)

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Ricercatori israeliani scoprono il legame genetico tra la mutazione negli ebrei ashkenaziti e l'autismo

Un gruppo di scienziati del Rambam Medical Center di Haifa, guidati da Sharon Bratman-Morag e Karin Weiss, ha identificato una mutazione genetica nel gene TBCB (Tubulin Folding Cofactor B), molto comune negli ebrei azkenazi, che ha un legame con un tipo di disturbo dello spettro autistico (ASD). 
  Lo stesso studio ha rivelato che 1 ebreo ashkenazita su 80 è portatore della mutazione del gene TBCB e, se entrambi i genitori sono portatori, c'è una probabilità del 25% che il loro figlio o figlia erediti la mutazione e presenti i sintomi correlati.
  La scoperta apre nuove possibilità per la diagnosi precoce e la gestione di questa condizione genetica. Sulla base di ciò, a novembre il Ministero della Salute israeliano ha incluso un test per individuare questa mutazione nel paniere sanitario nazionale, rendendolo accessibile a tutte le coppie che intendono avere figli.
  Oltre ai sintomi dell’ASD, le persone con questa mutazione possono sviluppare paraparesi spastica ereditaria, un disturbo motorio che causa rigidità muscolare e rende difficile camminare e mantenere l’equilibrio.

(Aurora Israel, 5 dicembre 2024)

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Israele inizia a riaprire i parchi nazionali del nord

La graduale riapertura è un barlume di speranza per il nord, ma le cicatrici della guerra restano visibili.

L'Autorità israeliana per la natura e i parchi ha annunciato martedì la prima fase della riapertura dei parchi nazionali e delle riserve naturali nel nord di Israele, con la riapertura dei primi parchi prevista per mercoledì. La decisione arriva dopo mesi di chiusura a causa del conflitto in corso con il gruppo terroristico Hezbollah in Libano.
Il ministro della Protezione ambientale Idit Silman ha salutato la riapertura come un “momento emozionante e pieno di speranza” dopo un anno di combattimenti che hanno devastato il nord di Israele.
L'opportunità di tornare a visitare i magnifici paesaggi del nord è un barlume di speranza per ricongiungerci alla nostra natura, alla nostra terra e al nostro patrimonio”, ha dichiarato.
Nella prima fase saranno riaperte sette aree:

Tuttavia, sei aree rimangono chiuse per la riabilitazione, tra cui la Riserva Naturale di Ein Afek e la Riserva Naturale di Nahal Hermon (Banias).
Raya Shoraki, amministratore delegato dell'Autorità israeliana per la natura e i parchi, ha dichiarato: 

    “Siamo lieti di riaprire al pubblico le aree settentrionali, alcune delle quali sono rimaste chiuse per più di un anno dall'inizio del conflitto. Il personale dell'Autorità sta lavorando diligentemente per preparare e allestire tutti i siti per dare il benvenuto ai visitatori negli amati luoghi che tutti abbiamo perso”.

FOTO
Cavalli selvaggi pascolano all'alba sulla Valle di Hula, vicino alla Strada 978 nelle Alture del Golan israeliano, 27 novembre 2024

Sebbene questa riapertura porti un senso di rinnovamento, le cicatrici del conflitto nel nord di Israele sono ancora chiaramente visibili. Gli attacchi di Hezbollah hanno devastato il paesaggio della regione, bruciando oltre 57.000 ettari di terreno. Gli incendi non solo hanno distrutto gli habitat naturali, ma rappresentano anche una sfida importante per le comunità locali e la fauna selvatica. Le foreste e i campi di Israele nel nord del Paese portano le cicatrici di numerosi incendi. La terra annerita e gli alberi carbonizzati ricordano il conflitto in corso. Il direttore esecutivo del Keren Kayemeth LeYisrael - Fondo Nazionale Ebraico Regione Nord, Shali Ben Yishai, ha descritto la guerra all'inizio di quest'anno come “il più grande disastro naturale dalla fondazione di Israele, e ci vorranno anni per rimediare”.
In risposta a queste sfide, a settembre il KKL-JNF si è impegnato a sostenere il nord di Israele con circa 5 milioni di dollari (4,7 milioni di euro). Questi fondi saranno utilizzati per rafforzare la capacità della regione di combattere gli incendi e proteggere le sue risorse naturali. (JNS)

(Israel Heute, 5 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Roma, 120 anni del Tempio Maggiore

Fadlun: "Fieri di essere italiani ed ebrei"

"La vicinanza del presidente, oggi di nuovo, è per noi fonte di grande importanza, perché ci fa sentire solidarietà e chiarezza della nostra nazione. Siamo fieri di essere italiani e di essere ebrei, in un momento in cui antisemitismo e antisionismo si fondono. Perché l'antisionismo è questo, una forma di antisemitismo. La presenza del presidente ci rafforza nella nostra fede e nella certezza della nostra democrazia", lo ha detto Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma, a margine delle celebrazioni per i 120 anni del Tempio Maggiore alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
In merito a quanto sta accadendo in Medio Oriente, Fadlun risponde: "Oggi purtroppo si parla addirittura in termini di ipotetico genocidio, ma sono termini che respingiamo e che sono fuori luogo. Il genocidio è quello che cercarono di compire i nazisti. La definizione di genocidio fu fatta dopo il nazismo, nelle conferenze in cui si cercava di capire cosa fosse il crimine commesso. Oggi Israele sta combattendo una guerra di sopravvivenza contro l'Iran e i proxy, che hanno come dichiarato intento la distruzione dello stato di Israele e il martirio di tutti gli ebrei. Quindi è una guerra di resistenza, in cui dovrebbe essere unito tutto l'occidente, di cui Israele è il baluardo nel mondo orientale".
Infine, anche un commento per i 100 ostaggi ancora nelle mani di Hamas dopo il 7 ottobre: "Questi 100 ostaggi sono rinchiusi in zone terribili perché sono ebrei. Questo è chiaramente antisemitismo puro e razzismo", conclude.

(LaPresse, 5 dicembre 2024)


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"Hamas in ebraico vuol dire violenza", il messaggio di Di Segni a Mattarella

"Con una sinistra evocazione, la parola violenza traduce il termine ebraico biblico che è hamàs, sì proprio hamàs". Lo ha detto il Rabbino Capo Riccardo Di Segni al Tempio Maggiore di Roma per la cerimonia di celebrazione dei 120 anni della Sinagoga.

IL TESTO INTEGRALE DEL MESSAGGIO DI SALUTO A MATTARELLA
"Siamo qui a celebrare i primi 120 anni di questa Sinagoga. La prima volta che compare nella Bibbia il numero 120, proprio collegato agli anni, è al sesto capitolo della Genesi in cui si formula un giudizio severo per l’uomo che si sta comportando male e si annuncia che i suoi giorni saranno 120 anni. Per qualche interprete sarebbe l’annuncio che da quel momento la durata della vita dell’uomo non avrebbe superato i 120 anni, ma per la maggioranza degli interpreti è l’annuncio di una proroga concessa all’umanità; non vi state comportando bene, sappiate che per questo rischiate l’estinzione, vi dò 120 anni per ravvedervi. L’annuncio non fu preso sul serio e alla fine arrivò il diluvio. In base a questi racconti, quale è la lezione e quale è la sfida per noi una volta arrivati al traguardo dei 120 anni? Coloro che edificarono questo Tempio non ebbero una proroga tanto lunga.
Le loro certezze e le loro speranze si infransero molto prima davanti alle tragedie che colpirono l’Europa e si accanirono contro questa comunità. Ma non ci furono solo eventi tristi. Ci furono gioie collettive come la liberazione, la Costituzione repubblicana, la nascita dello Stato d’Israele e le sue vittorie, la creazione di nuovi rapporti con la cristianità segnata dalle visite di tre pontefici. E insieme a questo le gioie dei singoli e delle famiglie, che festeggiano qui i figli che crescono, celebrano matrimoni e festeggiano persino le nozze di diamante. Sembra che dai tempi lontani del diluvio la dinamica non sia più quella della fine del mondo, preannunciata, e totale, ma che tutto avvenga in una dimensione più locale fatta di gioie e dolori ai quali dobbiamo prepararci. Resistere, sperare e costruire. La storia di questo edificio e della comunità che rappresenta serve a dimostrare che ce la possiamo fare, che non c’è limite alla misericordia divina ma che c’è da parte nostra il dovere di comportarci bene. Il diluvio arrivò perché, dice la Bibbia 'la terra si era corrotta e si era riempita di violenza' (Genesi 6:11 e 13). Con una sinistra evocazione, la parola violenza traduce il termine ebraico biblico che è hamàs, sì proprio hamàs. La sopravvivenza della nostra società sta nella convivenza pacifica di cittadini che rispettano le leggi e che condividono il dovere di costruire insieme un mondo migliore. E tutto questo non riguarda tempi eccezionali ma è l’obbligo della quotidianità.
Il rabbino Spagnoletto nel suo intervento spiegherà alcuni simboli di questo edificio che tra l’altro conserva la memoria della Sicilia da cui arrivarono gli esuli del 1492. Ogni dettaglio di questo Tempio tramanda una storia, che spesso è storia di sofferenze, ma anche di tenacia, di volontà di sopravvivere e vivere, di trasformare l’umiliazione in bellezza.
Dopo le turbolenze del secolo scorso basate su ideologie e nazionalismi, il primo quarto di questo secolo sta conoscendo altre forme di turbolenze sanguinose. Il mondo occidentale sembra quasi impotente a fronteggiare le nuove sfide. La piccola grande storia della nostra comunità e del Tempio che la rappresenta può dare un contributo positivo. Perché è un monito contro le derive violente, le espulsioni, le emarginazioni -il ghetto di Roma era proprio qui-, la privazione dei diritti. Ma è l’esempio virtuoso di come una comunità può rimanere fedele alle sue tradizioni e al contempo integrarsi virtuosamente, rappresentando una ricchezza per Roma e l’Italia.
Ogni società anche quella più solida, è a rischio, se non avverte i sintomi della crisi e non vi pone riparo per tempo. I nostri valori fondanti, che sono quelli stabiliti dalla Costituzione, vanno difesi e promossi. La costituzione, la carta fondamentale scritta dopo la fine della barbarie nazifascista, - aggiunge Di Segni - il documento che afferma il principio di uguaglianza dei cittadini, e che tra l’altro, porta la firma di un ebreo, Umberto Terracini. Per questo, Signor Presidente, in tempi difficili come questi, la nostra comunità guarda a Lei come il primo garante di quel testo e della stabilità del nostro Paese.
Anche se la storia e la attualità concentrano la nostra attenzione, non dobbiamo dimenticare il senso essenziale questo edificio. Quando il re Salomone costruì il primo Tempio di Gerusalemme si pose una domanda, parlando al Signore: 'Il cielo e la terra non Ti possono contenere e che cosa può pretendere questo edificio', benché grandioso? (1 Re 8:27). La risposta sta già nelle parole dell’Esodo, con cui il Signore ordina la costruzione del tabernacolo: 'mi faranno un santuario e abiterò in mezzo a loro' (Es. 25:8). Si nota subito che non è detto che abiterò nel santuario', ma abiterò in mezzo a loro. Ogni sinagoga è un piccolo santuario. Serve a portare il sacro in mezzo a noi, e ad avvicinare noi al sacro. Ad ognuno di noi, noi tutti, che siano per questo disponibili. E sacro, nell’ebraismo, è ciò che innalza l’umanità, che gli dà dignità, che riconosce l’immagine divina in ogni essere umano. Di questo abbiamo bisogno, tanto più in momenti come questi. Grazie signor Presidente".

(Adnkronos, 5 dicembre 2024)

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Hamas e gli ostaggi: sei uccisi nei tunnel, recuperato un corpo e le rivelazioni sulle direttive degli assassini

di Luca Spizzichino

A tre mesi dal ritrovamento dei corpi a Khan Younis, l’IDF ha confermato che sei ex ostaggi israeliani sono stati probabilmente giustiziati dai loro carcerieri durante un bombardamento aereo su un tunnel di Hamas avvenuto lo scorso febbraio.
  Le vittime — Alex Dancyg (75 anni), Yagev Buchshtav (35 anni), Chaim Peri (79 anni), Yoram Metzger (80 anni), Nadav Popplewell (51 anni) e Avraham Munder (78 anni) — erano state rapite durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. I loro corpi sono stati recuperati dall’esercito israeliano il 20 agosto 2024 in un tunnel situato nel complesso residenziale di Hamad Town a Khan Younis.
  Secondo l’indagine presentata alle famiglie delle vittime, gli ostaggi sono stati uccisi poco dopo un bombardamento aereo israeliano del 14 febbraio, che aveva colpito una rete di tunnel utilizzata da Hamas. Gli ostaggi erano trattenuti in condizioni estremamente precarie: un passaggio stretto lungo appena 100 metri, sigillato da sacchi di sabbia e da una porta metallica, senza alcuna possibilità di sopravvivenza a lungo termine. Il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha descritto il tunnel come “inadatto alla sopravvivenza umana” per le sue dimensioni anguste e l’assenza di condizioni vivibili.
  Sempre ieri, l’IDF e lo Shin Bet hanno annunciato il recupero del corpo di Itay Svirsky, un ostaggio israeliano rapito il 7 ottobre 2024 da Hamas e assassinato durante la prigionia. Il corpo è stato recuperato nella Striscia di Gaza, a 14 mesi dalla cattura e quasi un anno dalla sua uccisione. Durante una conferenza stampa, Hagari ha spiegato che il recupero è avvenuto durante un’operazione “i cui dettagli non possono essere divulgati per motivi di sicurezza operativa.”
  Svirsky, rapito durante l’attacco di Hamas nell’ottobre 2024, sarebbe stato assassinato circa quattro mesi dopo. Durante la prigionia, era stato detenuto insieme a Yossi Sharabi e Noa Argamani. L’IDF ha respinto la versione di Hamas, secondo cui Svirsky sarebbe morto in un bombardamento, confermando invece che l’uccisione è avvenuta giorni dopo l’attacco in cui perse la vita Sharabi.
  Secondo quanto riportato da Reuters sempre nella giornata di ieri, i leader di Hamas hanno ordinato ai propri operativi di “neutralizzare gli ostaggi” in caso di operazioni di salvataggio da parte di Israele. L’informazione proviene da un presunto “documento interno” che dà le istruzioni sulla custodia degli ostaggi israeliani. Il documento, datato 22 novembre, sostiene che Hamas avrebbe ricevuto informazioni su un possibile piano israeliano per un’operazione di salvataggio, simile a quella condotta a giugno nel campo di Nuseirat, in cui furono liberati quattro ostaggi israeliani. Nonostante non vi siano indicazioni precise su quando potrebbe avvenire questa operazione o se Israele abbia informazioni sul luogo di detenzione degli ostaggi, il documento raccomanda agli operativi di “non considerare le possibili conseguenze” nell’eseguire gli ordini.

(Shalom, 5 dicembre 2024)

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Onu: decisa con la maggioranza una conferenza internazionale a giugno 2025 per creare lo Stato palestinese

di Ludovica Iacovacci

L’Assemblea Generale dell’Onu ha deciso che dal 2 al 4 giugno 2025 a New York sarà convocata una conferenza internazionale per cercare di dare il via a una soluzione a due Stati, preceduta da una riunione preparatoria che si terrà a maggio 2025.
Rivolgendosi ai 193 membri dell’Assemblea, il Presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, il 77enne camerunense Philémon Yang, ha ribadito l’importanza della soluzione dei due Stati definendola “l’unica via per una pace duratura”. Yang ha aggiunto che tale soluzione, concepita per la prima volta nella risoluzione 181 del 1947 dell’Assemblea generale adottata 77 anni fa, resta ancora fuori portata e si è concentrato sulla “negazione dello Stato palestinese”. Preme precisare che 77 anni fa come oggi, è stata soltanto la parte araba a non aver mai accettato l’esistenza di una controparte.
La “Conferenza internazionale di alto livello per la soluzione pacifica del Medio Oriente e l’attuazione della soluzione dei due Stati” sarà co-presieduta da Francia e Arabia Saudita. “Nei prossimi mesi, insieme moltiplicheremo e combineremo le nostre iniziative diplomatiche per portare tutti su questo percorso”, ha detto Macron citando l’AFP.
La risoluzione ( A/79/L.23 ) è stata approvata con 157 voti favorevoli e 8 contrari (Argentina, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea e Stati Uniti), con 7 astensioni (Camerun, Repubblica Ceca, Ecuador, Georgia, Paraguay, Ucraina e Uruguay). L’Italia ha votato a favore.
La risoluzione ha anche chiesto la fine dell’”occupazione israeliana iniziata nel 1967”, inclusa “Gerusalemme Est”. L’Assemblea ha detto che i due Stati dovrebbero “vivere fianco a fianco in pace e sicurezza all’interno di confini riconosciuti, sulla base dei confini pre-1967”.
Su questo punto, l’Australia per la prima volta dal 2001 ha cambiato il suo posizionamento politico votando a favore della misura che chiede a Israele di ritirarsi dalla Giudea e Samaria e da Gaza. Canberra ha rotto con la sua consolidata opposizione adottata per due decenni. Peter Dutton, leader dell’opposizione australiana, ha criticato il cambiamento di politica del governo accusando il primo ministro Anthony Albanese di aver “venduto” la comunità ebraica del Paese per conquistare i cuori degli elettori progressisti. Dopo il 7 ottobre, gli attacchi antiebraici in Australia sono quadruplicati, secondo il Consiglio esecutivo dell’ebraismo australiano (ECAJ) in un rapporto pubblicato domenica. Un totale di 2.062 incidenti sono stati registrati tra ottobre 2023 e settembre 2024, molto più dei 495 incidenti rilevati un anno prima. Il totale non include le dichiarazioni antisemite fatte sui social media.
Infine, il testo della risoluzione invita le parti ad “agire in modo responsabile” per invertire “le tendenze negative, comprese tutte le misure adottate sul campo che contravvengono al diritto internazionale”. Più specificamente, l’Assemblea chiede ancora una volta che “i diritti inalienabili del popolo palestinese, primo fra tutti il diritto all’autodeterminazione e il diritto a creare uno Stato indipendente, siano realizzati”. Tolto Israele, solo 7 Stati su 193 sono contrari alla creazione dello Stato palestinese.
Parallelamente ai vertici internazionali, si muovono anche i tavoli della diplomazia palestinese per il futuro della Striscia, luogo del mondo dove la gran parte dei gazawi non vede Israele come una forza liberatrice, bensì come un nemico da combattere ad ogni costo. Hamas e Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, hanno concordato di formare un comitato per l’amministrazione della Striscia di Gaza dopo la guerra: Hamas si riconferma, in tal modo, espressione di larghe fasce del popolo palestinese.
Inoltre, nella stessa giornata l’Assemblea Generale ha votato per altre due risoluzioni. La prima è intitolata “Divisione del Segretariato per i diritti dei palestinesi ” (documento A/79/L.24). La votazione registrata ha avuto 101 voti a favore, 27 contrari e 42 astensioni. L’Assemblea ha chiesto al Segretario generale di continuare a fornire risorse e chiede di garantire che la Divisione continui a svolgere efficacemente il suo lavoro.
La seconda risoluzione, adottata dall’Assemblea con 97 voti a favore, 8 contrari (Australia, Canada, Israele, Stati Federati di Micronesia, Palau, Papua Nuova Guinea, Regno Unito, Stati Uniti) e 64 astensioni, riguarda “Il Golan siriano” (documento A/79/L.19). Il documento dichiara che Israele non ha rispettato la risoluzione 497 (1981) del Consiglio di Sicurezza e stabilisce che la decisione di imporre la propria giurisdizione sul “Golan siriano occupato” è nulla e non valida. Si invita inoltre lo Stato ebraico a riprendere i colloqui sui binari siriani e libanesi e a ritirarsi da tutto il “Golan siriano occupato”.
Insomma, una giornata di festa per Hamas e Bashar al-Assad nel rispetto del cosiddetto “diritto internazionale”.

(Bet Magazine Mosaico, 5 dicembre 2024)

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Il conflitto in Siria e la crisi della strategia iraniana

di Ugo Volli

• L’AVANZATA DEI RIBELLI FILOTURCHI
  La situazione in Siria sembra essersi provvisoriamente stabilizzata. Le varie forze sunnite filoturche ma legate anche all’eredità dell’Isis e di Al Qaida, oggi riunite sotto la sigla HTS (Commissione per la salvezza della Siria), controllano un’ampia zona nel nord-ovest del paese, dai confini turchi alla seconda città del paese, Aleppo, a Idlib, fino a Hama, a metà strada con Damasco. Hanno conquistato aeroporti con aerei e elicotteri, fabbriche d’armi, impianti antimissile, grandi centri abitati, industrie; procedendo in direzione sud hanno anche tagliato i collegamenti terrestri est ovest fra il centro del paese e la costa, isolando le basi navali russe. Se raggiungeranno la prossima città del loro percorso, Homs, a meno di 50 km dalle posizioni attuali, bloccheranno l’imbocco orientale della valle della Bekaa, il principale accesso al Libano (e a Hezbollah) per l’Iran. Sono stati segnalati anche vari episodi di appoggio all’HTS nel sud del paese, nella capitale Damasco e ai confini con la Giordania. L’annunciata controffensiva delle forze governative, come l’intervento di reparti sciiti dall’Iraq e addirittura dell’esercito iraniano, per ora non si sono realizzate. Le forze curde, sostenute dagli Stati Uniti, si sono ritirate dalle zone di contatto. A contrastarli per ora sono solo i bombardamenti dell’aviazione russa. Il rallentamento della loro avanzata, all’inizio travolgente, deriva dalla necessità di consolidare le linee di rifornimento e di difesa, che si sono molto estese, e forse dalla pressione di Usa e Russia sulla Turchia.

• IL SIGNIFICATO STRATEGICO
  L’irruzione dell’HTS costituisce uno sviluppo strategico importantissimo per tutto il Medio Oriente. L’incapacità del governo siriano, pur appoggiato dalla Russia e dall’Iran, di tenere la parte più ricca e popolosa del paese, mostra non solo il fallimento della sanguinaria dittatura di Assad, ma quello della grande strategia imperialista dell’Iran, concepita quindici anni fa dal generale Qasem Soleimani, cioè la realizzazione di un “ponte terrestre” fra l’altopiano persiano e il Mediterraneo, attraverso Iraq, Siria e Libano, e la conseguente accensione di un “anello di fuoco” intorno a Israele, capace di isolare e distruggere lo Stato ebraico. Proprio il tentativo di iniziare a sfruttare questo “anello” con il pogrom del 7 ottobre e gli attacchi missilistici di Hezbollah, con la conseguente reazione israeliana che ha decimato la forza dei terroristi libanesi, ha provocato le difficoltà attuali del regime siriano. Erano stati infatti proprio i mercenari di Hezbollah a evitare la caduta di Assad. La loro debolezza attuale lo mette di nuovo a rischio.

• I PRECEDENTI
  La situazione attuale in Siria non è infatti una novità assoluta. Il regime di Assad non si era mai del tutto ripreso dalle conseguenze delle agitazioni del 2011 (che la stampa occidentale aveva descritto col nome molto inappropriato di “primavere arabe”). La rivolta integralista dei Fratelli Musulmani sunniti contro il regime alawita protetto dagli sciiti iraniani era stata repressa da Assad in maniera crudelissima, soprattutto perché Obama non aveva fatto rispettare la “linea rossa” da lui stesso proclamata contro le armi chimiche; si era affermato poi in parte della Siria lo “Stato Islamico” (ISIS). Dopo la sua sconfitta si era formato un equilibrio complicato: il governo controllava i grandi deserti al confine sudorientale con l’Iraq e la Giordania, il confine con Israele, la striscia fra Damasco e Aleppo fino alla costa; i curdi tenevano una zona a nordest, fra l’Iraq e la Turchia; i ribelli che oggi avanzano avevano già un loro territorio a Nordovest vicino al confine turco; c’erano basi russe sulla costa e anche sul Golan, dove erano insediate pure truppe di Hezbollah. Gli americani avevano una base a sudest, vicino alla Giordania. La spinta dell’Hts ha più che raddoppiato il loro territorio e rischia di far saltare questi precari equilibri.

• GLI INTERESSI DI ISRAELE
  A Israele naturalmente la crisi della strategia imperialistica degli ayatollah e soprattutto il blocco delle vie di rifornimento delle armi iraniane a Hezbollah non possono che far piacere; anche le difficoltà di un nemico permanente come Assad non dispiace – anche se certi media hanno rilanciato la voce poco plausibile che il dittatore siriano avrebbe chiesto aiuto proprio allo Stato ebraico che in linea di principio non lo avrebbe rifiutato. Ma non vi è dubbio che i jihadisti dell’Hts con la loro ideologia integralista e i loro metodi terroristi siano dei nemici pericolosi per cui Israele non ha alcuna simpatia. Averli al confine del Golan aumenterebbe il rischio di avere un nuovo fronte attivo di offensiva terroristica. Del resto il loro grande protettore Erdogan non ha mancato occasione negli ultimi anni per esprimere odio per lo Stato ebraico e solidarietà per il terrorismo di Hamas. A Israele può dunque convenire che l’azione dei ribelli si estenda fino a Homs, rendendo più difficile l’accesso dell’Iran al Libano, ma non è auspicabile la loro conquista di Damasco e tantomeno del Golan siriano.

• LE PROSPETTIVE
  È impossibile prevedere come si evolverà la situazione. Iran e Russia hanno certamente i mezzi per bloccare i ribelli, ma non è detto che si sentano di usarli, impegnati come sono su altri fronti. Gli Usa non sembrano avere deciso un intervento. Né il regime siriano né Hezbollah sembrano in grado da soli di respingere Hts; potrebbero intervenire milizie irachene, ma della loro capacità bellica si sa poco. La Turchia potrebbe negoziare su diversi fronti (Russia, Iran, la stessa Siria) dei vantaggi politici come prezzo per fermare i suoi protetti, che però sono divisi in gruppi autonomi, non tutti facilmente controllabili. E vi sono molti in Siria che attendono una vendetta per le stragi di massa di cui Assad si è reso responsabile nell’ultimo decennio. Insomma la situazione è aperta e incerta e potrebbe degenerare in una grande guerra. Ma dato che non è possibile attribuirne la responsabilità a Israele, pochi vi badano.

(Shalom, 4 dicembre 2024)

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La paura di Israele: jihadisti con i gas di Assad

Gerusalemme teme che, nel caos partito da Aleppo, le armi chimiche del regime possano finire nelle mani degli estremisti filo iraniani o filo turchi. Ribelli alle porte di Hama, la capitale degli alawiti, la componente religiosa più vicina al leader. 

di Stefano Piazza

Prosegue senza sosta la marcia dei jihadisti siriani che ieri hanno conquistato quattro nuove città - Halfaya, Taybat Al Imam, Maardis e Soran. che si aggiungono alle altre sedici già sotto il loro controllo. La notizia della conquista di queste città è stata riferita dall'amministrazione delle operazioni militari dei jihadisti ed è stata confermata dall'Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh), con sede nel Regno Unito. I ribelli hanno anche dichiarato di aver eliminato 50 soldati governativi durante le operazioni militari di ieri. Questo sviluppo rappresenta un'importante vittoria per il fronte anti-Assad, guidato dal gruppo jihadista salafita Hayat Tahrir Al Sham e dalle forze dell'opposizione sostenute dalla Turchia. Attualmente, i ribelli si trovano a meno di 10 chilometri da Hama, la quarta città più popolosa della Siria ed è evidente che tutto quanto accade in questi giorni ha avuto una minuziosa pianificazione durata mesi. 
  Hama è una città strategica nella Siria centrale, sulla strada che collega Aleppo alla capitale Damasco (obiettivo finale dei jihadisti) e secondo RamiAbdel Rahman, direttore dell'Osdh «l'avanzata dei ribelli su Hama minaccia la base popolare del regime», dato che i dintorni della città sono popolati da alawiti, la comunità da cui proviene il presidente Bashar Al Assad. Secondo quanto riportato dall'Osdh, «scontri violenti si stanno verificando nel Nord della provincia di Hama, mentre aerei russi e siriani stanno conducendo decine di raid sulle posizioni occupate dai ribelli», ma la sensazione è che anche Hama possa cadere nelle mani dei jihadisti. Nelle ultime ore il conflitto siriano ha visto una riaccensione del fronte orientale, dove si affrontano forze filo-Usa e filo-iraniane, ciascuna a sostegno di fazioni armate locali. Fonti sul terreno, in linea con quanto riportato dall'Osdh, indicano che le forze filo-Usa, composte dal Pkk curdo e da tribù arabe alleate con Washington, stanno tentando di prendere il controllo di sette località situate a Est del fiume Eufrate, attualmente occupate da milizie filoiraniane e da clan tribali affiliati a Teheran. I media siriani segnalano che gli insorti filo-turchi hanno preso il controllo di cinque aeroporti strategici attorno alla città di Aleppo, privando il governo centrale siriano, insieme ai suoi alleati Russia e Iran, di importanti infrastrutture militari e civili. Oltre all'aeroporto civile, gli insorti controllano ora anche quattro aeroporti militari: Nayrab, Kuw e iris, Menagh e Abu Dhuhur. Questi scali, considerati risorse strategiche di primaria importanza, erano utilizzati dal governo di Damasco e dai suoi alleati per operazioni militari e logistiche. In particolare, l'Iran si avvaleva degli aeroporti di Aleppo per rifornire regolarmente le linee degli Hezbollah libanesi, sfruttando il corridoio di Homs che collega la Siria centrale alla valle libanese di Bekaa. Mentre scriviamo gli scontri tra le due fazioni sono ancora in corso. Il gruppo armato iracheno Kataeb Hezbollah, alleato dell'Iran, ha sollecitato Baghdad a inviare truppe in Siria per sostenere il governo di Damasco. Un portavoce di Kataeb Hezbollah, parte dell’«asse della resistenza» sostenuto dall'Iran, ha dichiarato che il gruppo non ha ancora deciso di mobilitare i propri combattenti, ma ha invitato il governo iracheno ad agire. Kataeb Hezbollah ha già partecipato al conflitto siriano al fianco delle forze fedeli al presidente Assad. In Iraq, il gruppo è parte integrante di Hashed Al Shaabi, una coalizione di ex forze paramilitari ora integrate nelle forze armate regolari. Nel frattempo, Baghdad ha confermato di aver inviato veicoli blindati per rafforzare la sicurezza lungo il confine di 600 chilometri con la Siria. 
  E l'Iran principale sostenitore del regime siriano? Secondo alcune indiscrezioni potrebbe inviare truppe a combattere, tuttavia, alcuni analisti ritengono che «potrebbe non bastare arrivati a questo punto». In ogni caso il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, in un estratto da un'intervista pubblicata sul suo canale ufficiale Telegram ha affermato: «Se il governo siriano ci chiede di inviare forze in Siria, studieremo la loro richiesta». Iran che ieri ha attaccato Ankara con le parole di Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida suprema iraniana Khamenei: «Non avremmo mai immaginato che la Turchia, con una lunga storia islamica, potesse cadere in una trappola tesa dagli Stati Uniti e dai sionisti. Gli Stati Uniti, i sionisti e i Paesi della regione, sia arabi che non arabi, dovrebbero tenere a mente che la Repubblica islamica dell'Iran sosterrà il governo della Siria fino alla fine». Recep Tayyip Erdogan non ha commentato ma ha affermato che il governo di Assad «deve impegnarsi in un genuino processo politico per impedire che la situazione peggiori» che sembra un modo elegante per dire al presidente siriano di andarsene. 
  Israele segue con grande preoccupazione quanto accade in Siria e il timore principale è che i jihadisti di Hts o le milizie filoiraniane possano prendere il controllo dei laboratori militari dove sono custodite le armi chimiche siriane che verrebbero poi usate contro lo Stato ebraico. In tal senso secondo fonti della tv saudita Al Hadath ieri mattina gli israeliani hanno ucciso in un attacco sulla strada per l'aeroporto di Damasco Salman Jumaa, responsabile del collegamento tra Hezbollah e l'esercito siriano. Meglio prevenire che curare.

(La Verità, 4 dicembre 2024)

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Trump avverte Hamas che “ci sarà da pagare un inferno” per gli ostaggi di Gaza

Il Presidente entrante promette un'azione decisiva se gli ostaggi rimarranno prigionieri oltre il giorno dell'inaugurazione.

Lunedì il presidente eletto Donald Trump ha lanciato un severo avvertimento ad Hamas, chiedendo l'immediato rilascio di tutti gli ostaggi detenuti a Gaza. Scrivendo sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha dichiarato che se gli ostaggi non saranno liberati entro il suo insediamento, il 20 gennaio 2025, i responsabili dovranno affrontare conseguenze senza precedenti.
“Vi prego di lasciare che questa VERITÀ serva a far capire che se gli ostaggi non saranno liberati prima del 20 gennaio 2025, data in cui assumerò con orgoglio l'incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà TUTTO L'INFERNO DA PAGARE in Medio Oriente”, ha scritto Trump. Ha promesso che i responsabili “saranno colpiti più duramente di quanto sia mai stato fatto nella lunga e storica storia degli Stati Uniti d'America”.
La dichiarazione di Trump arriva sulla scia dell'attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele, durante il quale il soldato dell'IDF di origine statunitense, il capitano Omer Maxim Neutra, è stato ucciso e il suo corpo è stato portato a Gaza. Inoltre, un video di propaganda pubblicato sabato ha mostrato l'ostaggio americano Eden Alexander in cattività, intensificando ulteriormente gli appelli all'azione.
Domenica Sara Netanyahu, moglie del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha incontrato Trump al suo Mar-a-Lago Golf Club in Florida. Durante la cena, Sara Netanyahu ha sottolineato la situazione degli ostaggi e l'importanza di combattere quello che ha definito “l'asse del male”.
La promessa di Trump di ritenere Hamas responsabile sottolinea l'importanza degli ostaggi negli sforzi globali in corso per stabilizzare la regione. La sua dichiarazione amplifica l'urgenza del loro rilascio come condizione fondamentale per la sicurezza del Medio Oriente e segna un punto centrale per la sua imminente presidenza.
Mentre la crisi degli ostaggi continua, la dichiarazione di Trump segnala un approccio duro nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori.

(Israfan, 4 dicembre 2024)

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Germania: cancellata lezione del noto storico israeliano Benny Morris all’Università di Lipsia

L’Università di Lipsia ha annullato una lezione prevista per la giornata di giovedì, che vedeva la presenza del famoso storico israeliano Benny Morris. In una dichiarazione, Gert Pickel e Yemima Hadad, docenti dell’ateneo, hanno detto che la cancellazione è dovuta alle proteste degli studenti per le considerazioni dello studioso (senza però specificare quali) “che potrebbero essere interpretate come offensive e persino razziste”. A riportare la notizia è il Jewish News Syndicate
Inoltre, hanno aggiunto che le proteste erano “comprensibili, ma di natura spaventosa”. Quindi l’annullamento dell’intervento di Morris sarebbe dovuto anche a problemi di sicurezza. Noto per essere un esperto del conflitto arabo-israeliano, nella sua lezione avrebbe dovuto trattare “Il 1948 e la Jihad” all’interno di una serie di conferenze sull’antisemitismo.
In seguito, i docenti avrebbero aggiunto: “Vogliamo esprimere la nostra preoccupazione per il doppio standard che viene applicato agli studiosi israeliani, che sono sempre più emarginati ed esclusi dagli eventi con il pretesto di divergenze di opinione politica, mentre ad altre voci viene dato libero accesso all’università”.
Dopo l’accaduto il think tank MENA di Vienna ha condannato la decisione dell’università, mettendo in chiaro il ben noto curriculum di Morris, già definito dallo stesso The Guardian come “un radicale che ha costretto il suo Paese a confrontarsi con il suo ruolo nello sfollamento di centinaia di migliaia di palestinesi”. Morris è risaputo essere un oppositore dichiarato del controllo israeliano sulle zone della Giudea e della Samaria. Un oppositore le cui scoperte spesso non erano in linea con le affermazioni di diversi gruppi sostenitori di Israele.
A maggior ragione, MENA ha scritto che l’opposizione a Morris “non fa che evidenziare ulteriormente il comportamento patetico dell’Università di Lipsia, che può essere giustamente considerato un grande successo da parte di coloro che odiano Israele”.
Tra i vari gruppi che ne hanno chiesto l’annullamento compariva quello degli Studenti per la Palestina di Lipsia. In seguito, Morris, 75 anni, ha dichiarato al quotidiano israeliano Haaretz che la decisione di annullare la lezione è stato un gesto codardo: “vergognosa, soprattutto perché è il risultato della paura di una potenziale violenza da parte degli studenti.

(Bet Magazine Mosaico, 4 dicembre 2024)

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Il cuore della Sicilia che batte per Israele

di Angelica Calò Livnè

Dopo più di 400 giorni di guerra, con un’Israele ferita, sanguinante, divisa, che lotta strenuamente per mantenere il suo spirito e per continuare a sopravvivere siamo arrivati a Palermo. «Ti abbiamo sentita alla radio, parlavi di pace e di speranza mentre suonavano le sirene, mentre arrivavano i missili di Hezbollah sulla tua casa al confine con il Libano e abbiamo subito pensato che dovevi essere una delle premiate in ricordo di padre Pino Puglisi, il prete che combatté contro la mafia con coraggio e dedizione verso i suoi ragazzi, per dare dignità, amore e futuro alla gente del suo quartiere, Brancaccio a Palermo. Saremmo onorati se volessi accettare il nostro invito». Il primo pensiero è stato «Mi ani ki elech el paro’ – Chi sono io per andare dal Faraone?», poi di istinto, con gioia e profonda gratitudine, ho detto sì, certamente. «Sono io che devo ringraziarvi per la vostra fiducia e per il vostro coraggio di andare contro corrente in questo momento buio di solitudine per il mio Paese!».
  Nel primo giorno del cessate il fuoco, immediatamente la speranza si è fatta largo tra la gente, si è insinuata nei cuori, ha accarezzato le spalle curve dal dolore e dal peso di una guerra senza fine, benedicendo le fronti.
  Cosi è Israele: si abbarbica a ogni piccolo raggio di positività e ricomincia la sua lotta per la ricostruzione, per riempirsi dell’energia così urgente per non soccombere. E questo è stato il nostro viaggio in una Palermo effervescente, dove il profumo del pistacchio si mescola ai colori delle danze di strada per denunciare la violenza contro le donne, dove l’oro di Monreale brilla e ispira al Bene preti, vescovi e associazioni di periferia per strappare giovani e non dalla povertà, dalla droga, dall’ingiustizia e dalla disperazione. Gente nobile, che dedica la propria vita e si batte per una Sicilia sana, regina delle bellezze che ha ricevuto dalla natura e da tradizioni antiche.

• UN’ACCOGLIENZA CHE SCALDA IL CUORE
  Sono partita con dolori in tutto il corpo, accompagnata da Yehuda, mio angelo custode, con una paura profonda di imbattermi in sorprese spiacevoli da parte di chi si alimenta delle notizie dei media. Ero preoccupata dall’antisemitismo dilagante, devastante che non lascia respiro. Avevo il cuore pesante per i nostri soldati che cadono ogni giorno a Gaza e nel sud del Libano, per i 101 ostaggi in procinto di affrontare un altro inverno in condizioni disastrose, e per il nostro kibbutz abbandonato.
  L’accoglienza dei fedeli nella Chiesa diroccata di padre Antonio Garau di Borgo Nuovo direttamente dall’aeroporto Falcone e Borsellino è stata un diluvio di affetto, di empatia profonda verso le nostre storie dolorose del 7 ottobre, sulle donne stuprate, i bambini che hanno assistito all’assassinio dei loro genitori, le famiglie bruciate. Gemma Ocello – di nome e di fatto, un vero diamante grezzo, che splende e illumina al suo passaggio – mi scriveva ormai da mesi per prepararmi alla cerimonia. Saremmo stati in sette: padre Alex Zanotelli, sacerdote comboniano, Gino Cecchettin che con straordinaria forza interiore ha trasformato il dolore per la tragica perdita della figlia Giulia in un esempio luminoso di amore. Andrea Rinaldo, scienziato di fama mondiale e vincitore dello Stockholm Water Prize. Francesco Zavatteri, che ha trasformato il dolore per la perdita del figlio Giulio in un impegno concreto contro le dipendenze, Zenaida Boaventura che con La Casa di tutte le genti ha dato un’opportunità a tante mamme lavoratrici e ai loro figli, creando un luogo di accoglienza e integrazione. E io, messaggera di pace e di speranza in piena guerra.
  «La presenza di personalità di tutto il mondo», ha commentato padre Garau, «che vivono la loro vita testimoniando il senso del rispetto e della dignità dell’uomo sono la nostra forza nel credere che le cose possano cambiare, come diceva padre Pino Puglisi».
  Nel corso della settimana trascorsa sotto la protezione affettuosa di Gemma e della sua famiglia, ci sono stati momenti di grazia senza fine, di rispetto profondo per il nostro essere ebrei, israeliani e fratelli maggiori. Abbiamo ricevuto manifestazioni di affetto nel Liceo Mamiani di Palermo dove abbiamo presentato uno dei nostri laboratori di Educazione al dialogo attraverso le arti da palcoscenico per 120 ragazzi: «Voi siete la testimonianza vivente di ciò che accade veramente in Medio Oriente dovete raccontare a tutti la verità dietro le immagini che mostrano in televisione!», ha sottolineato Giovanni, professore di storia e filosofia. Uno dei carabinieri che ci ha accompagnato ci ha confidato la sua frustrazione, durante le manifestazioni propal, per chi prova a sostituire la bandiera italiana con quella palestinese. In più, quando affrontano il caos, le forze dell’ordine vengono demonizzate.

• CON UN GIOVANE LIBANESE A PALERMO
  Concluderò con uno dei momenti più toccanti di questo viaggio: un testo scritto da Germana Porcasi che ha partecipato a un altro dei laboratori presentati in questi giorni a Palermo:
  «Oggi abbiamo partecipato alla lezione di Angelica alla fondazione Fscire.
  Angelica esordisce raccontando brevemente del suo kibbutz, degli sfollati, dei missili… A un certo punto prende la parola un ragazzo, si presenta “sono libanese” dice “di Beirut”… tutti trattengono il respiro, abbiamo anche pensato… speriamo non nasca una discussione. Angelica, pronta come sempre, con massima gioia e accoglienza. “Non sai quanto sono felice ed emozionata… il mio kibbutz è proprio davanti al confine con il Libano…”. Lui trattiene a fatica le lacrime raccontando con tanto dolore la paura e la sofferenza che continuano a infliggere ai libanesi. “Abbiamo paura, abbiamo paura… non possiamo dire nulla, ci chiamano sionisti… traditori, ci minacciano… siamo stanchi non ne possiamo più, noi siamo brave persone, non vogliamo il male di nessuno… ma loro… loro ci hanno catapultato 40 anni indietro”. E allora Angelica gli chiede: “Ma questi –«loro»– chi intendi Hezbollah?”. “Si”, dice lui “Hezbollah” e ancora trattiene le lacrime, la voce spezzata, un nodo in gola… Molti dei presenti si asciugano le lacrime che scendono irrefrenabili. Incredibile davvero questo incontro e lo sfogo liberatorio di questo ragazzo, consegnato proprio al cuore di Israele».
  E con questo spirito, con queste immagini negli occhi, nell’anima e nel cuore torniamo a casa. Proprio a casa, e dopo più di un anno torniamo a dormire nella nostra stanza da letto con la sua finestra sul Monte Hermon. Ora non ci resta che aspettare con fiducia 60 giorni per rivedere il kibbutz pieno di bambini e Amen, gli abbracci delle madri e le famiglie da tutta Israele che accolgono i loro figli che tornano dall’inferno dei tunnel. Siamo nati per la luce e per la luce combatteremo fino in fondo!

(moked, 2 dicembre 2024)

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Il presidente della Siria chiede aiuto a Israele!

Questo è il titolo del sito ortodosso Kikar Hashabbat, e sembra semplicemente fantastico. Io dico la mia opinione apertamente e senza mezzi termini. Secondo il quotidiano saudita Elaph, il presidente siriano Bashar al-Assad ha chiesto aiuto a Israele per respingere i ribelli sunniti che negli ultimi giorni hanno conquistato ampie zone del nord-ovest della Siria. Israele non ha immediatamente respinto la richiesta, ma ha posto delle condizioni. Fonti ufficiali non hanno ancora confermato la notizia. Per il portale ortodosso Kikar questo è un segno dell'arrivo del Messia. Il capo di Stato siriano chiede aiuto allo Stato di Israele? È qualcosa di anomalo nella politica regionale in cui viviamo. Ma l'intera regione è in una nuova fase che può esplodere o aprire nuove possibilità. Stiamo vivendo un periodo anomalo in cui ci saranno sicuramente molte sorprese. A.S.

di Aviel Schneider

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Ribelli siriani strappano un ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad nel centro di Aleppo, Siria, 30 novembre 2024.

GERUSALEMME - Elaph ha rivelato ieri che il Presidente Assad ha inviato un messaggio a un'agenzia di sicurezza israeliana attraverso uno dei suoi consiglieri in Europa. In questo messaggio, Assad avrebbe chiesto aiuto militare per sostenere il suo regime a Damasco contro i ribelli sunniti. Secondo il giornale saudita, Israele ha risposto ad Assad che gli sviluppi in Siria non rappresentano una minaccia immediata per Israele. Tuttavia, Israele non ha rifiutato categoricamente la richiesta. L’apparato di sicurezza israeliano aveva chiarito ad Assad che le milizie iraniane avrebbero dovuto lasciare la Siria prima che Israele potesse considerare una risposta positiva alla richiesta.
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Il presidente siriano Bashar Al-Assad (R) parla con il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi (L), a Damasco, in Siria, il 1° dicembre 2024

Se questo rapporto è vero, cosa che ritengo abbastanza possibile, allora dimostra che il regime siriano di Assad è ai ferri corti con il regime degli ayatollah in Iran. Assad chiede aiuto al regime sionista di Gerusalemme? Il regime sionista di Gerusalemme è il diavolo che deve sparire dalla faccia della terra per i suoi alleati iraniani. C'è qualcosa di sbagliato in questa teoria, oppure spiega gran parte del successo delle eliminazioni di Israele in Libano, Iran e Siria. Da tempo circola la voce che Assad abbia aiutato Israele a eliminare una figura chiave dopo l'altra dall'asse del terrore sciita. Non è una novità nel mondo arabo in cui viviamo. Dietro le quinte, i governi arabi hanno spesso chiesto aiuto al loro nemico sionista a Gerusalemme. Il padre dell'attuale re giordano, re Hussein, durante il suo mandato ricevette da Israele la promessa che l'aviazione israeliana sarebbe intervenuta se la Siria avesse continuato a sognare una Grande Siria e avesse voluto conquistare parti della Giordania. All'epoca, il padre di Bashar al-Assad , Hafez al-Assad, governava la Siria. Non è quindi una novità che gli arcinemici di Israele chiedano aiuto.
D'altra parte, ci sono anche notizie secondo cui Assad avrebbe chiesto aiuto all'Iran, il che ovviamente suona molto più logico. “È probabile che Assad riceva decine di migliaia di soldati iraniani per aiutarlo a combattere i ribelli, che negli ultimi giorni hanno fatto qualche passo avanti”. Commentando i combattimenti in Siria, il professor Eyal Zisser, esperto di Medio Oriente e Siria, ha dichiarato:

    "La cosa davvero sorprendente di questo evento è stato il rapido crollo dell'esercito siriano di fronte ai ribelli. Questo dimostra quanto l'esercito sia davvero debole e che non può sopravvivere senza il sostegno dei suoi amici e alleati. Da quando Iran e Russia sono intervenuti, la guerra in Siria è rimasta a un livello basso e Assad ha avuto il tempo di ricostruire e rafforzare il suo esercito. Si tratta di decine di migliaia di soldati e di attrezzature russe e iraniane. Questo esercito avrebbe dovuto essere molto più forte dei ribelli. Ma l'esercito siriano è semplicemente fuggito - non c'è stata nemmeno una battaglia”.

Il sito web saudita ha citato l'esperto israeliano di Medio Oriente Mordechai Kedar e lo ha ritratto mentre descriveva i ribelli siriani come “amici di Israele”. Kedar aveva detto che si sarebbe potuta aprire un'ambasciata israeliana a Damasco se i ribelli avessero preso il controllo della Siria e rovesciato il regime di Assad. Tuttavia, questo resoconto non corrisponde alle sue reali dichiarazioni. In un video clip, Kedar ha detto:

    "Oggi sono a favore dei ribelli. Domani non lo so! Ma oggi i ribelli vogliono combattere le milizie sciite in Siria e liberarsi del regime di Assad. Oggi dovete sostenere i ribelli. Domani non lo so. Oggi combattono contro le milizie sciite e contro il regime di Assad. Se saranno amichevoli nei nostri confronti, continueremo a sostenerli. Se non lo saranno, non lo faremo”.

L'Iran è fortemente coinvolto negli sviluppi strategici in Siria perché vuole creare una “autostrada d'attacco” sciita da Teheran alle alture del Golan. Per il regime degli ayatollah, la Siria è solo un mezzo per raggiungere il fine di distruggere Israele. La conquista da parte dei ribelli sunniti vanifica questo piano e danneggia gli interessi nazionali dell'Iran, il che non preoccupa particolarmente Israele. Tuttavia, Israele teme che gruppi terroristici estremisti possano sfruttare il vuoto di potere nelle aree incontrollate del nord-ovest della Siria. È molto probabile che Assad capisca meglio l'intera situazione e veda la vera salvezza negli ebrei piuttosto che nei suoi soliti alleati. Ecco perché ci si chiede cosa stia accadendo intorno a noi, soprattutto nell'ultimo anno. Viviamo davvero in tempi messianici? Israele è stato colto di sorpresa il 7 ottobre 2023. Da allora c'è stata guerra. E ora, dopo che Israele ha eliminato alcuni dei suoi nemici più potenti, il presidente siriano Assad chiede aiuto? Fantastico!

(Israel Heute, 3 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Israele in allerta per arrivo Guardie Rivoluzionarie in Siria

In Israele temono che l'Iran approfitti della crisi in Siria per far entrare un elevato numero di Guardie Rivoluzionarie in Siria e minacciare così lo Stato Ebraico

di Haamid B. al-Mu’tasim

GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto domenica sera una consultazione di sicurezza ad alto livello sugli sviluppi in Siria, in seguito all’attacco a sorpresa dei ribelli nella zona di Aleppo e Idlib.
  Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme affermano che Israele teme che il presidente siriano Bashar Assad permetta all’Iran di introdurre forze delle Guardie Rivoluzionarie nel territorio siriano per aiutare l’esercito di Damasco a difendere il suo regime, e che tale mossa avvicinerà le Guardie Rivoluzionarie al confine con Israele.
  Secondo le stesse fonti, Hezbollah avrebbe già inviato forze dal Libano nel nord della Siria per proteggere i beni dell’organizzazione e dell’Iran dai gruppi terroristici jihadisti.
  Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Damasco e ha incontrato il presidente Assad per coordinare le mosse tra Iran e Siria, con l’obiettivo di proteggere il regime siriano.
  Secondo la stampa araba, l’Iran sta già pensando di inviare forze militari in Siria. Ieri sera ha messo in guardia gli Stati Uniti dall’approfittare della situazione in Siria e ha lanciato segnali sulla possibilità di inviare forze “consultive” delle “Guardie rivoluzionarie” nella città di Aleppo in Siria se gli sviluppi sul terreno lo richiedessero.
  Fonti di stampa hanno riferito che il deputato iraniano Ismail Kavehtri, responsabile per gli affari militari presso la commissione per la sicurezza nazionale del parlamento, ha affermato ieri sera che esiste la possibilità che l’Iran invii forze “consultive” in Siria, ma secondo lui , “questo dipende dagli sviluppi sul terreno e dalle decisioni della leadership israeliana”.
  Kavehtri ha affermato infatti che gli attacchi dei ribelli ad Aleppo avevano lo scopo di impedire gli aiuti iraniani a Hezbollah durante il cessate il fuoco di 60 giorni, secondo un piano americano-israeliano. Ha sottolineato che il numero dei consiglieri iraniani in Siria non è molto elevato e, se il loro numero fosse elevato, agirebbero immediatamente. Ha stimato che “il fronte della resistenza interverrà con forza in Siria per impedire il ritorno delle fazioni armate, al fine di contrastare il piano americano-israeliano”.
  Le stesse fonti sostengono anche che il generale Hossein Dakiki, consigliere del comandante delle “Guardie rivoluzionarie”, ha affermato che “il nemico israeliano sta complottando in Siria e in Libano, ma in Siria gli verrà tagliata la mano in modo tale da passare2 per sempre alla storia.”
  Secondo quanto riferisce la rete Farda in lingua persiana, migliaia di combattenti delle milizie sciite in Iraq si stanno dirigendo verso la città di Aleppo in Siria per partecipare ai combattimenti.
  Israele sta monitorando attentamente ciò che sta accadendo in Siria, e fonti politiche dicono che Israele agirà se le forze iraniane o le milizie filo-iraniane tentano di avvicinarsi al confine con Israele, e che “Israele è pronto per qualsiasi scenario”.

(Rights Reporter, 2 dicembre 2024)


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Caos Siria, opportunità e rischi per Israele

Gli sviluppi in Siria, con i ribelli jihadisti filoturchi che hanno preso il controllo della città di Aleppo otto anni dopo la sua riconquista da parte dell’esercito siriano, stanno destando preoccupazione in Israele. Il regime di Bashar al-Assad, sostenuto da Iran, Russia e Hezbollah, appare sempre più debole nel nord, e il consolidamento di forze jihadiste sunnite vicino al confine israeliano rappresenta un rischio crescente per lo stato ebraico. Il premier Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione straordinaria per discutere l’impatto di questi eventi: le autorità di sicurezza temono che armi pericolose – come quelle chimiche già usate da Assad in passato – cadano nelle mani dei ribelli. Anche l’aiuto di Teheran ad Assad è sotto osservazione. «Stiamo seguendo da vicino ciò che sta accadendo in Siria, abbiamo visto che il regime iraniano sta inviando rinforzi. Lavoreremo per impedire il contrabbando di armi verso il Libano e Hezbollah attraverso il territorio siriano», ha dichiarato il portavoce dell’esercito Daniel Hagari in un’intervista a Sky News.
  L’attacco su Aleppo è stato guidato da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), evoluzione di Jabhat al-Nusra, precedentemente affiliato ad al-Qaeda in Siria. A differenza dell’inizio della guerra civile nel 2011, quando il movimento ribelle era rappresentato dall’Esercito siriano libero, con posizioni anche laiche, oggi il conflitto vede protagoniste fazioni jihadiste. «Non è lo Stato Islamico, ma non è nemmeno così diverso,» spiega all’emittente N12 Carmit Valensi, ricercatrice senior dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale (INSS). «I prossimi giorni saranno cruciali per comprendere la portata di questo evento» aggiunge Valensi. «Se i ribelli jihadisti riusciranno a conquistare il potere in Siria, la loro ostilità verso Israele non sarà inferiore a quella di Assad e soprattutto degli iraniani che lo sostengono. Ma se nella rivolta la corrente più moderata riuscirà a integrarsi, prendere il controllo e tradurre i successi militari di Hayat Tahrir al-Sham in un cambiamento politico significativo, allora per noi potrebbe essere una notizia positiva».
  L’emittente Kan ha raggiunto alcune delle voci più moderate di chi ad Aleppo e Idlib guida l’avanzata anti-Assad. «Ci accusano di collaborare con voi [Israele] perché siamo stati molto contenti quando avete attaccato Hezbollah e siamo felici che abbiate avuto successo», ha affermato un residente di Idlib alla radio israeliana. Secondo lui, molti siriani non considerano Israele un nemico «perché non è ostile verso chi non lo è nei suoi confronti. Non vi odiamo. Anzi». Kan ha raccolto un’altra testimonianza simile. «Il popolo siriano non era così felice da molto tempo. È la prima volta che proviamo un senso di gioia e vittoria, e con l’aiuto di Allah ci libereremo di Bashar al-Assad e dell’Iran», ha affermato un residente dell’area di Aleppo. «Forse non vi piacciamo e non ci volete liberi, ma noi vogliamo liberare il nostro paese. Non abbiamo problemi con nessuno stato vicino, con nessuno. Abbiamo solo un problema con l’Iran e il regime, questi criminali assassini».
  Per Israel Shammai, analista del sito Makkor Rishon, la posizione d’Israele sul conflitto in corso in Siria ricorda quella di Menachem Begin sulla guerra tra Iran e Iraq del 1988. Quando gli fu chiesto per chi parteggiasse, Begin rispose: «Auguro successo a entrambe le parti».
  Per Shammai in questa fase il conflitto interno in Siria sta giocando a favore di Gerusalemme. Tsahal continuerà a colpire i convogli di munizioni ed equipaggiamenti che l’Iran trasferisce a Hezbollah attraverso il corridoio siriano. «Le guerre interne renderanno molto difficile per Assad aprire un fronte contro Israele», scrive Shammai. Tuttavia, nel lungo termine, le organizzazioni islamiste più radicali, sottolinea l’analista, «possono rappresentare un pericolo maggiore del presidente siriano, nonostante i suoi ben noti difetti. Quindi, dopo aver augurato successo a entrambe le parti, speriamo che non siano proprio questi ribelli a uscirne vincitori». d.r.

(moked, 2 dicembre 2024)

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Israele, il primo impianto che produce energia dal movimento delle onde a Jaffa

di Jacqueline Sermoneta

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Sarà inaugurato giovedì nel porto di Jaffa, in Israele, il primo impianto che sfrutta il movimento delle onde per produrre energia elettrica pulita. Il progetto, che coniuga innovazione e sostenibilità, è promosso congiuntamente dal comune di Tel Aviv-Yafo, dalla società municipale “Atarim”, dalla startup israeliana Eco Wave Power e da EDF Renewables Israel.
  ‘Una tecnologia pioneristica’, l’ha definita il Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano, quella sviluppata da Eco Wave Power, che sfrutta dispositivi galleggianti istallati su moli, frangiflutti e pontili. “Questi galleggianti si alzano e si abbassano in base al movimento ascendente e discendente delle onde, alimentando un motore idraulico e un generatore, situati sulla terraferma. Inoltre, un sistema di automazione intelligente controlla e monitora l’intero processo, sollevando i galleggianti dall’acqua durante le tempeste per evitare danni”.
  Attualmente l’azienda sta costruendo stazioni energetiche anche in altri Paesi: una nel porto di Los Angeles, in California, e un primo impianto elettrico su scala commerciale è in fase di progettazione finale in Portogallo.
  La fondatrice e CEO di EcoWave Power, Inna Braverman, ha partecipato al programma “Donne per il clima”, una delle iniziative ambientali e di sostenibilità del comune di Tel Aviv-Yaffo, che permette alle “donne selezionate di ricevere una guida professionale e gli strumenti per portare avanti progetti innovativi che fanno progredire la sostenibilità urbana e affrontano il cambiamento climatico”.
  Eco Wave Power ha ricevuto finanziamenti dal Fondo di sviluppo regionale dell’Unione europea, da Innovate UK e dal programma quadro Horizon 2020 della Commissione europea ed è stata insignita del Global Climate Action Award dalle Nazioni Unite.

(Shalom, 3 dicembre 2024)

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Antisemitismo neonazista a Vienna

Aggredito ultraortodosso mentre andava in sinagoga

di Roberto Zadik

Come ogni Shabbat stava recandosi alla preghiera pomeridiana, quando a Vienna il 30 novembre, un gruppo di neonazisti l’ha aggredito “rubandogli” il suo Shtreimel copricapo in pelliccia tipicamente Est Europeo e la kippà con cui era coperto il capo
  Secondo i siti Ynetnews nell’articolo firmato da Itamar Eichner, il religioso si era imbattuto casualmente nella manifestazione a sostegno del partito di estrema destra, FPO, che lo scorso 29 settembre ha trionfato alle elezioni entrando nel governo austriaco  ottenendo il ventinove percento dei voti, quando è stato attaccato da ignoti.
  Ma chi può essere stato a compiere questo gesto così brutale e cosa è successo? Il presidio si preannunciava da giorni estremamente pericoloso tanto che l’FPO aveva fatto affiggere per le vie della capitale viennese dei cartelli che dicevano di “stare moto attenti perché nel centro di Vienna inizierà verso mezzogiorno un presidio neonazista a Heidenplatz”.
  Attualmente la polizia viennese sta indagando sui possibili responsabili dell’aggressione al malcapitato ortodosso sessantaseienne e a questo proposito il Jerusalem Post fornisce alcuni interessanti dettagli sull’accaduto. Stando all’articolo, l’uomo è stato assalito nello storico quartiere ebraico viennese di Leopolstadt “famoso per il suo valore storico e culturale” come ha evidenziato il testo, mentre recandosi per la preghiera di Minchà, verso le 15.45 ha incrociato la manifestazione nel centro della città.
  Secondo le prime ricostruzioni gli  aggressori, membri del gruppo neonazista Vienna Dance Brigade gli hanno rubato lo Shtreimel per poi indossarlo come scherno sfilando per le strade. Successivamente però un testimone è riuscito a ritrovare il copricapo in un negozio di vestiti usati riportandolo al proprietario. A quanto pare i presunti colpevoli sarebbero due adolescenti, uno dei quali, un diciassettenne austriaco identificato come ideatore del gesto e accusato di “disturbo della quiete pubblica”. La polizia ha confermato che anche le unità antiterrorismo stanno indagando sul caso, come ha assicurato il portavoce delle forze dell’ordine viennesi Markus Dittrich “siamo decisi a andare fino in fondo su questo incidente con ulteriori investigazioni”.

(Bet Magazine Mosaico, 3 dicembre 2024)

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Joe Biden grazia il figlio. Ai buoni tutto è concesso

di Daniele Capezzone. 

«La salita dell’inflazione? E' transitoria». «Il confine con il Messico? E' sicuro». «Grazierò mio figlio? No». Sono tre - scelte a caso tra le decine possibili - delle bugie raccontate negli ultimi anni da Joe Biden.
  Balle spettacolari, paragonabili solo a quelle - ancora più vertiginose - dette su di lui da amici, collaboratori, sostenitori e media embedded: «Biden è lucidissimo», «Biden non sarà sostituito», e via mentendo e inseguendo le menzogne con nuove bugie ancora più luccicanti e fantasiose.
  Provate a immaginare se il portavoce di Trump e Trump stesso, alla presidenza, avessero reiteratamente negato l’intenzione di graziare il figlio, e se poi invece la grazia fosse arrivata dopo una campagna elettorale, quindi alle spalle dei votanti.
  Da ieri sui social circola una formidabile compilation di filmati, di clippini (tutti veri, ahinoi) in cui Biden sembrava escludere categoricamente questa eventualità («Non ci sono re in America, nessuno è al di sopra della legge»). E più volte il presidente uscente aveva inflitto agli americani discorsetti retorici sul suo assoluto rispetto della giustizia che gli avrebbe impedito di usare i poteri presidenziali per favorire il figlio.
  « La sua portavoce, Karine Jean-Pierre, era apparsa addirittura sprezzante e infastidita verso i giornalisti che osavano ripetere la domanda («Ho già risposto», «Ho detto no», «$ ancora un no»).

• SOTTO ATTACCO
   Ma si sa, gli autoproclamati “buoni” possono fare tutto. Vale anche per media e social. Oggi X di proprietà di Elon Musk è selvaggiamente sotto attacco (un paio di giorni fa è arrivata anche la reprimenda di padre Paolo Benanti, ascoltato pure a destra come un guru), nonostante che Musk abbia da tempo reso più trasparente l’algoritmo, con ciò aprendo una inedita pagina di chiarezza.
  Quando invece, con la proprietà pre-Musk, negli ultimi giorni della campagna per le presidenziali 2020, il vecchio Twitter fece sparire la storia del laptop di Hunter Biden, arrivando perfino a bannare il profilo del giornale che l’aveva tirata fuori, il New York Post. Di fatto divenne impossibile condividere il link all’inchiesta, e furono pure limitati e bloccati sia il profilo dell’allora portavoce della Casa Bianca sia quello della campagna Trump.
  Tutto questo accadde a un paio di settimane dal voto del 2020, e ovviamente va ricordato che il famigerato laptop del figlio di Biden custodiva informazioni scottanti sui suoi rapporti economici con società di paesi stranieri (Cina inclusa). Ecco, provate a immaginare se la metà di queste cose le avessero fatte Trump e Musk.
  Curioso, eh? I detrattori di Donald Trump gli hanno spesso rimproverato (talora, ammettiamolo, a ragione), una propensione alla post-verità, a una post-truth manipolata e ricostruita a posteriori in base a esigenze di riadattamento propagandistico delle cose.
  Peccato però che loro (i “buoni e giusti”) siano i campioni incontrastati della pre-truth, cioè di una verità preconfezionata a tavolino, in cui i torti e le ragioni non dipendono da ciò che si fa ma da ciò che si è. E se – per tua fortuna – sei nel perimetro del pensiero accettato, delle opinioni ammesse dal sinedrio progressista, allora puoi fare qualunque cosa. Se invece sei nel girone infernale dei reietti, fai orrore a prescindere.
  Questi signori - i “buoni” hanno calcolato tutto. Gli è però sfuggito un “dettaglio”, chiamiamolo così, e cioè i cuori e le menti delle persone comuni.
  E' la common people che ha scoperto il gioco, che ha smascherato l’inganno, e che ora non crede più ai trucchi e ai mediocri illusionismi di chi l’aveva fatta franca per troppo tempo.

Libero, 3 dicembre 2024)
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«Si sa, gli autoproclamati “buoni” possono fare tutto.» Questo è l’Occidente. Questo è il mondo dei buoni. Questo è l’impero americano. L’impero della menzogna, così l’ha definito una volta Putin, che si sa è un cattivo, quindi non può  arrivare a capire il livello di bontà in cui si muovono i buoni. Sia chiaro, tutti i politici mentono, anche Putin, e Putin lo sa. Una volta però ha umilmente ammesso che nessuno può superare l’America in quella suprema arte della menzogna che è la propaganda. A che serve infatti la verità in politica? Al massimo può essere usata come una clava in testa all’avversario  caduto davvero in un grave, innegabile peccato. Però, anche in questo caso, se a cadere è un “buono”, nell’impero dei buoni interverrà sempre un altro ancora più buono a rialzarlo, nel nome di un superiore livello di bontà presentata come misericordiosa virtù morale, corrispondente a un più elevato livello di menzogna. Viva l’America! M.C.

Libero, 3 dicembre 2024)

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Turismo e solidarietà: Israele non si ferma

Un piano da milioni di shekel per rinnovare le strutture ricettive e sostenere la comunità in tempi di crisi.

In un momento di profonda sfida, l’industria turistica israeliana si distingue per la sua straordinaria capacità di adattamento e resilienza. Negli ultimi mesi, oltre 90.000 sfollati sono stati accolti in strutture ricettive di ogni tipo, dagli hotel alle pensioni, fino alle case vacanza. Questo impegno collettivo sottolinea il ruolo cruciale del turismo non solo come forza trainante dell’economia, ma anche come elemento di coesione sociale, dimostrando una profonda sensibilità verso le esigenze della comunità.
Per garantire una ripresa solida e sostenibile, il Ministero del Turismo, guidato da Haim Katz, ha presentato un piano di ristrutturazione completo, che si configura come una svolta strategica per il settore. Il programma prevede lo stanziamento di 175 milioni di shekel (ILS) destinati alla riabilitazione delle strutture ricettive. Gli operatori turistici, infatti, riceveranno supporto economico per migliorare le loro infrastrutture e renderle pronte a soddisfare le aspettative di un turismo moderno e internazionale. Parallelamente, ulteriori 10 milioni di shekel sono stati stanziati per promuovere il turismo domestico, incoraggiando i cittadini israeliani a riscoprire le meraviglie del proprio paese e sostenendo così l’intero ecosistema del settore.
Il Ministro Haim Katz ha ribadito l’impegno del governo in questa direzione, sottolineando come gli hotel abbiano svolto un ruolo fondamentale nel fornire rifugio a migliaia di persone, trasformandosi temporaneamente in veri e propri centri di accoglienza. Ora, il compito è quello di restituire a queste strutture la loro vocazione originaria, preparandole a riaccogliere turisti da ogni parte del mondo. Questo approccio integrato, che combina il ripristino delle infrastrutture con la promozione del turismo interno, mira non solo a rilanciare il settore, ma anche a creare un impulso economico diffuso in grado di beneficiare tutta la nazione.
Il piano del Ministero del Turismo riflette un impegno costante per l’innovazione e il rinnovamento, elementi indispensabili per mantenere il paese competitivo nel panorama globale del turismo. L’obiettivo è chiaro: garantire un’esperienza di ospitalità di altissimo livello, che sappia attrarre visitatori sia nazionali che internazionali, mostrando al mondo un Israele capace di trasformare le sfide in opportunità.

(AdvTraining, 2 dicembre 2024)

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Israele spera nel nuovo capo della politica estera dell'UE

Con Kaja Kallas, l'Unione Europea ha un nuovo rappresentante per gli affari esteri. Israele ritiene che le relazioni con l'associazione di Stati possano migliorare in qualche modo. Ma i dubbi sono giustificati.

di Sandro Serafin

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La premier estone Kaja Kallas

Quando è stato annunciato che il capo del governo estone avrebbe sostituito lo spagnolo Josep Borrell come capo della politica estera dell'UE, i media israeliani si sono sentiti sollevati: “È una buona notizia per Israele”, ha detto ad esempio il quotidiano “Israel Hayom”. La gioia si spiega probabilmente più con il sollievo per la partenza di un feroce critico di Israele che con una reale conoscenza delle posizioni di Kallas sullo Stato ebraico. Perché finora non se ne sa molto.
  Kallas, che è nata a Tallinn nel 1977 e ha studiato legge, ha già una notevole carriera politica. La figlia dell'ex primo ministro estone e commissario europeo Siim Kallas è diventata leader di un partito liberale co-fondato dal padre nel 2018. Meno di tre anni dopo, si è ritrovata nel ruolo di Primo Ministro dell'Estonia.

• IL GOVERNO KALLAS HA VOTATO A FAVORE DELLA “PALESTINA”
  In questo ruolo, Kallas ha dovuto anche rispondere all'attacco dei terroristi palestinesi al sud di Israele il 7 ottobre 2023. Si è comportata come molti suoi omologhi: poco dopo l'attacco, ha dichiarato che il suo Paese era “fermamente dalla parte di Israele”. Tuttavia, ha presto accompagnato la sua solidarietà con parole di avvertimento per Gerusalemme: “Israele ha il pieno diritto di difendersi. Ma deve farlo in modo da proteggere vite innocenti e rispettare le norme del diritto internazionale”.
  Il suo governo ha agito chiaramente contro gli interessi di Israele nel maggio 2024: alle Nazioni Unite, l'Estonia ha votato a favore di una risoluzione che estendeva i diritti dello “Stato di Palestina” all'interno dell'ONU e raccomandava al Consiglio di Sicurezza di ammettere la “Palestina” come membro a pieno titolo. Israele ha descritto la risoluzione come una “decisione assurda” che ha rivelato ancora una volta la “strutturale unilateralità” delle Nazioni Unite nei confronti di Israele. Altri membri dell'UE, tra cui la Germania, si sono astenuti.huti• “PRONTI A SACRIFICARE GLI INTERESSI DI SICUREZZA DI ISRAELE”
  Il governo estone ha giustificato il suo comportamento di voto con la “situazione geopolitica intorno a noi”, che è cambiata: “È importante che il sostegno globale all'Ucraina aumenti e che non siamo accusati di usare due pesi e due misure”. L'Estonia alludeva al fatto che molti Paesi del Sud globale accusano i Paesi che sostengono sia Israele che l'Ucraina di applicare due pesi e due misure: vedono Israele nello stesso ruolo della Russia di Putin.
  Kallas è ora un feroce critico della Russia. La formazione di un fronte anti-russo è per lei una priorità assoluta. “Per attirare l'attenzione del mondo sulla Russia, l'Estonia è pronta a sacrificare gli interessi di sicurezza di Israele”, ha criticato il giornalista conservatore israeliano Eldad Beck in un articolo per il portale ‘Mida’. Strano il comportamento di voto: Già nel novembre 2022, il ministro degli Esteri Kallas aveva dichiarato che in futuro avrebbe votato meno a favore delle risoluzioni critiche nei confronti di Israele all'ONU e si sarebbe allineato maggiormente ai voti degli Stati Uniti.

• KALLAS PROMETTE UNA “STRATEGIA GLOBALE PER IL MEDIO ORIENTE”
  Ciò che Kallas ha formulato finora sul tema del Medio Oriente in vista dell'assunzione della carica di Commissario agli Affari Esteri non è andato oltre i luoghi comuni: in un questionario di ottobre, ha dichiarato il suo sostegno alla “soluzione dei due Stati”. Inoltre, ha promesso di concentrare “tutti i miei sforzi” sulla promozione di una “strategia globale dell'UE per il Medio Oriente”.
  In definitiva, anche quando entrerà in carica, è improbabile che il capo della politica estera dell'UE cambi radicalmente la sua posizione su Israele. Non dovrebbe essere difficile per lei apparire meno ossessiva nei confronti di Israele rispetto al suo predecessore. Ma anche se Kallas dovesse avere una posizione più filoisraeliana di Borrell, le cariche politiche spesso plasmano le opinioni individuali del politico che le ricopre. Non solo Borrell, ma anche i suoi predecessori erano fortemente critici nei confronti di Israele.

(Israel Heute, 2 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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"Diventa un miliziano di Hamas". Un videogioco omaggia la strage del 7 ottobre

Bandito in Germania e Regno Unito, lo sparatutto "Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque" è ancora disponibile in diversi Paesi

di Massimo Balsamo

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Si rimpolpa l’elenco dei Paesi che hanno deciso di bandire “Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque”, videogioco dal retrogusto antisemita. Già vietato in Australia e in Germania, il videogame è stato rimosso dalla piattaforma Steam anche in Gran Bretagna su richiesta dell’unità speciale antiterrorismo che si occupa di monitorare i contenuti estremisti su internet (la Counter Terrorism Internet Referral Unit, ndr). Rilasciato nel 2022, il videogioco consente ai giocatori di vestire i panni di un membro di Hamas che può sparare tra le strade di Gerusalemme al grido di “Allahu Akbar”. Ma non solo.
Grazie all’aggiornamento dell’esperto brasiliano Nidal Nijm “Operation al-Aqsa Flood”, il videogame consente ai giocatori di rivivere la strage di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Nei panni di un miliziano con la fascia verde sul braccio, il giocatore approda nei pressi di una base israeliana in paracadute: l’obiettivo è sparare a distanza ravvicinata ai soldati israeliani disarmati. Sembrerebbe quasi una clip di propaganda dell’organizzazione terrorista, in realtà è semplicemente il trailer del videogioco.
Le immagini che circolano in rete mostrano i soldati di Hamas mentre uccidono i militari israeliani in modo cruento. Gli sviluppatori hanno respinto le accuse di antisemitismo e di estremismo, sottolineando che sulle piattaforme di videogame sono presenti contenuti molto simili.“È triste sentirlo perché, come tutti sappiamo, il mio gioco non è troppo diverso da qualsiasi altro gioco sparatutto su Steam, come Call of Duty, per esempio”normal la versione del già citato Nijm riportata da Wired.
Nonostante ciò, "Fursan al-Aqsa: The Knights of the Al-Aqsa Mosque" resta disponibile senza restrizioni nella maggior parte dei Paesi del mondo, inclusa la Francia. Secondo il sito web SteamDB, le vendite sono stimate tra 7.000 e 36.000 copie. Il numero dei giocatori rimane molto basso: il picco è stato raggiunto il 19 febbraio con solo 16 giocatori contemporaneamente.

(il Giornale, 2 dicembre 2024)

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Israele in allerta per arrivo Guardie Rivoluzionarie in Siria

In Israele temono che l'Iran approfitti della crisi in Siria per far entrare un elevato numero di Guardie Rivoluzionarie in Siria e minacciare così lo Stato Ebraico

di Haamid B. al-Mu’tasim

Gerusalemme, Israele (Rights Reporter) Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto ieri sera una consultazione di sicurezza ad alto livello sugli sviluppi in Siria, in seguito all’attacco a sorpresa dei ribelli nella zona di Aleppo e Idlib.
Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme affermano che Israele teme che il presidente siriano Bashar Assad permetta all’Iran di introdurre forze delle Guardie Rivoluzionarie nel territorio siriano per aiutare l’esercito di Damasco a difendere il suo regime, e che tale mossa avvicinerà le Guardie Rivoluzionarie al confine con Israele.
Secondo le stesse fonti, Hezbollah avrebbe già inviato forze dal Libano nel nord della Siria per proteggere i beni dell’organizzazione e dell’Iran dai gruppi terroristici jihadisti.
Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Damasco e ha incontrato il presidente Assad per coordinare le mosse tra Iran e Siria, con l’obiettivo di proteggere il regime siriano.
Secondo la stampa araba, l’Iran sta già pensando di inviare forze militari in Siria. Ieri sera ha messo in guardia gli Stati Uniti dall’approfittare della situazione in Siria e ha lanciato segnali sulla possibilità di inviare forze “consultive” delle “Guardie rivoluzionarie” nella città di Aleppo in Siria se gli sviluppi sul terreno lo richiedessero.
Fonti di stampa hanno riferito che il deputato iraniano Ismail Kavehtri, responsabile per gli affari militari presso la commissione per la sicurezza nazionale del parlamento, ha affermato ieri sera che esiste la possibilità che l’Iran invii forze “consultive” in Siria, ma secondo lui , “questo dipende dagli sviluppi sul terreno e dalle decisioni della leadership israeliana”.
Kavehtri ha affermato infatti che gli attacchi dei ribelli ad Aleppo avevano lo scopo di impedire gli aiuti iraniani a Hezbollah durante il cessate il fuoco di 60 giorni, secondo un piano americano-israeliano. Ha sottolineato che il numero dei consiglieri iraniani in Siria non è molto elevato e, se il loro numero fosse elevato, agirebbero immediatamente. Ha stimato che “il fronte della resistenza interverrà con forza in Siria per impedire il ritorno delle fazioni armate, al fine di contrastare il piano americano-israeliano”.
Le stesse fonti sostengono anche che il generale Hossein Dakiki, consigliere del comandante delle “Guardie rivoluzionarie”, ha affermato che “il nemico israeliano sta complottando in Siria e in Libano, ma in Siria gli verrà tagliata la mano in modo tale da passare per sempre alla storia.”
Secondo quanto riferisce la rete Farda in lingua persiana, migliaia di combattenti delle milizie sciite in Iraq si stanno dirigendo verso la città di Aleppo in Siria per partecipare ai combattimenti.
Israele sta monitorando attentamente ciò che sta accadendo in Siria, e fonti politiche dicono che Israele agirà se le forze iraniane o le milizie filo-iraniane tentano di avvicinarsi al confine con Israele, e che “Israele è pronto per qualsiasi scenario”.

(Rights Reporter, 2 dicembre 2024)

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Il 90° anniversario della Marina di Israele a Santa Marinella

di Nicole Nahum

C’è una storia poco conosciuta che lega un angolo di Italia, Santa Marinella, in provincia di Roma, alla nascita della Marina di Israele. Una storia che iniziò nel 1934, quando un gruppo di giovani ebrei, in fuga dalle persecuzioni naziste, arrivò in questo piccolo borgo del litorale laziale, per frequentare la Scuola Marittima di Civitavecchia. Lì, in quel luogo simbolico di speranza, questi ragazzi intrapresero un percorso che li avrebbe condotti a diventare i pionieri della futura Forza Navale israeliana. In occasione del 90° anniversario di questa nascita, il sindaco di Santa Marinella, Pietro Tidei, ha voluto rendere omaggio a tale evento, organizzando una celebrazione speciale, durante la quale il professor Livio Spinelli, da sempre legato a questa terra, ha tracciato il percorso di memoria che ha portato alla fondazione della Marina israeliana.
  Santa Marinella, già conosciuta per le sue proprietà terapeutiche, aveva attirato in passato l’attenzione della famiglia reale, che l’aveva scelta come luogo di cura per la figlia del re, affetta da una grave malattia polmonare. Fu proprio il dottor Guido Aronne Mendes a fare di Santa Marinella un punto di riferimento per il trattamento delle malattie polmonari.
  Nel contesto in cui in Europa si profilavano le tragiche ombre del nazismo e delle persecuzioni contro gli ebrei, nel 1934, su richiesta di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, capo del movimento sionista Bethar, il dottor Mendes si impegnò ad aiutare un gruppo di giovani ebrei provenienti da vari paesi europei, offrendo loro un’opportunità di istruzione e formazione. “Il generale e dottore Mendes, insieme all’aiuto dell’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, ministro della Marina Italiana, si misero d’accordo per accogliere un primo gruppo di questi giovani”, racconta il professor Spinelli in un’intervista rilasciata a Shalom. Nasce così la Sezione Ebraica della Scuola Marittima di Civitavecchia, dove, il 28 novembre dello stesso anno, 28 cadetti provenienti da Polonia, Cecoslovacchia, Lituania, Lettonia, Austria e Italia intrapresero il loro percorso di formazione navale, segnando l’inizio della futura Marina israeliana.
  Il simbolo di quel primo corso di formazione fu il veliero “Sara I”, un’imbarcazione a quattro alberi che, al termine del corso, venne regalata agli allievi. La cerimonia di consegna, che si svolse nel porto di Civitavecchia, rimase nel cuore di chi vi partecipò, come testimoniato nelle parole del professor Spinelli durante una video intervista con la signora Bonfiglioli, l’ultima testimone vivente di quell’evento.
  Nel corso dei successivi anni, tra il 1934 e il 1938, la Sezione Ebraica formò oltre 300 cadetti, che avrebbero dato vita alla Marina Militare, Mercantile e Peschereccia di Israele. Questi giovani, spiega Spinelli, mostravano grande devozione, come testimonia un episodio emblematico: “Una volta misero accanto alla bandiera italiana quella con la stella di David. Il generale Fusco, impressionato e allo stesso tempo impaurito, disse loro di lasciarla, sperando che nessuno sollevasse obiezioni. Fu forse una delle prime volte nella storia che la bandiera italiana venne posta accanto a quella con la stella di David”. Durante questi anni, i giovani cadetti navigarono per tutto il Mediterraneo, toccando porti in Francia, Tunisia e Palestina. Utilizzando motopescherecci come Necha e Leah, i ragazzi praticavano la pesca al largo di Santa Marinella, vendendo il pescato al negoziante locale, il signor Varchetta.
  Tuttavia, il clima politico dell’epoca stava volgendo al peggio per le sorti degli ebrei. Nel maggio del 1938, una visita congiunta di Mussolini, Hitler e del Re d’Italia Vittorio Emanuele III a Santa Marinella segnalò l’inizio della fine per la Sezione Ebraica della Scuola Marittima. Il regime fascista, influenzato dalle leggi razziali e dalla crescente pressione del nazismo, ordinò la chiusura della scuola, ponendo fine a un’esperienza che aveva dato speranza a molti giovani ebrei.
  Un’altra testimonianza significativa legata a questo periodo e a questo luogo – spiega il prof. Spinelli – è quella di Franco Modigliani, economista e premio Nobel. Modigliani ricordò con affetto il gioco della “Repubblica di Caccia Riserva”, inventato durante le estati trascorse a Santa Marinella. Il gioco venne, purtroppo, interrotto dalla milizia fascista, che non tollerava l’uso del nome “Repubblica”.
  Il 90° anniversario della nascita della Marina di Israele, celebrato a Santa Marinella, è un’occasione che va oltre la semplice commemorazione storica. È un momento per guardare indietro e riflettere su come un piccolo angolo d’Italia sia stato testimone di speranza e coraggio in un periodo buio della storia. In quel luogo, giovani ebrei, costretti a fuggire dalle persecuzioni naziste, hanno trovato un’opportunità per costruire un futuro che sembrava lontano e impossibile e che, nonostante tutto, continua a riguardarci. Guardando oggi a quelle storie, non possiamo fare a meno di sentirne l’umanità: il desiderio di riscatto, la forza di volontà, ma anche la bellezza di sogni condivisi che hanno trovato il loro porto sicuro proprio a Santa Marinella.

(Shalom, 2 dicembre 2024)

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Il sesto comandamento: Dio protegge la vita

di Marcello Cicchese
    «Non uccidere (Esodo 20: 13). 

Questo è forse l'unico comandamento di Dio contro il quale non sono sollevate obiezioni, neppure da parte di chi non crede né in Dio né nella validità della sua legge. In una forma o nell'altra, tutte le legislazioni civili contengono questo divieto. I motivi sono fin troppo evidenti: in una società in cui l'omicidio non costituisse un reato, ben presto ogni forma di umana convivenza diventerebbe impossibile.
  Ma i motivi per cui Dio vieta di uccidere sono diversi dai nostri. Noi siamo interessati soprattutto a noi stessi, alla nostra tranquillità; vorremmo poter continuare a vivere facendo gli affari nostri senza correre mai il pericolo di incontrare qualcuno che ci tolga la vita: per questo accettiamo volentieri il divieto dell'omicidio. Se fosse possibile, anzi, estenderemmo questo divieto anche a Colui che ha il potere di pronunciare l'ultima e definitiva sentenza di morte. E così ci sentiamo più buoni di Dio: se noi rifiutiamo l'omicidio e condanniamo chi lo compie, perché allora Dio, che dovrebbe essere migliore di tutti noi, non si oppone alla morte delle sue creature?
  Ma è proprio qui che viene fuori la differenza tra Dio e noi. La vita e la morte di ogni uomo sono nelle mani di Dio: la vita esprime il suo amore e la morte esprime il suo giudizio; a Lui, come creatore, compete il diritto di far morire e far vivere.

    «L'Eterno fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire» (I Samuele 2:6).

Nel giardino d'Eden Dio aveva solennemente avvertito Adamo:

    «... del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» (Genesi 2:7).

Adamo disubbidì e la parola di Dio andò ad effetto: l'uomo, tratto dalla terra, tornò alla terra:

    «... mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da dove fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai» (Genesi 3:19).

Dio, dunque, uccide. L'Iddio creatore è anche l'Iddio giudice della sua creatura caduta nel peccato. E proprio per il fatto che la morte dell'uomo esprime il giudizio insindacabile '' di Dio sull'uomo disubbidiente, tu, uomo, non hai alcun diritto di uccidere il tuo fratello. L'uccisione di un uomo costituisce un giudizio definitivo dato su quell'uomo, e tu, uomo, non hai alcun diritto di ergerti a giudice del tuo fratello. Il giudizio deve essere lasciato a Colui che può uccidere te e il tuo fratello, perché entrambi peccatori davanti a Lui.
  Ogni uomo che vive si trova, per il solo fatto che vive, sotto la misericordia di Dio. Certamente è un peccatore; forse è un mio nemico; forse mi ha offeso e colpito in modo grave; forse sono tentato di castigarlo con la morte. Ma molto più che offendere me, egli ha offeso il suo Creatore; e tuttavia Egli manifesta pazienza verso di lui, lasciandolo ancora in vita. Mi ribellerò io alla bontà di Dio e usurperò il diritto di giudizio che gli compete, colpendo a morte il mio fratello contro il volere di Dio che lo lascia in vita per la sua misericordia?
  Chi uccide un uomo fa risaltare la natura profonda del peccato, che consiste nel voler essere «come Dio» (Genesi 3:5). L'omicidio è dunque una sfida a Dio, un tentativo di scalzarlo dalla sua posizione di giudice.
  Consideriamo infatti il primo omicidio avvenuto sulla faccia della terra: quello di Caino. E chiediamoci: quale fu il movente? Certamente non fu un contrasto tra i due fratelli: Abele e Caino non avevano litigato fra loro per questioni di pecore o di terreni. Il motivo dell'uccisione fu il giudizio di Dio su di loro. Caino non accettò né il giudizio su di sé, né quello su Abele, ma anzi «ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto» (Genesi 4:6). L'Eterno non aveva gradito l'offerta di Caino e aveva invece espresso un giudizio favorevole su Abele e la sua offerta. A questo giudizio di Dio Caino sovrappose il suo, e giudicò il fratello degno di morte.
  In Caino posso ritrovare gli elementi fondamentali che mi spingono all'omicidio: il rifiuto del giudizio di Dio su di me e il rifiuto della sua misericordia verso l'altro.
  Però, a voler essere sinceri, dobbiamo ammettere che Caino non manca di suscitare in noi una certa comprensione. In generale, bisogna dire che gli eletti di Dio ci appaiono spesso meno simpatici degli esclusi. Che cosa avevano di particolare figure come Abele, Giacobbe, Giuseppe rispetto alle altre persone che non furono scelte da Dio? Ma è proprio qui, in questo movimento di simpatia verso gli esclusi, che si manifesta la nostra tendenza a ribellarci ai giudizi di Dio. Noi vogliamo che Dio ci renda conto di quello che fa; vogliamo poter misurare il grado di giustizia delle sue azioni prima di decidere se è il caso di accettarle. E la nostra ribellione ai suoi giudizi trova sfogo nell'aggressività verso i nostri simili, proprio come nel caso di quegli impiegati che, non potendo esprimere il risentimento verso il capoufficio, si sfogano a casa con i familiari.
  Ma se non sempre riusciamo a capire le ragioni dell'agire di Dio, ciò non significa che tali ragioni non ci siano. Dio non ci abbandona, anche quando ci giudica, e noi dobbiamo ascoltare le sue parole con cui ci invita a « non irritarci» e a «non abbatterci», a «rialzare il nostro volto facendo il bene» e a «dominare il peccato che sta spiandoci alla porta» (Genesi 4:7).
  Dopo quanto detto, dovrebbe essere chiaro che il sesto comandamento non è un principio astratto e universale, per cui ogni forma di vita dovrebbe esser sempre e in ogni caso difesa. Il comandamento sottolinea piuttosto che tutte le questioni riguardanti la vita e la morte dell'uomo sono di competenza diretta di Dio. Dopo il peccato, Dio ha messo nelle mani degli uomini la vita di tutti gli animali della terra, del cielo e del mare (Genesi 9:1-4), ma ha solennemente avvertito che « chiederà conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo» (Genesi 9:5). E ha aggiunto:

    «Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo, perché Dio ha fatto l'uomo a immagine sua» (Genesi 9:6).

Non c'è quindi da sorprendersi né da scandalizzarsi se la stessa legge che contiene il divieto di uccidere ordina poco dopo di mettere a morte l'omicida (Esodo 21:12). Chi uccide un uomo si scaglia contro l'immagine di Dio, e Dio ha il potere di eseguire quella sentenza di morte che è già stata pronunciata su ogni uomo peccatore. L'Iddio che dà la vita all'uomo e ne fa una sua immagine in mezzo al creato non può restare indifferente davanti al sangue sparso dall'uomo. L'uomo è stato tratto dalla terra e alla terra ritornerà a motivo del giudizio di Dio. Ma se la vita dell'uomo torna alla terra nella forma del sangue sparso da un altro uomo, allora la terra resta contaminata, e « la voce del sangue grida a Dio dalla terra» (Genesi 4:10). Secondo la legge di Mosè, nessun pagamento di riscatto poteva sostituire la morte di colui che aveva ucciso un uomo: la terra profanata dal sangue dell'ucciso poteva essere purificata soltanto dal sangue dell'uccisore:

    « Non contaminerete il paese dove sarete, perché il sangue contamina il paese; e non si potrà fare per il paese alcuna espiazione del sangue che vi sarà stato sparso, se non mediante il sangue di colui che l'avrà sparso» (Numeri 35:33).

Il divieto di uccidere dunque non si estende a Dio, che attraverso gli uomini può punire con la morte il peccato di altri uomini. La «spada» che i magistrati civili portano, in qualità di autorità stabilite da Dio (Romani 13:4), fa capire che questo fatto resta valido anche nel Nuovo Patto. Non è qui il caso di discutere se sia opportuno o no, in una legislazione moderna, avere tra le pene anche la pena capitale; quello che si può dire è che non ci si può appellare al sesto comandamento per escluderla. Una conferma si può trovare anche nel verbo usato nel testo, che nell'originale ha un significato molto più limitato del nostro «uccidere», e sarebbe meglio tradotto con «assassinare».
  Cadono invece tra le infrazioni al sesto comandamento l'aborto, l'eutanasia e il suicidio. E sono proprio queste particolari forme di uccisione che ci fanno capire la differenza che c'è tra i nostri motivi contro l'omicidio e quelli di Dio. Perché il suicidio non è un reato per la legge civile? Perché l'aborto e l'eutanasia possono essere, se non del tutto liberalizzati, almeno regolamentati, e quindi ammessi nella società? Il motivo è chiaro: questi fatti non sembrano disturbare la convivenza umana; anzi, si direbbe che in certi casi servano addirittura ad attenuare la gravità di alcuni problemi sociali. Perché dunque condannarli? Non è forse vero che con questi interventi si riesce a porre rimedio a molte sofferenze umane?
  Ancora una volta, non è il caso di esaminare qui questi problemi nella loro dimensione sociale. Ma chi crede nel Dio della Bibbia non può lasciarsi guidare soltanto dal desiderio di raggiungere il piacere o di evitare la sofferenza. Quello che veramente conta è la volontà di Dio. E Dio riserva a sé il diritto di giudicare quando una vita è giunta al suo termine. Il comandamento deve porre fine alle nostre speculazioni: dobbiamo smettere di argomentare intorno a ciò che può essere più o meno conveniente per noi. Se ci sembra che il rispetto del comandamento di Dio porti ad accrescere le sofferenze umane sulla terra, dobbiamo ricordare che le sofferenze dell'uomo sono una conseguenza del peccato, e non un deplorevole incidente a cui porre rimedio in tutti i modi possibili. Il vero nemico dell'uomo non è la sofferenza, ma il peccato. Voler sempre e a tutti i costi ridurre le sofferenze conduce l'uomo a irrigidirsi nella sua rivolta contro Dio, e non garantisce affatto che, alla lunga, le sofferenze umane possano essere veramente diminuite. Chi trasgredisce gli ordini di Dio per evitare il dolore cade poi in preda a quelle sottili e indefinibili angosce da cui non ci si può difendere perché non si capisce da dove provengano, mentre in realtà sappiamo che provengono da quel mondo di tenebre che si oppone all' azione di salvezza di Dio. L'uomo che soffre può certamente cercare di lenire le sue sofferenze, ma deve ricordare che in questo ha dei limiti. La vita dell'uomo è uno di questi limiti. Ed è un limite che non si può superare senza trovarsi a fare i conti con Dio, perché «Dio chiederà conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo ... perché Dio ha fatto l'uomo a immagine sua» (Genesi 9:5-6).
  Certo, non si può negare che qualche volta l'uomo può venire a trovarsi in circostanze angosciose in cui, pur volendo fare la volontà di Dio, si sente quasi costretto a scegliere tra due delitti. Tuttavia, l'esistenza di tali situazioni-limite non deve invogliare a discussioni teoriche o alla formazione di casistiche da cui possa dedursi che «in certi casi» all'uomo sia lecito uccidere. Non esistono «casi»: esistono solo specifiche, uniche situazioni nelle quali si deve appassionatamente ricercare la volontà di Dio, tenendo comunque sempre conto del fatto che il potere «di far morire e di far vivere» spetta soltanto a Dio. E se, per un qualunque motivo, a qualcuno dovesse capitare di togliere la vita ad un altro uomo, quali che siano le circostanze che hanno portato a quel fatto, chi ha ucciso non potrebbe che sentirsi obbligato a richiedere il perdono di Dio e a invocare la sua misericordia. Ma è bene vegliare e pregare il Signore di non condurci mai in simili situazioni di smarrimento e turbamento della coscienza.
  Dal Nuovo Testamento sappiamo poi che Gesù ha radicalizzato anche il sesto comandamento, dicendo che non soltanto colui che uccide sarà giudicato, ma anche chi si adira contro il fratello e gli rivolge parole ingiuriose cadrà sotto il giudizio di Dio (Matteo 5:21-27). Con queste parole Gesù non sposta indebitamente l'attenzione dal fatto concreto dell'omicidio a quello psicologico dei moti dell'animo. Gesù continua a parlare dell'omicidio, anzi va alla radice di esso, sottolineando il fatto che, davanti a Dio, questo reato si compie molto prima di quando gli uomini sono in grado di riconoscerlo. «È dal di dentro, è dal cuore degli uomini - dice Gesù - che escono... gli omicidi» (Marco 7:21). E Giovanni aggiunge, con parole lapidarie:

    «Chiunque odia il suo fratello è omicida» (1 Giovanni 3:15).

L'odio ha a che fare con la morte, come l'amore ha a che fare con la vita. L'amore genera vita e l'odio genera morte. Quindi chi odia si trova già sulla china che conduce all'omicidio.
  Giacomo è anche capace di indicare uno strumento con cui si può dare la morte: la lingua. Non sempre ci pensiamo, ma il sesto comandamento può essere infranto anche con la lingua, che sembra essere un mezzo capace di procurare la morte per avvelenamento:

    « ... ma la lingua, nessun uomo la può domare; è un male continuo, è piena di veleno mortale» (Giacomo 3:8).

I movimenti che conducono all'omicidio possono dunque essere ordinati in questo modo: l'odio, l'ira, la parola che offende, l'azione che uccide. Se vogliamo rispettare il sesto comandamento dobbiamo esercitarci a contrastare questi movimenti seguendo un ordine inverso a quello indicato. Se sono capace di controllare le mie azioni e sono riuscito a «non colpire a morte» un uomo, allora devo imparare a non colpirlo con la lingua, a non demolirlo con giudizi offensivi, a non deturpare la sua immagine diffamandolo presso i suoi simili. Se ho imparato a controllare le mie parole, allora devo imparare a controllare i sentimenti di irritazione e di ira, perché con la mia ira vorrei imitare la giusta ira di Dio contro l'uomo peccatore; ma io non sono Dio, anzi, sono io stesso un peccatore che si trova sotto l'ira del Dio tre volte santo, e solo in Gesù Cristo posso essere perdonato e accolto.

    «... che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira; perché l'ira dell'uomo non compie la giustizia di Dio» (Giacomo 1:19-20).

L'unica forma d'ira che devo avere non è contro il mio fratello, ma contro il male che tiene asserviti me e il mio fratello. E questo tipo di ira non si alimenta con l'odio e la violenza, ma con l'umiliazione e la preghiera.
  Se poi ho imparato a tenere sotto controllo anche i sentimenti di ira, allora ho liberato l'anima mia da molti spiriti cattivi e la mia casa, come dice Gesù, è diventata «spazzata e adorna» (Luca 11:25). Se allora voglio evitare che altri spiriti cattivi, peggiori dei primi, tornino ad abitare in me e rendano la mia condizione «peggiore di prima» (Luca 11:26), l'unica cosa da fare è riempire l'anima di quell'amore che Gesù ha sparso nei nostri cuori e che tende a traboccare verso gli altri. L'odio che dà la morte viene sconfitto soltanto dall'amore che dà la vita. Non è possibile limitarsi a non uccidere e a non odiare; non ci sono zone intermedie: se non si vuole cadere nelle mani dell'odio bisogna consegnarsi interamente all'amore di Dio e diventare strumenti del suo amore verso tutti gli uomini.

    «Da questo abbiamo conosciuto l'amore: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli» (1 Giovanni 3: 16).




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