Ancora oggi i bambini ebrei sono bersagli
L'antisemitismo si adatta al contesto, cambia linguaggio e si trasforma da teologia a ideologia.
di
Yael Eckstein
Yael Eckstein
“Mai più”: è quello che ho sentito dire per tutta la vita. Non solo una volta, ma continuamente, come se il semplice ripeterlo potesse renderlo vero. Il messaggio era chiaro: il mondo aveva imparato la lezione. L'umanità aveva capito dove porta l'odio. Gli orrori dell'Olocausto non si sarebbero mai ripetuti.
Ci credevo perché ero convinta che le lezioni della storia fossero state interiorizzate, che l'antisemitismo, smascherato nella sua forma più abominevole, fosse stato condannato dalla comunità internazionale. Credevo che quell'odio appartenesse al passato.
Credevo che il mondo fosse cambiato, che dopo l'Olocausto l'antisemitismo fosse diventato moralmente inaccettabile. Credevo che le istituzioni, i governi e la società civile avessero fatto tesoro delle lezioni della storia e che il successo e l'integrazione degli ebrei nelle società democratiche, insieme a decenni di dialogo interreligioso e di educazione sull'Olocausto, avessero portato a un vero cambiamento. Lo Stato di Israele – forte, sovrano, aperto al mondo – sembrava la prova che eravamo entrati in un nuovo capitolo.
Ma poi è arrivato il 7 ottobre e ho dovuto riconoscere quanto mi fossi sbagliata.
L'antisemitismo non è un relitto del passato. Non è morto con la liberazione dei campi o la fondazione di Israele. Ha semplicemente imparato a sopravvivere. Si adatta all'ambiente circostante, cambia linguaggio, si trasforma da teologia a ideologia, da teoria razziale ad agenda politica. Non scompare. Si trasforma. E nel profondo rimane sempre lo stesso impulso: presentare gli ebrei come il problema.
Israele è stato attaccato. Famiglie sono state massacrate nelle loro case. Bambini sono stati rapiti e presi in ostaggio. È stato il giorno più sanguinoso per gli ebrei dall'Olocausto. Eppure, in molti luoghi la reazione prevalente non è stata il dolore, lo shock o l'indignazione morale.
Invece, in città dopo città, i manifestanti hanno marciato per le strade invocando apertamente la distruzione dello Stato ebraico. Slogan come “Dal fiume al mare”, “Intifada mondiale” e “La resistenza è giustificata” non erano un fenomeno marginale: sono stati scanditi da decine di migliaia di persone nelle capitali di tutto il mondo. Sono state sventolate bandiere di organizzazioni terroristiche. Nei campus universitari, gli studenti ebrei sono stati molestati, emarginati e intimiditi. In molti dibattiti pubblici, l'indignazione non era diretta contro i terroristi, ma contro Israele stesso.
Forse la cosa più dolorosa è che molte voci con cui un tempo eravamo schierati fianco a fianco – organizzazioni per i diritti civili, leader progressisti, gruppi minoritari che avevamo sostenuto e difeso – sono improvvisamente taciute. O, peggio ancora, si sono uniti alle critiche.
Ma non tutti hanno voltato le spalle. Per la prima volta nella storia, gli ebrei non sono stati lasciati completamente soli. Il 7 ottobre, mentre il mondo ricadeva nel vecchio odio, la comunità cristiana si è fatta avanti: un movimento mondiale di oltre 700 milioni di cristiani evangelici, molti dei quali hanno alzato la voce in modo chiaro e deciso.
Il loro sostegno non è rimasto teorico. È stato forte, chiaro, personale. Si è manifestato nelle preghiere, nelle donazioni, nelle dichiarazioni pubbliche, nei messaggi d'amore. Nelle chiese di tutto il mondo, i cristiani hanno pregato per gli ostaggi, nominandoli uno per uno. Hanno donato generosamente per sostenere le famiglie colpite. Hanno sventolato bandiere israeliane quando molti ebrei erano troppo spaventati per farlo.
Questo ha fatto la differenza.
Quando tanti hanno taciuto, loro hanno parlato. Quando altri si sono voltati, loro sono rimasti al nostro fianco. Ci hanno ricordato che “Mai più” non è un fardello che gli ebrei devono portare da soli, e non è qualcosa a cui si può rinunciare quando diventa scomodo mantenerlo.
Stasera celebriamo lo Yom HaShoah, il Giorno della Memoria dell'Olocausto, che in Israele inizia la sera del 23 aprile. Ricordiamo i sei milioni di ebrei assassinati, non solo quelli uccisi dalla macchina dell'orrore, ma anche quelli che sono morti perché il mondo ha distolto lo sguardo. Ricordiamo le famiglie distrutte, le comunità annientate e il silenzio che ha reso possibile tutto questo.
Ma ricordare non basta. Non quest'anno. Perché il male che ha portato ad Auschwitz è tornato, questa volta sotto forma di un linguaggio che si maschera da giustizia, di un odio che si spaccia per uguaglianza. Quest'anno la Giornata della Memoria non è solo un giorno per ricordare ciò che ci è stato fatto, ma anche ciò che ci viene fatto oggi. Qui in Israele l'allarme non potrebbe essere più urgente.
Una settimana prima di Pesach ero a Gerusalemme per una riunione quando improvvisamente sono suonate le sirene. Siamo corsi al rifugio. Neanche un minuto dopo ho ricevuto un messaggio da mia figlia. Era in Polonia. “Stai bene?”, mi ha chiesto, inviandomi una foto di sé avvolta in una bandiera israeliana mentre attraversava Auschwitz. “Anche con le sirene”, ha scritto, ‘siete fortunati ad essere a casa’.
Quel giorno non ha sentito sirene. Ma non era comunque al sicuro. Il suo gruppo viaggiava con guardie armate. Era loro vietato pubblicare la loro posizione. Perché anche ad Auschwitz, anche oggi, i bambini ebrei continuano ad essere bersagli.
In questo giorno dedicato alla memoria dell'Olocausto, piango il crollo di un giuramento. Il 7 ottobre, “mai più” è stato pronunciato con la stessa rapidità con cui era stato pronunciato nel 1945. Eppure continuo ad avere speranza. E sono grato. Perché la storia non si ripete completamente.
Il popolo ebraico ha un proprio Stato. E noi abbiamo degli amici.
Anche se molti si sono allontanati, milioni di cristiani non l'hanno fatto. Silenziosamente, con affidabilità, senza che nessuno glielo chiedesse, senza doverlo imparare prima: vedono ciò che sta accadendo e stanno al nostro fianco.
Forse è questo che dà una possibilità al “mai più” di rimanere vero. Non perché il pericolo sia scomparso, perché non è così. Non perché l'odio sia finito, perché non è così. Ma perché questa volta, quando le parole avrebbero potuto svuotarsi, qualcuno è intervenuto e le ha mantenute vive.
E forse è proprio questo ciò che serve: persone disposte a entrare in queste parole, non solo per ripeterle, ma per sostenerne il peso.
Forse questo è sempre stato il vero significato di “Mai più”: non una promessa, ma una responsabilità condivisa.
Ed è proprio questo ciò di cui abbiamo più bisogno ora.
(Israel Heute, 23 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Hamas non è più in grado di pagare i combattenti. Cosa vuol dire?
La campagna israeliana mirata a tagliare le fonti di finanziamento di Hamas comincia a dare i suoi frutti e potrebbe far più male delle bombe
di Paola P. Goldberger
Dopo oltre diciotto mesi di guerra, Hamas mostra segnali di difficoltà finanziarie che potrebbero aggravarsi e potenzialmente destabilizzare l’organizzazione. Secondo un articolo del 16 aprile pubblicato dal Wall Street Journal, Hamas non è stata in grado di pagare i suoi combattenti a causa delle operazioni israeliane contro l’infrastruttura finanziaria del gruppo.
Il rapporto è significativo perché risorse finanziarie adeguate sono essenziali per la capacità di Hamas di mantenere la propria capacità operativa. In questo contesto, gli sforzi mirati di Israele per paralizzare l’infrastruttura finanziaria di Hamas potrebbero rivelarsi più dannosi per la sostenibilità a lungo termine del gruppo rispetto all’eliminazione dei suoi comandanti, dei suoi uomini o delle sue risorse militari.
Diversi episodi accaduti durante la guerra illustrano gli sforzi di Israele per minare l’infrastruttura finanziaria di Hamas. Il 19 dicembre 2023, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e l’agenzia di intelligence Shin Bet hanno annunciato di aver eliminato Subhi Ferwana, un importante finanziatore di Hamas, responsabile del trasferimento di decine di milioni di dollari al gruppo.
Le IDF hanno affermato che Ferwana e suo fratello gestivano la società di cambio valuta Hamsat, che negli ultimi anni ha svolto il ruolo di canale finanziario per Hamas. Nei primi mesi del conflitto, Ferwana ha facilitato ingenti trasferimenti di fondi a sostegno delle capacità militari del gruppo, tra cui il pagamento degli stipendi dei combattenti e il finanziamento di attività legate alla guerra.
Hamas fa affidamento su questi finanziatori per canalizzare fondi dall’Iran e da altre fonti internazionali, utilizzando metodi di riciclaggio di denaro e di compensazione per eludere i sistemi di monitoraggio finanziario globali. L’eliminazione di Ferwana ha rappresentato un duro colpo per l’infrastruttura finanziaria di Hamas e la sua capacità di sostenere le operazioni militari.
Un altro esempio che illustra il ruolo cruciale dei cambiavalute di Gaza nel finanziamento di Hamas si è verificato il 4 aprile, quando l’IDF e lo Shin Bet hanno annunciato che un attacco aereo mirato nell’area di Gaza City aveva eliminato Saeed Ahmad Abed Khudari, figura centrale nella rete finanziaria di Hamas. Khudari operava come cambiavalute e guidava la Al Wefaq Company, che Israele aveva designato come organizzazione terroristica a causa del suo ruolo nel convogliare fondi verso gruppi terroristici.
Secondo l’IDF Khudari ha svolto un ruolo centrale nel facilitare i trasferimenti finanziari alla cosiddetta ala militare di Hamas, in particolare dopo il massacro del 7 ottobre. Le sue attività si sono intensificate in seguito all’eliminazione da parte di Israele di suo fratello, Hamed Khudari, che in precedenza fungeva da canale finanziario per le operazioni militari di Hamas.
Oltre alla morte del fratello, c’erano segnali d’allarme che indicavano che Israele avesse identificato Saeed come un potenziale bersaglio prima della sua eliminazione. Il 29 settembre 2023, il sito di notizie israeliano Walla ha implicato Saeed e altri palestinesi in uno schema finanziario che prevedeva il trasferimento di fondi iraniani a gruppi armati in Cisgiordania. L’articolo ha indicato la Al Wefaq Company, presso cui Saeed lavorava, come un’entità utilizzata da Hamas per trasferire fondi destinati al terrorismo in Cisgiordania.
Separatamente, Hamas ha rapinato banche per assicurarsi i fondi necessari alle sue operazioni. Secondo le accuse mosse dalle IDF, Hamas ha orchestrato il furto di centinaia di milioni di shekel dalle banche di Gaza City nel febbraio 2024. Il gruppo ha riconosciuto l’imminente prospettarsi di una guerra prolungata con Israele, nonché la necessità di assicurarsi risorse finanziarie per sostenere le proprie operazioni durante il conflitto più intenso della sua storia. L’onere economico di Hamas è significativo, con migliaia di combattenti che ricevono stipendi mensili medi tra i 200 e i 300 dollari.
Inoltre, il flusso di entrate di Hamas derivante dallo smistamento degli aiuti umanitari è diminuito considerevolmente in seguito alla decisione di Israele di interrompere l’assistenza umanitaria a Gaza, una misura adottata in risposta al rifiuto di Hamas di accettare un cessate il fuoco proposto dall’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff.
I funzionari di Hamas non hanno pubblicamente riconosciuto alcun segno di difficoltà finanziarie. Ciononostante, il gruppo pubblica regolarmente messaggi sui social media per sollecitare donazioni a sostegno delle sue attività.
Il deterioramento della situazione finanziaria di Hamas rappresenta un vantaggio strategico per Israele, in quanto intensifica la pressione militare sul gruppo. Se a ciò si aggiunge il crescente dissenso pubblico e le proteste contro Hamas da parte di alcuni palestinesi nella Striscia di Gaza, Israele potrebbe essere in grado di sfruttare le vulnerabilità emergenti del gruppo.
(Rights Reporter, 23 aprile 2025)
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Negli USA livello di antisemitismo senza precedenti: l’allarme dell’ADL
di Jacqueline Sermoneta
Nuovo picco di antisemitismo negli Stati Uniti. A renderlo noto l’annuale rapporto dell’Anti-Defamation League (ADL), la maggiore organizzazione internazionale per l’antidiffamazione ebraica. Secondo lo studio, nel 2024, sono stati registrati 9.354 episodi antisemiti, dato che rappresenta un incremento del 5% rispetto al 2023, un aumento del 344% negli ultimi cinque anni e dell’893% negli ultimi 10 anni. Un record, da quando l’organizzazione ha iniziato a monitorare 46 anni fa. Nel 2024, dunque, si sono verificati più di 25 “incidenti antisemiti mirati” al giorno, più di uno ogni ora. Nel dettaglio, 196 aggressioni (in aumento del 21% dal 2023), 2.606 episodi di vandalismo (in aumento del 20% dal 2023) e 6.552 episodi di molestie (in aumento dello 0,26% rispetto al 2023).”Questo terribile livello di antisemitismo non dovrebbe mai essere accettato, tuttavia, come dimostrano i nostri dati, è diventato una realtà persistente e preoccupante per le comunità ebraiche americane. – ha affermato Jonathan Greenblatt, CEO e direttore nazionale dell’ADL – Gli ebrei americani continuano a essere molestati, aggrediti e presi di mira per quello che sono quotidianamente e ovunque vadano”.
Il numero più elevato di episodi antisemiti si è verificato nello Stato di New York, con 1.437 incidenti (più della metà, 976, a New York City) e in California, con 1.344 casi (297 a Los Angeles).
Il 2024 ha segnato anche il primo anno in cui la maggior parte degli episodi è legata a Israele o al sionismo (con 5.452 casi segnalati ovvero il 58% del totale). Di questi, quasi la metà si è verificata durante raduni antisraeliani sotto forma di discorsi, cori, cartelli e slogan antisemiti.
“Nel 2024, l’odio verso Israele è stato la forza trainante dell’antisemitismo negli Stati Uniti, con più della metà di tutti gli episodi antisemiti che facevano riferimento a Israele o al sionismo”, ha affermato Oren Segal, vicepresidente senior per la lotta all’estremismo presso l’ADL.
Nei campus universitari, il numero di incidenti è aumentato dell’84% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il record di 1.694 casi. L’ADL ha attribuito gran parte dell’aumento alle manifestazioni antisraeliane che hanno sconfinato nell’incitamento all’odio o nel simbolismo antisemita.
(Shalom, 23 aprile 2025)
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Messe abolite e caccia al no vax. Con lui la Chiesa si prostrò allo Stato
Durante il Covid il pontefice seguì i diktat di politici come Draghi e rilanciò le false narrazioni sui vaccini.
di Francesco Borgonovo
Le descrivono come «le immagini passate alla Storia». Non c'è televisione o quotidiano online che non rilanci le foto e le riprese del 27 marzo 2020, il giorno in cui papa Francesco «commosse il mondo» (così ripetono i più) andando a pregare in piazza San Pietro. Attorno a lui, a Pasqua, soltanto la pioggia e il silenzio. Anche Sergio Mattarella, nel messaggio di cordoglio, ha voluto ricordare «la preghiera da solo in piazza San Pietro nei giorni del Covìd», presentandola come gesto altamente simbolico di un «uomo di speranza convinta contro ogni difficoltà». Erano appunto i giorni della pandemia, dei divieti e dei distanziamenti, delle reclusioni forzate e della paura sparsa a piene mani. E probabilmente sì, quelle immagini sono in effetti storiche, ma non per il motivo che i media amano evocare.
Le foto di Francesco da solo nel cuore della cristianità sono il perfetto emblema dell'atteggiamento tenuto in quel periodo dalla Chiesa, e in qualche modo anche della sua debolezza di fronte alle pressioni del mondo. Negli anni della pandemia, forse ben più che in altre epoche, ci sarebbe stato bisogno di una guida forte e autorevole, capace di agire come corpo intermedio fra lo Stato e la popolazione. Una Chiesa che mettesse concretamente in pratica le lezioni di Joseph Ratzinger e di altri autorevoli pensatori sul rapporto con la scienza, sulla libertà vera dell'uomo e sul modo in cui condurre una vita piena anche in una fase drammatica. E invece abbiamo avuto una istituzione completamente allineata alle posizioni dei principali leader politici, quasi del tutto indistinguibile dallo Stato persino quando quest'ultimo si rivelava oppressivo.
Passeranno alla Storia le immagini di piazza San Pietro, certo, ma anche la decisione di chiudere le chiese e cancellare le messe. Di distanziare i fedeli e di obbligarli all'utilizzo della mascherina. Passeranno alla storia i flaconi di disinfettante a sostituzione delle acquasantiere, e il silenzio terrificante di fronte alle irruzioni delle forze dell'ordine per bloccare i celebranti durante i riti.
Passerà alla Storia pure il discorso di Bergoglio in un videomessaggio alle popolazioni dell'America Latina nell'agosto del 2021. «Con spirito fraterno, mi unisco a questo messaggio di speranza in un futuro più luminoso. Grazie a Dio e al lavoro di molti, oggi abbiamo vaccini per proteggerci dal Covìd-19, Questi danno la speranza di porre fine alla pandemia, ma solo se sono disponibili per tutti e se collaboriamo gli uni con gli altri», disse il Pontefice. «Vaccinarsi, con vaccini autorizzati dalle autorità competenti, è un atto di amore. E contribuire a far sì che la maggior parte della gente si vaccini è un atto di amore.
Amore per sé stessi, amore per familiari e amici, amore per tutti i popoli. L'amore è anche sociale e politico, c'è amore sociale e amore politico, è universale, sempre traboccante di piccoli gesti di carità personale capaci di trasformare e migliorare le società. Vaccinarci è un modo semplice ma profondo di promuovere il bene comune e di prenderci cura gli uni degli altri, specialmente dei più vulnerabili. Chiedo a Dio che ognuno possa contribuire con il suo piccolo granello di sabbia, il suo piccolo gesto di amore. Per quanto piccolo sia, l'amore è sempre grande. Contribuire con questi piccoli gesti per un futuro migliore».
Presentare il vaccino come un atto di amore verso il prossimo era, a tutti gli effetti, una mistificazione, dato che le iniezioni potevano al massimo proteggere i singoli, e si è pure scoperto che non era nemmeno esattamente così. Di fatto, Francesco espose un ragionamento equivalente a quello di Mario Draghi, il tristemente celebre «non ti vaccini, ti ammali, muori». Una falsità patente servita da un lato per indurre i renitenti a sottoporsi al trattamento, dall'altro utile a giustificare la repressione e l'oppressione. La Chiesa ha taciuto davanti alla discriminazione più feroce di bambini e adulti, ha emarginato i sacerdoti che si opponevano alla tirannia e ha supportato la narrazione ufficiale di fatto abdicando a parte della sua funzione pastorale.
Questo è stato fatto, pur in contraddizione con quanto aveva scritto la Congregazione della dottrina della fede - massima autorità sulle questioni teologiche - riguardo alla modalità dei vaccini Covid. Ne autorizzava l'uso, certo ma precisava: «Nello stesso tempo, appare evidente alla ragione pratica che la vaccinazione non è, di norma, un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria. In ogni caso, dal punto di vista etico, la moralità della vaccinazione dipende non soltanto dal dovere di tutela della propria salute, ma anche da quello del perseguimento del bene comune. Bene che, in assenza di altri mezzi per arrestare o anche solo per prevenire l'epidemia, può raccomandare la vaccinazione, specialmente a tutela dei più deboli ed esposti. Coloro che, comunque, per motivi di coscienza, rifiutano i vaccini prodotti con linee cellulari procedenti da feti abortiti, devono adoperarsi per evitare, con altri mezzi profilattici e comportamenti idonei, di divenire veicoli di trasmissione dell'agente infettivo. In modo particolare, essi devono evitare ogni rischio per la salute di coloro che non possono essere vaccinati per motivi clinici, o di altra natura, e che sono le persone più vulnerabili». Massima precauzione e cautela, linguaggio felpato, ma un messaggio chiaro: la vaccinazione deve essere volontaria, non estorta o obbligatoria. Parole, con tutta evidenza, cadute nel vuoto.
Non solo le istituzioni ecclesiastiche non si prodigarono per impedire le vessazioni sui non vaccinati, ma Francesco in persona alimentò l'astio verso i non vaccinati. Nel 2021 dichiarò: «Anche nel collegio cardinalizio ci sono negazionistì e uno di questi, poveretto, è ricoverato con il virus ... ironia della vita». Una splendida ironia, come no, fatta a spese del cardinale Raymond Burke, che in quel momento era ricoverato in terapia intensiva.
Può anche darsi, allora, che Bergoglio sia stato il Papa degli ultimi. Ma a quanto pare anche fra gli ultimi e i discriminati si possono fare differenze senza sentirsi troppo in colpa.
(La Verità, 23 aprile 2025)
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L'istituzione religiosa di nome Chiesa Cattolica (detta sbrigativamente Chiesa), avente centro in Roma, che si pretende essere di fondazione voluta da Dio, e di conseguenza si autoidentifica come superiore autorità morale dell'intero mondo, è sempre vissuta in simbiosi armonica o concorrenziale con il mondo gestito dal biblico "principe di questo mondo" che "quando dice il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna" (Romani 8:44). Non sorprende dunque che Draghi (Mondo) e Bergoglio (Chiesa) abbiano parlato e agito in piena sintonia. Non è un fatto nuovo: è soltanto più evidente. M.C.
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Israele si rimangia il messaggio di cordoglio
Gerusalemme pubblica un post su X, poi lo rimuove. Ira degli ambasciatori ebraici.
di Sarina Biraghi
«Riposa in pace, papa Francesco. Che la sua memoria sia una benedizione». È il post di condoglianze ufficiale su X da parte delle ambasciate israeliane in tutto il mondo, che il ministero degli Esteri israeliano ha fatto cancellare poche ore dopo la pubblicazione. Secondo i media ebraici, la decisione ministeriale ha provocato l'indignazione degli ambasciatori israeliani nel mondo, specie quelli nei Paesi cattolici, e le critiche interne alla dirigenza del ministero a Gerusalemme.
«Abbiamo reagito alle parole del Papa contro Israele durante la sua vita, non parleremo dopo la morte», ha sottolineato un funzionario degli Esteri in linea con il silenzio del premier Benjamin Netanyahu e del ministro degli Esteri Gideon Sa'ar sulla morte di Bergoglio. Soltanto il presidente Isaac Herzog aveva espresso le sue condoglianze al mondo cattolico.
Oltre alla rimozione del post, agli ambasciatori è stato anche intimato di non firmare libri di condoglianze presso le ambasciate vaticane in tutto il mondo. Secondo indiscrezioni, in una chat Whatsapp i diplomatici si sarebbero lamentati sottolineando il possibile danno d'immagine per Israele, in particolare tra le centinaia di milioni di fedeli cattolici in tutto il mondo: «Stiamo cancellando un tweet semplice e innocente che esprimeva condoglianze basiche ed è chiaro a tutti che ciò è dovuto solo alle critiche del Papa a Israele per i combattimenti a Gaza».
Lo scorso novembre, infatti, il Papa aveva chiesto pubblicamente di indagare sull'ipotesi che a Gaza fosse in corso un genocidio da parte dell'esercito di Tel Aviv: una presa di posizione criticatissima dalle gerarchie dello Stato ebraico. Parlando delle azioni di Israele in Libano, poi, il Pontefice aveva sottolineato che «la difesa deve essere sempre proporzionata all'attacco: quando c'è qualcosa di sproporzionato si fa vedere una tendenza dominatrice che va oltre la moralità». Un diplomatico, nella chat riportata da Ynet, ha ribadito: «Abbiamo ricevuto l'ordine di cancellare i tweet senza alcuna spiegazione. Quando abbiamo chiesto chiarimenti, ci è stato detto che la questione era in fase di revisione. Non è abbastanza, non per noi e per il pubblico che rappresentiamo». Un alto funzionario del ministero ha risposto alla testata israeliana che «il tweet è stato pubblicato per errore». Inoltre, sempre secondo il quotidiano online, l'ex ambasciatore in Italia, Dror Idar, ha dichiarato ieri che Israele non dovrebbe inviare un rappresentante al funerale del Pontefice perché «ha incitato all'antisemitismo», durante l'operazione Spade di Ferro.
(La Verità, 23 aprile 2025)
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Netanyahu ha fatto bene. Dror Idar ancora meglio. M.C.
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Gaza: proposta tregua di anni. Smotrich minaccia di far cadere il governo
L’Egitto e il Qatar, i mediatori nei negoziati tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco e un accordo sugli ostaggi, hanno fatto una nuova proposta per una tregua di un anno e per il ritiro completo di Israele da Gaza, insieme a uno scambio di ostaggi per prigionieri, secondo quanto riferito dalla BBC a un alto funzionario palestinese che ha familiarità con i colloqui.
L’offerta riportata include un cessate il fuoco di anni, la fine formale della guerra, il ritiro completo dell’IDF da Gaza e il rilascio di “tutti gli ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane”.
Il rapporto non dice se anche i restanti ostaggi non israeliani – due ritenuti vivi, un thailandese e un nepalese, e i corpi di due thailandesi e un tanzaniano – saranno liberati.
La fonte palestinese afferma che Hamas ha espresso la volontà di cedere il controllo della Striscia a qualsiasi entità palestinese concordata, sia essa l’Autorità Palestinese o un organismo amministrativo di nuova formazione. Il funzionario afferma che lo sforzo di mediazione è serio e che il gruppo terroristico ha mostrato “una flessibilità senza precedenti”.
L’emittente britannica afferma che Israele non ha commentato il piano e che un’alta delegazione di Hamas si recherà al Cairo per le consultazioni.
• Intanto Smotrich minaccia una crisi di governo
Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich critica l’attuale prosecuzione della guerra a Gaza, affermando che se i combattimenti non si intensificano, l’attuale governo “non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza”.
Parlando al canale di destra Channel 14, Smotrich afferma che quando il cessate il fuoco è stato firmato a gennaio, “ho detto inequivocabilmente che saremmo tornati a combattere in un modo completamente diverso: puntando a sottomettere, a sconfiggere, a distruggere Hamas, a conquistare la Striscia di Gaza e a imporvi il dominio militare, a prendere il territorio e a segnalare internamente ed esternamente che chiunque si metta contro di noi verrà demolito”.
“Ma purtroppo non è quello che sta accadendo”, aggiunge. “Penso che sia giunto il momento di attaccare Gaza. Se ciò non accade, questo governo non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza”.
Commentando l’indignazione che ha suscitato in precedenza affermando che, pur essendo importante, la restituzione degli ostaggi “non è la cosa più importante”, Smotrich accusa i suoi critici di cercare di “mettere a tacere e zittire un’opinione che è la più giustificata e corretta”.
(Rights Reporter, 22 aprile 2025)
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Trump sta facendo il gioco dell'Iran?
A Gerusalemme cresce la preoccupazione che gli Stati Uniti e l'Iran stiano andando verso un nuovo accordo sul nucleare che ignora gli interessi di sicurezza di Israele e non impedisce a Teheran di dotarsi della bomba atomica, ma solo ne ritarda la realizzazione.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Come riporta l'emittente araba Al-Arabiya, Mohammad Mahdi Shahriari, membro del Comitato di sicurezza nazionale del Parlamento iraniano, ha rivelato che già da due anni esistono contatti diretti tra il regime iraniano e l'entourage di Trump, con la conoscenza e l'approvazione della massima autorità spirituale Ayatollah Ali Khamenei. Ancora più esplosivo: secondo Shahriari, il negoziatore americano avrebbe accettato tutte le richieste iraniane. Majid Takht-Ravanchi, diplomatico di alto rango e membro dell'attuale squadra negoziale, avrebbe già confermato, secondo Shahriari, che un ritorno di Trump all'accordo nucleare del 2015 sarebbe stata solo una questione di scena pubblica. Se Trump si fosse presentato davanti alle telecamere e avesse annunciato un ritorno, Teheran sarebbe stata pronta a seguirlo.
Ricordiamo che nel 2018 Trump aveva annunciato il recesso unilaterale degli Stati Uniti dall'accordo nucleare, dando così inizio a una fase di forti tensioni. L'Iran ha reagito con una graduale escalation dell'arricchimento dell'uranio, che ha raggiunto recentemente il 65%, pericolosamente vicino alla soglia della bomba atomica.
Si negozia a porte chiuse e Israele guarda con crescente preoccupazione. Il primo round di colloqui tra i rappresentanti dell'amministrazione Trump e il regime iraniano si è già tenuto in Oman. Il secondo round si è svolto l'altro ieri in modo discreto nell'ambasciata dell'Oman a Roma ed è stato valutato in modo sorprendentemente positivo da entrambe le parti. A Gerusalemme, invece, suonano i campanelli d'allarme. Il ministro Ron Dermer è stato informato dallo speciale inviato statunitense Steve Witkoff sullo stato dei colloqui. Tuttavia, nell'apparato di sicurezza israeliano regna il malessere: nessuno è attualmente in grado di valutare quale linea il presidente Trump intende seguire nei confronti di Teheran e con quali stratagemmi diplomatici cercherà di frenare le ambizioni nucleari iraniane.
Secondo fonti del governo israeliano, nella prima tornata di negoziati con l'Iran, l'amministrazione Trump non ha nemmeno chiesto lo smantellamento completo degli impianti nucleari iraniani, una misura che nel precedente caso libico del 2003 era considerata lo standard minimo. Cresce lo scetticismo nel ministero degli Esteri israeliano: Steve Witkoff, inviato degli Stati Uniti e capo negoziatore, sembra non essere all'altezza del gioco diplomatico degli iraniani. A Gerusalemme lo considerano inesperto nel trattare con un regime che da decenni è considerato maestro nell'arte dell'inganno e dei ritardi tattici. Gli iraniani, si dice dietro le quinte, non stanno solo prendendo tempo, ma stanno già dettando il ritmo.
In un'intervista alla rete televisiva statunitense Fox News, Witkoff ha affermato che l'Iran non ha bisogno di arricchire l'uranio oltre il 3,67%. “In alcuni casi lo arricchiscono al 60%, in altri al 20%. Non può continuare così. Per un programma nucleare civile non c'è motivo di superare il 3,67%”. La posizione israeliana è chiara. L'arricchimento dell'uranio sul suolo iraniano è categoricamente rifiutato.
Il giorno prima Trump aveva minacciato l'Iran di attacchi contro i suoi impianti nucleari e si era detto irritato per i possibili tentativi di inganno da parte di Teheran alla vigilia del prossimo round di colloqui. “Devono risolvere questo problema molto rapidamente”, ha avvertito Trump più volte davanti alle telecamere. “È semplice: non possono ottenere armi nucleari. Ci sono molto vicini, ma non le avranno. E se dovremo fare qualcosa di molto duro, lo faremo. Non lo faccio per noi, ma per il mondo. Queste persone sono estremisti, non possono avere armi nucleari”. Trump ha anche esortato l'Iran ad ‘abbandonare completamente il concetto di armi nucleari’ e ha affermato che se il Paese compisse questo passo, potrebbe diventare ‘una grande nazione’.
Le rivelazioni di Al-Arabiya e i recenti colloqui diretti tra Washington e Teheran sollevano questioni scomode, soprattutto per Israele. Se le dichiarazioni fossero vere, infatti, il governo Netanyahu avrebbe operato fino al 2020 sulla base di presupposti completamente errati. La durezza pubblica di Trump nei confronti del regime dei mullah potrebbe rivelarsi, a posteriori, una messinscena politica, mentre dietro le quinte si negoziava già da tempo un ritorno all'accordo. La fiducia di Israele in Trump è stata quindi un errore? E quali garanzie offre una diplomazia di questo tipo per il futuro? Questo potrebbe anche spiegare perché, secondo il New York Times, il presidente americano Trump abbia negato a Israele il sostegno per un attacco agli impianti nucleari iraniani previsto per il prossimo maggio.
Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme lanciano l'allarme. Un nuovo accordo nucleare tra gli Stati Uniti e l'Iran potrebbe essere un disastro per la sicurezza di Israele. Se venisse concluso, consentirebbe a Teheran, con la benedizione americana, di entrare in una fase di stallo che durerebbe anni, per poi riprendere la costruzione della bomba atomica una volta terminato il mandato di Trump. Ancora più grave, dal punto di vista israeliano, è il fatto che finché Trump sarà in carica, un attacco preventivo israeliano contro gli impianti nucleari iraniani sarebbe di fatto bloccato. Senza il via libera di Trump, è politicamente impensabile. Ciò equivarrebbe di fatto a una vittoria strategica dell'Iran. Trump è da un lato un vantaggio per Israele, ma dall'altro anche uno svantaggio, come in questo caso. Un amico come Trump non si può irritare.
(Israel Heute, 21 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Un amico come Trump non si può irritare». E già, gli amici ...
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Sì, adesso è il momento della “Cantica”
I propagandisti della resa che agiscono tra noi chiedono di fermare la guerra e firmare un accordo. Come servizio pubblico, riportiamo le richieste di Hamas nell’ultimo negoziato. Impariamo invece dal settimo giorno di Pesach che segna l’apertura del Mar Rosso e la sconfitta definitiva del nemico.
di Dror Eydar
Ambasciatore d’Israele in Italia 2019-2022
-1. “Tempo di guerra, anche l’immagine di queste cose era la sua immagine” (N. Alterman). Stiamo combattendo per la nostra esistenza. Non dobbiamo dimenticarlo, anche se ci sono tra noi quelli che cercano di danneggiare il nostro senso di giustizia. “Offuscherò la sua mente, e dimenticherà che la giustizia è con lui“, così Alterman descrisse l’azione di Satana di fronte al suo fallimento nello sconfiggere lo Stato d’Israele assediato. La demolizione del senso di giustizia è destinata a danneggiare la volontà di combattere. Perciò, non dobbiamo dimenticare.
Il settimo giorno di Pesach è dedicato alla divisione del Mar Rosso e al miracolo della salvezza del nostro popolo, una settimana dopo la sua uscita dalla casa della schiavitù. Vedendo i soldati dell’impero egiziano morti sulla riva del mare, i figli d’Israele intonarono in un cantica potente. Questo non accadde durante la piaga dei primogeniti, né durante l’uscita dall’Egitto, ma proprio lì, quando videro la sconfitta della forza militare dell’Egitto, cioè la sconfitta del regno oppressore, allora le masse di schiavi fecero veramente loro la libertà.
- 2. Loro sono morti, e noi cantiamo? Sì. Loro sono i malvagi. “Le opere delle mie mani affogano nel mare, e voi cantate?” fu detto agli angeli e non alle vittime designate che cantavano per il miracolo della loro salvezza. Nelle ultime generazioni è stato ulteriormente dimostrato che l’espressione “le opere delle mie mani affogano nel mare” si riferisce ai figli d’Israele che erano in grande difficoltà, e non ai malvagi che cercavano di sterminarli.
Il 7 ottobre, i nuovi nazisti hanno cercato di commettere un genocidio contro di noi. Avevano pianificato di farlo in tre fasi, ma sono riusciti a completare il loro piano solo nella prima fase. Inizialmente avevano pianificato di invadere gli insediamenti intorno a Gaza e le città vicine, poi di raggiungere città come Beer Sheva e Ashdod e persino Rehovot e Nes Ziona, e infine Tel Aviv.
Hanno decapitato i nostri figli, hanno violentato le nostre figlie fino a quando il loro bacino si è spezzato e poi hanno sparato alle loro teste, hanno legato genitori e figli e li hanno bruciati vivi, hanno distrutto comunità pacifiche, bruciato e saccheggiato tutto ciò che potevano, e poi hanno rapito centinaia di vivi e morti nelle gallerie preparate in anticipo. Si sono vantati di questo, hanno filmato e pubblicato sui social media. Terra, non coprire il loro sangue.
- 3. Un piccolo gruppo tra noi, che ha perso la bussola morale, tenta di convincerci che la guerra è ora senza scopo, e che stiamo colpendo inutilmente i gazawi. Anche altri cento anni non basterebbero per ripagare questi malvagi dei loro crimini. Tengono ancora 59 dei nostri fratelli e sorelle, vivi e morti. Dobbiamo combattere per il loro salvataggio e liberazione. Questo gruppo confuso racconta che gli ostaggi possono essere salvati con un accordo. In questo modo, gettano sabbia nei nostri occhi e prolungano la permanenza degli ostaggi in prigionia di Hamas, e naturalmente ne aumentano il prezzo. Ancora più grave, la propaganda per porre fine alla guerra da parte del nostro popolo mette in pericolo il nostro futuro e le nostre vite qui nella terra desiderata dai nostri padri.
I leader di Hamas osservano l’abbandono nelle nostre strade e nei media, e capiscono che possono insistere. Ecco una notizia di questa settimana: “Hamas ha informato l’Egitto che l’apertura per qualsiasi accordo è un cessate il fuoco e un ritiro (da tutta la Striscia), non il disarmo della resistenza (cioè l’organizzazione Hamas), e che respingono categoricamente qualsiasi discussione sulla questione delle armi; è completamente inaccettabile“. Non solo secondo questi nazisti è inaccettabile, ma anche secondo i propagandisti della resa tra noi.
Ci occuperemo di Hamas dopo, dicono. Ovvio, come non ci hanno pensato? Dopo Oslo, il ritiro dal Libano, il disimpegno dalla Striscia di Gaza, la liberazione di Gilad Shalit e altro – abbiamo promesso che l’avremmo fatto. Ma non l’abbiamo fatto, piuttosto abbiamo permesso la creazione di un’enorme entità terroristica, la cui ragion d’essere – dall’ultimo dei suoi bambini al più pericoloso dei suoi terroristi – è la distruzione di Israele e l’uccisione degli ebrei. Non l’abbiamo fermata in tempo, e abbiamo ricevuto il 7 ottobre. È pericoloso ascoltare coloro la cui mente è offuscata e che hanno perso il minimo senso della giustizia.
- 4. Per comprendere la portata della perdizione morale, militare e politica dei propagandisti della resa, ecco le richieste di Hamas nell’ultimo negoziato per il ritorno di dieci o undici ostaggi. Gli altri rimarranno nelle mani di Hamas, un promemoria del diavolo per assicurarsi che Israele non attacchi e mantenga poi l’impegno. Da Gilad Shalit hanno imparato che basta un ostaggio per disgregare la società israeliana.
Ebbene, secondo le pubblicazioni di questa settimana, tra cui l’eccellente canale Telegram di Guy Bechor (consigliato!), queste sono le richieste di Hamas che, nonostante la sua situazione, confida ancora nella sua capacità di sconfiggerci. Come abbiamo visto, Hamas rifiuta persino di discutere del suo disarmo e del suo esilio dalla Striscia di Gaza. Chiede di rimanere come organizzazione militare nella Striscia, parte del governo e della politica a Gaza dopo la guerra, e respinge qualsiasi tentativo di emarginazione. Chiede un completo ritiro di Israele fino ai confini del 6 ottobre, compresa la zona di sicurezza (“il perimetro”), e si oppone all’intervento straniero, anche di paesi arabi, e certamente dell’Autorità palestinese di Ramallah.
Sullo sfondo delle dichiarazioni pubbliche senza alcun copertura logica tra noi, cioè fare un accordo e violarlo subito dopo aver ricevuto i nostri ostaggi (geniale, no?), Hamas chiede “forti” garanzie internazionali che Israele non tornerà ad attaccare. In breve, chiede l’immunità per i terroristi che si riposizioneranno di fronte agli insediamenti di confine e pianificheranno il prossimo massacro. I miliardi per la ricostruzione della Striscia che doneranno gli sciocchi e gli ingenui del mondo, Hamas chiede di riceverli direttamente o in collaborazione con organizzazioni sotto il suo controllo come l’UNRWA, e assolutamente non all’Autorità Palestinese.
Tutto questo in cambio del rilascio di circa dieci ostaggi. Gli altri rimarranno in ostaggio fino alla completa riabilitazione dell’entità nazista e alla sua preparazione per la prossima invasione, dopo aver convinto il capo dello Shin Bet in carica che si tratta di un’entità parastatale ragionevole che preferisce gli affari e la gestione dell’economia alla propria distruzione, e naturalmente con il favorevole giudizio dei media. A ciò aggiungeremo il costante ombrello protettivo del sistema giudiziario, che continua a legarci le mani per non colpire preventivamente quelli che cercano di ucciderci, e che ci costringe a fornire loro aiuti “umanitari”.
Le conseguenze di un tale accordo significherebbero rendere ogni ebreo nel mondo un obiettivo legittimo per il rapimento. Questo diventerebbe d’ora in poi il certificato di assicurazione di ogni assassino di ebrei ovunque si trovi.
-5. Non abbiamo ancora visto l’attuale Capo di Stato Maggiore condurre una guerra, poiché da quando è stato nominato stiamo combattendo a bassa intensità e le “porte dell’inferno” non sono ancora state aperte su Gaza. Il precedente Capo di Stato Maggiore era molto impegnato nella conquista della Striscia, e quindi ha operato con il metodo delle incursioni: l’IDF ha combattuto ed è uscito più volte nello stesso posto. Dopo le incursioni ci siamo ritirati dal territorio, permettendo al nemico di riorganizzarsi e soprattutto di prendere nuove energie e fiducia.
Le dieci piaghe sono simili al metodo delle incursioni. Dopo ogni piaga c’era una tregua e gli egiziani potevano riprendersi. Ciò ha portato il faraone a pensare che avrebbe superato il periodo difficile e sarebbe sopravvissuto. A differenza delle dieci piaghe, la divisione del Mar Rosso è stata il colpo finale. Perciò i nostri saggi nell’Haggadà esaltano anche le piaghe subite dagli egiziani sul mare e la grandezza della sconfitta egiziana lì.
E in effetti, solo dopo la divisione del Mar Rosso e l’annegamento dell’esercito egiziano con i suoi carri temibili – quando le masse di schiavi videro i loro precedenti padroni trascinati dalle onde del mare e gettati morti sulla riva – è scritto: “E credettero nel Signore e in Mosè suo servo“. Il termine “credere” nella Bibbia non si riferisce alla fede religiosa (questo è un significato più tardo, probabilmente dal periodo dei Geonim) ma alla fiducia. Solo allora il popolo giunse alla conclusione che si poteva contare sul Signore e su Mosè. E quando lo comprendono, dalle loro bocche erompe un potente canto di uomini liberi che si sono appena salvati dalla morte, al culmine di una lunga lotta per la loro liberazione dalla casa della schiavitù verso la loro patria storica. Non è stato un evento isolato. Vedremo ancora i giorni che ci illumineranno con luce preziosa. “Come nei giorni della tua uscita dall’Egitto, mostrerò meraviglie” (Michea 7,15).
(da Israel Hayom, 16 aprile 2025)
(Kolòt - Morashà, 21 aprile 2025)
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Dall’Iran al Venezuela: Hezbollah sotto accusa in un nuovo disegno di legge americano
Il testo del ddl bipartisan prevede che il Segretario di Stato possa designare come “santuari terroristici” i numerosi Paesi o le aree che offrono protezione o sostegno alle attività di Hezbollah e che il governo Usa potrà imporre sanzioni individuali a funzionari o attori economici che collaborino con l’organizzazione.
di Davide Cucciati
Hezbollah opera ormai su scala globale, intrecciando alleanze politiche, traffici illeciti e strategie militari. Il suo radicamento in America Latina non è un fenomeno recente né marginale: da anni l’organizzazione sciita consolida reti logistiche, finanziarie e operative in vari Paesi dell’area. Alla luce di questi legami sempre più consolidati, il 4 marzo 2025 è stato presentato negli Stati Uniti un disegno di legge bipartisan, il No Hezbollah in Our Hemisphere Act, promosso dai senatori Jacky Rosen (Democratica) e John Curtis (Repubblicano), volto a contrastare l’influenza del gruppo nel continente.
Secondo Rosen e Curtis, solo Argentina, Colombia, Guatemala, Honduras e Paraguay hanno finora designato Hezbollah come organizzazione terroristica; la sua presenza risulta documentata in Perù, Cile, Colombia e nell’area dei tre confini tra Argentina, Brasile e Paraguay. Tra i Paesi latinoamericani coinvolti in queste dinamiche, il Venezuela occupa una posizione centrale. Nella proposta di legge americana, il regime di Maduro viene definito “la base operativa avanzata dell’Iran in America Latina”.
Il testo prevede che il Segretario di Stato, in coordinamento con le agenzie di intelligence statunitensi, possa designare come “santuari terroristici” i Paesi o le aree che offrono protezione o sostegno alle attività di Hezbollah. Il governo statunitense potrà imporre sanzioni individuali, inclusa la revoca dei visti e delle autorizzazioni di viaggio, a funzionari o attori economici che collaborino con l’organizzazione. Il presidente potrà concedere deroghe solo per motivi di sicurezza nazionale o obblighi internazionali, ma dovrà notificarle al Congresso entro 30 giorni e avranno validità limitata. A livello diplomatico, ai governi latinoamericani sarà richiesto di designare Hezbollah come gruppo terroristico. Il disegno di legge è stato elogiato dall’American Jewish Committee che ha definito la presenza di Hezbollah nella regione una minaccia concreta per le comunità ebraiche e per la stabilità dell’emisfero occidentale.
In questo contesto si inserisce la notizia, riportata il 16 aprile 2025 dal Times of Israel, secondo cui circa 400 comandanti operativi di Hezbollah e le loro famiglie avrebbero recentemente lasciato il Libano per stabilirsi in Venezuela, Ecuador, Colombia e Brasile. La notizia, attribuita a una fonte dell’ambasciata argentina in Libano, conferma e aggrava le preoccupazioni già espresse nella proposta legislativa americana, rafforzando l’ipotesi di un’espansione operativa pianificata nel continente.
• Ostacolata sotto Obama l’indagine per smantellare i traffici di Hezbollah
Il legame tra Hezbollah e l’America Latina non è nuovo. Già nel 2017, un’inchiesta di Politico Magazine firmata da Josh Meyer, intitolata “The secret backstory of how Obama let Hezbollah off the hook”, ha sostenuto che l’amministrazione Obama avrebbe rallentato o ostacolato l’operazione “Project Cassandra”, una vasta indagine condotta dalla DEA per smantellare le attività di traffico di droga e riciclaggio di denaro attribuite a Hezbollah. Politico riporta che questi rallentamenti sarebbero stati motivati dalla volontà di non compromettere l’accordo sul nucleare con l’Iran, principale sponsor del gruppo sciita. L’ipotesi che il negoziato con Teheran potesse aver avuto un’influenza diretta sulla gestione delle inchieste è rimasta al centro di numerosi dibattiti, ma non ha trovato un riconoscimento unanime da parte della comunità politica o giornalistica statunitense.
Sempre secondo l’inchiesta di Politico, l’operazione Project Cassandra avrebbe individuato una rete internazionale che generava enormi profitti attraverso traffico di cocaina, riciclaggio di denaro e altre attività criminali. Hezbollah avrebbe raccolto, così, fino a un miliardo di dollari. Una delle componenti più redditizie di questa rete sarebbe stata quella guidata da Ayman Saied Joumaa, cittadino colombiano-libanese ritenuto vicino sia a Hezbollah sia al cartello dei Los Zetas. La sola rete di Joumaa avrebbe riciclato fino a 200 milioni di dollari al mese, movimentando i fondi attraverso circa 300 concessionarie di auto usate: le auto venivano acquistate negli Stati Uniti con denaro del narcotraffico, spedite in Benin, sulla costa occidentale dell’Africa, e i proventi tornavano in Libano tramite circuiti finanziari non tracciabili. Tra le figure centrali identificate dall’indagine compariva anche Chekri Mahmoud Harb, soprannominato “Taliban”, coordinatore di spedizioni di cocaina dal Sud America verso Europa e Medio Oriente. In base alle ricostruzioni della DEA, Harb avrebbe versato una quota dei profitti direttamente a Hezbollah. Era la combinazione di questi flussi, su scala intercontinentale, a sostenere finanziariamente le attività militari e logistiche dell’organizzazione sciita.
L’inchiesta di Politico su “Project Cassandra” ha suscitato reazioni contrastanti. Secondo quanto riportato da Business Insider, alcuni ex funzionari dell’amministrazione Obama hanno negato che ci siano state interferenze politiche deliberate volte a proteggere Hezbollah, sostenendo che le indagini siano proseguite normalmente e che eventuali rallentamenti fossero dovuti a motivi operativi, come la mancanza di prove univoche o le difficoltà di coordinamento tra le agenzie federali.
• I traffici di droga di Hezbollah anche in Europa
Al di là delle polemiche politiche e giornalistiche sorte intorno al Project Cassandra, l’associazione tra Hezbollah e i traffici internazionali di droga ha trovato riscontro anche in episodi documentati su suolo europeo. Un caso particolarmente rilevante risale al 1º luglio 2020, quando le autorità italiane annunciarono il sequestro di oltre 84 milioni di pasticche di Captagon nel porto di Salerno, per un peso complessivo di circa 14 tonnellate e un valore stimato superiore a 1 miliardo di euro. Inizialmente, il carico fu attribuito all’ISIS, ma secondo Foreign Policy, è più probabile che la produzione e il traffico fossero orchestrati dal regime siriano di Bashar al-Assad con il supporto tecnico di Hezbollah.
Anche secondo un’inchiesta di Le Monde, Hezbollah avrebbe costruito un sistema finanziario parallelo che collega il traffico di droga in America Latina con il finanziamento delle sue operazioni in Medio Oriente. La cocaina prodotta in Sud America verrebbe trasportata attraverso l’Africa occidentale, dove viene venduta, e i proventi in contanti trasferiti a Beirut tramite uffici di cambio e banche locali. Tali fondi servirebbero a finanziare l’acquisto di armi e le attività militari del gruppo sciita in Siria e Libano. Anche in quest’inchiesta si cita la regione della triplice frontiera, tra Paraguay, Argentina e Brasile, che rappresenterebbe un nodo centrale di queste attività, grazie alla presenza di comunità libanesi ben radicate e alla collaborazione con reti criminali locali. Le Monde riferisce inoltre che, in quartieri a forte presenza sciita come Marcory ad Abidjan in Costa d’Avorio, parte della diaspora libanese contribuirebbe all’impegno bellico di Hezbollah tramite una “zakat” definita come “tassa informale”, distinta dalla tradizionale elemosina religiosa islamica e che si affiancherebbe a pratiche consolidate come il traffico di droga, diamanti e armi.
L’economia parallela costruita da Hezbollah non si limita però a quanto descritto. Anche sul territorio libanese, in particolare nella Valle della Beqa, l’organizzazione avrebbe sviluppato forme di finanziamento attraverso il commercio di hashish, secondo quanto riportato da Foreign Policy e Arab News. Tali attività, sebbene locali, seguono logiche simili a quelle adottate nei traffici latinoamericani: tassazione informale delle coltivazioni, controllo del territorio e reinvestimento dei proventi. Non esistono prove dirette di un coinvolgimento nella distribuzione internazionale di marijuana, ma l’approccio replicato su scala globale evidenzia la capacità di Hezbollah di monetizzare ogni risorsa disponibile.
Hezbollah opera senza confini e la risposta statunitense si sta organizzando. Resta da vedere se sarà tempestiva, efficace e, soprattutto, condivisa anche dai governi dell’America centrale e meridionale.
(Bet Magazine Mosaico, 21 aprile 2025)
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Perché la guerra di Israele contro Hamas è necessaria
Una guerra può essere moralmente giustificata e giuridicamente limitata. È proprio questo il caso della campagna di Israele contro Hamas. Non è stata intrapresa con leggerezza o sconsideratezza, ma è condotta in nome della vita, della sovranità e dello Stato di diritto.
di John Spencer e Arsen Ostrovsky
Dopo il barbaro massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, in cui sono state uccise oltre 1.200 persone in Israele, per lo più civili, tra cui donne, bambini e anziani, e sono stati presi oltre 250 ostaggi, Israele ha avviato una vasta operazione militare nella Striscia di Gaza. La portata e l'intensità della risposta sono state senza precedenti, così come l'attacco che l'ha scatenata. Da allora non sono mancate voci male informate, come quella del comico Dave Smith, o attori malintenzionati che strumentalizzano il diritto internazionale per mettere in discussione le azioni militari di Israele a Gaza, chiedendosi se siano proporzionate, legali e addirittura necessarie. Al centro di questo dibattito c'è un malinteso fondamentale: la “necessità” in guerra ha due significati diversi. Chi li confonde – moralmente e giuridicamente – giunge a valutazioni errate e a narrazioni fuorvianti.
DUE TIPI DI NECESSITÀ: UNA MORALE E UNA GIURIDICA
• 1. Necessità morale – La dottrina della guerra giusta
Il primo concetto di necessità deriva dalla teoria della guerra giusta, un quadro etico sviluppato nel corso dei secoli per valutare se l'uso della forza sia moralmente giustificato (jus ad bellum). Uno dei suoi principi fondamentali è la necessità: una guerra deve essere l'ultima risorsa, solo quando tutte le alternative non violente come la diplomazia, la deterrenza, le sanzioni o la mediazione internazionale sono state esaurite. Nel caso di Israele, i fatti parlano da soli: nel 2005 Israele si è ritirato completamente dalla Striscia di Gaza e ha smantellato tutte le strutture civili e militari. Negli anni successivi, Hamas ha preso il potere con un violento colpo di Stato, ha lanciato decine di migliaia di razzi e ha respinto ogni seria iniziativa per una convivenza pacifica. Nonostante ripetute tregue e mediazioni internazionali, Hamas è rimasta determinata non a creare uno Stato palestinese accanto a Israele, ma a distruggere Israele. Il 7 ottobre Hamas ha mostrato chiaramente le sue intenzioni. Ha attraversato il confine non per affrontare i soldati israeliani, ma per massacrare civili. Ha filmato le atrocità e ha annunciato che le avrebbe ripetute. Affermare in questo contesto che la reazione militare di Israele non sia moralmente necessaria significa ignorare i fatti e contraddire il buon senso.
• 2. Necessità giuridica – Il diritto internazionale umanitario
La seconda forma di necessità non è filosofica, ma giuridica. Rientra nell'ambito del diritto internazionale umanitario (International Humanitarian Law, IHL), ovvero delle norme che regolano la condotta in guerra (jus in bello). La necessità militare consente solo quelle misure che sono necessarie per il raggiungimento di un obiettivo militare legittimo. Questo principio, sancito dalle Convenzioni di Ginevra, dagli Accordi dell'Aia e dal diritto internazionale consuetudinario, non consente la distruzione fine a se stessa. Non giustifica danni ai civili, a meno che questi non siano una conseguenza involontaria di un attacco legittimo. E presuppone l'obbligo di distinguere tra obiettivi militari e civili e di evitare attacchi sproporzionati. Ogni operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza è vincolata a questo criterio. Non è sufficiente constatare la presenza di Hamas in un edificio o in un quartiere. Un attacco è legittimo solo se l'obiettivo offre un vantaggio militare concreto e immediato e se vengono prese tutte le precauzioni possibili per ridurre al minimo i danni ai civili. I giuristi militari e i comandanti israeliani operano nel rispetto di questo quadro. La selezione degli obiettivi, la scelta delle armi, il momento dell'attacco e i meccanismi di allerta vengono valutati in tempo reale. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) non solo rispettano i requisiti legali, ma documentano e verificano le loro azioni in misura pari a pochi altri eserciti moderni, soprattutto nella lotta contro un'organizzazione terroristica che si mescola deliberatamente alla popolazione civile.
• Il ponte contro il panificio
Un esempio calzante tratto dal diritto bellico chiarisce questa differenza: La distruzione di un ponte utilizzato dal nemico per trasportare armi è un atto legittimo di necessità militare. Porta un chiaro vantaggio operativo e indebolisce le capacità dell'avversario. Al contrario, la distruzione di un panificio in una zona residenziale solo perché i combattenti nemici vi mangiano occasionalmente non sarebbe legittima. Il panificio non è un obiettivo militare e la sua distruzione non avrebbe uno scopo militare legittimo. Questa distinzione è fondamentale nella guerra urbana. A Gaza, dove Hamas nasconde sistematicamente i propri mezzi militari in strutture civili – come scuole, abitazioni e moschee – Israele si trova ad affrontare sfide straordinarie. Ma gli standard giuridici rimangono invariati. Ogni azione deve superare il test della necessità militare. Ogni attacco deve servire a uno scopo legittimo. La presenza di civili richiede moderazione, anche nei confronti di un nemico che li usa deliberatamente come scudi umani.
• Guerra necessaria, condotta nel rispetto delle regole
La guerra di Israele contro Hamas era necessaria? Dipende dal tipo di necessità a cui ci si riferisce. In realtà, soddisfa entrambe: La guerra era moralmente necessaria? Dopo il 7 ottobre, dopo il massacro premeditato di civili, la presa di ostaggi e la dichiarata intenzione di Hamas di ripetere questi crimini, la risposta è chiaramente sì. Le operazioni militari di Israele sono legalmente necessarie? Ogni singolo attacco deve soddisfare determinati requisiti legali. Tuttavia, l'IDF agisce nel rispetto di uno dei quadri giuridici ed etici più rigorosi della guerra moderna. È vincolata dal diritto internazionale umanitario e dimostra un impegno senza precedenti nel ridurre al minimo i danni, anche quando combatte un nemico che si nasconde dietro i civili e viola tutte le regole della guerra. Una guerra può essere moralmente giustificata e giuridicamente limitata. La campagna di Israele contro Hamas è proprio questo. Non è stata intrapresa con leggerezza, ma è stata condotta in nome della vita, della sovranità e dello Stato di diritto. Chi si chiede se questa guerra fosse necessaria dovrebbe prima capire esattamente cosa sta chiedendo e poi rendersi conto che, secondo tutti i criteri pertinenti, la risposta è chiaramente sì.
(Israel Heute, 20 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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E’ morto il papa. E allora?
Forse per reagire all’insopportabile valanga di articoli, commenti, considerazioni, polemiche che hanno cominciato fin da oggi a invadere i media online, e continueranno sicuramente anche domani in tante altre forme; o forse perché, come romano di nascita e non cattolico di professione ricordo il motto squisitamente e letteralmente cattolico-romano secondo cui “a Roma si fa la fede e altrove ci si crede”, proprio oggi, XXI aprile Natale di Roma, mi è venuta in mente una coppia di sonetti dissacratori di Giuseppe Gioachino Belli, l’indimenticabile cantore della plebe romana ottocentesca, scritti in occasione di un funerale di duecento anni fa: quello di papa Leone XII.
• Er mortorio de Leone duodescimosiconno
Vienivano le tromme cor zordino,
poi li tammurri a tammurro scordato:
poi le mule cor letto a bbardacchino
e le chiave e ’r trerregno der papato.
Preti, frati, cannoni de strapazzo,
palafreggneri co le torce accese,
eppoi ste guardie nobbile der c.
Cominciorno a intoccà tutte le cchiese
appena uscito er Morto da palazzo.
Che gran belle funzione a sto paese!
• Le ssequie de Leone duodescimosiconno a S. Pietro
Prima, a palazzo, tanti frati neri
la notte e ’r giorno a bbarbottà orazzione!
Pe Rroma, quer mortorio bbuggiarone!
qua, tante torce e tanti cannejjeri!
Messe sú, mmesse ggiú,
bbenedizzione, bôtti, diasille, prediche, incenzieri,
sonetti ar catafarco, arme, bbraghieri,
e sempre Cardinali in priscissione!
Come si er Papa, che cquaggiú è Vvicario
de Crist’in terra, possi fà ppeccati, e annà a l’inferno lui quant’un zicario!
Li Papi sò ttre vvorte acconzagrati:
e ssi Ccristo ciannò, ciannò ppe svario
a ffà addannà li poveri dannati.
Tutto ciò non ha niente a che vedere né con Israele né col Vangelo.
Appunto, e forse proprio per questo vale la pena di sottolinearlo. M.C.
(Notizie su Israele, 21 aprile 2025)
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La priorità del cristiano
Come può preservarsi la Chiesa del Dio vivente dalle cattive vie e rimanere spiritualmente viva? Il Nuovo Testamento mostra come una chiesa nella sua globalità ed il cristiano, in quanto individuo, possano restare vicini al Signore ed essere una testimonianza vivente. Tutto questo è legato alle priorità che ci fissiamo. Si tratta in realtà di santificazione, della volontà incondizionata di santificare il nome di Dio e di renderGli onore. Si tratta di voler rimanere a ogni costo uno con il Signore Gesù Cristo, praticamente e quotidianamente.
di Peter Blaser
«Santo, santo, santo è il Signore, il Dio, onnipotente, che era, che è, e che viene» (Apocalisse 4:8).
Alla domanda su quale deve essere la priorità nella Chiesa del Signore, vi sarebbero molte risposte: l'evangelizzazione, la crescita spirituale, la preghiera, il lavoro sociale, il lavoro tra i bambini, tra i giovani eccetera. Ma qual è la priorità che lo stesso Signore Gesù ha stabilito? La prima richiesta nella preghiera che Egli insegnò ai Suoi discepoli è: « ... sia santificato il tuo nome» (Matteo 6:9).
Ed è ben questo di cui si tratta. Poiché noi abbiamo qui la condizione per la realizzazione della richiesta: «venga il tuo regno». Il regno di Dio avviene là dove il Suo nome è santificato. Noi possiamo evangelizzare, fondare delle chiese, istruire, senza tuttavia santificare il nome di Dio. La chiesa di Laodicea ne è un valido esempio (Apocalisse 3:14-22). Ma noi non possiamo santificare il nome di Dio senza evangelizzare, senza crescere spiritualmente, senza fondare delle chiese. Questo è perché non abbiamo altro scopo per la nostra vita se non quello di santificare per mezzo della nostra vita il nome di Dio, di onorarLo e di glorificarLo.
La santità è uno dei principali temi della Bibbia, e tuttavia essa rimane insondabile. In Apocalisse 4:2-3, Dio è descritto nella Sua maestosa santità. Egli è simile ad una pietra di diaspro e di sardonico, circondato da un arcobaleno simile ad uno smeraldo. La pietra di diaspro è secondo Apocalisse 21:11 trasparente come il cristallo. La pietra di sardonico è un rubino di colore rosso fuoco. Lo smeraldo ha un colore verde freddo. Non essendo in grado di descrivere la santità di Dio con delle parole umane, Giovanni nell'Apocalisse ricorre a dei paragoni.
Ventiquattro anziani vestiti di vesti bianche si prostrano davanti a Dio, e gettano le loro corone davanti al trono e adorano Colui che vive nei secoli dei secoli. Essi dicono: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza: perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà furono create ed esistono». Inoltre, quattro creature viventi, probabilmente dei cherubini, stanno intorno al trono. Nell'Antico Testamento sono gli angeli chiamati in relazione alla presenza, la potenza e la santità di Dio. Queste quattro creature esprimono la gloria e la santità di Dio. Esse dicono giorno e notte: «Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene» (Apocalisse 4:4.9-11).
Qualche cosa di molto importante, come lo sono le parole di Gesù Cristo: «In verità, in verità vi dico ... ! »
La santità di Dio annienta la nostra capacità di pensare, di immaginare.
All'origine, «santo» significava tagliare o mettere da parte qualche cosa per uno scopo particolare. Ciò che è separato o tagliato emerge da tutto il resto. Quando parliamo della santità di Dio, questo significa che Egli è separato, tagliato da ... Egli non è né creatura, né facente parte della creazione. Essendo il Creatore Santo, è al di sopra di tutta la creazione Egli è senza inizio né fine. Egli supera l'immaginazione e l'intelligenza di tutta l'umanità. Dio è oltre i nostri limiti. Egli è oltre la nostra sfera di sperimentazione.
Nella Bibbia, la santità è sempre legata a Dio. All'infuori di Dio, non vi è santità, poiché solo Lui è santo, sì, tre volte santo, perfettamente santo. Nella Sua santità, Dio è perfettamente puro. Egli è esente da ogni bruttura. In Lui non vi è né peccato, né male, né cattiva motivazione, né pensiero impuro. Egli è interamente perfetto e senza macchia sotto ogni aspetto. Lo stesso Suo nome è santo, perché Egli è santo (Luca 1:49). Questo perché alla croce, quando il Signore Gesù portava su di Se i peccati del mondo, Dio non poteva avere comunione con Suo Figlio. Dio era là, Egli è ovunque, ma non aveva più comunione con Suo Figlio, poiché il peccato provoca una totale separazione.
Quando degli uomini incontrano Dio nella Sua santità, cadono sulla loro faccia o si nascondono il volto, essi hanno paura: quando Dio concluse il patto con Abraamo e gli promise Isacco, «Abramo si prostrò con la faccia a terra» (Genesi 17:3). Quando Mosè incontrò Dio nel pruno ardente, «Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio» (Esodo 3:6). E Daniele, all'approssimarsi dell'angelo, disse: «alla sua venuta io fui spaventato e mi prostrai con la faccia a terra» (Daniele 8:17). Giovanni cadde sul suo viso quando ebbe la rivelazione di Gesù Cristo: «Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto» (Apocalisse 1:17).
Quando Mosè salì al monte Sinai per ricevere da Dio la legge, Dio disse a Mosè: «Tu fisserai tutto intorno dei limiti al popolo, e dirai: Guardatevi dal salire sul monte o dal toccarne i fianchi. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte» (Esodo 19:12). E' questa la santità di Dio! Mosè, una volta trovatosi sulla montagna, non aveva il diritto di vedere il volto di Dio (Esodo 33:19-23). E benché Mosè vedesse soltanto da dietro la gloria di Dio, al suo ritorno, il suo viso era talmente raggiante, che gli israeliti avevano paura di avvicinarsi a lui (Esodo 34:30).
Il tabernacolo è l'espressione della santità di Dio. Soltanto i migliori materiali erano valutati sufficientemente adatti per essere utilizzati nella sua costruzione. Dio diede delle direttive assai dettagliate circa il modo di fabbricare i diversi elementi. L'uomo non poteva confezionare la casa di Dio secondo i propri pensieri e le proprie idee. Dio non tollerava la minima variazione alle sue direttive. La santità di Dio non ammette alcuna tolleranza. Essa non permette alcun compromesso ! In vista del servizio al tabernacolo, i sacerdoti dovevano essere sottoposti a tutta una serie di trattamenti di purificazione. Gli animali del sacrificio dovevano essere senza alcun difetto. Soltanto il migliore è appena buono per Dio. E' questa la santità di Dio!
Quando Davide fece ricondurre l'arca di Dio da Chiriat-Iearim, i buoi scivolarono e l'arca rischiò di cadere dal carro. Uzza volle evitare questo ed afferrò l'arca con la mano. Subito, Dio fece morire Uzza (1Cronache 13:3-11). - «Ma questo è ingiusto, Uzza pensava di fare bene», diremmo noi. Ma Uzza era un Cheatita. I Cheatiti dovevano portare delle parti del tabernacolo ed essi sapevano esattamente che non avevano diritto di toccare l'arca. Questa doveva essere portata per mezzo di sbarre. Uzza infranse quest'ordine molto chiaro dato da Dio (Numeri 4:17-20). L'immediata punizione mostra la santità di Dio.
Ci sono delle persone che dicono che Il Dio dell'Antico testamento è spietato, senza amore e che è diverso dal Dio del Nuovo Testamento che dice di essere un Dio di amore. Tuttavia, il Nuovo Testamento afferma: «perché il salario del peccato è la morte» (Romani 6 :23). Se Dio punisce qualcuno di morte, costui riceve la giusta punizione a causa della sua disubbidienza. Che Dio non faccia morire tutti gli uomini, quando l'avrebbero meritata secondo giustizia, è unicamente per la Sua misericordia. Il Dio dell'Antico Testamento è un Dio misericordioso. Egli non reagisce sempre immediatamente grazie alla Sua grande misericordia, alla Sua bontà, al Suo amore e alla Sua pazienza. Non siamo noi ad aver diritto di accusarlo, ma Lui ha il diritto di accusarci. Noi siamo stati disubbidienti, non Lui. Talvolta succede che Dio ci mostri in modo molto duro chi è ai comandi e chi deve rendere conto al Dio tre volte santo. Ancora oggi, Egli è il Dio santo, che a volte interviene in modo spaventoso avvertendoci. Ecco un esempio, alcuni anni fa un anziano di chiesa, sposato, si innamorò di una responsabile del gruppo giovani. Abbandonò sua moglie ed i suoi quattro bambini ed andò a vivere con questa ragazza. Non accettò né un colloquio né l'avvertimento da parte degli altri responsabili di chiesa. Lui non era disposto a tornare indietro. La chiesa pregò per il suo pentimento, ma l'uomo persisteva nel suo rifiuto; allora arrivò l'inconcepibile, il Dio santo intervenne: nello spazio di qualche giorno, quest'uomo morì, sebbene in buona salute.
Ma da nessuna parte la santità di Dio è così manifesta come in Gesù Cristo e nella Sua morte espiatoria alla croce! La santa giustizia di Dio esige la morte del peccatore. Nessun uomo può compiere questa espiazione, poiché, essendo peccatore, è lui stesso sotto la sentenza di morte e riceve la giusta punizione. Era necessario qualcuno che fosse senza peccato per soddisfare le esigenze di un Dio santo. E questo sacrificio, l'offrì Lui stesso.
Soltanto il Dio santo può soddisfare la propria giustizia e santità. Nella Sua santità, Dio non aveva altra soluzione per il perdono dei nostri debiti che quella della morte per mezzo della sostituzione con il suo diletto Figlio Gesù Cristo e questo per tutti gli uomini.
L'uomo naturale non può sussistere davanti al Dio santo. Così, nella I Corinzi 2:14 è detto: «Ma l'uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio». Perché questo? Perché l'uomo naturale nel suo peccato è totalmente separato dal Dio santo. La relazione è interrotta. E' come se noi mettessimo l'uno a fianco dell'altro nero e bianco, o luce e tenebre. Vi è una linea di separazione molto precisa. La santità di Dio esclude ogni comunione con le tenebre. In ragione della Sua santità, egli odia il peccato ed è irritato a causa del peccato. E' la santa collera di Dio che immediatamente distruggerebbe ogni cosa se Dio non fosse misericordioso, paziente e di grande bontà (Salmo 103:8).
Per la sua natura, l'uomo non ha nulla che possa presentare a Dio per essere trovato giusto davanti a Lui. Egli è totalmente pervertito, roso dal peccato. Noi non siamo in grado di compiere una sola buona azione, che risulterebbe interamente motivata da sentimenti puri, disinteressati. E' con le mani vuote che l'uomo si trova davanti a Dio, interamente nudo e sprovvisto di tutto. Egli non può nascondere nulla. Nulla può giustificarlo davanti a Dio, nulla può metterlo al riparo della collera di Dio. Il profeta Naum lo esprime in questi termini: «II SIGNORE è un Dio geloso e vendicatore; il SIGNORE è vendicatore e pieno di furore; il SIGNORE si vendica dei suoi avversari e serba rancore verso i suoi nemici» (Nahum 1:2).
Ogni essere umano sin dalla sua nascita è un avversario di Dio. Ad ogni istante, noi manifestiamo la ribellione, la rivolta contro Dio. E' questa la natura del peccato. Le leggi di Dio, buone e protettrici, noi non le rispettiamo. Ci si burla di Lui, Lo si schernisce, Lo si offende, Lo si fa bugiardo. Si maledice Dio e si approfitta di Lui per un nostro tornaconto. Il Suo immenso atto d'amore, il Suo sacrificio in Gesù Cristo, lo si presenta come una pericolosa favola, come un racconto da intendersi in modo simbolico.
Paolo lo esprime con competenza in Romani 3:12: «Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti. Non c'è nessuno che pratichi la bontà, no, neppure uno».
Chi vuole ascoltare tali cose? Questo non è né lusinghiero né rinfrescante. Ciò non aiuta la persona, non è bene per il suo io e soprattutto per il suo orgoglio. Ma questo è il messaggio che ci indirizza il Dio santo, che ha in orrore il peccato e che ha già giudicato e pronunciato la sentenza di morte su tutto quello che è peccato. L'esecuzione della sentenza non è che questione di tempo, ma essa è inevitabile, perché Dio è santo ed Egli non può mentire.
Ora, un essere umano che incontra Dio nella Sua santità e nella Sua giustizia, che lo riconosce in verità, costui dirà con Isaia: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!» (Isaia 6:5). Ovvero reagirà come Pietro, dopo aver riportato sull'ordine di Gesù la rete della pesca miracolosa: «Simon Pietro, veduto ciò, si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: "Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore"» (Luca 5:8).
Più conosceremo Dio nella Sua santità, più noi conosceremo la nostra cattiveria, la nostra perdizione. Per questo è assolutamente importante predicare il Dio tre volte santo, affinché l'uomo possa riconoscere la situazione di morte nella quale si trova. Comprendendo che era perduto, il carceriere di Filippi domandò a Paolo: « ... che debbo fare per essere salvato?» (Atti 16:30). Ecco il grido dell'uomo che ha incontrato il Dio santo. E Dio, il Santo, è misericordioso ed Egli è amore! Dio non è amore chiudendo gli occhi, banalizzando il peccato, essendo semplicemente tollerante. Dio è amore in quanto che ha espiato Lui stesso sulla croce nel Suo Figlio Gesù Cristo il debito dell'uomo che risponde alla sua chiamata.
Questo è l'amore che ha riversato su Gesù Cristo la collera di Dio. Questo è l'amore che pronuncia il perdono. Questo è l'amore che ci giustifica, che ci rende giusti davanti a Dio. Questo è l'amore che ci scarica del fardello del peccato. Questo è l'amore che è destinato a tutti coloro che nella miseria del loro peccato si volgono verso Gesù, pronti a riconoscerlo come il Salvatore e Maestro della loro vita. Un tale uomo può affermare ciò che Paolo scrive nella lettera ai Colossesi 2:13-15 «Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati; avendo cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l'ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce; ha spogliato i principati e le potestà, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce.»
Più comprendiamo il nostro stato di perdizione, maggiormente Dio ci amerà in Gesù e per la Sua misericordia. Più riconosciamo quanto la nostra natura è pervertita, maggiormente saranno grandi la grazia ed il perdono in Gesù. Più riconosciamo la collera di Dio nei confronti della nostra vita, maggiormente saremo riconoscenti a Gesù. Più riconosciamo profondamente il nostro peccato, maggiormente sarà profondo il nostro amore per Gesù, come è detto in Romani 5:20: « ... ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata.» Siete consapevoli per il fatto che Dio può eseguire in ogni momento il Suo giusto giudizio, senza alcun altro avvertimento? La Parola di Dio dice: «Oggi, se udite la sua voce» - e voi l'avete udita -, «non indurite il vostro cuore» (Salmo 95:8). Se volete affidarvi a Gesù, voi potete farlo; non ha importanza dove e non ha importanza quando. Se vi volgete verso Gesù Cristo e se l'accettate come vostro personale Salvatore, sperimenterete un cambiamento del Maestro. In 2 Corinzi 5:17 è detto: «Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura» (o una nuova creazione): egli non è più lo stesso, poiché la sua vecchia vita è scomparsa. Una nuova vita è iniziata! E' una vita sotto il regno di Dio. Questo è perché Dio dice: «Siate santi, perché io sono santo» (1Pietro 1:16).
Rimettendo la nostra vita nelle mani di Gesù e ricevendo lo Spirito Santo siamo posti nella posizione di santi. Paolo, nelle sue lettere che scrive a coloro che credono in Gesù, dice di indirizzarsi a dei santi (1Co 1:2).
Dio ci vede attraverso Gesù Cristo santi e giusti. Nella nostra qualità di riscattati in Cristo siamo giuridicamente davanti a Dio nella posizione di santi. Esiste tuttavia un problema. Giuridicamente parlando, noi siamo santi, ma la nostra condotta non è ancora santa. Eppure questa è la volontà di Dio, che non sia più io a dirigere la mia vita, ma Gesù Cristo.
Il credente ha ricevuto un nuovo spirito che cerca di piacere a Dio, di onorarLo, perché Lui è santo. Questo non vuole dire che siamo senza colpa. Più intensa è la nostra vita con Gesù, maggiormente riconosceremo le nostre debolezze. Ma si tratta per noi di tendere ad eseguire la volontà di Dio, di concentrarci sulle direttive che ci dà nella Sua Parola. Noi siamo santificati dalla verità della Parola di Dio: «Santificali nella verità: la tua parola è verità». (Giovanni 17:17). Più la Parola di Dio vive in noi - attraverso la lettura, lo studio, l'ascolto e l'applicazione, maggiormente lo Spirito Santo ci cambia in persone che Dio gradisce. Questo processo di trasformazione ha il suo fondamento nella santità di Dio.
«Siate santi, perché io sono santo.»
Più noi conosciamo, come credenti, la santità di Dio, maggiormente avremo il timore di Dio. E' in questo timore, integrato all'amore, che nasce il nostro desiderio di condurre una vita che onori Dio, una vita santificata. E' detto in Galati 5:22: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo.»
Questo frutto, risultato del processo di trasformazione, deve essere visibile nella vostra vita come nella mia - nella vita quotidiana, nella nostra famiglia, nella nostra relazione col nostro coniuge, i nostri bambini, i nostri fratelli e sorelle, i nostri superiori, i nostri colleghi, quando viaggiate in macchina ed anche nei luoghi dove nessuno ci vede.
La santità, questa è la natura di Dio e questo è un tema centrale della Bibbia.
«Siate santi, perché io sono santo.» Questo ordine è indirizzato a chiunque è figlio di Dio. Questa nuova condotta deve manifestarsi ogni giorno, praticamente. Questo è ciò che deve essere la priorità nella Chiesa del Dio vivente: «sia santificato il tuo nome» (Matteo 6:9).
(Chiamata di Mezzanotte, Nr. 3/4 2016)
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Israele valuta un attacco all'Iran anche senza l'OK di Trump
Trump non ha capito che per Israele la questione è esistenziale e che non si può perdere altro tempo
di Paola P. Goldberger
Israele non ha escluso un attacco alle strutture nucleari iraniane nei prossimi mesi, nonostante il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump abbia detto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu che gli Stati Uniti per ora non sono disposti a sostenere una tale mossa.
Gli israeliani hanno giurato di impedire a Teheran di dotarsi di un’arma nucleare e Netanyahu ha insistito sul fatto che qualsiasi negoziato con l’Iran deve portare al completo smantellamento del suo programma nucleare.
I negoziatori statunitensi e iraniani hanno tenuto sabato a Roma un secondo round di colloqui preliminari sul nucleare.
Negli ultimi mesi, Israele ha proposto all’amministrazione Trump una serie di opzioni per attaccare le strutture iraniane, tra cui alcune con tempistiche di fine primavera ed estate.
Secondo fonti qualificate i piani includono un mix di attacchi aerei e operazioni di commando che variano in termini di gravità e potrebbero ritardare la capacità di Teheran di armare il suo programma nucleare di pochi mesi o di un anno o più.
Il New York Times ha riportato mercoledì che Trump ha detto a Netanyahu in un incontro alla Casa Bianca all’inizio del mese che Washington vuole dare priorità ai colloqui diplomatici con Teheran e che non è disposto a sostenere un attacco alle strutture nucleari del Paese nel breve termine.
Ma i funzionari israeliani ritengono che le loro forze armate potrebbero invece lanciare un attacco limitato all’Iran che richiederebbe un minore sostegno da parte degli Stati Uniti. Tale attacco sarebbe significativamente più piccolo di quelli inizialmente proposti da Israele.
Non è chiaro se o quando Israele potrebbe procedere con un attacco di questo tipo, soprattutto con l’avvio dei colloqui per un accordo nucleare. Una simile mossa potrebbe alienare Trump e mettere a rischio un più ampio sostegno degli Stati Uniti a Israele.
Due ex alti funzionari dell’amministrazione Biden hanno riferito che parti dei piani sono stati presentati l’anno scorso anche all’amministrazione Biden.
Quasi tutti richiedevano un sostegno significativo da parte degli Stati Uniti attraverso un intervento militare diretto o la condivisione di informazioni. Israele ha anche chiesto che Washington lo aiuti a difendersi in caso di ritorsione da parte dell’Iran.
In risposta a una richiesta di commento, il Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha rimandato ai commenti fatti da Trump giovedì, quando ha detto ai giornalisti di non aver escluso un attacco da parte di Israele ma di non avere “fretta” di sostenere un’azione militare contro Teheran.
“Penso che l’Iran abbia la possibilità di avere un grande Paese e di vivere felicemente senza morte”, ha detto Trump. “Questa è la mia prima opzione. Se c’è una seconda opzione, penso che sarebbe molto negativa per l’Iran, e penso che l’Iran voglia parlare”.
L’ufficio di Netanyahu non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento. Un alto funzionario israeliano ha dichiarato che non è stata ancora presa alcuna decisione su un attacco iraniano.
Un alto funzionario della sicurezza iraniana ha detto che Teheran era a conoscenza dei piani israeliani e che un attacco avrebbe provocato “una risposta dura e ferma da parte dell’Iran”.
“Abbiamo informazioni da fonti affidabili che Israele sta pianificando un grande attacco ai siti nucleari iraniani. Ciò deriva dall’insoddisfazione per gli sforzi diplomatici in corso riguardo al programma nucleare iraniano, e anche dal bisogno di Netanyahu di un conflitto come mezzo di sopravvivenza politica”, ha detto il funzionario alla Reuters.
• Il NO dell’amministrazione Biden
Netanyahu ha ricevuto una reazione da parte dell’amministrazione Biden quando ha presentato una versione precedente del piano. Gli ex alti funzionari di Biden hanno detto che Netanyahu voleva che gli Stati Uniti prendessero la guida degli attacchi aerei, ma l’amministrazione Biden ha detto a Israele che non riteneva prudente un attacco a meno che Teheran non accelerasse l’arricchimento del materiale nucleare o espellesse gli ispettori dal Paese.
I funzionari di Biden hanno anche messo in dubbio la misura in cui l’esercito israeliano potrebbe portare a termine efficacemente un attacco del genere.
Ex funzionari ed esperti hanno da tempo affermato che Israele avrebbe bisogno di un significativo supporto militare statunitense – e di armi – per distruggere le strutture e le scorte nucleari iraniane, alcune delle quali si trovano in strutture sotterranee.
Mentre l’attacco militare più limitato che Israele sta prendendo in considerazione richiederebbe meno assistenza diretta – in particolare sotto forma di bombardieri statunitensi che sgancino munizioni in grado di raggiungere strutture profondamente sepolte – Israele avrebbe comunque bisogno di una promessa da parte di Washington di aiutarlo a difendersi se attaccato da Teheran come ritorsione.
Qualsiasi attacco comporterebbe dei rischi. Gli esperti militari e nucleari sostengono che, anche con una massiccia potenza di fuoco, un attacco probabilmente frenerebbe solo temporaneamente un programma che, secondo l’Occidente, mira a produrre una bomba nucleare, sebbene l’Iran lo neghi.
Nelle ultime settimane i funzionari israeliani hanno detto a Washington che non credono che i colloqui degli Stati Uniti con l’Iran debbano passare alla fase di definizione dell’accordo senza una garanzia che Teheran non avrà la capacità di creare un’arma nucleare.
“Questo può essere fatto con un accordo, ma solo se questo accordo è in stile libico: Si entra, si fanno saltare le installazioni, si smantellano tutte le attrezzature, sotto la supervisione americana”, ha detto Netanyahu dopo i colloqui con Trump. “La seconda possibilità è… che [l’Iran] trascini i colloqui e poi ci sia l’opzione militare”.
Dal punto di vista di Israele, questo potrebbe essere un buon momento per un attacco contro le strutture nucleari iraniane.
Gli alleati dell’Iran, Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano, sono stati martellati da Israele dall’inizio della guerra di Gaza, scatenata dall’assalto del gruppo terroristico palestinese del 7 ottobre, mentre il movimento Houthi in Yemen è stato preso di mira dagli attacchi aerei statunitensi. Israele ha anche danneggiato gravemente i sistemi di difesa aerea iraniani in attacchi di rappresaglia dopo che Teheran ha lanciato un attacco con missili balistici nell’ottobre 2024.
Un alto funzionario israeliano, parlando con i giornalisti all’inizio del mese, ha riconosciuto che c’è una certa urgenza se l’obiettivo è quello di lanciare un attacco prima che l’Iran ricostruisca le sue difese aeree. Ma l’alto funzionario si è rifiutato di indicare una tempistica per un’eventuale azione israeliana e ha detto che discuterne sarebbe “inutile”.
(Rights Reporter, 19 aprile 2025)
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La settimana di Israele – Perché continua la guerra
di Ugo Volli
• Il quadro strategico
È passato ormai più di un anno e mezzo, esattamente 80 settimane dal 7 ottobre – e la guerra prosegue, con tutto il suo carico di morti, di dolori, di preoccupazioni. Bisogna essere chiari su questa prosecuzione. Esattamente come Israele non ha voluto la guerra, così non vuole la sua prosecuzione. Non desidera che i suoi figli siano uccisi e neppure che debbano combattere per uccidere. La guerra prosegue perché Hamas, Hezbollah, gli Houti, soprattutto l’Iran non vogliono riconoscere la loro sconfitta e pensano ancora di poter ottenere il loro obiettivo, che è dichiaratamente la distruzione di Israele e la strage degli ebrei, continuando a mettere alla prova la resistenza morale e politica dello Stato ebraico e sfruttando la radicalità dell’opposizione interna. Per farlo usano innanzitutto il loro potere di vita e di morte sugli israeliani che hanno rapito il 7 ottobre per ricattare l’opinione pubblica di Israele. Si avvalgono poi dell’appoggio irresponsabile delle forze politiche e dei media che in tutto il mondo hanno capito che Israele è l’avamposto delle libertà occidentali e purtroppo proprio per questa ragione stanno dalla parte di chi lo assale: non solo la Cina, la Russia, gli estremisti islamici, ma anche le sinistre del mondo occidentale, disposte non da oggi a fare patti col diavolo in odio allo “stato borghese” e al “capitalismo”. Questo è il quadro strategico da tener presente. A chi chiede la pace bisogna rispondere che essa è possibile anche domani a patto che i terroristi di Hamas si arrendano, consegnino le armi, liberino i rapiti e abbandonino Gaza; e quelli iraniani che abbandonino il programma di armamento nucleare e smettano di fare la guerra a Israele. Ma per Hamas le armi e il potere a Gaza sono la “linea rossa” oltre cui non sono disposti a cedere, come per l’Iran è il programma atomico.
• Gaza
Le operazioni militari a Gaza sono riprese da un mese con intensità crescente. Con il nuovo capo di stato maggiore l’esercito israeliano ha abbandonato la tattica “mordi e fuggi” e tiene ormai il 40% del territorio distruggendo armi e eliminando terroristi e bloccando i loro rifornimenti ufficiali (impropriamente chiamati “aiuti alla popolazione”). Un rapporto del “Wall Street Journal” dice che Hamas sia in difficoltà economica, qua e là sono scoppiate delle piccole manifestazioni di protesta, sono stati uccisi numerosi dirigenti terroristi. Ma le armi a Hamas sembrano non mancare, nessuno a Gaza ha il coraggio di rivelare dove sono tenuti i rapiti. E peggio: fonti militari parlano ora di 40.000 persone inquadrate nelle formazioni di Hamas. Erano altrettanti o anche meno il 7 ottobre, nel frattempo ne sono stati eliminati 20.000 e molti altri feriti. Ma le forze sono ancora quelle. Ciò significa che c’è ancora disponibilità di reclutamento, cioè che gli abitanti di Gaza sono favorevoli ad Hamas e disposti a morire per la sua causa. È un sintomo molto grave: sembra che Hamas non sia affatto finito, che possa riprendere il terrorismo come minaccia spesso, appena cessasse le pressione militare israeliana. Nel frattempo è uscita oggi la cifra di 50.000 emigrati dalla Striscia in questi mesi. È un numero consistente, ma certamente non abbastanza per svuotare la vasca della popolazione in cui i terroristi si muovono “come pesci nell’acqua”, secondo quel che diceva Mao. La strada per domare Gaza è ancora lunga.
• Iran
Se Hezbollah è più o meno in condizioni di impotenza, la Siria è ormai fuori dal gioco (e si è fatto sapere che c’è stato un incontro negli Emirati fra delegati del regime siriano e di Israele “per risolvere le controversie”), e se gli Houti sono sotto tiro degli americani, la testa della piovra è sempre l’Iran, che continua a spedire soldi e armi come gli riesce a tutti i nemici di Israele, ma soprattutto lavora alacremente al programma di armamento atomico che lo renderebbe, secondo il calcolo degli ayatollah, immune alle reazioni difensive dei nemici che attacca. Qualche giorno fa è uscita la notizia di un piccolo sisma anomalo con epicentro nel sud dell’Iran, che potrebbe essere in realtà un esperimento di esplosione atomica. Nel frattempo sono iniziate sabato scorso le trattative in Oman fra diplomatici americani e iraniani, che purtroppo hanno partorito solo un rinvio a sabato prossimo, secondo la solita tattica iraniana per comprare tempo. E ci sono state dichiarazioni piuttosto inquietanti dell’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, sulla possibilità di stabilire limiti invece che distruggere il sistema di produzione nucleare di Teheran, che sembravano tratte dalla retorica di Obama. Una “rivelazione” del New York Times uscita ieri afferma che Netanyahu è andato la settimana scorsa a Washington per ottenere l’assenso di Trump a una azione militare a maggio per distruggere il potenziale atomico dell’Iran: o un bombardamento seguito dall’azione a terra di gruppi speciali, o un bombardamento prolungato per almeno una settimana. Trump avrebbe detto di no, per permettere le trattative e rimandato la decisione. In una dichiarazione Netanyahu non ha preso posizione sull’indiscrezione, ribadendo solo il suo impegno a impedire all’Iran l’armamento nucleare. Ma molti commentatori pensano che questo confronto non sia avvenuto come racconta il NYT e che queste “rivelazioni” siano un gioco per squalificare Trump o Netanyahu o entrambi.
• Il problema dello Shin Bet
Questa ambiguità nell’uso dei mezzi giornalistici ci rimanda a una catena di scandali che sono esplosi nelle ultime settimane in Israele e che hanno molto occupato le pagine dei giornali. Il contesto è la decisione che ha preso all’unanimità il governo israeliano di licenziare Ronen Bar, il capo dei servizi di sicurezza interni (Shin Bet) e il solo dei grandi responsabili tecnici del fallimento del 7 ottobre (probabilmente il più colpevole fra loro) a non essersi dimesso. Gli americani hanno dichiarato di non voler collaborare con un servizio in cui il governo israeliano non aveva fiducia. Bar ha rifiutato di andarsene, spalleggiato dal procuratore generale Gali Baharav-Miara, che peraltro è sua carissima amica di famiglia. Il pretesto è che sta indagando su fughe di notizie e azioni in favore del Qatar nell’ufficio di Netanyahu. Su questa storia ci sono stati degli arresti voluti dallo Shin Bet, ma alla fine gli interessati sono stati messi agli arresti domiciliari ed è probabile che non ne esca niente. Le opposizioni hanno presentato ricorsi alla Corte Suprema contro il licenziamento, e la Corte ha bloccato la decisione del governo, sebbene il possibile licenziamento governativo del capo dello Shin Bet sia esplicitamente previsto nella legge istitutiva dell’agenzia, ma non ha neanche deciso di proibirlo: il tema è sospeso, nonostante l’evidente urgenza. Nel frattempo è uscito sulla stampa che Bar aveva ordinato un’inchiesta su pretese infiltrazioni di estrema destra nella polizia e che questa inchiesta era stata ritenuta infondata. Ma allora è partita una seconda inchiesta sul funzionario dello Shin Bet che aveva rivelato alla stampa il fallimento della prima inchiesta: arrestato e tenuto in condizioni molto dure è stato rilasciato anche lui da un giudice agli arresti domiciliari. Vi sono stati poi altri episodi di rivelazione di segreti interni allo Shin Bet. Insomma si tratta di un’agenzia indispensabile nel controllo del terrorismo, che però ormai sembra fortemente impegnata nella politica interna israeliana e divorata da faide interne incontrollabili. Da riformare subito, per il bene del Paese.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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Ostaggi – Omri Miran e la corsa della figlia Roni
Il 25 aprile 2023, alla vigilia del Giorno dell’Indipendenza d’Israele, Omri Miran si era preparato come sempre per vedere la partita della sua squadra del cuore, il Maccabi Tel Aviv. «Era il suo rito settimanale, non se ne perdeva una», ha ricordato la moglie Lishay. Quel giorno di aprile di due anni fa Omri aveva fatto un’eccezione: prima della partita, aveva portato in giro per il kibbutz la figlia Roni. Si era divertito così tanto con lei da perdere l’inizio del match. «È tornato a casa con un sorriso enorme. Questo è il tipo di padre che è».
Fino al 7 ottobre 2023, la casa di Omri e Lishay nel kibbutz Nahal Oz era un rifugio tranquillo a pochi metri dal confine con Gaza. Omri, 47 anni, era giardiniere del kibbutz e terapista shiatsu. Nella vita delle figlie Roni, due anni, e Alma, sette mesi, era presente, partecipe, attento. «Ogni sera rientrava per metterle a letto. È un partner straordinario, amorevole, un uomo che tende una mano a tutti», hanno spiegato gli amici del kibbutz. «Pensa prima agli altri, poi a se stesso». È accaduto anche il 7 ottobre quando i terroristi palestinesi hanno invaso Nir Oz. Omri ha portato la moglie e le figlie nel rifugio, ha preso un coltello per difendere la famiglia e si è posizionato accanto alla porta. I terroristi di Hamas sono però entrati dalla finestra del bagno e hanno circondato Omri. «Gli hanno ordinato di seguirlo. Quello è stato l’unico momento in cui Roni è crollata, quando ha visto il padre andare via ha urlato: ”Il mio papà, il mio papà, voglio il mio papà”. L’ho trattenuta, perché cercava di scappare e seguirlo. Poi si è addormentata tra le mie braccia… e quando si è svegliata non era più una bimba di due anni».
Omri è stato caricato sulla sua auto e portato a Gaza. Da allora è ostaggio. Per mesi la famiglia non ha avuto alcuna notizia, poi, alla fine di novembre, è arrivata la prima conferma che fosse vivo. Un ex ostaggio ha riferito di averlo visto in prigionia fino a luglio 2024. Qualche mese prima, nell’aprile 2024, Hamas ha diffuso un video di propaganda dove Omri appare con il volto coperto da una folta barba, accanto ad altri prigionieri. «Dopo mesi in cui non lo vedevo, sembra ancora forte e in buona salute», ha commentato il padre Dani, che dal giorno del sequestro ha smesso di radersi. Ora sono passati 560 giorni e la sua barba continua a crescere, mentre di Omri non ci sono notizie. Israele ritiene sia tra i 24 ostaggi ancora vivi. Il padre viaggia ovunque per fare pressione e ottenere solidarietà per il figlio e per gli altri rapiti. È stato anche in Italia, ospite dell’ambasciata d’Israele a Roma.
La moglie di Omri, dal giorno del rapimento, ha iniziato un suo rito: scrive ogni giorno su WhatsApp in una chat intitolata “Note per Omri”. Condivide pensieri, foto delle bambine, attimi di quotidianità. «So che un giorno quei messaggi passeranno da grigio a blu», ha affermato in un’intervista a Israel Hayom. «Li leggerà».
Ogni sera Roni, che ora ha quasi quattro anni, si affaccia alla finestra per dare la buona notte al padre. Alma, due anni, ha iniziato a gattonare e poi a camminare senza il padre. «Quando lo vede nelle fotografie, dice ‘papà’», ha raccontato la madre.
Nella famiglia Miran nessuno ha smesso di lottare. Dani, 80 anni, ha lasciato la sua casa nel nord del paese e si è trasferito a Tel Aviv per essere vicino alla Piazza degli ostaggi e manifestare per la liberazione di tutti i rapiti. Una volta a settimana cucina per gli altri parenti che con lui fanno parte del Forum delle famiglie degli ostaggi. «Cucinare è il mio modo di dare amore, di sopportare il nero che mi circonda».
Nel giorno del secondo compleanno passato in prigionia da Omri – ora 48enne – , Roni e Alma hanno inviato un videomessaggio al presidente americano: «Trump, riportaci il nostro papà». La paura dei Miran è di essere abbandonati dal loro governo. «Purtroppo, la sensazione è che la questione sia stata accantonata dall’agenda politica dell’esecutivo», ha commentato Dani in un’intervista al Times of Israel. «Il governo continua a dire che fa la volontà del popolo, ma io rispondo: la volontà del popolo è il ritorno immediato di tutti i rapiti».
In una lettera aperta pubblicata dai media israeliani nel gennaio 2024, Lishay si rivolgeva al marito e agli altri ostaggi: «Sappiate che mentre alcuni tacciono e altri odiano, molti altri gridano forte e sono pieni d’amore. Non siete soli, non siamo soli». Poi immaginando di parlare a Omri: «Ci sono momenti in cui immagino di attraversare Gaza, stringendo Roni e Alma, marciando e guardando negli occhi i tuoi rapitori come abbiamo fatto a Nahal Oz. In quel sogno ad occhi aperti, ti riporto a casa con noi. Ma la realtà è più cupa, più complessa. L’amore e l’umanità, per quanto ci definiscano, non sempre trionfano. Continuo a sperare che potremo abbracciarti di nuovo, che Roni correrà da te proprio come ha cercato di fare quel 7 ottobre, e questa volta non la tratterrò. E Alma la seguirà». d.r.
(moked, 18 aprile 2025)
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Israele, riapre il percorso fluviale con il carro armato della Guerra dei Sei Giorni
di Jacqueline Sermoneta
Dopo oltre un anno e mezzo, riapre al pubblico il percorso naturalistico lungo il fiume Banias, nel quale, ancora oggi, si trova un carro armato siriano T-34 capovolto, risalente alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.
Questo sentiero, considerato uno dei luoghi più spettacolari del nord d’Israele, costeggia il fiume Banias (noto anche come fiume Hermon) in mezzo a una fitta e ombreggiata foresta, che lo rende adatto alle escursioni in gran parte dell’anno. Le acque cristalline del fiume scorrono attraverso una rigogliosa vegetazione ripariale e si raccolgono in piccoli laghetti turchesi. Il sentiero inizia nella parte più selvaggia del Banias, dove il torrente procede impetuoso tra imponenti platani orientali, per poi diventare più calmo e ampio man mano che prosegue. Il percorso è lungo circa 4 chilometri, inizia dal Kibbutz Snir e termina a Sha’ar Yashuv.
“Negli ultimi mesi, dalla riapertura della riserva, abbiamo lavorato duramente per riqualificare il percorso, che era rimasto chiuso durante l’ultimo anno e mezzo a causa della guerra. – ha detto Ofer Shenhar, direttore della Riserva naturale di Banias – Oggi è di nuovo aperto agli escursionisti. Il sentiero è stato ripulito, gli alberi caduti sono stati rimossi, i gradini sono stati ricostruiti e sono state implementate ulteriori misure di sicurezza”.
Il carro armato T-34 partecipò all’invasione di un battaglione siriano, accompagnato da truppe corazzate, il secondo giorno della Guerra dei Sei Giorni del 1967. A causa di un errore dell’intelligence israeliana, il kibbutz Dan era rimasto senza protezione militare. Tuttavia, la squadra di pronto intervento del kibbutz, insieme ad altri membri, riuscì a respingere l’attacco siriano. Durante la ritirata, uno dei carri armati cadde nel fiume e si rovesciò. Ed oggi è ancora lì, silenzioso testimone della storia.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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L’ambasciatore USA Huckabee depone al Kotel un messaggio di Trump per la pace
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Mike Huckabee, ambasciatore degli Stati Uniti in Israele
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“Per la pace in Israele – Donald Trump”. È questo il messaggio che l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Mike Huckabee, ha deposto questa mattina al Muro Occidentale, consegnando personalmente una nota scritta a mano dal presidente Donald Trump.
Huckabee, ex governatore dell’Arkansas e figura storicamente vicina a Trump, si è raccolto in preghiera di fronte al Kotel, inserendo tra le antiche pietre diversi biglietti. Parlando ai giornalisti subito dopo, ha raccontato: “Il presidente Trump mi ha consegnato questo messaggio giovedì scorso, scritto di suo pugno. Mi ha chiesto di venire qui a pregare e di deporlo nel Muro a suo nome e a nome del popolo americano. È per me un grande onore”.
Secondo quanto riferito da Huckabee, Trump gli avrebbe chiesto anche di pregare per la liberazione degli ostaggi ancora detenuti dai gruppi terroristici palestinesi. “Mi ha detto: ‘Prega affinché tutti gli ostaggi possano tornare presto a casa’. Non riesco a immaginare un momento più significativo per portare un messaggio di speranza e di pace,” ha aggiunto.
“È stato il primo presidente americano a visitare il Muro Occidentale, ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan e ha trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme. Ha sempre mostrato un amore sincero per il popolo ebraico e per lo Stato di Israele”, ha proseguito Huckabee ricordando l’impegno dimostrato da Trump nei confronti dello Stato ebraico durante il suo primo mandato.
Ad accoglierlo al Muro c’era il rabbino del Kotel, Rav Shmuel Rabinowitz, che ha espresso profonda gratitudine per il gesto. Le parole non bastano per descrivere l’emozione provata dai cittadini israeliani e da tutto il mondo ebraico sapendo che, appena atterrato, lei è venuto qui per pregare e deporre una nota a nome del presidente degli Stati Uniti – uno dei più grandi amici di Israele. In questi giorni di guerra, dolore e incertezza, i vostri gesti di amicizia, fede e sostegno infondono forza e speranza al nostro popolo”, ha dichiarato alla stampa.
“Sono qui anche per unirmi al presidente nella preghiera per la pace di Yerushalayim. Non solo per questa festività di Pesach, ma per l’eternità” ha concluso l’ambasciatore Huckabee.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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Taboonia: il ristorante kosher a New York che trasforma il lutto in speranza
di Marina Gersony
Il 7 ottobre 2023, il giorno dell’orrore. Un giorno iniziato con la musica e il sole del deserto e poi finito nel sangue e nel silenzio. Doveva essere una celebrazione della vita il Nova Festival, una danza sotto le stelle del Negev. Ma per centinaia di giovani, è diventato un massacro. Le immagini di quel giorno hanno fatto il giro del mondo, ma dietro ai numeri e alle notizie, ci sono vite spezzate. E alcune, miracolosamente, sopravvissute.
Tra quelle vite c’è quella di Raif Rashed, ingegnere druso di 40 anni, con il cuore diviso tra il suo villaggio natale di Isfiya, sul Monte Carmelo, nel nord di Israele, e la sua nuova vita negli Stati Uniti. Raif quel giorno maledetto non era lì per ballare, ma per aiutare il fratello, Radda, che gestiva uno stand gastronomico: “Taboonia”, un omaggio al forno di pietra (taboon) usato dalle madri druse per cuocere la tradizionale pita. Era una festa. Fino a che non è arrivato l’inferno.
Sul sito Jewish News viene raccontata la storia di questo sopravvissuto che ha assistito alla tragedia con i propri occhi. Raif ha visto morire Erick Peretz, suo amico, mentre tentava disperatamente di proteggere la figlia Ruth, sedici anni, affetta da paralisi cerebrale. Hanno cercato riparo dietro un’ambulanza, che è stata poi data alle fiamme. I loro corpi sono stati trovati giorni dopo. «L’ho visto morire davanti ai miei occhi. Non ho potuto fare nulla», dirà poi Raif. Il senso di colpa non lo ha più abbandonato, ma nemmeno la determinazione a fare in modo che la sua vita avesse un nuovo senso, un obiettivo, un motivo per andare avanti.
Dopo l’attacco, il suo passaporto fu rubato. Bloccato in Israele per mesi, Raif vagava tra i ricordi e il dolore. Ma c’era una cosa che lo calmava, che lo aiutava a placare l’ansia: cucinare. Riprendere in mano le ricette della madre, i profumi dell’infanzia, le mani nella farina. Pane, za’atar, olio d’oliva. In un mondo che sembrava in frantumi, il cibo diventava memoria, rifugio, ricostruzione.
Tornato negli Stati Uniti, Raif abbandonò l’ingegneria. Scelse di dare voce a qualcosa di più profondo. Ricominciò da un piccolo banchetto in un mercato del New Jersey. Poi nell’Upper West Side, a Manhattan. Il nome? Sempre lo stesso: Taboonia. Ma ora aveva un nuovo significato. Non era più solo uno stand gastronomico: era un monumento vivente a chi non c’era più, un luogo dove il dolore si trasformava in comunità, e il lutto in sapore.
La comunità rispose. Gente da ogni parte della città si fermava non solo per il manakish croccante, pizzette diffuse nella cucina mediorientale, o il labneh speziato, ma per ascoltare. Perché Raif non serviva solo cibo: raccontava. Di sua madre che impastava all’alba. Di Ruth, la ragazza dai grandi occhi, che amava la musica anche se non poteva danzare. Di Erick, che le teneva la mano. Raccontava del 7 ottobre. Ma parlava anche dei giorni a venire. I giorni in cui si decideva di vivere ancora.
Lì, in mezzo ai tavoli di legno e ai profumi del Levante, è nato un sogno più grande. Raif ha incontrato Ray Radwan, anche lui druso, cresciuto nel New Jersey ma con le stesse radici di pietra e vento. Insieme, hanno deciso di aprire un vero ristorante, nel cuore di New York. «Non sarà solo cibo. Sarà un ponte», dice Raif. Un ponte tra culture, tra dolore e rinascita, tra Israele e America, tra le generazioni.
Taboonia è oggi il primo ristorante druso di New York con la certificazione kosher. Una scelta coraggiosa e significativa. Raif lo spiega con semplicità disarmante: «È un modo per rispettare. Per accogliere. Per dire che qui c’è posto per tutti»
Chi entra nel suo ristorante, spesso si ferma a leggere le piccole dediche scritte sui tovaglioli appesi alle pareti: «Per Ruth, che amava le stelle»; «Per Erick, che non ha mai lasciato la mano di sua figlia»; «Per la musica che un giorno tornerà a suonare». C’è anche una frase, scritta da una giovane sopravvissuta che ha visitato il locale: «Il dolore ci ha legati, ma è l’amore che ci tiene vivi».
Taboonia è diventato un simbolo. Della forza che nasce dalla fragilità. Dell’identità che si rinnova. Della memoria che, invece di chiudere, apre. È il racconto di un uomo che ha scelto di rispondere alla morte con il pane. Alla violenza, con l’olio e il za’atar. Alla perdita, con una tavola imbandita.
E in un mondo dove le notizie appaiono e scompaiono come lampi che anticipano i temporali, dove le tragedie si accavallano una sull’altra, Taboonia ci ricorda che ogni piatto può essere una preghiera. Ogni morso, un ricordo. Ogni tavola, un altare della vita. Raif non è un eroe. Ma ha compiuto un miracolo: ha trasformato il lutto in sapore, e il sapore in speranza. Perché la speranza, nell’ebraismo, non è un semplice concetto, ma un respiro vitale che attraversa ogni fibra dell’anima. È la Tikvà, che racchiude il significato di “attesa fiduciosa” o “speranza”. Non un ottimismo effimero, superficiale, fine a se stesso. Ma un atto profondo di fede. Una fede incrollabile in un futuro migliore, in un mondo che, nonostante le sue ferite, un giorno si risolleverà, ritrovando la sua pienezza e bellezza.
(Bet Magazine Mosaico, 18 aprile 2025)
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Centinaia di comandanti di Hezbollah invitati a fuggire dal Libano
Notizie provenienti dall'Arabia Saudita indicano che il gruppo terroristico ha ordinato ai propri comandanti di trasferirsi in Sud America.
Secondo un rapporto pubblicato mercoledì, circa 400 comandanti di Hezbollah hanno ricevuto l'ordine di lasciare il Libano per diversi paesi sudamericani, tra cui Brasile, Colombia, Venezuela ed Ecuador.
Una fonte diplomatica latinoamericana ha riferito al quotidiano saudita Al Hadath che 200 comandanti sono già arrivati in Sud America e che gli altri lasceranno il Libano a tempo debito.
Hezbollah avrebbe dato l'ordine perché teme che i comandanti possano diventare bersagli se l'infrastruttura militare dell'organizzazione venisse smantellata dal governo libanese e dall'esercito, secondo la fonte.
Vale la pena notare che Hezbollah dispone già di una rete terroristica consolidata in Sud America e mantiene un contingente di decine di migliaia di terroristi in Libano.
Martedì, il presidente libanese Joseph Aoun ha dichiarato che il 2025 segnerà il passaggio al monopolio statale delle armi. Ha assicurato che il disarmo di Hezbollah sarà ottenuto “attraverso il dialogo” e ha sottolineato i suoi sforzi per evitare una guerra civile. Secondo Aoun, la comunicazione con l'organizzazione è “buona e diretta” e “i risultati sono visibili sul campo”.
Ha anche sottolineato che l'esercito libanese sta chiudendo i tunnel e sequestrando e distruggendo i depositi di armi di Hezbollah. Aoun ha inoltre affermato che, a suo avviso, l'integrazione di Hezbollah nell'esercito libanese dovrebbe seguire il modello delle milizie degli anni '90, in cui i singoli membri sono stati integrati separatamente.
Mahmoud Qamati, un alto rappresentante di Hezbollah, ha risposto in un discorso alla richiesta del governo di disarmare l'organizzazione terroristica.
“Noi restiamo fedeli alle nostre armi, restiamo fedeli alla nostra resistenza”, ha affermato Qamati, riferendosi a una dichiarazione del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ucciso: ‘Chiunque alzi la mano sulle nostre armi, la sua mano sarà tagliata’.
(da Israel Hayom)
(Israel Heute, 18 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Germania – Condannato giovane palestinese per aggressione a studente israeliano
Uno studente palestinese identificato come Mustafa A. è stato condannato a tre anni di carcere in Germania per un pestaggio motivato da antisemitismo nei confronti di un altro studente, il 30enne Lahav Shapira, israeliano, aggredito nel febbraio del 2024 all’esterno di un caffè di Berlino. Da settimane stava ricevendo minacce in rete per via del suo attivismo pro-Israele e per le sue campagne per gli ostaggi, ha raccontato in tribunale.
«Secondo l’atto d’accusa, A. avrebbe improvvisamente colpito con un pugno in faccia il suo compagno di studi e in seguito gli avrebbe dato un calcio», riferisce tra gli altri il quotidiano Der Spiegel. «Shapira ha riportato una frattura complessa del medio-viso e un’emorragia cerebrale e ha dovuto essere ricoverato in ospedale». L’imputato ha ammesso la violenza, smentendo però che fosse dettata da antisemitismo. Ricostruzione non ritenuta veritiera in sede di giudizio, un giudizio che sta avendo risonanza mediatica non solo in Germania, anche per la storia familiare di Shapira. Il giovane aggredito a Berlino è nipote di Amitzur Shapira, il capo allenatore della squadra israeliana di atletica alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Come altri dieci connazionali, suo nonno fu trucidato dai terroristi palestinesi entrati nel villaggio olimpico per bagnare di sangue quei Giochi.
(moked, 18 aprile 2025)
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L’ultima sinagoga della Georgia sopravvive grazie a un ragazzo di 23 anni
di Luca Spizzichino
Nel sud-ovest della Georgia, a pochi chilometri dal confine con la Turchia, si trova una delle sinagoghe più antiche d’Europa. È l’ultima testimonianza tangibile di una comunità ebraica un tempo vivace e numerosa, oggi ridotta a un solo custode: Beniamin Levishvili, 23 anni, gabbai della sinagoga di Akhaltsikhe.
“Resto perché, se non lo faccio io, chi lo farà?” racconta Beniamin al Times of Israel. Divide il suo tempo tra Israele e la Georgia, ma durante la stagione turistica torna sempre ad Akhaltsikhe, dove guida gruppi di visitatori israeliani e si occupa della sinagoga. La sua dedizione nasce da una lunga tradizione familiare: suo nonno Ioseb fu una figura chiave nella difesa del patrimonio culturale e religioso ebraico durante l’epoca stalinista, quando le sinagoghe venivano confiscate e riconvertite. Negli anni d’oro, la comunità ebraica locale contava quasi tremila membri e due sinagoghe. Ma con le ondate migratorie verso Israele negli anni Settanta e Novanta, alimentate dal desiderio di sfuggire alla repressione sovietica, la comunità si è progressivamente svuotata. Una delle due sinagoghe è oggi in rovina. L’altra, quella custodita da Beniamin, è ancora attiva.
La data di costruzione della sinagoga è ancora dibattuta. Un’incisione sulla facciata riporta l’anno 1863, ma secondo la storica locale Tsira Meskhishvili potrebbe essere stata eretta già nel XVIII secolo, forse intorno al 1740. Le sue ricerche, basate su diari di viaggio e sull’analisi dello sviluppo economico della comunità ebraica sotto l’Impero Ottomano, suggeriscono che gli ebrei locali non pregassero in rifugi di fortuna, bensì in strutture stabili e ben progettate. Una tesi opposta è sostenuta dall’architetto israeliano Daniel Moshe, che visitò la sinagoga nel 1995 e attribuisce la sua costruzione alla seconda metà dell’Ottocento, dopo l’annessione russa della Georgia, forse su iniziativa di ebrei ashkenaziti. A rafforzare questa ipotesi sono le caratteristiche architettoniche dell’edificio.
Nonostante le incertezze cronologiche, l’edificio è diventato meta di pellegrinaggio per molti visitatori. All’interno si trovano rotoli della Torah provenienti dall’Unione Sovietica e persino una, del XVI secolo, proveniente dall’Iraq, custodita dietro l’Aron HaKodesh, l’Arca Santa. “Quando la mostro ai visitatori, spesso si commuovono fino alle lacrime” confida Levishvili.
Fino agli anni ’70, la Georgia ospitava una delle comunità ebraiche più antiche del mondo, con circa 60.000 membri. Oggi ne restano meno di 1.500. La loro storia è unica: molti provenivano da Turchia, Iran e Marocco, seguendo tradizioni sefardite e sviluppando una lingua propria, il giudeo-georgiano, un dialetto aramaico ormai in via d’estinzione.
David Boterashvili, 64 anni, cresciuto a Rabati, dove si trova la sinagoga, ricorda: “Non ci consideravamo solo ebrei georgiani, ma ebrei di Rabati. C’era una differenza, interna ed esterna”. La rivoluzione bolscevica portò deportazioni e un’economia collettivizzata. Un documento del 1931 conservato alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme celebra il successo delle fattorie collettive ebraiche ad Akhaltsikhe, testimoniando un passato di resilienza e ingegno. La georgianizzazione degli ebrei — riflessa nei cognomi, nella lingua e nella partecipazione alla vita nazionale — ha rafforzato il legame con il paese. Eppure, oggi, la diaspora ha lasciato un vuoto profondo. In Israele, piccoli gruppi mantengono viva la tradizione giudeo-georgiana ad Ashdod e Haifa, ma le nuove generazioni hanno ormai perso quasi ogni legame con le radici georgiane. “Perdita. Esiste una sola parola per descrivere tutto questo” afferma la storica Thea Gomelauri.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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Wsj: Hamas a corto di denaro non riesce a pagare combattenti
Uno dei fattori chiave delle difficoltà economiche è la riduzione degli aiuti umanitari, una parte dei quali – sottratta da Hamas – veniva rivenduta per finanziare l’organizzazione
Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, rilanciata anche da media israeliani, Hamas sta affrontando gravi difficoltà finanziarie nella Striscia di Gaza, al punto da non riuscire più a pagare regolarmente i propri combattenti. Fonti arabe, israeliane e occidentali citate dal quotidiano spiegano che uno dei fattori chiave è la riduzione degli aiuti umanitari, una parte dei quali – sottratta dall’organizzazione – veniva rivenduta per finanziare l’organizzazione.
Israele avrebbe inoltre colpito figure cruciali nella distribuzione del denaro, mentre altri quadri sono stati costretti alla clandestinità. I dipendenti dell’amministrazione a Gaza non riceverebbero più lo stipendio, mentre i leader e gli agenti di grado superiore avrebbero incassato solo la metà durante il Ramadan. Ai combattenti semplici andrebbero tra i 200 e i 300 dollari al mese. Secondo fonti israeliane e occidentali, questa crisi di liquidità era in corso già prima del cessate il fuoco e dell’accordo sugli ostaggi entrato in vigore a gennaio.
Intanto, la sera del 16 aprile sono scoppiate proteste nella Striscia di Gaza, con centinaia di residenti di Beit Lahia che chiedevano la fine del governo di Hamas e della guerra in corso, scandendo slogan come “sì all’unità, no al terrore” e “vogliamo vivere in pace”.
Hamas ha accusato Israele, che dal 2 marzo blocca l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, di usare “la carestia come arma”. Le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz, che ieri ha escluso la possibilità di consentire nuovamente l’ingresso degli aiuti a Gaza, sono “una nuova ammissione pubblica di un crimine di guerra”, ha affermato Hamas in una nota.
(Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2025)
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La perdita di territorio fa più male a Hamas che le vite umane
Hamas può glorificare i morti, ma la perdita di territorio è considerata un segno visibile di debolezza e sconfitta.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nonostante mesi di combattimenti e massicci attacchi aerei, il bilancio terroristico di Hamas rimane contrastante. Solo circa un quarto del vasto sistema di tunnel è stato finora distrutto; si stima che sotto la Striscia di Gaza ci siano ancora circa 500 chilometri di tunnel intatti. Queste strutture sotterranee fungono da rifugi, depositi di armi e centri operativi per Hamas, rappresentando così un problema strategico fondamentale per l'esercito israeliano.
Anche nei negoziati per il rilascio degli ostaggi, trattenuti nella Striscia di Gaza dall'attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele è in una fase di stallo. Secondo alti ufficiali ed esperti di sicurezza, la ragione principale è la disunione politica all'interno del gabinetto di sicurezza israeliano. Sebbene l'esercito controlli ormai circa il 40% della Striscia di Gaza, si tratta per lo più di terreno vuoto, senza scontri significativi con i circa 20.000 terroristi di Hamas che si sono trincerati nei tunnel.
Hamas non solo ha resistito ai massicci bombardamenti, ma durante le pause dei combattimenti ha persino ricostruito parti del sistema di tunnel distrutto. Alti ufficiali israeliani hanno dichiarato ai media che i danni sono stati “rapidamente riparati”. La vera sfida, a quanto pare, inizia solo ora.
L'offensiva terrestre israeliana è ora entrata in una nuova fase, passando da operazioni temporanee al controllo a lungo termine del territorio. L'obiettivo è quello di esercitare la massima pressione militare e psicologica su Hamas attraverso l'accerchiamento, il blocco degli aiuti umanitari e la speranza di costringere così l'organizzazione al tavolo dei negoziati.
Un passo importante è stato compiuto nel sud. Le forze armate israeliane hanno preso il controllo del cosiddetto corridoio di Morag, un corridoio strategico tra Khan Yunis e Rafah, la cui conquista dovrebbe chiudere l'accerchiamento di Rafah. Anche nel nord l'offensiva avanza: le truppe israeliane sono avanzate nel quartiere di Daraj Tuffah, che fa parte della cintura esterna della città di Gaza. Questo nuovo status territoriale dovrebbe garantire a Israele una posizione di forza nei futuri negoziati.
Il controllo territoriale colpisce Hamas più delle perdite umane. Ciò che fa particolarmente male ai movimenti islamisti come Hamas, più delle perdite elevate tra le proprie fila, è la perdita di territorio. Nella visione ideologica di tali organizzazioni, la terra non è solo uno spazio geografico, ma un bene sacro che non può mai essere ceduto. Il termine “waqf”, una fondazione islamica che deve rimanere musulmana per sempre, è centrale nella loro identità. Pertanto, ogni appropriazione di terra da parte di Israele, sia essa militare o politica, è percepita come un colpo particolarmente duro.
Mentre anche migliaia di morti possono spesso essere glorificati come martiri e utilizzati a fini propagandistici agli occhi di Hamas, l'espropriazione della terra – in particolare attraverso una presenza militare permanente e il controllo amministrativo – è un tabù ideologico. A Hamas non importa se nella Striscia di Gaza si contano decine o centinaia di migliaia di palestinesi morti: ciò che davvero la infastidisce è la perdita di terra. È proprio qui che entra in gioco la nuova strategia israeliana.
L'esercito israeliano sta spostando la sua attenzione dalle operazioni puntuali, che non portano a cambiamenti duraturi, all'occupazione permanente di corridoi strategici e quartieri cittadini. Non si tratta più solo di distruggere le infrastrutture del terrorismo o di eliminare i combattenti. Si tratta di creare realtà territoriali, zone controllate che non sono più a disposizione di Hamas.
Questo approccio colpisce duramente Hamas, non solo perché limita la sua libertà di movimento militare, ma anche perché mina le sue fondamenta ideologiche: la visione di una “lotta di liberazione palestinese” totale su ogni centimetro di terra tra il Mediterraneo e il Giordano.
Per quanto riguarda gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, la pressione politica interna e internazionale sul governo israeliano cresce. Alla vigilia della festa di Pesach, il capo di Stato maggiore Eyal Zamir ha sottolineato davanti ai soldati dell'unità d'élite Nahal: “Il ritorno degli ostaggi è la nostra missione principale: tutto ciò che facciamo nella Striscia di Gaza è finalizzato a questo obiettivo e allo smantellamento di Hamas. Il nostro compito è liberare gli ostaggi”. Queste parole non erano rivolte solo alle truppe, ma anche alla leadership politica di Gerusalemme: un messaggio inequivocabile in un contesto di crescente impazienza dell'opinione pubblica.
La nuova linea di Israele: restiamo e controlliamo ciò che abbiamo conquistato. Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato nei giorni scorsi che “centinaia di migliaia di abitanti sono già stati evacuati e ampie zone della Striscia di Gaza sono state dichiarate zona di sicurezza israeliana. L'obiettivo è costringere Hamas a concessioni massime nell'ambito di un accordo sugli ostaggi. Più Hamas blocca qualsiasi negoziazione, più saremo determinati ad agire contro Hamas”, ha affermato Katz. Ma spesso queste rimangono parole vuote.
La nuova dottrina militare prevede che ogni avanzata terrestre sia preparata da massicci attacchi aerei, terrestri e marittimi, supportati da unità di genieri e armi di precisione per disinnescare ordigni esplosivi, distruggere le infrastrutture nemiche e ridurre al minimo i rischi per le truppe israeliane. La differenza fondamentale è che questa volta non si tratta solo di entrare, ma di restare.
L'esercito israeliano ha capito che se le perdite militari non sono sufficienti a far cedere Hamas, la pressione territoriale costante, unita a una presenza duratura, potrebbe essere la chiave per costringere l'organizzazione alla resa o almeno a negoziati seri. La strategia di Israele non mira solo a distruggere Hamas come potenza militare, ma anche a erodere la sua legittimità ideologica. In un Medio Oriente in cui la narrativa è efficace quanto i missili, la perdita di territorio è un trauma che non può essere facilmente trasformato in propaganda.
(Israel Heute, 17 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L'opposizione israeliana critica Netanyahu per il suo presunto rifiuto di attaccare l'Iran
I leader dell'opposizione criticano aspramente il primo ministro dopo le rivelazioni sul blocco di un'operazione contro Teheran da parte di Trump
I leader dell'opposizione israeliana hanno reagito con veemenza alle notizie del New York Times secondo cui il presidente americano Donald Trump avrebbe bloccato un'operazione israeliana contro gli impianti nucleari iraniani. Yair Lapid, leader dell'opposizione, ha affermato su Twitter di aver proposto già lo scorso ottobre di colpire i giacimenti petroliferi iraniani. “Distruggere l'industria petrolifera iraniana farebbe crollare la sua economia e provocherebbe alla fine la caduta del regime. Netanyahu ha avuto paura e ha fermato questa iniziativa”, ha dichiarato.
Da parte sua, Benny Gantz, leader del partito Unione Nazionale, ha insistito sulla necessità di agire contro la minaccia nucleare iraniana. “Israele deve e può eliminare la prospettiva di capacità nucleari iraniane”, ha scritto, aggiungendo che ‘il regime iraniano è esperto in manovre dilatorie. In stretta collaborazione con il nostro grande alleato, gli Stati Uniti, è tempo di cambiare il Medio Oriente’.
Anche l'ex primo ministro Naftali Bennett ha commentato queste rivelazioni, precisando la sua visione di un accordo accettabile con l'Iran. Secondo lui, un accordo di questo tipo dovrebbe includere “lo smantellamento completo e permanente del programma nucleare iraniano”, “la fine di ogni esportazione di terrorismo iraniano” e “il totale arresto dello sviluppo di missili balistici”.
Bennett ha sottolineato che la posizione americana è attualmente favorevole: “Sotto la guida del presidente Trump, gli Stati Uniti hanno acquisito un potere senza precedenti. In questo momento, l'America è forte, mentre il regime e i suoi rappresentanti sono temporaneamente più deboli che mai, quasi indifesi”. ‘Sarebbe un errore storico permettere all'Iran di riorganizzarsi e minacciare nuovamente noi - gli Stati Uniti, Israele e il resto del mondo’, ha concluso.
(i24, 17 aprile 2025)
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Idf: La pressione avvicina Hamas ai negoziati
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Il capo delle forze armate, Eyal Zamir, con alcuni parenti degli ostaggi
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Mentre i combattimenti proseguono nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano mantiene una linea operativa definita: «Avanzare in modo controllato, limitando i rischi per gli ostaggi e creando pressione crescente su Hamas». Secondo fonti militari, citate da Kan e ynet, le Idf hanno colpito oltre 1.200 obiettivi dall’interruzione della tregua a metà marzo, eliminando 350 terroristi palestinesi, tra cui 40 comandanti e dirigenti operativi di Hamas e Jihad islamica.
L’operazione sul terreno si concentra nel sud della Striscia, in particolare lungo il corridoio Morag, tra Rafah e Khan Yunis, e nelle aree strategiche a nord come Shejaiya, Daraj e Tufah. I soldati di Tsahal hanno rafforzato la fascia di sicurezza lungo il confine, che ora si estende su circa il 30% del territorio di Gaza, con l’intento dichiarato di impedire il ritorno operativo di Hamas nelle aree liberate. «Stiamo avanzando con cautela per evitare imboscate e ridurre il rischio per i nostri soldati», ha spiegato una fonte militare a Kan. «Questa pressione costante sta portando Hamas più vicino a un accordo».
L’esercito sottolinea che, senza il vincolo degli ostaggi, una grande offensiva sarebbe già stata lanciata. L’obiettivo attuale è invece danneggiare le capacità operative dei terroristi, indebolirne il controllo sulla popolazione e favorire un ritorno al negoziato, possibilmente nel quadro delineato dal mediatore Usa Steve Witkoff.
Sul piano politico, il ministro della Difesa, Israel Katz, ha ribadito che Israele non consentirà l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia finché non verrà istituito un meccanismo civile indipendente dalla gestione di Hamas. In precedenza Katz aveva ipotizzato l’uso di aziende private per distribuire gli aiuti, una eventualità criticata dai colleghi di coalizione dell’estrema destra. In una nota successiva, Katz ha corretto il tiro: «Nella realtà attuale, nessuno sta per introdurre aiuti umanitari a Gaza, e nessuno li sta preparando. La nostra linea è chiara: stop agli aiuti finché Hamas ne trarrà beneficio».
Le parole di Katz non sono bastate a placare le polemiche. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha definito «un errore storico» la sola ipotesi di ripresa degli aiuti. «Finché i nostri ostaggi muoiono nei tunnel, nessun grammo di cibo deve entrare a Gaza», ha scritto su X. Sulla stessa linea il ministro della Cultura Miki Zohar, che ha definito Hamas «assassini spregevoli» e ha invocato «solo fuoco infernale fino al ritorno dell’ultimo ostaggio». Il Forum delle Famiglie degli Ostaggi ha invece criticato l’approccio del governo, accusandolo di preferire la conquista di territorio al ritorno dei prigionieri: «È ora di smettere con promesse vuote. Non si possono liberare tutti gli ostaggi continuando la guerra: serve un accordo vero, subito», l’appello del Forum.
(moked, 16 aprile 2025)
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Il “campo largo” si unisce solo contro Israele
Un comunicato della CEM
Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano sulla mozione presentata da Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni, ha dichiarato: «Un festival dell’ipocrisia e dell’odio. Leggo con stupore la mozione di quattro importanti leader politici italiani e mi domando: ma dove vivono? Sono mai stati in Israele? Hanno mai parlato con i loro colleghi della sinistra israeliana? Le loro proposte sono lunari, non hanno alcuna attinenza con la realtà sul campo.
Già dire di volere “riconoscere la Palestina quale Stato democratico” dimostra cecità e spietatezza verso i palestinesi dissidenti uccisi o incarcerati da Hamas. Dimenticano le milizie jihadiste armate che continuano a fare attentati contro i civili israeliani. Dimenticano l’incitamento all’odio antiebraico dalle tv e dalle moschee palestinesi. Per loro solo Israele (fino a prova contraria, vittima della jihad islamista) è da condannare. Quella mozione antiebraica rappresenta un vero e proprio festival dell’ipocrisia e dell’odio jihadista contro Israele e gli ebrei».
Anche Daniele Nahum, consigliere comunale di Milano, uscito lo scorso anno dal PD per le posizioni ambigue sul sostegno alle campagne propal, ha scritto sul suo profilo FB: “La mozione sulla Palestina presentata da PD, AVS e M5S non menziona neanche per sbaglio la smilitarizzazione di Hamas e il fatto che l’organizzazione terroristica debba essere espulsa e non debba fare parte del governo di quel territorio. Oltre al passaggio obbligato sugli ostaggi, si sono ‘dimenticati’ quel piccolo problema che l’obiettivo di Hamas è cancellare Israele. Detto questo, si deve arrivare a una soluzione negoziale e il punto della ricostruzione di Gaza con un impegno dei paesi arabi e della comunità internazionale è necessario. Il rilancio di tutto questo, però, avverrà solo ed esclusivamente con l’esclusione di Hamas. Farlo capire al campo largo è un’impresa difficile”.
Ma cosa è scritto nella Mozione? Qui il testo integrale
Si parla di riconoscere “la Palestina come stato democratico”: ma è noto a tutti che non si tengono elezioni né in Cisgiordania né a Gaza dal 2006. E questo perché a Gaza, dopo la vittoria di Hamas, la minoranza di Fatah è stata letteralmente defenestrata dai terroristi islamisti, con oltre 300 morti, e ogni dissidenza è stata soffocata nel sangue. Mentre in Cisgiordania Abu Mazen mantiene il potere senza elezioni perché sa benissimo che le vincerebbe Hamas, con le stesse conseguenze che si sono verificate a Gaza. Quale “Stato democratico di Palestina” vuole quindi riconoscere la Mozione?
Tra le altre cose, si chiede la sospensione della vendita di armi a Israele (cosa peraltro già in atto). Non si chiede all’Iran di smettere di armare Hamas, Hetzbollah o gli Houti. Un Israele disarmato sarebbe cancellato in un secondo dai suoi nemici (che dovrebbero essere anche i nemici dell’Occidente); ma questo non sembra preoccupare affatto Schlein e soci.
Si chiede anche la cessazione degli accordi UE – Israele, di fatto un isolamento politico che non si capisce come possa contribuire alla “pace”, mentre nulla di concreto viene chiesto ai palestinesi.
Insomma, una mozione che dimostra una totale inconsapevolezza della realtà fattuale del Medio Oriente e del conflitto decennale, che ha visto Israele sempre attaccato dai suoi nemici, dal 1948 al 2023. Una dichiarazione ipocrita di “buoni propositi” che lascerà il tempo che trova, ma dimostra purtroppo il livello politico davvero sconsolante di quella che dovrebbe essere “la sinistra italiana”. R.I.
(Bet Magazine Mosaico, 16 aprile 2025)
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Ucciso un terrorista di Hamas coinvolto nel massacro del 7 ottobre
Hamza Asafah, coinvolto nel massacro e nelle cerimonie di liberazione, è stato ucciso due settimane fa in un attacco aereo mirato nel centro della Striscia di Gaza.
di Joshua Marks
Le forze di difesa israeliane e il servizio di sicurezza israeliano (Shin Bet) hanno ucciso il terrorista di Hamas Hamza Wael Muhammad Asafah in un attacco aereo di precisione nel centro della Striscia di Gaza due settimane fa, hanno annunciato le autorità martedì.
Asafah, un membro di alto rango della forza Nukhba nel battaglione Deir al-Balah di Hamas, era entrato in territorio israeliano durante il massacro del 7 ottobre 2023 e aveva poi partecipato a cerimonie di liberazione degli ostaggi, utilizzate da Hamas a fini di propaganda. Secondo le forze armate israeliane, ha partecipato alla “cerimonia di liberazione” degli ostaggi Eli Sharabi, Ohad Ben-Ami e Or Levy.
L'operazione congiunta dell'esercito e dello Shin Bet è stata condotta dopo un'ampia indagine di intelligence e sorveglianza aerea per evitare danni alla popolazione civile.
Come hanno comunicato le forze armate israeliane e lo Shin Bet in un comunicato separato, nella notte di domenica Muhammad al-Ajlah, il comandante del battaglione Shejaiya di Hamas, è stato ucciso in un attacco nel quartiere Shejaiya di Gaza City. Al-Ajlah era succeduto a Haitham Rizq Abd al-Karim Sheikh Khalil, ucciso la scorsa settimana.
Al-Ajlah era stato in precedenza comandante di una compagnia di supporto al combattimento del battaglione Sheichaia e responsabile dell'armamento dei terroristi utilizzati negli attacchi contro civili e soldati israeliani.
È il quinto comandante del battaglione Shejaiya di Hamas ucciso dall'inizio della guerra il 7 ottobre 2023, e il terzo dalla ripresa delle operazioni su più ampia scala nella Striscia di Gaza il 18 marzo 2025.
Le forze armate israeliane hanno dichiarato di aver adottato numerose misure prima dell'attacco per limitare i danni alla popolazione civile, tra cui avvertimenti, uso di munizioni di precisione e sorveglianza aerea.
“L'organizzazione terroristica Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale utilizzando le infrastrutture civili e la popolazione come scudi umani”, si legge nella dichiarazione. ‘Le forze armate israeliane e lo Shin Bet continueranno a operare per proteggere lo Stato di Israele’.
(Israel Heute, 16 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Le Maldive vietano l’ingresso ai cittadini israeliani
di Michelle Zarfati
Il governo delle Maldive, la piccola nazione insulare nell’Oceano Indiano, ha vietato ufficialmente ai cittadini israeliani di entrare nel suo territorio. Il presidente delle Maldive Mohamed Muizzu ha firmato una misura che vieta agli israeliani di entrare nel paese come gesto di “ferma solidarietà con il popolo palestinese”, secondo una dichiarazione ufficiale rilasciata dal suo ufficio stampa.
La decisione è arrivata poco dopo che il parlamento del paese ha approvato la legislazione tra i combattimenti in corso a Gaza e le crescenti critiche alle azioni di Israele. La dichiarazione del presidente ha osservato che: “L’approvazione riflette la ferma posizione del governo in risposta alle atrocità e agli atti di genocidio in corso commessi da Israele contro il popolo palestinese”. Il divieto di ingresso avrà effetto immediato.
Le Maldive sono una nazione insulare musulmana sunnita situata nel Mar Arabico, parte dell’Oceano Indiano, nota per il suo scenario idilliaco di spiagge bianche e acque turchesi limpide. Israele e le Maldive mantennero piene relazioni diplomatiche tra il 1965 e il 1974, quando i legami furono sospesi. Nel 2006, il presidente delle Maldive Mohamed Nasheed ha annunciato piani per rinnovare le relazioni diplomatiche con Israele, ma la forte opposizione da parte dei gruppi politici ha portato alla cancellazione di tale iniziativa.
La mossa del presidente delle Maldive non è una sorpresa, poiché già nell’ottobre 2024 Muizzu aveva già scritto su X un commento fortemente critico nei confronti dello Stato ebraico: “Israele deve essere ritenuto responsabile dei suoi atti illegali a Gaza. Lo stato di diritto deve essere sostenuto e Israele deve cessare i suoi atti genocidi contro il popolo palestinese” scriveva Muizzu.
A giugno, il governo delle Maldive aveva infatti annunciato un piano per vietare agli israeliani di entrare nel paese, ma la legge è entrata in vigore solo martedì. Fino all’inizio del recente conflitto, le Maldive erano una destinazione turistica popolare per gli israeliani, con quasi 11.000 visitatori solo nel 2023. Anche dopo l’annuncio del governo a giugno, gli israeliani hanno continuato a viaggiare nell’isola nonostante gli avvertimenti del Ministero degli Esteri israeliano che, nel corso della giornata di martedì, ha sconsigliato ai propri cittadini di visitare l’arcipelago d’ora in poi.
(Shalom, 16 aprile 2025)
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Un jet dell'IDF sgancia accidentalmente una bomba vicino a un kibbutz
Un caccia israeliano diretto verso la Striscia di Gaza ha inavvertitamente sganciato una delle sue bombe su un campo aperto vicino al kibbutz Nir Yitzhak, nel Negev nordoccidentale, martedì sera.
La bomba è esplosa, ma non ci sono state vittime né danni, poiché è caduta in una zona agricola disabitata.
“Poco tempo fa, le munizioni sganciate da un caccia durante un attacco nella Striscia di Gaza sono cadute in un'area aperta nella zona di Nir Yitzhak a causa di un malfunzionamento tecnico”, secondo il portavoce dell'IDF.
I membri del kibbutz hanno sentito l'esplosione, ma inizialmente hanno pensato che fosse il lancio di un intercettore Iron Dome.
“Il kibbutz è in costante contatto con i funzionari militari e si aspetta un'indagine approfondita sulle circostanze dell'incidente”, secondo una dichiarazione rilasciata dalla comunità.
Martedì, Nir Yitzhak ha organizzato una giornata aperta alle famiglie interessate a vivere lì. I terroristi hanno attaccato direttamente il kibbutz il 7 ottobre 2023, uccidendo otto persone e prendendone sei in ostaggio, oltre a due corpi.
Il kibbutz, che è stato gravemente danneggiato durante l'attacco, da allora si sta impegnando per riprendersi sia fisicamente che in termini di comunità, e sta aprendo le porte a nuove famiglie.
Il Consiglio regionale di Eshkol, che copre un'area tra Ashkelon e Beersheva, ha definito l'attentato “un incidente molto insolito” e ha osservato che è sotto inchiesta da parte dell'aeronautica israeliana. “Siamo in contatto diretto con i funzionari militari e ci aspettiamo un'indagine approfondita sul caso e l'attuazione delle conclusioni al riguardo, al fine di garantire che tali incidenti non si ripetano in futuro”, ha detto.
L'incidente non è stato il primo del suo genere durante l'attuale guerra, secondo Ynet.
Nel giugno 2024, un proiettile di carro armato ha deviato la rotta ed è atterrato vicino alla recinzione di confine, secondo l'agenzia.
Nel maggio 2024, una bomba da 500 kg caduta da un F-15 dell'IAF è stata trovata tra le case di Moshav Yated, sempre nella regione di Eshkol. L'IDF ha definito il malfunzionamento “insolito, raro, grave e pericoloso”.
Tuttavia, tali incidenti sono ancora estremamente rari.
(JNS, 16 aprile 2025)
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Roma – Il dissidente gazawi alla Sapienza: Ascoltate la mia storia
Hamza Howidy è un dissidente palestinese nato e cresciuto a Gaza, che ha lasciato nell’estate del 2023 dopo aver conosciuto sulla propria pelle la violenza di Hamas. Due volte incarcerato per via della sua militanza nel movimento Bidna N’eesh (“Vogliamo vivere”), di cui è uno dei leader, dal 7 ottobre porta la propria testimonianza dove c’è disponibilità all’ascolto. Ieri l’ha fatto all’Università La Sapienza di Roma, mentre nel pomeriggio sarà al Senato della Repubblica.
L’evento ruotava attorno all’interrogativo “Quale futuro per Gaza?”: accanto al dissidente, al tavolo dei relatori sedevano la direttrice di Radio Radicale Giovanna Reanda, il direttore dell’Europeista Piercamillo Falasca, la docente di Storia contemporanea dell’ateneo Alessandra Tarquini, l’autrice di 7 Ottobre 2023 Israele, il giorno più lungo Sharon Nizza e lo studente Filippo Rigonat, che ha aperto l’incontro. Secondo Rigonat, c’è necessità di parlare del conflitto a Gaza lontano dalle «troppe sovrastrutture, ideologicizzate e lontane dalla realtà» di una certa propaganda oggi prevalente in ambito universitario.
Howidy, classe 1997, ha esposto la sua storia e risposto a molte domande. Iniziando dai fatti di cui fu testimone ragazzino con la guerra civile del 2007 per il controllo di Gaza tra Hamas e Fatah: «Sono successe cose orribili: persone gettate dai tetti, persone trascinate per le strade; una situazione che non capivo, abituato a pensare a un solo conflitto: quello tra israeliani e palestinesi». Da quando Hamas ha preso il potere nelle settimane successive, ha proseguito Howidy, «la società gazava è diventata sempre più autocratica ed estremista e io stesso ero incentivato ad andare in quella direzione; per fortuna la mia famiglia, di tendenze liberali, cercava di portarmi nell’altra». In ogni caso «ero un giovane che cercava di fare la propria vita, non ero coinvolto nel conflitto».
La svolta sarebbe arrivata negli anni universitari. «Ho frequentato l’università islamica, la stessa in cui hanno studiato i leader di Hamas, non c’era molta altra scelta», precisa l’attivista. Dopo la laurea, ottenuta nel 2019, «ho iniziato a capire che per avere certi lavori, specie nel settore pubblico, se non fai parte di Hamas non c’è possibilità». È stato allora che Howidy ha iniziato ad avvicinarsi a Bidna N’eesh, partecipando a una manifestazione interrotta dai miliziani di Hamas con spari e arresti. Lui stesso è finito in carcere, per la sola “colpa” di avere tra le mani un volantino con scritto “Vogliamo vivere”. In prigione ci è tornato nel giugno del 2023, quando del movimento era diventato uno dei promotori, «subendo un trattamento barbarico, anche perché recidivo». La famiglia ha corrotto dei membri di Hamas e anche questa volta ne è uscito. Rimanendo però sorpreso del fatto che la protesta e la sua repressione da parte del gruppo terroristico non avessero ottenuto di fatto alcuna copertura mediatica. «In quel momento ho deciso di lasciare Gaza, alla ricerca di un futuro diverso in Europa», ha raccontato.
Un mese dopo è arrivato il 7 ottobre, con i suoi orrori e le sue ferite aperte. Howidy ha lanciato un messaggio agli studenti dei cortei anti-israeliani: «Non bisogna guardare a questo conflitto in modo manicheo, la situazione è molto più complicata. È anche importante che la protesta non si allinei con Hamas e, sul fronte filo-israeliano, che non si identifichino tutti i palestinesi come terroristi. Le voci moderate devono avere la possibilità di esprimersi» a.s.
(moked, 16 aprile 2025)
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Palermo – Al via i lavori della sinagoga
Sorgerà nei locali dell'ex Oratorio di Santa Maria del Sabato
Hanno preso il via in queste ore i lavori per la realizzazione di una sinagoga a Palermo nei locali dell’ex Oratorio di Santa Maria del Sabato, concesso in comodato gratuito dall’Arcidiocesi locale nel 2017 agli ebrei palermitani. Lavori coperti per intero dall’amministrazione cittadina e che trasformeranno l’edificio in uno spazio destinato ad accogliere il culto ebraico, come prevede un accordo sottoscritto lo scorso dicembre assieme a Ucei e Comunità di Napoli.
All’apertura del cantiere con la consegna delle chiavi alla ditta incaricata del restauro e del sito sono intervenuti tra gli altri il sindaco Roberto Lagalla, l’arcivescovo Corrado Lorefice, la presidente Ucei Noemi Di Segni, il rabbino capo di Napoli Cesare Moscati e Luciana Pepi, referente della Sezione palermitana della Comunità partenopea. Erano inoltre presenti alcuni esponenti della chiesa valdese, della comunità islamica e di altre confessioni religiose. «Palermo si riappropria di una propria caratteristica storica e millenaria che è quella della convivenza civile, della tolleranza e dell’integrazione», ha dichiarato tra gli altri il primo cittadino.
Non nasconde l’emozione Pepi, che è anche presidente dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici: «È un passaggio importante, in un momento storico difficile su tutti i fronti. Anche il dialogo ebraico-cristiano ha risentito degli effetti del 7 ottobre e noi oggi stiamo lanciando un messaggio di speranza, volto alla ripresa di un confronto costruttivo». Anche l’Istituto troverà casa nella sinagoga «e questo è senz’altro un valore aggiunto».
La sinagoga sorgerà in un’ex oratorio cattolico, ma l’area è comunque quella dell’antico quartiere ebraico. «Lo sappiamo da fonti certe. Come diari e testimonianze di viaggio, a partire da quella redatta dal rabbino Ovadià Bertinoro (1455 – 1516)», spiega Pepi. A detta dell’illustre ospite, che trascorse vari mesi a Palermo in attesa di proseguire verso la Terra d’Israele, «non aveva pari in tutto il mondo; i pilastri di pietra nel cortile esterno sono circondati da vigneti, il vestibolo dispone di tre ingressi e un portico in cui ci sono grandi sedie per il riposo, e una splendida fontana». E se i vigneti forse non torneranno, qualcosa di quel retaggio tornerà a popolare l’orizzonte dei palermitani. Già un saggio del 2021 su “Il risveglio dell’ebraismo Palermo”, pubblicato dalla Rassegna Mensile di Israel, Pepi scriveva che «la sopita e antica anima ebraica della Sicilia sta pian piano riprendendo forma». In un futuro prossimo avrà di nuovo una sinagoga per esprimersi con un potenziale ancora più grande.
(moked, 15 aprile 2025)
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In migliaia partecipano alla Birchat Koanim al Muro Occidentale
di Michelle Zarfati
Decine di migliaia di persone si sono riunite al Muro Occidentale di Gerusalemme questa mattina per partecipare alla preghiera e alla tradizionale cerimonia della Birchat Koanim che annualmente avviene nei giorni di Kol hamoed di Pesach. L’evento ha segnato un’occasione significativa per la riflessione religiosa e nazionale, sullo sfondo del conflitto in corso. La cerimonia ha incluso la partecipazione dei rabbini capo di Israele, il rabbino Kalman Bar e il rabbino David Yosef, insieme a Shmuel Rabinowitz, rabbino del Muro Occidentale. Presenti anche migliaia di Koanim e decine di migliaia di fedeli. L’evento è stato trasmesso in diretta, per gentile concessione della Western Wall Heritage Foundation.
Una cerimonia simile è prevista per mercoledì, con partecipanti molto attesi tra cui ex ostaggi e famiglie di coloro che sono ancora detenuti prigionieri da Hamas, assieme a soldati dell’IDF feriti durante la guerra in corso. Durante la cerimonia, i partecipanti hanno pregato e ricevuto benedizioni due volte – durante le preghiere di Shacharit e Musaf. Alla luce del conflitto in corso e della speranza per il ritorno degli ostaggi, una preghiera speciale seguirà il servizio di Musaf. Ulteriori preghiere saranno dedicate poi per la sicurezza dei soldati IDF, la guarigione dei feriti e per la pace e l’unione tra il popolo di Israele. La cerimonia sarà anche caratterizzata da un evento molto atteso a cui parteciperanno i rabbini capo di Israele. Oltre alle preghiere, i siti del Muro Occidentale saranno aperti al pubblico durante i giorni intermedi di Pesach.
(Shalom, 15 aprile 2025)
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Roma – Museo ebraico Lecce propone due mostre per “Mediterraneo di pace”
Due mostre interculturali per promuovere “un Mediterraneo di pace”. È la proposta del Museo ebraico di Lecce, in trasferta a Roma per inaugurare due esposizioni nella Sala del Cenacolo di Palazzo Montecitorio: “La Puglia crocevia del Mediterraneo – Mobilità di uomini, merci e culture”, curata dal direttore del museo Fabrizio Lelli insieme a Fabrizio Ghio; ed “Errare, perseverare, sopravvivere”, personale dell’artista ebrea americana Lenore Mizrachi-Cohen curata da Fiammetta Martegani. Se nella prima si racconta il fattore della mobilità dei popoli «per la costruzione e la comprensione della Puglia di oggi», nella seconda l’attenzione si sposta sulle opere di questa artista di origine siriana, cresciuta in una famiglia in cui l’arabo è rimasta lingua di formazione e dialogo. Proprio dall’arabo e dalla sua suggestiva calligrafia Mizrachi-Cohen attinge nelle sue opere per affrontare il tema dell’erranza. Un modo per lei per significare «il dolore del suo popolo eternamente sradicato», sottolinea Martegani, antropologa milanese trapiantata a Tel Aviv e curatrice per l’arte contemporanea del museo leccese. Un discorso valido «non soltanto per la Siria dalla quale i suoi genitori scapparono, ma anche per la Puglia che secoli fa cacciò i suoi ebrei e oggi anche per Israele, con il 7 ottobre e gli ostaggi sequestrati a Gaza».
Per il Museo ebraico di Lecce la tappa romana è un appuntamento importante, anche a livello simbolico, a nove anni dall’inaugurazione. Una storia iniziata dalla scoperta casuale di un mikveh, un bagno rituale ebraico, nell’ambito di un’iniziativa edilizia nell’area dell’ex giudecca di Lecce. Si è così scoperto che in quell’edificio sorgeva in passato una sinagoga e proprio qui si è deciso di fondare un museo dedicato al retaggio dell’ebraismo leccese e pugliese. Per Martegani, spiega lei stessa, scoprirlo è stato come un colpo di fulmine.
Tutto è iniziato nel 2021, quando il museo ospitò un suo allestimento dedicato alle vicende dell’aliyah bet: la migrazione degli ebrei scampati alla Shoah verso le coste del nascente Stato d’Israele, con un particolare focus sui campi profughi pugliesi. «In quanto esperta di arte contemporanea, mi offrii di trasformare uno dei due ambienti in una sala per valorizzare alcuni artisti israeliani», spiega Martegani.
Quattro le mostre finora da lei curate. Tra cui il progetto “Shades of Israel”, con dodici artisti protagonisti sul territorio regionale nei primi giorni di ottobre del 2023. Poche ore dopo Hamas avrebbe scatenato il suo massacro e tra le sue conseguenze indirette ci sarebbe stato il crollo del turismo da e per Israele. Il finanziamento erogato da Pugliapromozione AReT, collegato al turismo israeliano verso la Puglia, è oggi sospeso e quindi l’attività in quest’ambito prosegue di fatto «in assenza di contributi, a costo zero». Ciò nonostante, lo scorso 27 gennaio “Errare, perseverare, sopravvivere” è arrivata a Lecce. E da oggi, per una settimana, sarà in Parlamento. a.s.
(moked, 15 aprile 2025)
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IDF: ucciso un terrorista di Hamas coinvolto nel massacro del 7 ottobre
Hamza Asafah, che ha preso parte al massacro e ha inscenato eventi di rilascio, è stato eliminato in un attacco aereo di precisione nel centro di Gaza due settimane fa.
di Joshua Marks
Le Forze di Difesa Israeliane e l'Agenzia di Sicurezza Israeliana (Shin Bet) hanno ucciso il terrorista di Hamas Hamza Wael Muhammad Asafah in un attacco aereo di precisione nel centro di Gaza due settimane fa, hanno dichiarato martedì le agenzie.
Asafah, un membro anziano della Forza Nukhba nel Battaglione Deir al-Balah di Hamas, si era infiltrato in territorio israeliano durante il massacro del 7 ottobre 2023 e successivamente aveva partecipato alle cerimonie di liberazione degli ostaggi utilizzate da Hamas per scopi propagandistici. L'IDF ha dichiarato che era coinvolto nella restituzione degli ostaggi Eli Sharabi, Ohad Ben-Ami e Or Levy.
L'operazione congiunta IDF-Shin Bet è stata condotta dopo un'ampia raccolta di informazioni e una sorveglianza aerea per ridurre al minimo i danni ai civili.
“L'organizzazione terroristica di Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale, utilizzando infrastrutture e popolazioni civili come scudi umani”, si legge nella dichiarazione. “L'IDF e lo Shin Bet continueranno ad operare per proteggere lo Stato di Israele”.
(JNS, 15 aprile 2025)
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Un agente dello Shin Bet arrestato per divulgazione di documenti riservati
L'agente di sicurezza avrebbe trasmesso informazioni sensibili al ministro del Likud e alla stampa.
L'arresto di un riservista dello Shin Bet (Servizio di sicurezza interna israeliano) sospettato di aver divulgato informazioni riservate al ministro Amichaï Shikli e a due giornalisti sta suscitando una forte controversia in Israele. Il ministro della Diaspora ha difeso con forza l'agente in questione, definendolo un “eroe d'Israele” e un “informatore”. “Ha rivelato che, nel bel mezzo della guerra, il capo del Servizio di sicurezza interna stava spiando ossessivamente un ministro in carica”, ha dichiarato Shikli. ‘Ha anche rivelato che gli estratti del rapporto dello Shin Bet sulle circostanze dell'inizio della guerra presentano un'immagine fuorviante e distorta’.
Secondo i dettagli resi pubblici, il Dipartimento di indagine sulla polizia (Machash) ha recentemente aperto un'indagine contro questo riservista, sospettato di aver trasmesso documenti interni al ministro Shikli e ai giornalisti Amit Segal e Shirit Avitan-Cohen. Questi documenti rivelerebbero in particolare che lo Shin Bet avrebbe condotto un'indagine su una possibile “infiltrazione kahanista” all'interno della polizia israeliana. Il ministro ha criticato aspramente il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, e il consigliere legale del governo, Gali Baharav-Miara: “Nessuna delle informazioni divulgate corrisponde alla definizione di materiale segreto o che presenta un rischio per la sicurezza nazionale - al contrario, è la mancata divulgazione di questi documenti ai responsabili politici e al pubblico che costituisce una minaccia”.
Anche altri membri del governo hanno attaccato i responsabili della sicurezza. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha definito il caso un “vero e proprio colpo di stato”, mentre il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha parlato di “criminali che oltrepassano ogni limite”. Gli avvocati dell'indiziato, che avrebbe lavorato “per decenni” per lo Shin Bet, affermano che il loro cliente “ha trasmesso informazioni di capitale importanza pubblica, facendo attenzione a non divulgare informazioni di sicurezza”. Denunciano l'uso di “strumenti draconiani” contro un uomo che ha “collaborato pienamente fin dall'inizio”.
(i24, 15 aprile 2025)
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Come la memoria non vendicativa ha salvato il popolo ebraico dalla sua stessa Storia
Il popolo d’Israele che esce dall’Egitto non cerca vendetta contro i suoi oppressori, ma guarda avanti verso la Terra Promessa. Questa visione è in contrasto con l’ethos dei nostri nemici, adottato dall’Occidente progressista, che si crogiola nel passato e perpetua la schiavitù e la condizione di profugo.
di David Kurtzweil
Il fenomeno della schiavitù è antico quanto l’umanità. Testimonianza di ciò si trova non solo nella Torà, che tratta la schiavitù come una realtà conosciuta e familiare, ma anche nell’antico Oriente. Già nel Codice di Hammurabi, del XVIII secolo a.C., vi sono leggi che regolavano i diritti degli schiavi. 2.300 anni dopo Hammurabi, anche il diritto romano sancì la schiavitù nella legge. Questa legislazione costituì la base per la continuazione della schiavitù anche nel periodo post-classico. L’abolizione della schiavitù è stata una conquista tardiva del mondo moderno, e di fatto nella costituzione americana la schiavitù fu vietata solo a metà del XIX secolo.
Ogni popolo ha la sua storia di schiavitù; per alcuni è una storia di padroni, per altri di servi. La cultura mondiale è piena di storie di schiavi. La maggior parte di esse si è conclusa in tragedia, in alcune il destino degli schiavi è migliorato e hanno ottenuto la libertà. Il famoso libro di Harriet Beecher Stowe, “La capanna dello zio Tom“, che descrive le sofferenze degli schiavi e le torture che hanno subito, fu pubblicato per la prima volta nel 1852, fece scalpore e ottenne subito un’eco straordinaria. Alcuni dubitarono del grado di verità e autenticità delle descrizioni, ritenendo che la stimata scrittrice avesse dato ali alla sua immaginazione creando un dramma dal nulla. Tuttavia, circa un anno dopo la pubblicazione del libro, uscì l’autobiografia dello schiavo liberato Solomon Northup, “12 anni schiavo“, che confermò di prima mano la maggior parte delle descrizioni de “La capanna dello zio Tom”. Tra gli storici americani è comune ancora oggi considerare il libro “12 anni schiavo” un documento attendibile di valore storico.
L’Haggadà di Pesach è anch’essa una storia di schiavitù, la schiavitù del popolo ebraico e la storia della sua liberazione. Anche nella storia della schiavitù ebraica ci sono descrizioni di torture e tirannie dei padroni, e nelle parole dell’Haggadah: “Gli egiziani ci maltrattarono e ci afflissero“. Ispirandosi al libro di Northup, si potrebbe intitolare l’Haggadah anche come “210 anni di schiavitù“. In questo articolo vorrei evidenziare una distinzione che caratterizza la storia della schiavitù ebraica rispetto alle altre storie di schiavitù universali. Grazie a questa distinzione, vorrei illuminare un ulteriore aspetto del significato della notte del Seder e indicare anche un collegamento attuale.
• La scoperta di Colombo
María Magdalena Campos-Pons è un’artista pluripremiata, nata a Cuba ed emigrata negli Stati Uniti. Campos-Pons discende da una famiglia di schiavi neri. Come portatrice di un’eredità familiare di schiavitù, la questione della schiavitù ha trovato un’espressione significativa nelle sue opere. In questi giorni si tiene una mostra dei suoi lavori al museo Paul Getty in California. Per la pubblicità della mostra è stata scelta una delle sue opere più espressive e potenti. Si tratta di un’opera del 2003 intitolata “The Calling“. Quest’opera è un dittico che mostra una donna nera con piccole linee bianche su tutta la pelle e il viso. Queste linee creano l’associazione con una malattia della pelle o forse con ustioni, non nere né rosse ma bianche. L’impressione che emerge da questa immagine è di una critica forte e acuta al ruolo dell’uomo bianco nella vita dei neri. Secondo questa interpretazione, nell’esperienza dell’uomo nero, l’uomo bianco è come una malattia che lo colpisce.
Anche se non era questa l’intenzione dell’artista, queste sono le correnti che oggi soffiano da movimenti come Black Lives Matter. Nella cultura americana contemporanea soffiano venti cattivi che fanno i conti con il difficile passato anche attraverso la violenza, il silenzio e pretese di supremazia della razza nera. La lotta contro il fenomeno storico della schiavitù e la repulsione verso chiunque vi fosse coinvolto trovano sfogo anche nella distruzione e nella demolizione di statue e monumenti di chiunque sia considerato problematico da questi movimenti. In un’atmosfera culturale del genere, era prevedibile che si spolverasse il libro “12 anni schiavo” e lo si trasformasse nel 2013 in un film. Nel 2019 il New York Times ha fatto di più con il “Progetto 1619” (l’anno dell’arrivo dei primi schiavi neri in America), che cerca di fare della schiavitù il cuore dell’esperienza americana. Parallelamente, si sono sentite sempre più richieste da parte dei neri per ricevere un risarcimento per la schiavitù dei loro antenati storici, fino a quando alla Camera dei Rappresentanti americana, sotto il controllo dei Democratici, sono iniziate le procedure per esaminare una proposta di legge per il risarcimento della schiavitù.
Non c’è dubbio che il fenomeno della schiavitù sia spregevole e riprovevole; non c’è dubbio anche che la discriminazione razziale contro l’uomo nero sia un marchio di infamia per la società umana. In effetti, anche ai nostri giorni dobbiamo schierarci fermamente contro ogni manifestazione di razzismo. Tuttavia, la domanda è come dovremmo affrontare nel presente ingiustizie e fenomeni riprovevoli avvenuti nel passato, tenendo presente che sia gli esecutori che le vittime non sono più in vita.
Come detto, nella società americana esistono correnti importanti che scelgono di cancellare ogni traccia storica di chi considerano riprovevole. Così, ad esempio, il “Columbus Day” è una delle festività federali ufficiali negli Stati Uniti. Questa festa, celebrata da molti anni, esalta il giorno della scoperta dell’America nel 1492 da parte di Colombo. Ma ora, nei venti progressisti, tra molti che in passato lo celebravano cresce la tendenza a cancellare questa festa e ogni suo riferimento, trasformandola nel “Giorno dei nativi americani“. La loro idea è che l’arrivo di Colombo ha causato l’uccisione degli indigeni che vivevano già da tempo nel continente. Così, Colombo è diventato agli occhi di molti una persona non grata, e persino la sua statua a Richmond, in Virginia, è stata data alle fiamme e gettata in un lago. Se in passato Colombo ha scoperto l’America, molti americani sentono di aver ora scoperto Colombo.
• Un regolamento di conti senza fine
Se lasciamo l’America e torniamo nel nostro quartiere, i nostri vicini gridano alla “Nakba” fatta ai loro padri quasi ottant’anni fa. Anche se adottassimo per amore della discussione la falsa narrativa araba, si porrebbe comunque loro la stessa domanda nazionale e sociale a cui ogni popolo deve rispondere: come è giusto affrontare nel presente le calamità del passato? I palestinesi hanno sempre agito come i nuovi progressisti. Cercano di congelare per sempre il passato e di farlo dominare sul presente e sul futuro. Ecco perché perpetuano lo status di profughi fino alla fine dei tempi.
Nell’antica Repubblica Romana si verificarono tre guerre di schiavi, la più famosa delle quali è la guerra dei gladiatori guidata da Spartaco. Lo storico Prof. Keith Bradley sostiene nei suoi studi che la motivazione iniziale delle guerre fosse la vendetta. Nel periodo moderno, la rivolta documentata degli schiavi iniziò all’inizio del XVI secolo. Gli schiavi che riuscirono a fuggire dai loro padroni si unirono in comunità chiamate comunità cimarroni. Anche tra le comunità cimarroni ci furono fenomeni di vendetta, non necessariamente diretti contro i diretti responsabili.
Di fronte ai numerosi movimenti sociali negli Stati Uniti che oggi trasformano la storia della schiavitù come un conto aperto con l’uomo bianco, di fronte alle guerre degli schiavi e alle comunità cimarroni che dopo la loro liberazione agirono per vendicarsi, e soprattutto di fronte a fenomeni universali di continue rese dei conti con ingiustizie passate i cui autori non sono più tra noi, e il conto viene fatto con discendenti innocenti – arriva la storia dell’Haggadà di Pesach che propone un’alternativa diversa.
Il popolo ebraico ha sofferto in Egitto una dura schiavitù durata centinaia di anni, e alle sue levatrici fu ordinato di gettare i suoi figli nel Nilo. Nonostante ciò, quando il popolo ebraico esce dall’Egitto, cancella di fatto la storia egiziana come un conto nazionale aperto. Gli schiavi in uscita non perpetuano la loro condizione di profughi. Non sono vittime eterne; sono un popolo vivo con gli occhi rivolti a un futuro luminoso.
Non solo l’Haggadà non chiama a una vendetta eterna contro l’Egitto, ma la Torà impone persino un comandamento sorprendente contrario a ogni intuizione umana, e degno di attenzione: “Non avrai in abominio l’Egiziano, perché sei stato straniero nella sua terra” (Deuteronomio 23, 8). L’Haggadà inoltre non incoraggia la demolizione delle piramidi egiziane, nonostante il loro simbolismo. Agli angeli che volevano cantare quando gli egiziani annegarono nel Mar Rosso, il Santo, benedetto sia, disse: “Le opere delle mie mani stanno annegando nel mare e voi volete cantare?” (TB Sanhedrin 39a). La Torà inoltre proibisce addirittura di tornare in Egitto.
La storia degli schiavi ebrei crea un ethos secondo cui dalla crisi della schiavitù, e in effetti da ogni crisi, bisogna alzarsi e costruire e non crogiolarsi in essa per sempre. Il Talmud racconta che dopo la distruzione del Secondo Tempio, a causa dei profondi sentimenti di lutto e dolore, molti smisero di mangiare carne e bere vino, ma Rabbi Yehoshua discute con loro e ordina di non comportarsi così (TB Bava Batra 60b). Nelle sue parole e nelle sue motivazioni, Rabbi Yehoshua ribadisce l’ethos ebraico secondo cui anche in un momento di crisi, gli occhi sono sempre rivolti alla costruzione e al progresso, poiché crogiolarsi nel passato è una negazione e cessazione della vita. Anche il comandamento amorfo di cancellare Amalek viene spostato a un punto temporale utopico dopo il completamento dell’insediamento nella terra e la sconfitta di tutti i nemici. In altre parole, il progresso e la costruzione precedono la cancellazione di Amalek.
• Ricordare e dimenticare
La memoria della storia dell’uscita dall’Egitto è fondamentale nella legge e nel pensiero ebraico. Ma questo ricordo è indirizzato solo a un pensiero costruttivo di ricordare i miracoli fatti al popolo d’Israele e di educare l’uomo alla compassione e all’amore per lo straniero, perché siamo stati stranieri in terra straniera. Il progetto di memoria ebraico nel suo complesso è destinato solo all’apprendimento di lezioni e intuizioni morali (come spiega anche il Chafetz Chaim nel suo testo Mishnà Berurà, all’inizio delle leggi del 9 di Av e degli altri digiuni). Nessun ricordo è indirizzato a sentimenti di rabbia o violenza, né all’oppressione nel presente. Il comandamento dell’Haggadà che in ogni generazione ogni persona deve vedere se stessa come se fosse uscita dall’Egitto, è destinato a produrre un valore educativo e imporre all’uomo obblighi morali, non a inculcare in lui un senso di vittima o incoraggiarlo a combattere contro i discendenti degli egiziani per correggere il torto storico.
L’Haggadà di Pèsach non descrive solo la schiavitù d’Egitto, ma ricorda anche che in ogni generazione si alzano contro di noi per annientarci. L’Haggadà porta il pesante carico storico del popolo d’Israele. Anche in questo conto storico non ci chiede di vendicarci, e si accontenta di rivolgersi a Dio che è colui che verserà la sua ira sulle nazioni che non lo hanno conosciuto. E nota, Lui e non noi. Nella meravigliosa frase “Versa la tua ira sulle nazioni che non ti conoscono“, è radicata l’idea di contenimento e raffinamento contro la vendetta umana. I sentimenti di vendetta sono giustificati e umani, ma quando si tratta di vendetta storica (a differenza della nostra attuale situazione di guerra, a cui questo articolo non è affatto rivolto) creano stagnazione e bloccano ogni progresso. Lasciare la vendetta a Dio lascia l’uomo libero da tutti i sentimenti di vendetta e mentalmente libero di costruirsi un nuovo mondo.
Per un popolo cresciuto con questo ethos dell’Haggadà di Pèsach, non c’è da stupirsi che dopo aver attraversato l’Olocausto europeo non abbia chiesto la creazione di un’organizzazione di profughi dell’ONU che per molti anni lo nutrisse e educasse i suoi figli. Al contrario, questo popolo si è alzato in piedi, ha preso il suo destino nelle proprie mani e ha stabilito uno stato indipendente di cui essere fieri. Questo popolo non porta nemmeno un conto storico aperto contro i discendenti dei suoi persecutori. Questo in totale contrasto con i nostri vicini che non hanno vissuto una catastrofe come l’Olocausto europeo, ma fino ad oggi sono rimasti imprigionati e bloccati nel loro passato, con la paralisi e l’atrofia di ogni orizzonte di progresso, e con ostilità e odio per generazioni di ebrei non ancora nati nel 1948.
L’Haggadà di Pesach crea quindi una costruzione sociale per il modo appropriato di affrontare la memoria storica. La storia dell’uscita dall’Egitto, come è organizzata nell’Haggadà di Pesach e nella tradizione rabbinica, non ci insegna solo cosa è giusto prenderne per sempre, ma anche e soprattutto cosa è giusto e appropriato lasciare al passato. Il prologo dell’Haggadà è “Eravamo schiavi in Egitto“, il cui scopo è inculcare la comprensione che l’Egitto è impresso solo come memoria educativa, ma la nostra principale aspettativa è diretta alla realizzazione del desiderio e dell’obiettivo, che sono l’epilogo dell’Haggadà: “L’anno prossimo a Gerusalemme ricostruita“.
Concluderò con il noto detto di Yigal Allon: “Un popolo che non conosce il suo passato, il suo presente è povero e il suo futuro è avvolto nella nebbia“. Nello spirito di questo articolo aggiungerò che le sue parole sono vere anche per un popolo “bloccato” nel suo passato. Anche per un tale popolo, il presente è povero e il futuro è avvolto nella nebbia. I nostri vicini lo dimostrano.
(Kolòt - Morashà, 15 aprile 2025)
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I Fratelli Musulmani emettono una nuova fatwa contro Israele
L'Unione internazionale degli studiosi musulmani fa della lotta armata contro Israele un dovere individuale. La fatwa è rivolta anche al presidente americano Trump.
LONDRA - In una fatwa, l'Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani, che appartiene ai Fratelli Musulmani, ha invitato alla lotta armata contro Israele. Si tratterebbe di un dovere individuale di ogni musulmano, secondo una dichiarazione rilasciata il 28 marzo. L'organizzazione, con sede a Londra, cita la “continua aggressione a Gaza e la sospensione del cessate il fuoco” come motivo della fatwa.
Nello specifico, l'Unione internazionale degli studiosi musulmani spiega in 14 punti come dovrebbe essere questa lotta. Oltre all'impegno per la jihad contro l'“entità sionista”, viene richiesto il divieto di fornire a Israele risorse, gas e petrolio, o armi. Gli studiosi chiedono quindi il blocco dei corridoi internazionali per il trasporto di queste merci. In particolare, vengono citati il Canale di Suez e lo Stretto di Hormuz. Da mesi il gruppo terroristico Houthi sta mettendo a rischio il commercio nel Golfo di Aden . Si chiede inoltre di boicottare gli alleati di Israele.
In un punto l'Unione internazionale degli studiosi musulmani si rivolge direttamente al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Al Presidente viene ricordata la sua promessa di creare la pace nella Striscia di Gaza. Molti musulmani hanno votato per lui per questo motivo e ora devono fare pressione su Trump, dicono.
Durante la campagna elettorale, Trump ha annunciato che avrebbe posto fine alla guerra nella Striscia di Gaza. Tuttavia, ha collegato questo obiettivo al rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e ha ripetutamente affermato di sostenere il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) e le azioni di Israele nella Striscia di Gaza.
• Effetti in Germania
Nel frattempo, la Società tedesco-israeliana (DIG) ha reagito con preoccupazione alla nuova fatwa. In un comunicato, la DIG sottolinea la vicinanza dell'Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani a molte organizzazioni musulmane in Germania, come l'Istituto Europeo per le Scienze Umane o l'organizzazione ombrello Ditib, che gestisce più di 900 comunità di moschee in Germania.
Per questo motivo, secondo la DIG, la fatwa ha un “impatto diretto sulla situazione della sicurezza in Germania”. I politici tedeschi devono quindi chiedere a tutte le organizzazioni islamiche tedesche di condannare questo parere legale come anti-islamico. Le organizzazioni che non condannano pubblicamente questa fatwa sono una minaccia per la sicurezza pubblica. Questo perché “rifiutandosi di farlo, tali organizzazioni vanno direttamente contro l'idea di comprensione internazionale (articolo 9, paragrafo 2, della Legge fondamentale)”.
(Israelnetz, 14 aprile 2025)
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Hezbollah, smantellata rete in mezza Europa: costruivano droni per colpire Israele
di Stefano Piazza
Un’ampia rete logistica a supporto della produzione di droni di Hezbollah è stata smantellata in tutta Europa. L’operazione ha interessato Spagna, Germania, Francia e Regno Unito, con arresti effettuati tra la metà del 2024 e l’inizio di aprile 2025. Secondo quanto riferito al quotidiano francese Le Figaro, la rete era coinvolta nell’acquisto di grandi quantità di materiali per la costruzione di droni potenzialmente in grado di trasportare esplosivi. Gli investigatori hanno trovato sistemi di guida elettronici, motori a benzina ed elettrici, eliche e diverse tonnellate di materiali utilizzati per realizzare componenti di droni come fusoliere e ali. Secondo Le Figaro, il volume di componenti sequestrati avrebbe potuto essere utilizzato per produrre fino a un migliaio di droni.
Tutto ha inizio nell’estate del 2024, nel cuore della Catalogna. È qui che la Guardia Civil individua una serie di movimenti sospetti legati ad acquisti di materiali ad alta tecnologia. A destare l’attenzione degli investigatori, le attività di alcune aziende spagnole riconducibili a individui di origine libanese, coinvolti nell’acquisto sistematico di componenti utilizzabili per la costruzione di droni. Secondo quanto riportato dalla giustizia spagnola, Firas AH, 38 anni, unico degli arrestati rimasto in carcere, sarebbe parte di «un gruppo di individui di origine libanese residenti in Spagna e Germania, legati in varia misura all’organizzazione terroristica». Gli inquirenti ritengono che il gruppo fosse pronto a spedire via mare un ingente carico di componenti essenziali per la costruzione di droni, destinati al Libano.
Una spedizione, definita «imminente» dalle autorità, che avrebbe rappresentato un rischio concreto per la sicurezza collettiva e, in particolare, per quella dei cittadini israeliani. Il carico, composto da decine di elementi chiave per l’assemblaggio di velivoli senza pilota, è stato intercettato in tempo, evitando un potenziale salto di qualità nella capacità offensiva delle milizie coinvolte. Secondo quanto emerso dalle indagini, si tratta di forniture a doppio uso – civile e militare – che avrebbero consentito, secondo gli inquirenti, l’assemblaggio di droni capaci di trasportare diversi chilogrammi di esplosivo. Gli ordini, che si contano a centinaia, erano destinati all’esportazione in Libano, dove i materiali sarebbero stati riconvertiti per finalità belliche. – Anche sul fronte tedesco, l’operazione antiterrorismo ha inferto un colpo significativo alla rete sospettata di traffici illeciti con finalità militari. La Procura federale ha confermato l’arresto di un cittadino libanese, Fadel Z., fermato il 14 luglio a Salzgitter, nella Bassa Sassonia, dagli agenti del BKA (Bundeskriminalamt). In un comunicato dettagliato, le autorità tedesche hanno reso noto che il sospettato si sarebbe affiliato a Hezbollah non più tardi dell’estate del 2016. Dall’inizio del 2024, avrebbe acquistato in Germania componenti destinati alla costruzione di droni militari, “in particolare motori”. Il materiale era destinato all’esportazione in Libano, dove, secondo gli inquirenti, sarebbe stato impiegato in operazioni terroristiche contro obiettivi israeliani.
Negli ultimi anni, questi piccoli velivoli si sono rivelati strumenti strategici nei conflitti moderni. Difficili da rilevare e abbattere, i droni hanno avuto un ruolo chiave in diversi teatri di guerra, dall’Ucraina alle aree di confine tra Siria e Iraq, dove lo Stato Islamico li ha impiegati con modalità sempre più sofisticate. Le indagini hanno avuto un’ulteriore svolta l’1 aprile 2025, quando la polizia spagnola ha effettuato altri tre arresti nello stesso appartamento di Barcellona già perquisito l’anno precedente. Uno degli indagati è accusato di far parte di un’organizzazione criminale transnazionale, di finanziare attività illecite e di falsificazione di documenti. Nel frattempo, anche in Francia si è mossa la Direzione Generale della Sicurezza Interna (DGSI), che ha fermato un altro sospetto ritenuto legato alla rete. La procura antiterrorismo francese ha confermato che l’uomo è accusato di preparare atti di terrorismo. Due uomini sono stati arrestati all’inizio del mese dalla polizia antiterrorismo britannica durante un’operazione condotta nella zona nord della capitale. I sospetti, di 39 e 35 anni, sono accusati di reati connessi al terrorismo internazionale. Il primo, 39 anni, è indagato per appartenenza a un’organizzazione vietata: Hezbollah è infatti designata come gruppo terroristico nel Regno Unito dal 2019.
L’uomo è anche sospettato di aver preparato attentati e di aver finanziato attività terroristiche. Il secondo individuo, 35enne, sarebbe coinvolto in reati simili. Entrambi sono stati rilasciati su cauzione, mentre proseguono le indagini da parte delle autorità britanniche. Secondo il rapporto investigativo, la rete smantellata operava in maniera estesa sul territorio europeo, ma il suo obiettivo principale era il sostegno logistico e operativo alle attività di Hezbollah all’estero. Le autorità sottolineano che, al momento, non emergono elementi concreti su piani terroristici imminenti sul suolo europeo. Tuttavia, il rischio rimane elevato. Le forze di sicurezza ribadiscono la pericolosità di tali infrastrutture clandestine, capaci di alimentare operazioni militari all’estero, soprattutto contro civili israeliani, e di trasformarsi rapidamente in minacce anche interne in caso di escalation.
(Panorama, 14 aprile 2025)
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Deputati sudafricani in visita in Israele
“Sosteniamo Israele e crediamo che Hamas sia un'organizzazione terroristica che deve essere distrutta”, ha dichiarato il deputato Ashley Sauls.
di Etgar Lefkovits
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La delegazione sudafricana al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme, 7 aprile 2025
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Un gruppo di 15 parlamentari sudafricani, tra cui membri del governo di unità nazionale, ha visitato Israele la scorsa settimana per esprimere il proprio sostegno allo Stato ebraico e criticare la politica mediorientale dell'African National Congress (ANC) al governo.
La visita parlamentare segue la formazione di un governo di unità nazionale in Sudafrica lo scorso giugno, dopo che l'ANC ha perso la maggioranza assoluta per la prima volta dalla fine dell'apartheid, 30 anni fa.
La delegazione, che comprendeva membri di due partiti del governo di unità nazionale e un partito cristiano di opposizione, oltre a leader di fede cristiana ed ebraica, ha incontrato i parlamentari israeliani e ha visitato le comunità israeliane meridionali attaccate nel massacro perpetrato da Hamas 18 mesi fa.
“L'ANC non parla a nome di tutti”, ha dichiarato lunedì il deputato Ashley Sauls, il cui partito Alleanza patriottica è membro del governo sudafricano, in occasione di un evento al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme. “Noi sosteniamo Israele e crediamo che Hamas sia un'organizzazione terroristica che deve essere distrutta affinché ci sia pace per i palestinesi e gli israeliani”.
E ha aggiunto: “Possiamo dire che Israele non è uno Stato di apartheid e che non c'è alcun genocidio a Gaza”.
L'ANC, che rappresenta la politica estera anti-Israele del Sudafrica, ha ricevuto solo il 40% dei voti alle elezioni dello scorso maggio ed è stata quindi costretta a formare un governo di unità nazionale.
Alcuni membri della delegazione, che appartengono a un altro partito del governo di unità, hanno rifiutato di commentare il loro viaggio a causa della delicatezza della visita.
Il viaggio avviene in un momento in cui il Sudafrica è diventato uno dei più attivi oppositori di Israele al mondo, avendo denunciato il Paese per genocidio alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite per la sua guerra contro Hamas a Gaza lo scorso anno e essendosi alleato con l'Iran e i suoi scagnozzi terroristi.
Il deputato Steven Swart, membro del Partito cristiano democratico africano di opposizione, da tempo filo-israeliano, ha dichiarato: “Speravamo che con il governo di unità nazionale le voci anti-israeliane in Sudafrica si sarebbero placate, poiché ci sono molti partiti politici che hanno una posizione filo-israeliana, ma non è ancora così e stanno continuando con il caso della Corte internazionale di giustizia. Ma il fatto che siamo qui in un periodo di guerra serve anche a prendere le distanze dal caso della Corte internazionale di giustizia e dal sentimento anti-israeliano”.
• Il Paese non appartiene all’ANC
Gli organizzatori della visita hanno espresso la speranza che questa sia foriera di cambiamenti.
“Credo davvero che possiamo cambiare il Sudafrica creando un'alleanza tra cristiani, ebrei e Israele”, ha dichiarato Daniel Yakcobi, direttore di South African Friends of Israel, che ha organizzato la visita.
“Questa delegazione è un segno di cambiamento per il futuro”, ha dichiarato il rabbino capo sudafricano Warren Goldstein, che ha partecipato alla visita insieme a due pastori della Nazione Arcobaleno.
Il rabbino, che ha tenuto il discorso principale all'evento presso il Museo degli Amici di Sion, ha criticato il governo dell'ANC in seguito alla sua risposta all'invasione guidata da Hamas il 7 ottobre 2023 e ha affermato che i giorni del governo dell'ANC sono contati.
“Non giudicate il popolo sudafricano in base all'ANC”, ha detto. “L'ANC non è il proprietario del Paese”.
Goldstein ha elogiato i membri della delegazione per aver intrapreso il viaggio e per aver difeso i propri principi e le proprie convinzioni.
“Oggi ci vuole coraggio, ma domani sarà la strada del Paese”, ha detto.
(Israel Heute, 14 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Un’altra manifestazione pro-Hamas a Milano. Chi la finanzia?
di Giovanni Giacalone
C’è qualcosa all’interno del Ministero dell’Interno italiano che sembra proprio non funzionare, e la conferma arriva dalla manifestazione pro-Pal, organizzata dai soliti gruppi di estrema sinistra, palestinesi e islamisti, che ha paralizzato il centro di Milano sabato 12 aprile. Durante la manifestazione, diverse attività commerciali sono state vandalizzate.
Niente di nuovo, visto che migliaia di manifestazioni contro Israele e i suoi alleati si sono svolte in Italia, e in particolare a Milano, dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023. La manifestazione di ieri ha mostrato ancora una volta la sua natura reale e violenta, con i soliti slogan come “Intifada intifada” e “Dal fiume al mare”, che invocavano l’annientamento dello Stato di Israele.
Uno striscione portato dai manifestanti recitava “Abbattete lo Stato sionista”, mentre un altro cartello recitava: “Per la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista di Israele”. E ancora, una bandiera tunisina con la scritta “Fanculo Israele”, e un’immagine del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che veniva calpestata e molto altro. È evidente che l’odio per Israele sia il denominatore comune di questi diversi gruppi che marciano fianco a fianco.
Tra i manifestanti, c’erano individui che indossavano gilet senza maniche con lo striscione “Associazione Palestinesi in Italia”, guidata da Mohammad Hannoun, un attivista palestinese sanzionato nell’ottobre 2024 dal Dipartimento del Tesoro statunitense dopo essere stato segnalato come uomo di Hamas e suo collettore di denaro in Italia. Anche in questo caso, da allora non è stato intrapreso alcun provvedimento da parte delle autorità italiane. L’attività di Hannoun è ancora in corso.
Inoltre, una filiale bancaria in Piazzale Lagosta è stata deturpata con la scritta “Sparate a Giorgia”; un chiaro messaggio al Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, accusata dai manifestanti di schierarsi con Israele. Durante la manifestazione, ci sono stati anche scontri con la polizia, e le immagini sono state prontamente riportate dall’emittente qatariota al-Jazeera, con il titolo: “La polizia italiana tenta di disperdere una manifestazione pro-Palestina a Milano”, forse per gettare benzina sul fuoco. Il sostegno del Qatar ad Hamas e agli islamisti in Europa non è certo un segreto.
L’approccio del Ministero dell’Interno nei confronti di queste manifestazioni, che può essere riassunto in un approccio del tipo “lasciateli sfogare” per “evitare tensioni sociali”, si è rivelato un fallimento in quanto ha portato a liste nere, inviti a marcare le case di “ebrei e sionisti”, sfilate con cartelli raffiguranti “agenti sionisti”, deturpazioni di scuole elementari ebraiche, sermoni pro-Hamas e antisemiti nelle moschee, la pubblicazione di caricature antisemite, e l’esposizione di bandiere di Hezbollah.
L’estate scorsa, il “Nuovo Partito Comunista” (NCP) italiano, un gruppo clandestino di estrema sinistra con base principalmente nell’Italia centro-occidentale schierato con altre fazioni di estrema sinistra e palestinesi presenti alla manifestazione di ieri, ha pubblicato una lunga lista nera di “agenti e sostenitori sionisti” che includeva un numero consistente di rabbini, membri di associazioni ebraiche e persino la sopravvissuta all’Olocausto Liliana Segre, una donna di 94 anni che è anche senatrice del Parlamento italiano ed è stata spesso presa di mira dagli antisemiti. La lista includeva anche importanti parlamentari italiani sia della maggioranza che dell’opposizione; ministri del governo Meloni e un ex ambasciatore.
L’NCP italiano chiedeva anche il rovesciamento del governo italiano democraticamente eletto e l’instaurazione di un regime comunista definito come “blocco popolare”. Che ci si creda o meno, l’NCP italiano è così “clandestino” che gestisce persino un proprio sito web, accessibile a tutti, dove condivide ogni settimana la sua propaganda sovversiva, inclusa la lista degli “agenti sionisti”. L’NCP si vanta di essere irreperibile e fornisce modalità per contattare in modo anonimo i suoi militanti. Stranamente, il sito web è ancora attivo e finora le autorità italiane non hanno preso alcuna misura contro questo gruppo sovversivo. Perché?
Una panorama interessante, considerando che a Milano, il 27 gennaio 2024, durante il Giorno della Memoria, lo studente italiano Mihael Melnic ha esposto un cartello dalla finestra del suo appartamento con la scritta “Liberate Gaza da Hamas”. Contemporaneamente, la strada sottostante era diventata teatro dell’ennesima manifestazione filo-palestinese non autorizzata. Melnic, oggetto di insulti e minacce da parte dei manifestanti, ha ricevuto immediatamente la visita intimidatoria di due poliziotti. Sono entrati nel suo appartamento, lo hanno identificato e hanno tentato invano di confiscare il cartello. Melnic ha poi rilasciato un’intervista al Times of Israel raccontando l’accaduto.
A Padova, la studentessa israeliana Jasmine Kolodro è stata convocata in questura per aver esposto una bandiera israeliana nei pressi di una manifestazione pro-palestinese.
Le conseguenze di un approccio così riluttante erano in effetti prevedibili, poiché quando gli estremisti non vedono una risposta dalle istituzioni, continuano ad alzare la posta, ed è esattamente ciò che sta accadendo. Cosa aspettano dunque il Ministero dell’Interno e il governo Meloni ad agire? La narrazione estremista è una seria minaccia perché è il “carburante” ideologico che porta alla violenza. Ciò a cui l’Italia sta assistendo è una grave deriva eversiva e antisemita, confermata anche dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Italiano sull’Antisemitismo, che ha indicato “una fortissima crescita (degli episodi antisemiti) in termini assoluti e percentuali”.
Continuando in questa direzione, con tanta riluttanza a intervenire, prima o poi succederà qualcosa di grave e a quel punto nessuno al Viminale potrà dire “non ce lo aspettavamo”, perché i segnali erano tutti lì, chiari ed evidenti.
C’è poi un’ultima domanda: chi paga tutto questo? Chi paga il trasporto, le bandiere e tutto il necessario per queste manifestazioni? Molti manifestanti sono stati trasportati da altre parti d’Italia. Manifestare costa e richiede fondi.
(da Times of Israel, 13.4.25))
(L'informale, 13 aprile 2025 - trad. Niram Ferretti)
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Come Gaza ha sequestrato la sinistra occidentale
L’ombra lunga della Palestina su una sinistra che ha smesso di pensare
di Carmen Dal Monte:
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La bandiera palestinese esposta dal sindaco Matteo Lepore sulla facciata del Comune di Bologna
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Oggi, per gran parte della sinistra occidentale sembra esistere una sola battaglia che meriti davvero visibilità: la Palestina. Ma non la Palestina come realtà storica, sociale o geopolitica, bensì come simbolo assoluto, totemico, della sofferenza. Gaza è diventata il paradigma del giusto oppresso. Tutto il resto è rumore di fondo.
Eppure, mentre si grida “Free Palestine”, altre voci vengono silenziate. Le donne musulmane che denunciano violenze sistemiche. Gli omosessuali che fuggono da regimi islamici per non essere uccisi. I dissidenti, i convertiti, i lavoratori sfruttati nei paesi arabi. Per loro, nei cortei, non c’è posto. Né spazio sui cartelli. Sono una dissonanza. Un inciampo.
E non è solo questione di Hamas. Oggi, il movimento pro-palestinese fa parte di un blocco più vasto, ideologico e geopolitico, in cui si intrecciano Stati arabi autoritari, monarchie teocratiche, media pan-islamici, università finanziate da regimi repressivi. Gaza è diventata la bandiera di poteri che reprimono al proprio interno, ma sventolano la causa palestinese per guadagnare legittimità all’esterno.
E la sinistra europea? Ha smesso di analizzare. Ha smesso di leggere. E soprattutto ha smesso di distinguere. Pressata dal discorso anglosassone, ha abbandonato il metodo marxista, quello che studia i rapporti di forza, le contraddizioni materiali, la composizione di classe, per adottare un vocabolario moralistico, americanizzato, dove tutto si divide in dominante e dominato, vittima e privilegio, bianco e non bianco.
In questo schema rigido, la Palestina diventa il simbolo perfetto. Tutto il resto svanisce. Ma diciamolo: Gaza non è centrale. Non lo è mai stata. Lo è diventata solo per chi ha sostituito l’analisi con il rito, il conflitto sociale con una liturgia identitaria.
Il problema non è Gaza, ma l’ossessione che le è cresciuta intorno. Un’ossessione che ha colonizzato l’immaginario della sinistra, soffocando altri fronti: lotte femminili, mobilitazioni operaie, richieste di libertà religiosa o laica, diritti civili. Gaza è diventata il feticcio perfetto per chi non vuole più leggere il mondo, ma solo farne teatro.
E non importa se a portare quella bandiera siano Stati che imprigionano giornalisti, lapidano donne, criminalizzano l’omosessualità. Non importa se quegli stessi regimi finanziano la repressione delle rivolte popolari in Iran, Siria, Sudan. La coerenza ha smesso di contare. Conta l’identità simbolica. E l’allineamento.
E non si tratta solo di collettivi radicali o universitari. Anche amministratori pubblici moderati, perfettamente inseriti nel sistema democratico, alimentano questa selezione. A Bologna, il sindaco Matteo Lepore ha fatto esporre la bandiera palestinese sulla facciata del Comune, in solidarietà con Gaza. Un gesto forte, simbolico, capace di orientare l’immaginario civico. Ma non risulta che quel Comune abbia mai preso posizione pubblica per le donne iraniane, i dissidenti turchi, le vittime del regime siriano o i migranti schiavizzati nei Paesi del Golfo.
In quel contesto, la sofferenza palestinese diventa l’unica degna di visibilità pubblica. Le altre più complesse, meno codificabili, restano invisibili. Che tutto ciò avvenga proprio a Bologna, città simbolo della sinistra italiana, democratica, antifascista, storicamente legata al pensiero critico, rende il gesto ancora più emblematico. Come se quella storia, la capacità di discernere, di leggere le contraddizioni, di evitare i riflessi automatici fosse stata cancellata. O peggio: rovesciata.
La sinistra che un tempo avrebbe smascherato questa dinamica, oggi la asseconda. Non per tradimento, ma per smarrimento. Ha scambiato l’analisi con l’indignazione. La strategia con il posizionamento morale. Ha dimenticato che il marxismo non è una religione dell’innocenza, ma uno strumento per comprendere e trasformare i rapporti di dominio: tutti. Anche quelli esercitati in nome dell’anti-sionismo.
Così, mentre si manifesta per Gaza, si tace su Teheran. Su Doha. Su Riad. Si ignorano le vere rivolte, quelle che vengono dal basso, da subalterni reali, che non rientrano nei canoni estetici del progressismo occidentale. Si dimentica che i popoli arabi non sono soltanto vittime da rappresentare, ma soggetti politici, con idee e conflitti reali, spesso contro i loro stessi governi, religioni, movimenti armati.
La sinistra che fa dell’occupazione israeliana il prisma unico della giustizia ha perso contatto con la realtà. Perché nessun conflitto ha diritto alla centralità ideologica. E ogni silenzio selettivo è, alla fine, una scelta politica.
Qui non si tratta di Gaza. E scomparso l’Impero romano, figuriamoci Gaza. Si tratta di salvarci dalla cecità analitica. Dalla paura del dissenso. Dalla rinuncia al pensiero. La dialettica non è un hashtag. È un processo reale fatto di contraddizioni, di forze che si scontrano, di popoli che agiscono, spesso al di fuori del nostro campo visivo.
Mentre ci accapigliamo su chi sia più vittima, la realtà si muove: regimi si consolidano, movimenti si radicalizzano, rivoluzioni svaniscono nel silenzio.
La sinistra che ha smesso di leggere la società non parla più a nessuno. E la società, semplicemente, smette di ascoltarla.
(da Times of Israel, 22.3.25)
(israelnet.it, 13 aprile 2025)
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«Lascia andare il mio popolo, altrimenti...»
di Marcello Cicchese
Quando si riflette sull'uscita del popolo ebraico dall'Egitto, si tende a porre Dio, Mosè e gli ebrei da una parte, e Faraone e gli egiziani dall'altra. Le cose non stanno proprio così. Una schematizzazione più biblica sarebbe questa: Dio da una parte; ebrei ed egiziani dall'altra, ma in posizioni diverse; Mosè (col supporto di Aaronne) strumento scelto da Dio fra gli ebrei per svolgere la sua politica all'interno e per mezzo di Israele.
Nella storia dell'esodo biblico non c'è nulla che assomigli alle altre lotte di liberazione di popoli oppressi. Mosè non è il capo riconosciuto e acclamato di un popolo che vede in lui l'espressione e lo strumento della sua battaglia. Il popolo non è artefice della sua politica, ma subisce la politica di Dio.
In Esodo 4:27-31 Mosè ed Aaronne comunicano agli anziani il progetto di liberazione che Dio, non il popolo, aveva intenzione di compiere,
"ed il popolo prestò loro fede. Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione, e s'inchinarono e adorarono" (Esodo 4:31).
Dopo di che Mosè ed Aaronne si presentano al Faraone con la loro richiesta, ed in questa occasione, e solo in questa, parlano in veste di rappresentanti di tutto il popolo, perché ne hanno ricevuto esplicitamente il consenso.
• Un modo singolare di procedere
Il modo in cui i rappresentanti del popolo formulano la loro richiesta è davvero strano. Dio aveva detto a Mosè di informare il Faraone che Israele è il suo figlio primogenito, e che se non l'avesse lasciato andare, Lui avrebbe ucciso il figlio primogenito suo (Esodo 4:22-23). Mosè ed Aaronne però non presentano subito la loro richiesta in forma di minaccia, non dicono: "Lasciaci andare altrimenti sono guai per te", come si fa, in forma più o meno velata, in certe trattative politiche; dicono invece: "Lasciaci andare altrimenti sono guai per noi".
"Essi dissero: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare per tre giornate di cammino nel deserto, per offrire sacrifici all'Eterno, nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada»" (Esodo 5:3).
Un bel Dio, quello degli ebrei, penserà qualcuno: prima lascia che il suo popolo gema per secoli sotto tiranni stranieri, poi gli ordina di andarlo a festeggiare nel deserto altrimenti li punirà con la peste o con la spada. Com'era prevedibile, il Faraone respinge nettamente la richiesta dei rappresentanti e dice a Mosè che il popolo non stia a preoccuparsi di quello che gli farebbe il suo Dio, ma di preoccuparsi di quello che gli farà lui. E li sbatte fuori in malo modo.
Le angherie aumentano e i sorveglianti del popolo si scagliano contro Mosè ed Aaronne. Possiamo immaginare che abbiano detto parole come queste: "Al Faraone voi avete detto che se non avessimo ubbidito a Dio, Egli ci avrebbe colpito con la spada, invece è successo che la spada l'ha usata il Faraone, e siete stati voi che gliela avete messa in mano".
"Essi dissero: L'Eterno volga il suo sguardo su voi, e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano la spada per ucciderci» (Esodo 5:21).
Anche Mosè fu fortemente scosso da questo svolgersi delle cose, ma Dio gli rinnovò la sua promessa di liberazione facendo riferimento al patto con Abramo, Isacco e Giacobbe (Esodo 6:2-8). Mosè si lasciò convincere e ripeté al popolo le promesse di Dio, ma questa volta il popolo non credette alle sue parole e si rifiutò di seguirlo.
"Mosè parlò così ai figli d'Israele; ma essi non dettero ascolto a Mosè, a motivo dell'angoscia dello spirito loro e della loro dura schiavitù" (Esodo 6:9).
Questa fu la prima, determinante ribellione del popolo d'Israele contro il suo Signore.
• Mosè si presenta al Faraone a nome di Dio, non del popolo
Il rifiuto del popolo a credere alle parole di Dio è un fatto grave, e Mosè fa presente all'Eterno questa situazione:
"Ecco, i figli d'Israele non mi hanno dato ascolto" (Esodo 6:12).
Come farà dunque Mosè a presentarsi al Faraone senza avere il consenso del popolo e il sostegno di un mandato popolare? Questo si direbbe oggi, e forse qualcosa del genere deve aver detto anche Mosè al Signore. Dio però tagliò corto:
"Ma l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne e comandò loro di andare dai figli d'Israele e dal Faraone re d'Egitto, per far uscire i figli d'Israele dal paese d'Egitto" (Esodo 6:13).
Da questo momento Mosè agisce soltanto come strumento della volontà di Dio e non come espressione della volontà del popolo, anzi in opposizione diretta a questa volontà. C'è da immaginare il terrore con cui gli ebrei avranno saputo che "quei due pazzi forsennati" di Mosè ed Aaronne si sono presentati un'altra volta davanti al Faraone a fare le loro richieste. Se si è così arrabbiato la prima volta - avranno pensato - chissà che cosa succederà le prossime.
Invece poi vengono a sapere che chi si arrabbia è Dio. Certo, gli ebrei vedono avvenire cose grandiose: l'acqua mutata in sangue, le rane, le zanzare. Le prime calamità che devastano l'Egitto sono segni davvero potenti. Ma il fatto è che dentro all'Egitto ci sono anche loro, e nella posizione peggiore che si possa immaginare, perché certamente il Faraone non li avrà esentati dai loro lavori a causa dello stato di emergenza in cui si era venuto a trovare il paese. Quindi ad essere colpiti sono tutti, anche gli ebrei, che si saranno chiesti: ma sarebbe questa la nostra liberazione?
Soltanto alla quarta piaga, le mosche velenose, Dio avvisa che farà una distinzione:
"In quel giorno io risparmierò il paese di Goscen, dove abita il mio popolo; lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo" (Esodo 8:22-23).
Alla fine il popolo d'Israele uscirà dall'Egitto, ma questo avverrà per l'opera di Dio con la mediazione di Mosè, e senza il consenso e l'appoggio del popolo, il quale subisce l'azione di Dio senza parteciparvi con la sua volontà.
• Il passaggio dell'angelo. Che significa?
Quanto detto fin qui sembra essere fuori tema rispetto al contenuto della parashà di oggi, che ha come oggetto la pasqua. Vuol essere invece una premessa necessaria per cominciare ad inquadrare quello strano fatto del passaggio dell'angelo che colpisce i primogeniti egiziani ma risparmia gli ebrei che hanno osservato le disposizioni di Dio: uccidere un agnello per casa e spargere il suo sangue sugli stipiti della porta.
Egiziani ed ebrei sono entrambi in posizione di peccato rispetto a Dio, ma in modi diversi. Il Faraone e il suo popolo giacciono nel peccato perché vivono nelle tenebre dell'idolatria pagana; il popolo d'Israele invece no, perché è stato visitato da Dio e lo ha adorato (Esodo 4:31). Il suo peccato però è di tipo diverso: ha rigettato la parola di Dio ricevuta attraverso Mosè. L'angelo è stato mandato per colpire tutti coloro che sono ribelli alla volontà di Dio, e tra questi ci sono anche gli ebrei. Ma gli ebrei sono il popolo che Dio ha promesso ad Abramo, ed ecco allora che, dopo aver manifestato la potenza della sua sovranità, Dio adesso manifesta una cosa nuova: la grandezza della sua grazia. Gli ebrei ricevono l'ordine di uccidere l'agnello nella forma prestabilita, e con questo Dio dice loro due cose: 1) voi siete peccatori della stessa pasta degli egiziani e meritate la stessa fine; 2) voi siete parte di un popolo con il quale ho deciso di portare a compimento un'opera di redenzione a cui parteciperanno tutti coloro che avranno accolto la mia parola nella forma in cui l'avranno ricevuta. Voi siete il primo popolo che ha commesso un peccato di incredulità, avendo respinto la parola di liberazione che vi era stata annunciata; voi siete il primo popolo che ha fatto l'esperienza della grazia di Dio, avendo creduto nella sua parola che vi offriva la possibilità di evitare il giudizio di Dio attraverso l'offerta di un sostituto innocente e privo di difetti.
Il significato profondo di quell'agnello si trova nelle parole del profeta Isaia:
"Noi tutti eravamo erranti come pecore, ognuno di noi seguiva la sua propria via; e l'Eterno ha fatto cadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, umiliò se stesso e non aperse la bocca. Come l'agnello menato allo scannatoio, come la pecora muta dinanzi a chi la tosa, egli non aperse la bocca" (Isaia 53:6-7).
E nelle parole dell'evangelista Giovanni:
Il giorno seguente Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! (Giovanni 1:29).
(da "Sta scritto")
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Il senso della Pasqua di un popolo in guerra
La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houty sono indeboliti, è tuttora, a Pesach, nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita.
di Fiamma Nirenstein
«In ogni generazione qualcuno si leva per la nostra distruzione, ma Dio e lo spirito dei nostri combattenti ci salverà sempre». Ripete anche questo il «seder» di Pasqua, Pesach, ovvero uno dei riti più antichi della storia della civiltà, in mezzo a mille altre verità sempiterne: ricorda, ricorda sempre chi eri per sapere chi sei, fummo schiavi e oggi e come se tu fossi uscito dall'Egitto. «Figli della libertà», dobbiamo comportarci senza perdere mai di vista ciò che fummo, ripete il testo della Agadà, in cui si ripercorre la storia di come Mosè portò il popolo ebraico fuori dall'Egitto verso la libertà pratica e concettuale non solo dei suoi, ma del mondo.
La libertà, l'etica, le società democratiche su di esse basate, definiranno nuovi confini grazie alla Torah, la Bibbia, quando Mosè nel deserto riceverà i dieci comandamenti dei quali oggi viviamo. Stasera intorno al tavolo le famiglie ebraiche portano con sé dolore e aspettative insieme all'immensa determinazione a superare anche questa: «abbiamo passato il Faraone, supereremo anche questa», dice il testo mentre si spezza l'azzima che ricorda come il mare si apri per il più folle dei miracoli, e sommerse l'esercito egiziano. E tutti gli ebrei del mondo con gli uomini di buona volontà avvertiranno il vuoto e pregheranno insieme per il ritorno dei rapiti e per i soldati che a Gaza combattono per loro e per sgominare definitivamente un nemico il cui odio per gli ebrei non ha limite in nessuna trattativa. Mentre si bevono i quattro bicchieri del rito, da una parte si pensa alla odierna, nuovissima trattativa fatale fra gli americani e gli iraniani che dovrebbe, forse, portare a un accordo per la distruzione delle strutture nucleari, oppure allo scontro inevitabile, se il potere messianico e brutale degli Ayatollah non abbandona il disegno ripetuto fino all'ossessione di distruggere Israele e il mondo occidentale. Dall'altra parte si tenta, sempre nelle ore di Pesach, di bloccare una mortale strada di collisione con Erdogan, il premier turco che adesso cerca di una base fissa in Siria per prendere possesso di una terrazza che lo doti di un inusitato potere di minaccia su Israele.
La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houty sono indeboliti, è tuttora, a Pesach, nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita. Gli Israeliani fra assassinati il 7 di ottobre e soldati uccisi ha superato i duemila morti in un anno e mezzo, una cifra enorme per dieci milioni di abitanti. Le storie di incredibile valore che ogni giorno vengono alla superficie, di ragazzi che hanno scritto ai genitori o alla loro amata lettere in cui la consapevolezza, a volte la certezza finale, di rischiare la vita è unita alla volontà invincibile di non volere rinunciare a questo onore, è un unicum nella storia moderna. Il rifiuto che essi combattono non è solo odio per Israele, ma per il mondo ebraico nel suo insieme: l'aggressione dell'antisemitismo politico rappresenta un pericolo di vita per tutti gli ebrei, ma oggi, al contrario che nel passato, ha di fronte i giovani leoni d'Israele.
Il 96 per cento degli ebrei del mondo, scrive Nathan Sharansky celebrano il seder di Pesach seduti al tavolo della tradizione nonostante la guerra. Sfidano la tempesta.
Non rinunceranno mai. Abbiamo superato il faraone, supereremo anche questa.
(il Giornale, 12 aprile 2025)
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L'Hapoel Tel Aviv fa la storia vincendo l'EuroCup di basket
Grazie a questo storico trionfo, il club israeliano potrà passare al livello successivo e partecipare alla prossima stagione dell'EuroLeague, la competizione per club più prestigiosa del basket europeo.
L'Hapoel Tel Aviv ha realizzato l'impensabile vincendo ieri sera (venerdì) la EuroCup di pallacanestro, battendo il Gran Canaria 103-94 e completando la serie finale 2-0. Questo storico trionfo consente al club israeliano di passare al livello successivo e di partecipare alla prossima stagione dell'EuroLeague, la competizione per club più prestigiosa del basket europeo.
La squadra, che rientrerà oggi in Israele, ha dominato la partita dall'inizio alla fine, mantenendo il vantaggio per tutto il tempo e costruendo un vantaggio di 14 punti nel primo tempo.
Il proprietario del club, Ofer Yannay, ha dato una dimensione politica alla vittoria, dicendo: “So che per voi abbiamo battuto il Valencia e i Canarini, ma per me abbiamo battuto Hamas. Hanno cercato di spezzare il nostro spirito e non ci sono riusciti”. E ha aggiunto: “Abbiamo fatto la storia dello sport israeliano, una storia nazionale. Abbiamo portato orgoglio a tutto il nostro popolo”. Il presidente della lega israeliana Winner Sal, Ari Steinberg, ha inviato “le sue più calorose congratulazioni alla squadra Hapoel ‘Shlomo’ Tel Aviv per la vittoria. A nome mio e di tutta la lega Winner Sal, vorrei congratularmi con il proprietario, Ofer Yannay, con la dirigenza del club, con lo staff tecnico, con i giocatori e naturalmente con i tifosi per questo risultato storico - la vittoria dell'EuroCup”.
(i24, 12 aprile 2025)
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Steve Witkoff: «Nelle trattative con l’Iran dovremo rinunciare a qualcosa»
Mentre Israele sostiene che «un accordo credibile debba includere la distruzione degli impianti nucleari iraniani sotto la supervisione degli Stati Uniti», Steve Witkoff sembra andare incontro all'Iran con linee rosse decisamente diverse.
di Gabor H. Friedman
L’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff ha dichiarato che la “linea rossa” dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran è quella di impedirgli di produrre un’arma nucleare, in quella che appare come una potenziale apertura nei confronti di Teheran in vista dei colloqui che si terranno questo fine settimana.
Qualsiasi accordo che permetta al programma nucleare iraniano di continuare in qualche forma equivarrebbe a una ritirata per l’amministrazione e non sarebbe all’altezza dell’insistenza di Israele sul fatto che un accordo credibile debba includere la distruzione degli impianti nucleari iraniani sotto la supervisione degli Stati Uniti.
Witkoff, che sabato guiderà i colloqui in Oman per conto degli Stati Uniti, ha dichiarato al Wall Street Journal che la richiesta iniziale dell’amministrazione sarebbe quella di eliminare il programma nucleare di Teheran, ma ha ammesso che potrebbero essere necessari dei compromessi per raggiungere un accordo.
“Penso che la nostra posizione inizi con lo smantellamento del vostro programma. Questa è la nostra posizione oggi”, ha detto Witkoff, riassumendo il suo messaggio ai funzionari iraniani. “Questo non significa, comunque, che a margine non troveremo altri modi per trovare un compromesso tra i due Paesi”.
“La nostra linea rossa sarà che non si può armare la vostra capacità nucleare”, ha aggiunto Witkoff.
I commenti dell’inviato aprono una finestra sulle riflessioni ai massimi livelli dell’amministrazione Trump e mettono in evidenza le difficili scelte che probabilmente dovrà affrontare nei prossimi mesi, quando valuterà se sarà necessaria la forza militare per contenere il programma nucleare iraniano o se sarà sufficiente la diplomazia.
Se l’Iran rifiutasse di eliminare il suo programma nucleare, Witkoff ha detto che porterebbe la questione al Presidente Trump per determinare come procedere, mettendo potenzialmente la Casa Bianca di fronte a una scelta difficile su quanto tollerare delle attività nucleari iraniane.
Secondo alcuni analisti, fare pressione per l’eliminazione totale del programma iraniano è una ricetta per una situazione di stallo e potenzialmente un conflitto militare.
“L’amministrazione Trump è in una buona posizione per negoziare un accordo forte, che possa impedire in modo verificabile all’Iran di avere armi nucleari per un periodo di tempo significativo”, ha dichiarato Robert Einhorn, ex funzionario del Dipartimento di Stato per la non proliferazione. “Ma non dovrebbe giocare troppo la mano”.
L’Iran ha a lungo esitato ad accettare il completo smantellamento del suo programma nucleare, che sostiene essere per scopi pacifici e non finalizzato alla produzione di un dispositivo nucleare. Un compromesso che gli consentiva di arricchire l’uranio con ispezioni internazionali era al centro dell’accordo del 2015 che Teheran aveva raggiunto con gli Stati Uniti e altre potenze mondiali.
Trump si è tirato fuori dall’accordo del 2015 durante il suo primo mandato e ha imposto sanzioni punitive, insistendo affinché l’Iran interrompesse l’arricchimento dell’uranio e lo sviluppo di missili che potrebbero trasportare testate nucleari. L’Iran ha sopportato le sanzioni e ha ampliato il suo programma nucleare e la produzione di missili.
I funzionari iraniani dicono di volere un alleggerimento delle sanzioni economiche e il ripristino dei legami commerciali con gli Stati Uniti, ma hanno avvertito che un’azione militare statunitense spingerebbe l’Iran a smettere di cooperare con gli ispettori internazionali e a spostare il materiale nucleare in siti nascosti.
“Non abbiamo pregiudizi né previsioni”, ha dichiarato venerdì Esmaeil Baqaei, portavoce del Ministero degli Affari Esteri iraniano, in vista dei colloqui. “Abbiamo intenzione di valutare le intenzioni e la serietà dell’altra parte sabato e di regolare le nostre prossime mosse di conseguenza”.
Witkoff ha detto che l’incontro iniziale “riguarda la costruzione della fiducia. Si tratta di parlare del perché è così importante per noi arrivare a un accordo, non dei termini esatti dell’accordo”.
Qualsiasi accordo, ha detto Witkoff, richiederebbe misure di verifica sostanziali per garantire che l’Iran non stia lavorando a una bomba.
Trump ha affermato che i negoziati faccia a faccia sono necessari per sigillare un accordo. I funzionari iraniani hanno detto che i colloqui iniziali sarebbero stati indiretti, con la mediazione di funzionari omaniti tra le due parti. Witkoff ha detto che spera di risolvere la questione e di “stabilire i parametri” per i futuri colloqui.
I funzionari statunitensi sostengono che l’Iran potrebbe produrre un qualche tipo di arma nucleare in pochi mesi. Ma il mese scorso funzionari dell’intelligence americana hanno dichiarato al Congresso che la guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, non ha ancora deciso di costruire una bomba.
Per farlo, l’Iran ha bisogno di un programma di arricchimento per la produzione di materiale fissile, che ha già sviluppato. L’Iran dovrebbe anche produrre una testata usando quel materiale, un processo tecnicamente complicato.
L’Iran è l’unico Paese non dotato di armi nucleari che produce il 60% di uranio altamente arricchito, che può essere facilmente convertito in materiale fissile di grado militare per costruire una bomba nucleare.
Il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Waltz, ha affermato che niente di meno di un “completo smantellamento” del programma nucleare iraniano e del suo sforzo separato di produrre missili in grado di trasportare testate nucleari soddisferebbe Trump.
“L’Iran deve abbandonare il suo programma in un modo che tutto il mondo può vedere”, ha detto Waltz a “Face The Nation” della CBS il mese scorso. “Questo è l’arricchimento. Questo è l’armamento, e questo è il suo programma missilistico strategico… Rinuncia o ci saranno conseguenze”.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha incontrato Trump lunedì e ha avvertito che potrebbe essere necessaria una “opzione militare” con l’Iran, ha detto che un accordo dovrebbe includere l’eliminazione dei siti di arricchimento sotto la supervisione americana.
Ma il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, un veterano dei negoziati nucleari passati che guiderà il team iraniano, ha respinto l’idea di eliminare completamente il suo programma. “Gli Stati Uniti possono solo sognare”, ha dichiarato domenica in un’intervista all’agenzia di stampa parlamentare iraniana.
Negli ultimi due anni l’Iran ha subito ripetuti colpi alla sua sicurezza, con la sconfitta dei suoi alleati e dei suoi proxy miliziani in Libano, Siria e Gaza. Gli attacchi israeliani dello scorso anno ai siti di difesa aerea e ad altri obiettivi hanno reso l’Iran più vulnerabile agli attacchi diretti.
La sua economia è sotto pressione a causa delle sanzioni, un messaggio che l’amministrazione Trump ha cercato di trasmettere negli ultimi giorni imponendo nuove sanzioni sul programma nucleare iraniano e sulle società straniere coinvolte nel trasporto di petrolio iraniano.
La batosta subita nella regione da parte dei proxy sostenuti dall’Iran potrebbe anche aver rafforzato la determinazione di Teheran a preservare gran parte del suo programma nucleare.
Ali Shamkhani, uno dei principali aiutanti di Khamenei, ha dichiarato giovedì scorso che se i nemici dell’Iran continueranno a minacciare un’azione militare, Teheran potrebbe adottare quelle che ha definito misure di deterrenza, compreso il trasferimento delle scorte di uranio in “luoghi sicuri”.
(Rights Reporter, 12 aprile 2025)
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Senza una meta in vista
Apprendiamo senza particolare sconcerto che a marzo, Adam Boehler, inviato da Donald Trump come negoziatore per la liberazione degli ostaggi, aveva incontrato faccia a faccia tre membri dell’ufficio politico di Hamas.
Lo sconcerto invece Boehler lo aveva suscitato in Israele dopo le sue dichiarazioni a seguito dell’incontro in cui aveva affermato che i membri di Hamas sono esseri umani come noi e che è dalla loro umanità che bisogna partire.
L’incontro faccia a faccia, mai avvenuto prima tra un funzionario del governo americano e l’organizzazione jihadista, era finalizzato alla liberazione dell’ostaggio americano Edan Alexander. Trump desiderava che venisse liberato prima del suo discorso sullo Stato dell’Unione in modo da intestarsene il merito, ma diversamente da Netanyahu, che lo scorso gennaio aveva acconsentito per la medesima ragione, alla perentoria richiesta di Steve Witkoff di fare un accordo con Hamas prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, Hamas aveva rifiutato.
Le parole di Boehler su Hamas e la loro componente umana, così chiaramente manifestata il 7 ottobre del 2023, hanno poi trovato appoggio nelle parole di Witkoff durante la sua intervista con Tucker Carlson, nella quale ha detto che alla fine, i jihadisti non sono così radicalizzati e che con loro si può dialogare.
Come ha ricordato su queste pagine Daniel Pipes, non è certo una prerogativa dell’Amministrazione Trump quella di scegliere dei dilettanti di politica completamente inesperti di Medio Oriente, nel ruolo di inviati speciali nella regione, ciò non toglie che la piena legittimazione da parte americana di Hamas come interlocutore, inaugurata dall’Amministrazione Biden e proseguita da quella Trump, ha solo incrementato il suo potere contrattuale.
La guerra a Gaza prosegue da un anno e mezzo senza che se ne veda il termine, e 34 ostaggi vivi sono ancora detenuti.
Nell’incontro tra Trump e Netanyahu avvenuto l’8 aprile a Washington, su Gaza non è stata spesa alcuna parola rilevante, Trump si è limitato a dire che essa rappresenta un notevole asset edilizio, in compenso si è deciso di mandare Witkoff in Oman sabato per negoziare con l’Iran.
L’Iran dovrebbe impegnarsi a smantellare il suo programma nucleare, se non lo farà, Trump non ha escluso l’opzione militare. A questo proposito la presenza militare americana in Medio Oriente è stata incrementata tramite l’invio di un secondo gruppo di portaerei.
In attesa di vedere quale sarà l’esito dell’incontro si può solo constatare che a Gaza Hamas controlla ancora circa il sessanta per cento del territorio, detiene gli ostaggi come assicurazione sulla sua sopravvivenza e non esiste alcun piano concreto, cioè programmaticamente attuabile, né americano né israeliano per un futuro post Hamas, sempre che un futuro di Gaza senza Hamas sia praticabile.
(L'informale, 12 aprile 2025)
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Vento di cambiamento nell’IDF: sì allo smalto e alla barba
di Michelle Zarfati
L’IDF è pronto ad approvare una serie di modifiche al suo codice di abbigliamento per i soldati, tra cui consentire ai militari di farsi crescere la barba. In precedenza, solo i soldati ebrei osservanti avevano il permesso di tenere la barba lunga. Secondo i nuovi cambiamenti, tutte le truppe potranno avere lo stesso diritto purché sia ordinata e soddisfi le linee guida dell’IDF. Inoltre, le soldatesse potranno indossare quasi tutti i colori di smalto. In precedenza, lo smalto era limitato a una manciata di colori, come il rosa, il nero e il grigio.
Un altro cambiamento sarà quello che consentirà ai soldati di tornare a casa mentre indossano la loro uniforme tattica. In precedenza, quando le truppe lasciavano la loro base per il congedo, dovevano indossare uniformi eleganti, note come “Madei Aleph”.
Queste riforme proposte fanno parte di un piano molto più ampio guidato dal capo di stato maggiore Eyal Zamir che ha assunto la guida dell’IDF a marzo. Il suo mandato è caratterizzato da un’enfasi sulla modernizzazione, compresi gli adeguamenti alle politiche interne per riflettere meglio le esigenze dei membri del servizio di oggi e allinearsi con le norme sociali in evoluzione. In attesa dell’approvazione finale delle modifiche, si può segnalare il continuo impegno dell’IDF ad allineare la vita militare con i valori contemporanei e a sostenere un ambiente più inclusivo per il suo personale.
(Shalom, 10 aprile 2025)
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Un periodo decisivo per la sconfitta dell’Iran
di Ugo Volli
L’evento politico più importante per Israele nell’ultima settimana è stata la visita di Netanyahu alla Casa Bianca: non programmata e non prevista, in risposta a un invito urgente di Trump nel pieno della crisi dei dazi. Il primo ministro israeliano è volato direttamente a Washington dall’Ungheria, tralasciando per un paio di giorni le intricate polemiche interne al sistema politico israeliano. Nel breve colloquio con la stampa alla fine dei colloqui e nelle dichiarazioni successive, alcuni hanno voluto leggere un fallimento: Israele non ha ottenuto un trattamento di favore sui dazi, ma Trump già meditava evidentemente di sospenderli e Israele ha chiarito il proprio proposito di eliminare dazi e ostacoli ai prodotti americani, entrando evidentemente nel numero dei paesi amici che non dovrebbero essere davvero penalizzati in futuro. Sulla guerra di Gaza e con l’Iran, dicono queste voci, Trump non si è del tutto allineato con Israele.
• Gaza
Vediamo. Per quanto riguarda Gaza e la guerra, Trump non ha spinto perché Israele sospendesse l’azione in corso, soprattutto la costruzione di ampie zone cuscinetto sottratte al controllo palestinese, in particolare al confine con l’Egitto, e non ha nemmeno eccepito a un provvedimento in corso da due settimane, la sospensione dell’ingresso dei rifornimenti a Gaza, che senza dubbio ai tempi di Biden avrebbe suscitato un putiferio. Né Trump si è tirato indietro dal piano di favorire l’espatrio delle popolazione di Gaza. Insomma, non ci sono novità in un atteggiamento fortemente filo-israeliano, di cui fa parte anche la personale, evidente commozione di Trump per la sorte dei rapiti. Basta confrontare il suo atteggiamento con quello di Macron, che alla fine di una visita in Egitto ha annunciato il prossimo riconoscimento dell’inesistente “Stato di Palestina” per capire la sua posizione, che non è cambiata da tempo.
• La trattativa in Oman
Perché dunque Trump ha voluto parlare con Netanyahu? Il tema centrale dell’incontro è stato l’Iran, come ha dichiarato lo stesso primo ministro israeliano. Trump gli ha annunciato i colloqui previsti per sabato in Oman fra il suo inviato in Medio Oriente, Steve Witkoff, con il ministro degli esteri dell’Iran Abbas Araghchi. Che si annuncino questi colloqui è una novità, perché il “leader supremo” Khamenei aveva escluso ogni trattativa. Netanyahu ha detto che ne era a conoscenza, ma non ne aveva mai parlato. Ora la discussione sui giornali è se saranno colloqui diretti, come sostiene Witkoff, o solo indiretti, come dice Araghchi. Ma il punto vero non è questo. Israele non vuole che questo incontro in Oman sia l’inizio di un ciclo di trattative lunghe che farebbe guadagnare tempo all’Iran. Per Israele questo dovrebbe essere piuttosto un punto finale, in cui gli ayatollah dovranno rispondere a un’alternativa secca.
• Il modello libico o la guerra
Vi sono due possibilità, ha dichiarato Netanyahu. O l’Iran accetta di disarmare completamente il suo sistema di attacco nucleare, consegnando l’uranio arricchito che è il combustibile delle bombe atomiche (sembra che ne abbia già abbastanza per sei testate); smantellando il sistema delle centrifughe che permettono l’arricchimento; distruggendo il programma missilistico; e facendo tutto ciò sotto il diretto controllo americano – questo è quello che si chiama “modello libico” perché si riferisce al processo attraverso il quale la Libia, sotto il regime di Muammar Gheddafi, accettò di abbandonare volontariamente il suo programma di armi nucleari e altre armi di distruzione di massa sotto controllo internazionale nei primi anni 2000. Oppure il suo armamento nucleare e missilistico dovrà essere distrutto con mezzi bellici.
• L’accumulo di potenza militare contro l’Iran
Di questo hanno dunque parlato Trump e Netanyahu: una conversazione avvenuta in parallelo alle consultazioni di alto livello che si sono avute nell’ultima settimana fra i capi militari israeliani e americani e soprattutto alla costruzione di una imponente forza aeronavale americana intorno al Medio Oriente. Stanno arrivando nella zona quattro flotte con portaerei; nell’isola britannica di Diego Garcia (che è a portata di autonomia aerea dall’Iran) si sono radunati numerosi bombardieri strategici da bombardamento fra cui sei modernissimi B-2 invisibili al radar e capaci di portare le più grandi bombe anti-bunker del mondo; decine di voli di immensi aerei da carico hanno portato in Israele e nelle basi americane in Medio Oriente i più avanzati sistemi antimissile. Si può dire che oltre un terzo della potenza militare americana si stia concentrando intorno all’Iran.
• Le prospettive
Significa questo che l’attacco all’Iran è inevitabile? No, per carattere e per ideologia Trump preferisce le trattative anche durissime alla guerra. E soprattutto non vuole il coinvolgimento diretto di militari americani sul terreno. Per questo ha cercato le trattative, mandando qualche settimana fa una lettera diretta a Khamenei, autorizzando il negoziato in Oman e fra l’altro in un contesto diverso facendo incontrare diverse volte i suoi uomini direttamente con Hamas. Questa riluttanza lo mette in conflitto con Netanyahu, come molti nemici di Israele dicono con malcelata gioia? Neppure. Anche Israele preferirebbe che il regime clericale di Teheran cedesse le armi, perché esso dispone di ostaggi (fra cui circa 10 mila ebrei che vivono in Iran); perché ha probabilmente la possibilità di fare male a Israele (basterebbe una bomba atomica fatta esplodere con qualunque mezzo a Tel Aviv per mettere in ginocchio il paese; perché infine Israele pensa che si possa distinguere una popolazione iraniana innocente e perfino amica dall’aggressione del regime). Se il governo iraniano fosse costretto a rinunciare alle armi e alle manovre imperialistiche per cui ha impoverito il proprio popolo negli ultimi decenni, probabilmente finirebbe col cadere ignominiosamente, lasciando spazio alla resistenza pacifica che in questi anni è spesso emersa, pagando prezzi altissimi. Ma se la trattativa non si concludesse? La risposta l’ha data Trump in una dichiarazione dopo l’incontro con Netanyahu: “Se sarà necessario un intervento militare con l’Iran, ci sarà un intervento militare e Israele sarà coinvolto e guiderà l’azione”.
(Shalom, 11 aprile 2025)
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Disse Trump: “Se sarà necessario un intervento militare con l’Iran, ci sarà un intervento militare e Israele sarà coinvolto e guiderà l’azione”. Una delle tante frasi ad effetto di Trump, che a pensare agli ostaggi si commuove. Nel dicembre scorso ne aveva detta, anzi scritta, un'altra: "Tutti parlano degli ostaggi israeliani detenuti in modo violento e disumano, ma nessuno agisce. Se gli ostaggi non verranno rilasciati prima del 20 gennaio 2025, la data in cui assumerò con orgoglio il mio incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà un vero e proprio inferno in Medio Oriente, anche per quelli che sono responsabili di queste atrocità contro l’umanità”. La maggior parte degli ostaggi presenti allora a Gaza è ancora lì. E se è vero che in Medio Oriente adesso c'è l'inferno, vuol dire che i diavoli di Hamas rimasti dentro ci si sono abituati, perché continuano a muoversi come prima e più di prima. E' stato fatto un serio confronto fra gli interessi di Trump e quelli di Israele? M.C.
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Americani sempre più critici verso Israele
Un nuovo sondaggio negli Stati Uniti mostra che gli americani sono sempre più critici nei confronti di Israele. Questa tendenza è ancora più forte tra i giovani.
Il favore di Israele tra gli americani è diminuito significativamente negli ultimi anni. Un sondaggio del Pew Research Center conclude che il 53% degli americani adulti ha una visione negativa di Israele. Nel 2022, un anno prima dell'attacco di Hamas a Israele, la percentuale era del 42%.
Secondo il Pew Research Center, ci sono differenze tra i sostenitori democratici e quelli repubblicani. Secondo lo studio, il 37% dei repubblicani ha una visione negativa di Israele (2022: 27%), mentre il 69% dei democratici ha una visione negativa (2022: 53%). Le cifre sono significativamente più alte tra i sostenitori di entrambi i partiti di età inferiore ai 50 anni: il 50% dei repubblicani e il 71% dei democratici hanno un'opinione negativa.
Gli unici gruppi religiosi negli Stati Uniti che hanno un atteggiamento positivo nei confronti di Israele sono gli ebrei (73%) e i cristiani. I protestanti (57%) precedono di poco i cattolici (53%). Gli evangelici bianchi, in particolare, hanno una visione positiva di Israele (72%). Al contrario, l'81% dei musulmani ha un'opinione negativa di Israele.
L'interesse per la guerra è in calo
Inoltre, la maggioranza degli americani è contraria al piano del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump (repubblicano) di occupare la Striscia di Gaza. Il 62% è contrario al piano, mentre il 15% è favorevole.
Il sondaggio è stato condotto tra il 24 e il 30 marzo e ha coinvolto 3.605 cittadini statunitensi.
(israelnez, 11 aprile 2025)
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Huckabee confermato ambasciatore degli Stati Uniti in Israele
“Non posso essere un cristiano e non avere a che fare con il popolo ebraico”
di Adam Eliyahu Berkowitz
Mercoledì il Senato degli Stati Uniti ha votato 53 a 46 per confermare il governatore Mike Huckabee come ambasciatore in Israele. Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha elogiato la conferma del suo “grande amico”, affermando che si tratta di un “grande giorno per l'alleanza israelo-americana”. Huckabee ha risposto: “Grazie e non vedo l'ora di lavorare con te mentre preghiamo per la 'Pace di Gerusalemme!”. Forte sostenitore di Israele, Huckabee è stato nominato dal Jerusalem Post il secondo sionista più influente d'America nel 2024. Huckabee, ordinato ministro battista del Sud, è il primo non ebreo nominato alla carica da quando il presidente George W. Bush nominò James Cunningham nel 2008. Ci sono nove membri ebrei del Senato degli Stati Uniti - tutti democratici o indipendenti - e nessuno di loro ha votato per Huckabee. Huckabee ha affrontato una dura opposizione da parte dei democratici che si sono opposti al suo sostegno a Israele basato sulla fede. In un video pubblicato sui social media, Huckabee spiega la sua devozione a Israele: “Si può essere ebrei e non avere nulla a che fare con i cristiani, ma non posso essere cristiano e non avere niente a che fare con il popolo ebraico, la fede ebraica, le Scritture. Tutto ciò in cui credo è costruito sulle fondamenta di queste, quindi per me - e per la maggior parte degli evangelici - si può dire che siamo persone del Libro. È semplice”. Ronald Lauder, presidente del Congresso ebraico mondiale, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
«A nome del Congresso ebraico mondiale, mi congratulo con Mike Huckabee per la sua conferma e non vedo l'ora di sostenerlo mentre si reca a Gerusalemme per questo importante incarico in un momento storico. La sua nomina prosegue il chiaro impegno dell'amministrazione Trump a rafforzare l'alleanza tra Stati Uniti e Israele in un momento di grandi sfide e opportunità. Sono certo che, in qualità di inviato in Israele, l'ambasciatore Huckabee continuerà a impegnarsi per rafforzare il legame unico tra le due nazioni, mantenendo in cima all'agenda la richiesta di liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas. La loro continua prigionia è una macchia quotidiana sulla coscienza della comunità internazionale, e ogni canale disponibile deve essere utilizzato per riportarli a casa.»
Huckabee è un forte sostenitore di Israele e si oppone alla statualità palestinese. In un'intervista del 2015 al Washington Post, ha dichiarato: “L'idea che abbiano una lunga storia, che risale a centinaia o migliaia di anni fa, non è vera”. Si oppone alla Soluzione dei due Stati, un programma politico che creerebbe uno Stato arabo militarizzato senza precedenti ai confini di Israele, ripulito etnicamente dagli ebrei, con una capitale esclusivamente musulmana a Gerusalemme. Al suo posto, sostiene la sovranità di Israele sulla terra conquistata nella guerra difensiva dei Sei Giorni del 1967. Ha suggerito che uno “Stato palestinese” potrebbe essere istituito in Paesi vicini come l'Egitto, la Siria o la Giordania, dove vive già un numero molto maggiore di palestinesi, piuttosto che all'interno dei confini di Israele. Nel 2017, in un evento in Samaria, ha dichiarato: “Non esiste una Cisgiordania - è Giudea e Samaria. Non esiste un insediamento. Sono comunità. Sono quartieri. Sono città. Non esiste un'occupazione”. Ha anche respinto il concetto di identità palestinese, affermando che si tratta di “uno strumento politico per cercare di sottrarre terra a Israele”. “Fondamentalmente, non esiste - devo stare attento a dirlo, perché molti si arrabbierebbero - una cosa come un palestinese”, ha detto Huckabee in una tappa della campagna elettorale del 2008 in Massachusetts, mentre parlava con due uomini ebrei ortodossi. “Non esiste”.
(Israel365, 11 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashat Tzav. Essere ebrei significa offrire ringraziamento e gratitudine
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Tra i sacrifici descritti nella Parashà di questa settimana c’è il korban todà, l’offerta di ringraziamento: “Se (una persona) offrirà [il sacrificio] come offerta di ringraziamento, allora insieme a questa offerta di ringraziamento offrirà azzime impastate con olio, gallette non lievitate unte con olio e focacce di fior di farina ben impastata e mescolata con olio.” (Levitico 7:12)
Anche se siamo senza sacrifici da quasi duemila anni, una traccia dell’offerta di ringraziamento sopravvive fino ad oggi, sotto forma della benedizione nota come Hagomel: “Colui che elargisce il bene anche agli indegni”, recitata in sinagoga, al momento della lettura della Torà, da chi è sopravvissuto a una situazione pericolosa.
Cosa costituisce una situazione pericolosa? I Maestri (Berachot 54b) trovarono la risposta nel Salmo 107, un canto sul tema del ringraziamento, che inizia con le parole più note della gratitudine religiosa nell’ebraismo: “Hodu la-Shem ki tov, ki le-olam chasdo”, “Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la Sua bontà dura per sempre” (Salmo 107).
Il salmo stesso descrive quattro situazioni specifiche:
- Attraversamento del mare:
Alcuni scesero in mare su navi; erano mercanti sulle grandi acque… Salivano fino al cielo e scendevano negli abissi; nella loro angoscia il coraggio veniva meno… Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li trasse fuori dalle loro difficoltà. Calmò la tempesta in una brezza; le onde del mare si acquietarono.- Attraversamento del deserto:
Alcuni vagavano in terre desertiche, senza trovare la via per una città dove stabilirsi. Erano affamati e assetati, la loro possibilità di vita stava venendo meno. Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li liberò dalle loro difficoltà.
- Guarigione da una grave malattia:
Rifiutavano ogni cibo e si avvicinavano alle porte della morte. Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li salvò dalle loro difficoltà. Mandò la Sua parola e li guarì; li liberò dalla tomba.
- Liberazione dalla prigionia:
Alcuni sedevano nelle tenebre e nell’ombra più cupa, prigionieri che soffrivano in catene di ferro… Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li salvò dalle loro difficoltà. Li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra più cupa e spezzò le loro catene. (Berachot 54b)
Ancora oggi, queste sono le situazioni di pericolo (oggi molti includono anche il volo aereo oltre al viaggio per mare) per le quali si recita l’Hagomel quando si è scampati indenni.
Nel suo libro A Rumour of Angels, il sociologo americano Peter Berger (1929-2017) descrive ciò che chiama “segnali di trascendenza” – fenomeni all’interno della condizione umana che indicano qualcosa al di là. Tra questi include l’umorismo e la speranza. Non c’è nulla nella natura che spieghi la nostra capacità di riformulare situazioni dolorose in modo da poterci ridere sopra; né c’è nulla che spieghi la capacità umana di trovare un senso persino nelle profondità della sofferenza.
Questi non sono, nel senso classico, prove dell’esistenza di Dio, ma sono evidenze esperienziali. Ci dicono che non siamo aggregazioni casuali di geni egoisti che si riproducono ciecamente. I nostri corpi possono essere prodotti della natura (“polvere sei e alla polvere ritornerai”), ma le nostre menti, i nostri pensieri, le nostre emozioni – tutto ciò che è indicato con la parola “anima” – non lo sono. C’è qualcosa dentro di noi che tende verso qualcosa oltre noi: l’anima dell’universo, il Divino “Tu” a cui ci rivolgiamo nella preghiera, e al quale i nostri antenati, quando esisteva il Tempio, offrivano i loro sacrifici.
Anche se Berger non lo include, uno dei “segnali di trascendenza” è sicuramente il desiderio umano istintivo di rendere grazie. Spesso è semplicemente umano. Qualcuno ci ha fatto un favore, ci ha fatto un dono, ci ha consolato nel dolore, o ci ha salvati dal pericolo. Sentiamo di dovergli qualcosa. Quel “qualcosa” è todà, la parola ebraica che significa sia “riconoscimento” che “ringraziamento”.
Ma spesso sentiamo qualcosa di più. Non è solo al pilota che vogliamo dire grazie quando atterriamo sani e salvi dopo un volo pericoloso; non solo al chirurgo, quando sopravviviamo a un’operazione; non solo al giudice o al politico, quando siamo liberati da prigionia o cattività. È come se una forza più grande fosse entrata in azione, come se la mano che muove i pezzi sulla scacchiera umana avesse pensato a noi; come se il cielo stesso fosse sceso in nostro aiuto.
Le compagnie di assicurazione tendono a definire le catastrofi naturali come “atti di Dio”. L’emozione umana fa l’opposto. Dio è nella buona notizia, nella sopravvivenza miracolosa, nella salvezza dalla catastrofe. Questo istinto – di offrire ringraziamento a una forza, una presenza, al di sopra delle circostanze naturali e dell’intervento umano – è esso stesso un segnale di trascendenza. Questo è ciò che un tempo veniva espresso con l’offerta di ringraziamento, e che ancora oggi viene espresso con la preghiera dell’Hagomel. Ma non è solo dicendo l’Hagomel che esprimiamo la nostra gratitudine.
Elaine mia moglie ed io eravamo in viaggio di nozze. Era estate, il sole splendeva, la spiaggia era splendida e il mare invitante. C’era solo un problema. Non sapevo nuotare. Ma osservando il mare, notai che vicino alla riva era davvero molto basso. C’erano persone a diverse centinaia di metri dalla spiaggia, eppure l’acqua arrivava solo alle loro ginocchia. Cosa poteva essere più sicuro – pensai – che camminare semplicemente in mare e fermarmi ben prima di perdere il contatto con il fondo.
Lo feci. Camminai per diverse centinaia di metri e sì, l’acqua arrivava solo alle ginocchia. Mi voltai e cominciai a tornare indietro. Con mia sorpresa e spavento, mi ritrovai improvvisamente sommerso dall’acqua. Evidentemente avevo camminato in un avvallamento nella sabbia. Non toccavo più. Provai a nuotare. Fallii. Era pericoloso. Non c’era nessuno vicino. Le persone che nuotavano erano molto lontane. Andai sotto, più volte. Alla quinta volta, capii che stavo annegando. La mia vita stava per finire. Che modo – pensai – di iniziare un viaggio di nozze.
Ovviamente qualcuno mi salvò, altrimenti non starei scrivendo queste righe. Ancora oggi non so chi fosse: a quel punto ero quasi incosciente. Tutto ciò che so è che deve avermi visto lottare. Nuotò fino a me, mi afferrò e mi portò in salvo. Da allora, le parole che diciamo ogni giorno al risveglio hanno per me un significato profondo: “Ti ringrazio, Dio vivente ed eterno, perché hai restituito la mia vita a me: grande è la Tua fedeltà.” Chiunque sia sopravvissuto a un grande pericolo sa cosa significa sentire, non solo sapere in astratto, che la vita è un dono di Dio, rinnovato ogni giorno.
La prima parola di questa preghiera, Modeh, proviene dalla stessa radice ebraica di Todah, “ringraziamento”. Così anche la parola Yehudi, “ebreo”. Abbiamo ricevuto questo nome dal quarto figlio di Giacobbe, Yehudà. Lui a sua volta ricevette il nome da Leah che, alla sua nascita, disse: “Questa volta ringrazierò [alcuni traducono: loderò] il Signore” (Genesi 29:35).
Essere ebrei significa offrire ringraziamento. Questo è il significato del nostro nome e il gesto costitutivo della nostra fede.
Ci sono stati ebrei che, dopo la Shoah, hanno cercato di definire l’identità ebraica in termini di sofferenza, vittimismo, sopravvivenza. Un teologo parlò di un 614º comandamento: “Non dare a Hitler una vittoria postuma.” Lo storico polacco Salo Baron (1895-1989) chiamò questa lettura della storia “lacrimosa”: una storia scritta con le lacrime. Io, per parte mia, non sono d’accordo. Sì, c’è stata sofferenza ebraica. Eppure se questo fosse stato tutto, gli ebrei non avrebbero fatto ciò che in realtà la maggior parte fece: trasmettere la propria identità ai figli come la loro eredità più preziosa.
Essere ebrei significa provare un senso di gratitudine; vedere la vita stessa come un dono; saper vivere la sofferenza senza esserne definiti; dare alla speranza la vittoria sulla paura. Essere ebrei significa offrire ringraziamento.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz”l
(Bet Magazine Mosaico, 11 aprile 2025)
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Pesach – Il giorno e la notte, l’amaro e il dolce
di Rav Alberto Somek
Nella preghiera del mattino si dice: «Benedetto Tu H…. che forgi la luce e crei il buio» e in quella serale: «… che avvicendi la luce davanti al buio e il buio davanti alla luce». È strano che ogni volta nominiamo anche il dono opposto invece di ringraziare solo per il beneficio del momento! Ma così ci insegna Rabbà bar ‘Ullà nel Talmud: «Si deve menzionare anche il dono del giorno di notte e il dono della notte di giorno» (Berakhot 12b). Una prima spiegazione risiede nel fatto che esiste agli antipodi un’altra terra che beneficia della luce quando da noi è notte e viceversa. Già nello Zohar ciò è noto, alcuni secoli prima della scoperta dell’America (P. Wayqrà, 10a).
Ma esiste un’altra motivazione più profonda. In tutte le lingue buio è sinonimo di male (si pensi al detto “tempi bui”), mentre luce è sinonimo di bene. Ciò ci rimanda a un versetto della Torah in cui il Faraone ci rivela le sue credenze. Il re d’Egitto «disse loro (a Moshe e Aharon): … guardate che il Male è davanti a voi!» (Shemot 10, 10). Per R. ‘Azaryah Picho (Venezia, sec. XVII) il Faraone era convinto che il D. degli Ebrei fosse un dio del male, in opposizione a un’altra divinità preposta al bene.
Tale Dio maligno ora perseguitava gli Egiziani, ma una volta distrutti questi se la sarebbe presa anche con gli Ebrei e il Faraone si proponeva di proteggerli trattenendoli e così sottraendoli, per quanto riteneva nelle sue forze, all’influenza nefasta di questa Divinità. Ovviamente il Faraone si sbagliava: esiste un unico D. che amministra il Bene e il Male a seconda di come le persone si comportano.
Questo è il messaggio che pone la liberazione degli Ebrei dall’Egitto e la contestuale punizione degli Egiziani malvagi a centro e fondamento della nostra fede. Noi ribadiamo tale messaggio due volte al giorno quando, mattina e sera, affermiamo nella Tefillah che D. è fautore tanto dell’avvento del giorno, il bene, che della notte, simbolo di male.
Ma oltre che il Faraone, Moshe doveva anche persuadere il suo stesso popolo dell’esistenza di una Divina Provvidenza. In quest’ottica preferiamo parlare dell’alternanza di due attributi del S.B.: la middat ha-din, il Suo rigore, e la middat ha-rachamim, ovvero la Sua bontà. Durante il Seder di Pesach prima si intinge un cibo dolce nell’amaro (il sedano nell’acqua salata) e poi si intinge l’erba amara nel dolce (i maròr nel charòsset, impasto di frutta). In questo modo ci ricordiamo che le cose buone (rachamim) non durano in eterno, ma lasciano il posto a momenti bui in cui sembra prevalere il din; d’altronde anche i rigori prima o poi cessano a favore dei momenti buoni. Il Ben Ish Chay di Baghdad indossava al dito un anello su cui era scritto: «Anche questo passa». Nelle disgrazie lo guardava e si consolava; d’altronde, nei momenti buoni si ammoniva che non doveva insuperbirsi per conseguenza, perché neanche questi erano destinati a durare.
È sintomatico che dei due intingoli solo il secondo è di Mitzwah. È scritto infatti: «E mangeranno la carne (dell’agnello pasquale) in questa notte arrostita sul fuoco, insieme a azzime (matzot) e erbe amare (maròr) (Shemot 12, 8). La Torah ci insegna che il dolce tempera l’amaro e non viceversa! Basta saper attendere e la redenzione si compirà per mano del S.B.
(moked, 11 aprile 2025)
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L'IDF evacuerà Rafah, creando una zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza ed Egitto
Il Corridoio Morag si estenderà per 3,1 miglia nella Striscia, mentre Israele si muove per tagliare le linee di rifornimento di Hamas dal Sinai.
Le Forze di Difesa Israeliane stanno ultimando i piani per evacuare la città di Rafah e stabilire una zona cuscinetto strategica lungo il confine meridionale di Gaza, in quello che i funzionari israeliani descrivono come un passo fondamentale nello smantellamento della presenza militare di Hamas nell'area.
Il piano è incentrato sulla costruzione del Corridoio Morag, una nuova fascia di sicurezza che si estende dalla costa mediterranea a ovest attraverso l'ex insediamento di Morag e si collega al Corridoio Philadelphi lungo il confine egiziano, secondo quanto riportato dai media ebraici. Il corridoio dovrebbe estendersi fino a 5 chilometri (3,1 miglia) all'interno di Gaza, circondando di fatto Rafah.
Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha dichiarato all'inizio della settimana: “Rafah sarà evacuata. Quest'area diventerà una zona cuscinetto per eliminare la capacità di Hamas di riorganizzarsi o di contrabbandare armi attraverso il confine meridionale”.
L'istituzione del corridoio arriva in un momento in cui l'attività dell'IDF nel sud di Gaza è in aumento, con mappe di evacuazione aggiornate che mostrano zone di sgombero ampliate vicino al confine. I funzionari israeliani sottolineano che questo cuscinetto è necessario per impedire la ricostituzione delle forze di Hamas e l'uso dei tunnel di contrabbando che corrono tra Gaza e l'Egitto.
“Questa operazione non è solo tattica ma strategica. Il controllo di Rafah e del Corridoio di Filadelfia chiuderà le ultime vie di rifornimento esterne di Hamas”, ha dichiarato una fonte dell'IDF citata da Ynet.
Sebbene l'IDF non abbia ancora lanciato ufficialmente una completa operazione di terra a Rafah, i preparativi sono in corso e gli ufficiali hanno ribadito che l'offensiva andrà avanti una volta completata l'evacuazione dei civili.
(JNS, 10 aprile 2025)
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Quando la Corte Suprema diventa la Knesset
Cosa succede quando tutte le “vacche sacre” vengono macellate? L'escalation in aula conferma esattamente gli avvertimenti formulati dall'avvocato e giornalista Yuval Elbashan nel suo attuale commento.
di Dov Eilon
Quello che si è svolto lunedì alla Corte Suprema di Israele è stato più di un'udienza legale: è stato un riflesso dell’imbarbarimento sociale. L'udienza, che riguardava le petizioni per la rimozione del capo dei servizi segreti interni Shin Bet, Ronen Bar, si è trasformata in uno spettacolo politico che in precedenza era più familiare alla Knesset: Fischi, proteste rumorose, attacchi personali.
Prima fra tutte la deputata del Likud Tali Gottlieb, che ha ripetutamente disturbato l'aula ed è stata infine espulsa dal giudice Yitzchak Amit. In un momento quasi simbolico dello stato del Paese, le ammonizioni di Amit hanno ricordato quelle di un oratore della Knesset che richiama all'ordine i parlamentari - tranne che non si trattava del Parlamento, ma della più alta corte di Israele.
L'avvocato e giornalista Yuval Elbashan riassume il tutto in un commento pubblicato su Ynet: “Si potrebbe pensare che sia lo speaker del Parlamento, che, secondo il paragrafo 42 del regolamento interno, deve emettere tre avvertimenti prima di essere autorizzato ad allontanare qualcuno dalla sessione plenaria”. Elbashan, che si è a lungo battuto per la giustizia sociale e lo stato di diritto, descrive in modo impressionante come lo stile politico della Knesset si sia ora insinuato nella magistratura - come risultato di anni di erosione della decenza e del rispetto istituzionale.
E chiede retoricamente: “Cosa pensavate esattamente che sarebbe successo? Che la Corte Suprema sarebbe stata risparmiata quando le vacche sacre sono state macellate ovunque?”. E continua: “Chiunque infranga tutte le regole per protestare contro una violazione delle regole non dovrebbe sorprendersi quando le regole crollano”. Secondo Elbashan, i tribunali sono stati a lungo l'ultimo luogo in cui vigevano ancora l'ordine, la dignità e una certa forma di rituale. Ma anche lì ormai si è insediato il caos.
Questo sviluppo, come lui stesso dice, “non è il risultato di un caso singolo, ma il risultato di anni in cui ci si è voltati dall'altra parte, svalutando e coltivando il chiassoso e lo spietato”. Elbashan critica non solo le voci radicali in parlamento, ma anche la maggioranza silenziosa che ha a lungo tollerato questo imbarbarimento. “Abbiamo lasciato che la facessero franca”, scrive, ‘e ora possiamo vedere dove questo ci porta’.
In effetti, ciò che sta accadendo nel settore giudiziario è espressione di un cambiamento generale nel tono politico e nel rapporto tra le istituzioni. Il tono del dibattito pubblico è diventato più duro negli ultimi anni, non solo in Parlamento, ma anche nei media e online. Anche i tradizionali confini del rispetto delle istituzioni e dei loro rappresentanti sono diventati sempre più labili.
In questo clima, non sorprende che la Corte Suprema non sia più considerata intoccabile. Le controversie sul ruolo della magistratura, sui suoi poteri e sulla sua composizione - ad esempio nel contesto del dibattito sulla riforma giudiziaria - riflettono una tensione più profonda tra i poteri che ora si fa sentire anche nelle aule di giustizia.
Di conseguenza, la questione centrale - se Ronen Bar possa rimanere in carica - è quasi passata in secondo piano. All'indomani dei massacri del 7 ottobre, il capo dello Shin Bet ha ammesso pubblicamente la sua responsabilità, il che non è stato sufficiente per alcuni gruppi. Ma invece di concentrarsi sulle argomentazioni legali, l'udienza è degenerata in uno spettacolo politico che ha fatto più notizia che giustizia.
Elbashan vede in questo una responsabilità della società nel suo complesso: “I maleducati che oggi gridano erano silenziosi ieri, quando si trattava di altri. Quelli che oggi difendono le istituzioni erano silenziosi quando loro stessi traevano vantaggio dall'indebolimento di altri”. Il suo messaggio: il crollo dei toni, delle buone maniere e del rispetto reciproco non è una coincidenza, ma una conseguenza dell'indifferenza collettiva.
Rimane l'amara impressione che le istituzioni democratiche israeliane siano sempre più sotto pressione, non solo dall'esterno, ma anche dal modo in cui si trattano all'interno. Quando la Corte Suprema diventa la Knesset, non è in gioco solo la reputazione della Corte, ma l'equilibrio del potere nella democrazia israeliana nel suo complesso.
(Israel Heute, 10 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Voci da Gaza contro Hamas: il 16 aprile al Senato un evento con due dissidenti palestinesi
Mercoledì 16 aprile alle 18:00 al Senato (Aula Convegni, Palazzo Carpegna, Via degli Staderari, 2) si terrà un evento intitolato ‘Voci da Gaza. La fine di Hamas è la premessa per il cessate il fuoco’ che vedrà la partecipazione di due dissidenti palestinesi anti-Hamas di Gaza: Hamza Howidy, attivista di Gaza per i diritti umani, dissidente anti-Hamas in esilio, e Moumen al-Natour, co-promotore del movimento di protesta Bidna Naish (“Vogliamo vivere”), in collegamento da Gaza. Entrambi sono tra i fondatori di Bidna Naish, nato nel 2019, motore delle proteste in corso nella Striscia di Gaza. Per la loro attività, sono stati incarcerati e torturati più volte.
Li intervisterà la giornalista Sharon Nizza, autrice del libro 7 ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo, analista dei conflitti mediorientali. Un’occasione unica per ascoltare senza filtri voci palestinesi contro il governo di Hamas, oggi al centro delle proteste di migliaia di gazawi esasperati da anni di ingiustizie, violenze e soppressione delle libertà da parte dell’organizzazione al governo dal 2007.
Durante l’evento, interverranno Ivan Scalfarotto, Senatore di Italia Viva, Piero Fassino, Deputato del Partito Democratico, e Lucio Malan, Senatore di Fratelli d’Italia.
Ingresso fino a esaurimento posti. Registrazione obbligatoria:
segreteria.italiavivailcentrore@senato.it
Per gli uomini obbligo di indossare giacca e cravatta.
(Bet Magazine Mosaico, 10 aprile 2025)
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Pesach – Le proposte educative di Zeraim
Sapevate che nel 1947 David Ben Gurion, per perorare la causa di Israele, rievocò di fronte a una commissione britannica la vicenda dell’Esodo? «Trecento anni fa, una nave di nome Mayflower, partiva verso il Nuovo Mondo. Si trattava di un grande avvenimento all’interno della storia inglese e americana… Ma io vorrei sapere: c’è forse un inglese che sappia esattamente in quale momento partiva questa nave? Quanti sono gli americani a saperlo? E qualcuno di loro sa forse quante persone c’erano su questa nave e che genere di pane abbiano consumato?», chiese ai suoi interlocutori il futuro primo ministro dello Stato ebraico. «Ecco, più di 3300 anni prima della partenza della Mayflower, uscirono gli ebrei dall’Egitto e ogni ebreo nel mondo, anche in America, o in Russia, sa esattamente in quale giorno». L’aneddoto è ricordato sul sito dedicato all’educazione ebraica Zeraim, lanciato dall’UCEI nel 2020, che propone in vista dell’ormai imminente Pesach numerosi contenuti inediti per adulti e bambini: Haggadot didattiche, attività per famiglie e proposte di gioco come un trivial e un sudoku incentrati sulla festa. Nel nuovo materiale messo a disposizione in rete c’è anche un approfondimento in vista del Seder, la cena rituale, per ripercorrere quel viaggio verso la libertà nel segno della consapevolezza. E delle domande. È importante arrivarci preparati, si legge, perché «nella notte di Pesach, in cui educhiamo i nostri figli e le nostre figlie alla storia dell’uscita dall’Egitto, dobbiamo fare attenzione alle differenze tra i bambini e dare a ognuno di loro il messaggio più adatto».
(moked, 10 aprile 2025)
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Israele onorerà i civili eroi del 7 ottobre con un riconoscimento ufficiale
di Luca Spizzichino
L’esercito israeliano ha annunciato che i civili uccisi durante l’attacco del 7 ottobre 2023 e che si sono distinti per atti di eroismo riceveranno un riconoscimento e una commemorazione dedicata da parte del governo. Il provvedimento riguarderà anche gli ostaggi assassinati in prigionia a Gaza e i riservisti dell’IDF uccisi mentre non erano in servizio attivo nel corso della guerra “Spade di Ferro”.
La decisione riflette la volontà dello Stato di “onorare i civili che hanno dimostrato straordinario coraggio”, mantenendo però la distinzione tra personale militare e popolazione civile. Il riconoscimento sarà concesso a tre categorie di persone: civili uccisi mentre combattevano o svolgevano attività di salvataggio il 7 e 8 ottobre, ostaggi uccisi durante la prigionia e riservisti caduti fuori dal servizio. Per queste persone, è previsto un funerale civile con rappresentanza militare, una targa speciale sulla lapide e una menzione ufficiale nella cerimonia statale per le vittime del terrorismo, che si tiene ogni anno al Monte Herzl. I loro nomi saranno inoltre aggiunti al sito commemorativo ufficiale dedicato alle vittime di atti ostili.
La decisione è arrivato dopo una discussione avviata a marzo su proposta del ministro della Difesa, Israel Katz. Tra i casi che hanno contribuito ad aprire il dibattito, quello di Alon Shamriz, uno dei tre ostaggi uccisi per errore da soldati israeliani a Gaza. La famiglia aveva chiesto che fosse riconosciuto come caduto in servizio, ma la richiesta era stata inizialmente respinta.
Un comitato apposito all’interno della Direzione del Personale dell’IDF, con la partecipazione di un rappresentante dell’Organizzazione per le Vittime del Terrorismo, esaminerà caso per caso per determinare l’idoneità al nuovo status.
(Shalom, 9 aprile 2025)
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Gaza sfida Hamas, ma l’Occidente guarda altrove: proteste, repressione e silenzi
Per la terza settimana di fila, i gazawi sfidano Hamas con proteste pubbliche. Mentre la repressione si fa più brutale, i media internazionali restano in silenzio.
di Sofia Tranchina
Domenica scorsa, 6 aprile, ancora una volta, da Jabaliya a Deir al-Balah, passando per Gaza City, centinaia, forse migliaia di cittadini palestinesi sono scesi in piazza per chiedere la fine del governo di Hamas, per ricostruire Gaza libera dall’influenza iraniana. “Rilasciate gli ostaggi, cedete il potere, basta guerra con Israele, basta razzi, basta fame, basta morte e devastazione”, chiedono i gazawi.
Le proteste, iniziate il 25 marzo, sono esplose in un clima di orrore e tensione crescente, tra la ripresa dei bombardamenti e le dure dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz, che ha minacciato l’annessione di parti di Gaza e l’espulsione della popolazione qualora Hamas non avesse rilasciato gli ostaggi. Da allora si sono susseguiti cortei, raduni spontanei, slogan, cartelli scritti a mano. Nei video condivisi sui social, si vedono i manifestanti urlare, a viso scoperto, “Via Hamas. Via i Fratelli Musulmani. Vogliamo vivere.” Un atto di sfida diretto a Hamas, che dal 2007 governa la Striscia con un pugno di ferro violento, dopo aver preso il potere con “elezioni democratiche” che prevedevano la defenestrazione degli oppositori da alti edifici. Ha instaurato una teocrazia islamica basata su sorveglianza capillare, repressione violenta e controllo ideologico. Il suo leader più noto, Yahya Sinwar — la mente dietro l’attacco del 7 ottobre contro Israele — è salito ai vertici uccidendo rivali palestinesi, e ha descritto i civili palestinesi morti come ‘sacrifici necessari’ alla sua causa. Intanto, gli aiuti umanitari vengono continuamente dirottati ai vertici del gruppo, lasciando la popolazione alla fame.
• La reazione violenta di Hamas
Hamas ha reagito come tutte le dittature: con torture, sparizioni e repressione. Il caso più noto è quello di Oday Al-Rubay, 22 anni, rapito, torturato e ucciso da Hamas la settimana scorsa per aver osato criticare il gruppo sui social media e aver partecipato alle manifestazioni. «Lo hanno rapito e lo hanno torturato per ore», ha raccontato alla CNN il fratello Hassan. «Indossava solo biancheria intima e i combattenti lo avevano legato per il collo con una corda. Me lo hanno restituito vivo, sanguinante, e mi hanno detto: questo è il destino di chi manca di rispetto alle Brigate al-Qassam.» Un video condiviso sui social lo mostra disteso su un letto d’ospedale, coperto di grandi tagli e lividi. Oday è morto poco dopo in ospedale. «Non venite a porgere le condoglianze prima che ci vendichiamo», avrebbe affermato un familiare al suo funerale.
Secondo Ynet News, Hamas ha giustiziato almeno sei palestinesi e ne ha picchiati pubblicamente altri in risposta alle proteste. Ma, a differenza del passato, sta evitando massacri di massa: l’attenzione internazionale è troppo alta. E così, la repressione si trasforma in un altro tipo di violenza: quella narrativa. Il movimento islamista cerca di delegittimare le proteste descrivendole come il risultato di interferenze esterne, e le minimizza, presentandole come vaghi sfoghi “contro la guerra” più che come un attacco al regime. Censura i contenuti più critici e reprime la diffusione di immagini, video, testimonianze.
«Non possono imprigionarli tutti. Non possono ucciderli tutti», ha scritto su Facebook Ahmed Fouad Alkhatib, attivista palestinese-americano e direttore del Project Unified Assistance. «Allora cercano di farli vergognare, accusandoli di essere traditori. Hamas è una minaccia esistenziale per il popolo palestinese a Gaza.»
La disperazione si è tradotta anche in giustizia privata. Secondo The National, una famiglia di Deir al-Balah ha ucciso un poliziotto di Hamas dopo che quest’ultimo aveva aperto il fuoco durante una calca fuori da un deposito di farina, uccidendo un loro parente. Hamas ha definito l’agente “una vittima di criminali” e ha dichiarato: «Non permetteremo a nessuna parte di diffondere il caos nella Striscia di Gaza o di farsi giustizia da sola.»
Anche a Gaza City la tensione è esplosa. Come riportato da Israel Hayom, un clan locale ha chiesto pubblicamente giustizia dopo che un loro figlio è stato torturato a morte dagli agenti del regime. E in un video diventato virale sui social, Hisham al-Barawi, capo di uno dei principali clan di Beit Lahia, ha affermato: «Il governo di Hamas è finito. L’organizzazione ci ha distrutti. Per noi sarebbe meglio se i sudanesi ci controllassero.»
Ufficialmente, Hamas prova a mostrarsi tollerante, in particolare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Il suo ufficio stampa dichiara: «Le proteste sono un diritto legittimo e una parte essenziale dei valori nazionali in cui crediamo e che difendiamo.» Una frase studiata per mantenere una facciata di legittimità democratica, pur continuando a reprimere il dissenso.
• Le voci palestinesi “contro” Hamas e il cieco Occidente
Poche voci riescono, malgrado tutto, a bucare la barriera e arrivarci da Gaza. Hamza Howidy, attivista sociale e volto storico del movimento Bidna N’eesh (“Vogliamo vivere”), è uno dei pochi a parlare apertamente. Arrestato e torturato nel 2019 per aver organizzato proteste anti-Hamas, oggi accusa il silenzio dell’Occidente: «Il popolo di Gaza è pronto a liberarsi da Hamas e rischia la vita per farlo, ma i loro sforzi vengono ignorati dal movimento filopalestinese e dai media. Se non sostengono i gazawi che rischiano tutto, che tipo di movimento è? Un movimento di natura vuota e opportunistica, che non vede i palestinesi come persone vere con lotte reali, ma come strumenti da usare nelle loro battaglie ideologiche. Per questo Mahmoud Khalil [lo studente palestinese arrestato in Europa per aver inneggiato a Hamas] è stato inneggiato come martire, mentre Oday Al-Rubay è stato lasciato morire in silenzio per mano del regime».
Anche Bassem Eid, attivista palestinese per i diritti umani, punta il dito contro l’ipocrisia: «È tempo di ascoltare la gente di Gaza, non i terroristi che controllano le loro vite.»
Secondo Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research, le proteste sono state innescate da tre fattori principali: la fame, il desiderio di porre fine alla guerra e, «soprattutto, la richiesta a Hamas di dimettersi e lasciare il governo». Tuttavia, va notato che il sentimento anti-Hamas a Gaza non implica necessariamente un desiderio di normalizzazione con Israele. Shikaki avverte che queste dimostrazioni non rappresentano ancora una minaccia concreta al controllo del gruppo islamista. I sondaggi condotti dal suo centro indicano che la maggioranza dei cittadini di Gaza attribuisce le proprie sofferenze principalmente a Israele e agli Stati Uniti. Solo uno su cinque ritiene responsabile Hamas. Inoltre, i valori fondamentali dei cittadini di Gaza in termini di identità religiosa, nazionale e disponibilità al martirio non sono diminuiti. Molti gazawi hanno espresso semplicemente il timore che, finché Hamas resterà al potere, Israele continuerà a bombardare e i civili continueranno a subire morte e sfollamento.
Le proteste sono spontanee, disorganizzate, prive di leadership e senza un programma chiaro. Non sono una rivoluzione, non sono una “Primavera araba”. Ma sono qualcosa che, fino a ieri, sembrava impensabile.
• Le responsabilità dei media
Il nodo della comunicazione è centrale. Negli ultimi giorni, sempre più palestinesi hanno accusato i media — in particolare Al Jazeera — di minimizzare o ignorare le proteste anti-Hamas. In rete, il canale qatariota è stato soprannominato “Al Khanzeera” (“il maiale”), parodia del nome ufficiale che in arabo fa rima: «quando proteste e dimostrazioni contro Hamas avvengono a Gaza, Al Jazeera le copre a malapena, e questo è deliberato. Hanno impegnato le loro troupe a costruire una narrativa secondo cui noi non possiamo vivere senza Hamas» si lamentano, secondo quanto riportato da Haaretz. Ramzi, da Gaza, aggiunge: «Quando arrivano le telecamere, la gente sanguina più forte. Non perché fa più male, ma perché forse, finalmente, qualcuno ci vedrà. Si affrettano a scattare una foto a un uomo che tiene in braccio il suo bambino decapitato invece di confortarlo. Il dolore è diventato un’esibizione.»
La frustrazione non è solo verso Hamas e i media arabi. Anche le istituzioni internazionali sono accusate di ignorare le voci dei gazawi dissidenti. In un video condiviso da migliaia di utenti, Hillel Neuer, avvocato e direttore di UN Watch, ha denunciato il silenzio delle Nazioni Unite sulle proteste anti-Hamas.
Secondo l’analista Bret Stephens, editorialista del New York Times, Hamas è paragonabile ai Khmer Rossi della Cambogia: «un culto della morte che prometteva liberazione e promuoveva massacri, con i suoi apologeti nei campus universitari americani.» Per Stephens, la questione va oltre Hamas: «Se la richiesta fondamentale non è uno Stato palestinese accanto a Israele, ma al posto di Israele, allora il conflitto è destinato a continuare. I palestinesi devono abbandonare il terrorismo, ma anche le forme più subdole di distruzione di Israele, come la pretestuosa richiesta del diritto al ritorno per i discendenti dei rifugiati palestinesi, un diritto il cui scopo principale è quello di sommergere Israele demograficamente in modo che non sia più in grado di mantenere una maggioranza ebraica.»
In tutto questo, Gaza rimane sospesa. Le proteste non sono ancora una rivoluzione, ma ne portano un seme, con la supplica “Basta guerra, lasciateci vivere”.
(Bet Magazine Mosaico, 9 aprile 2025)
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Travel Photographer of the Year: vince l’israeliano Galitz con gli scatti alle isole Svalbard
di Jacqueline Sermoneta
Ha viaggiato negli angoli più remoti della Terra, catturando immagini mozzafiato. Scatti unici quelli del fotografo naturalista pluripremiato, Roie Galitz, 44 anni, di Givatayim, in Israele, che non solo svelano la bellezza della natura ma vogliono anche portare all’attenzione e sensibilizzare il pubblico sulle questioni ambientali.
Una missione, dunque, per Galitz, che ha vinto il primo premio del prestigioso concorso Travel Photographer of the Year nella categoria portfolio ‘Terra – Paesaggi, Clima e Acqua’ grazie agli incredibili scatti a Bråsvellbreen, un ghiacciaio che fa parte della più grande calotta di ghiaccio di Austfonna, nelle isole Svalbard. Al concorso hanno partecipato amatori e professionisti di oltre 150 Paesi, che hanno inviato oltre 20mila foto.
Secondo la giuria Galitz “cattura perfettamente il tema del paesaggio, del clima e dell’acqua da diverse prospettive su un ambiente che sta affrontando alcune delle più grandi minacce alla sua futura esistenza”.
Il fotografo ha fondato la Galitz School of Photography, la più grande scuola di fotografia in Israele e Phototeva Expeditions, una compagnia specializzata in viaggi fotografici. Dal 2012 Galitz ha guidato 30 volte gruppi di persone nelle isole Svalbard, che distano circa 650 km dal Polo Nord. “È come essere su un altro pianeta, il più lontano e diverso possibile dalla vita quotidiana. – ha detto in un’intervista a Israel21c – Il sole non tramonta. È pieno di ghiaccio e non ci sono alberi. È un deserto più duro del nostro Negev in Israele”. “Il ghiacciaio Bråsvellbreen – ha aggiunto – si sta rapidamente sciogliendo e, con l’aumento delle temperature, la sua acqua di fusione blu brillante contribuisce a far crescere sempre di più il livello dell’oceano. Vedo la differenza anno dopo anno. È catastrofico”.
Inoltre, Galitz dirige il suo obiettivo verso la spettacolare fauna selvatica dell’Artico: orsi polari, volpi artiche, balene, trichechi, foche. “Mi piace mostrare gli animali perché, per quanto sia possibile relazionarci con un pezzo di ghiaccio, ci leghiamo più facilmente agli enormi e soffici orsi polari, i più grandi predatori terrestri del mondo. – spiega – Quando i ghiacci si sciolgono, gli orsi polari muoiono di fame. Di conseguenza, quando diminuiscono, sappiamo che siamo in pericolo perché gli oceani si stanno alzando. Ironicamente si può dire che è un effetto valanga”. Al ritorno di due spedizioni in Antartide, Galitz racconta a Israel21c: “Anche qui vediamo gli effetti del cambiamento climatico, ma l’Antartide è più protetta dell’Artico. Tuttavia, notiamo molti pezzi delle calotte di ghiaccio antartiche che si stanno rompendo, un processo che sta accelerando negli ultimi anni”.
Alla notizia della selezione del collega e amico israeliano, Amit Eshel, nella categoria Wildlife & Nature del concorso dei Sony World Photography Awards 2025, ha commentato: “È motivo di orgoglio e onore avere fotografi israeliani in prima linea. Vogliamo mostrare a tutti che gli israeliani non si occupano solo di conflitti e di alta tecnologia. Diamo il nostro contributo al mondo anche in tanti altri contesti”.
(Shalom, 9 aprile 2025)
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Quasi duemila milionari hanno lasciato Israele nell'ultimo anno
Secondo un rapporto pubblicato questa settimana da Henley & Partners, in collaborazione con la società di consulenza internazionale New World Wealth, il numero di milionari in Israele diminuirà nel 2024, mentre città come Dubai, New York e Singapore continueranno ad attrarre nuove fortune.
Tel Aviv e Herzliya sono scese nella classifica mondiale delle città con la più alta concentrazione di ricchezza, scendendo al 47° posto nel 2024. Il rapporto evidenzia che quasi 1.700 milionari hanno lasciato Israele nell'ultimo anno, riducendo il numero totale di persone con beni superiori a 22.600 milioni di dollari in queste due città a 24.300, in calo rispetto ai 2023 del XNUMX.
Lo studio rileva inoltre che a Tel Aviv e Herzliya vivono ancora 76 individui con un patrimonio superiore ai 100 milioni di dollari e nove miliardari, ma avverte che la crescita delle grandi fortune in Israele ha subito un notevole rallentamento. Nell'ultimo decennio il numero dei milionari è aumentato del 25%, una cifra notevolmente inferiore alla crescita del 45% registrata nel decennio precedente.
Il rapporto colloca New York al primo posto della classifica, con oltre 384.500 milionari, 818 persone con un patrimonio superiore a 100 milioni di dollari e 66 miliardari. Seguono la Bay Area di San Francisco e Tokyo.
(Aurora Israel, 9 aprile 2025)
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L’ex sindaca che voleva gli haredi in fabbrica
di Daniel Reichel
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Aliza Bloch, 62 anni, oggi è presidente della Iasa, l’Accademia delle arti e delle scienze dedicata agli studenti più dotati
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Basco, tailleur, spilletta con la qualifica di sindaco: a Beit Shemesh, città israeliana a sud-ovest di Gerusalemme, negli ultimi anni molte bambine si sono travestite così per Purim. L’eroina da cui prendevano ispirazione era Aliza Bloch, la prima donna sindaco di Beit Shemesh. «All’inizio mi sentivo molto, molto a disagio. Non mi sembrava appropriato. Ma poi ho capito che era un gesto importante: queste bambine avevano trovato un modello di riferimento e potevano sognare in grande», spiega Aliza Bloch a Pagine Ebraiche.
Quasi nessuno, nel 2018, immaginava possibile la sua elezione a sindaco. Nonostante il malcontento generale per la gestione dell’allora primo cittadino, Moshe Abutbul, pochi credevano nella possibilità di vittoria per una candidata donna, senza esperienza politica, religiosa ma non haredi (dall’ebraico “timorati di D-o”, impropriamente definiti in italiano ultraortodossi), in una città in cui metà della popolazione appartiene a questa comunità.
«Ho deciso di entrare in politica per assumermi una responsabilità maggiore nei confronti della società. L’ho fatto nonostante le difficoltà lungo il percorso e ho colto questa opportunità per lavorare a un futuro migliore per la città», afferma oggi, richiamando la lezione di Ester, la salvatrice del popolo ebraico ricordata durante la festa di Purim. «La storia di Ester porta con sé un messaggio molto attuale: non dobbiamo accettare la realtà così com’è. Anche quando sembra estremamente difficile, dobbiamo fare tutto il possibile per cambiarla. Non bisogna avere paura, con la consapevolezza che non sempre si riesce, ma è necessario provare».
Parole che riflettono il percorso politico di Bloch. Ottenuto il primo mandato, ha lavorato costantemente per cambiare il volto di Beit Shemesh. Anche i suoi oppositori le hanno riconosciuto un impegno costante: dalle cinque del mattino fino a sera, la sindaca era sempre impegnata in qualche progetto comunale. «Per me il punto di partenza era costruire una città in cui tutti potessero sentirsi a casa». Nata nel 1963 in una famiglia di immigrati marocchini, legata al sionismo religioso, Bloch ha diretto per 16 anni una scuola superiore della città a una trentina di chilometri a ovest di Gerusalemme.
«Ho sempre creduto nella diversità, sia nella scuola che nel mio mandato politico». Una volta eletta sindaca, si è impegnata a costruire campi da calcio, una yeshivah (scuola religiosa), un parco giochi, un mikveh (bagno rituale) e un centro culturale. «Un progetto per i religiosi non è in contrasto con uno rivolto al pubblico laico. L’importante è costruire opportunità per tutti».
I quotidiani locali raccontano che, il primo giorno di lavoro, Bloch è andata a trovare i dirigenti di alcune fabbriche della zona, chiedendo loro di assumere personale haredi nei loro stabilimenti. Alcuni hanno seguito il suo consiglio. «Solo con l’integrazione possiamo comprenderci. Le divisioni tra noi israeliani sono il pericolo maggiore per la nostra società», spiega Bloch, esprimendo grande rammarico per non essere riuscita a portare avanti il suo progetto fino in fondo. Ricandidatasi nel 2024, è stata sconfitta da Shmuel Greenberg, candidato di Degel HaTorah, un partito haredi.
«Avrei voluto che la città rimanesse mista. Credo profondamente che una città eterogenea, con cittadini di diverse origini e fedi, abbia un maggiore potenziale di crescita. Penso che questo valga per tutto il paese». Purtroppo, aggiunge, a Beit Shemesh la politica si è mossa in un’altra direzione.
Beit Shemesh è conosciuta in Israele per i frequenti scontri tra alcuni gruppi haredi e il resto della popolazione. Nel 2021, ad esempio, la Corte Suprema ha ordinato la rimozione di cartelli che imponevano alle donne di vestirsi in modo modesto. Ci sono stati casi in cui estremisti religiosi hanno attaccato delle donne. Nel 2023, la stessa Bloch è stata vittima di un grave episodio: un gruppo di manifestanti legati a una delle correnti haredi ha distrutto i finestrini della sua auto e l’ha assediata all’interno di un edificio scolastico fino all’arrivo dalla polizia. «Non possiamo permettere a un pugno di estremisti di interrompere la routine lavorativa e distogliere l’attenzione dallo sviluppo di Beit Shemesh», aveva replicato allora la sindaca.
Lasciato l’incarico, Bloch è stata nominata presidente della Israel Arts and Science Academy (Iasa), un’istituzione dedicata agli allievi più dotati. «Valorizzare l’eccellenza e gli studenti di talento dovrebbe essere la norma, non un lusso. Vogliamo rendere questa educazione accessibile a tutti quei segmenti della popolazione per cui, al momento, non lo è». L’obiettivo di Bloch ora è aprire filiali dell’Accademia, oggi a Gerusalemme, anche nel nord e nel sud del paese, oltre a una succursale ad hoc per la comunità haredi.
«Può sembrare scontato, ma il nostro impegno deve essere garantire cultura per tutti, istruzione per tutti, cercando di mantenere la calma e l’ordine». Un obiettivo solo parzialmente raggiunto a Beit Shemesh, aggiunge. «Ma questo non significa che io rinunci. Come ci insegna Ester, dobbiamo sempre essere pronti a correre rischi per un bene superiore».
(Aliza Bloch, 62 anni, oggi è presidente della Iasa, l’Accademia delle arti e delle scienze dedicata agli studenti più dotati)
(moked, 9 aprile 2025)
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Israele: i dazi di Trump distruggono il modello economico di Netanyahu
Trump è meno amico di quello che in molti credono, è semplicemente un commerciante che, in quanto tale, non ha amici. In un batter d'occhio ha distrutto le basi su cui si fondava il rapporto tra Israele e gli Stati Uniti.
di Raoul Wootliff *
Nel 1985 gli Stati Uniti fecero una mossa audace e inaspettata. All’apice della Guerra Fredda, firmarono il loro primo accordo di libero scambio – non con una superpotenza o un blocco regionale chiave, ma con Israele, una piccola democrazia mediorientale in difficoltà economica che lottava contro un’inflazione a tre cifre e un isolamento geopolitico.
A prima vista, l’accordo sembrava di poco conto. Ma in realtà era rivoluzionario: una scommessa dell’era della Guerra Fredda sul fatto che l’accesso economico, non solo l’assistenza militare, potesse servire come strumento strategico per stabilizzare gli alleati e proiettare l’influenza americana all’estero.
Quell’accordo sarebbe diventato la pietra miliare di un nuovo tipo di politica estera americana, che andava oltre le basi e le armi per includere mercati e regole. Questa era la visione di Ronald Reagan della “pace attraverso la forza”, tradotta in termini economici: l’apertura del commercio non solo come percorso di crescita, ma come strumento di allineamento ideologico. Israele, fidato e in urgente difficoltà, divenne il banco di prova. E ha funzionato.
L’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Israele ha contribuito a stabilizzare la vacillante economia israeliana, ha attirato capitali stranieri e ha incoraggiato riforme strutturali da tempo attese. Ha catalizzato la trasformazione del Paese in un’economia connessa a livello globale e guidata dall’innovazione.
Allo stesso tempo, ha offerto agli Stati Uniti un modello per un ordine economico internazionale liberale, in cui le nazioni democratiche più piccole potevano crescere e prosperare allineandosi con Washington e inserendosi nel sistema globale guidato dagli Stati Uniti. Negli anni successivi alla Guerra Fredda, questo modello sarebbe proliferato – prima con il NAFTA, poi con accordi commerciali con Giordania, Marocco, Corea del Sud e altri. Ma Israele è stato il primo.
Nessuno ha interiorizzato questa strategia più profondamente di Benjamin Netanyahu. Formatosi negli Stati Uniti e imbevuto di economia reaganiana, Netanyahu è salito al potere su una piattaforma di liberismo di mercato, deregolamentazione e integrazione economica. Come ministro delle Finanze e poi come primo ministro, ha riorientato l’economia israeliana allontanandola dalle sue radici socialiste e orientandola verso i flussi di capitale globali. Per Netanyahu, l’accordo di libero scambio del 1985 non è stato solo uno strumento diplomatico, ma una prova di concetto. L’ha trasformato nel fondamento di una strategia volta a rilanciare Israele come “Start-Up Nation”: un hub di innovazione agile, iperconnesso e dipendente non dal territorio o dalle dimensioni, ma dall’interdipendenza strategica.
Al centro di questa visione c’era la fiducia nella coerenza americana. Netanyahu scommetteva che finché Israele fosse rimasto un partner fedele, investito in Occidente e allineato agli interessi degli Stati Uniti, sarebbe stato ricompensato con un accesso stabile, protezione politica e integrazione economica. La sua visione del mondo si basava sul presupposto che il commercio non fosse solo transazionale ma anche relazionale; che la vicinanza al potere americano avrebbe garantito prosperità e sicurezza. In particolare, rifiutava l’idea dell’autarchia, il modello economico dell’autosufficienza e dell’isolamento nazionale. Scommise invece che la forza di Israele sarebbe derivata dall’apertura, dall’integrazione e dalla specializzazione in un’economia globale.
• Una profonda inversione di rotta
Questa visione del mondo sta ora crollando sotto i vasti dazi all’importazione del presidente Donald Trump per il “Giorno della Liberazione”, tra cui un dazio del 17% sulle merci israeliane. La logica alla base di queste tariffe è semplice: qualsiasi Paese che abbia un surplus commerciale con gli Stati Uniti se ne sta approfittando e deve essere penalizzato, indipendentemente dalla natura del rapporto. In effetti, pochi giorni prima dell’annuncio di Trump, Israele ha eliminato tutte le tariffe rimanenti sulle importazioni americane. Ma non è servito. Alleanza, reciprocità, valore strategico: niente di tutto questo conta. I deficit commerciali sono l’unico parametro.
Si tratta di una profonda inversione di tendenza. Reagan usava il commercio per legare gli alleati e costruire coalizioni. Trump tratta il commercio come un’arma per punire partner e nemici. Mentre Reagan credeva che l’integrazione economica fosse uno strumento di pace e di forza, Trump vede l’interdipendenza economica come vulnerabilità e tradimento. Se Reagan aveva costruito un mondo di ponti, Trump li sta sistematicamente smantellando.
Israele è ora accomunato a concorrenti strategici come Cina e Vietnam. Per decenni, Israele è stato un alleato vitale per gli Stati Uniti: ha condiviso informazioni, ha fatto progredire sistemi di difesa congiunti, ha contribuito con tecnologie critiche nel campo della sicurezza informatica, dell’assistenza sanitaria e dell’intelligenza artificiale. È uno dei pochi Paesi ad allineare pienamente le proprie politiche commerciali, diplomatiche e militari agli interessi strategici di Washington. Trattarla ora alla stregua di potenze autoritarie impegnate in un’aperta rivalità tecnologica ed economica con gli Stati Uniti non è solo economicamente incoerente, ma anche diplomaticamente autolesionista. Invia un messaggio pericoloso: che la lealtà, l’allineamento e i valori democratici non hanno più senso nell’ambito della politica economica statunitense.
Netanyahu, più di ogni altro leader mondiale, ha puntato la sua strategia economica e la sua identità politica sullo stretto allineamento con Trump. Ha rispecchiato il populismo di Trump, ha abbracciato il suo disprezzo per le istituzioni liberali e si è posizionato come un alleato fedele in un mondo definito dalla personalità più che dalla politica. Credeva che la lealtà ideologica e personale avrebbe comprato a Israele un isolamento strategico. Si sbagliava.
La visione del mondo di Trump è transazionale e imprevedibile. Il modello economico sostenuto da Netanyahu – globalizzato, ancorato agli Stati Uniti, dipendente dal commercio – viene ora smantellato proprio dall’uomo che ha contribuito a normalizzare e legittimare sulla scena mondiale. Né Netanyahu né Israele hanno ricevuto un trattamento speciale. Il conto della cieca fedeltà è arrivato a scadenza.
È difficile non notare l’ironia. Netanyahu, un tempo volto della liberalizzazione di Israele, ora ne presiede l’emarginazione e il regresso democratico. È arrivato a rispecchiare la discesa ideologica di Trump: dall’ottimismo globalista alla rabbia nazionalista, dall’apertura del mercato all’istinto autocratico. Da Reagan alla rovina.
Anche se Netanyahu riuscirà a negoziare la riduzione dei dazi o ad ottenere delle esenzioni (e non c'è riuscito), qualcosa di fondamentale si è già rotto. L’intero modello era costruito sulla prevedibilità, sulla fiducia strategica e sull’idea che l’allineamento con gli Stati Uniti portasse sicurezza economica a lungo termine. La volontà di Trump di prendere di mira Israele, nonostante decenni di lealtà e integrazione, rivela la fragilità di questo presupposto. Questo fatto da solo mina la credibilità del sistema che Netanyahu ha passato la sua carriera a promuovere.
E questo cambiamento non riguarda solo Israele. È un ammonimento per tutte le democrazie inserite nell’ordine commerciale liberale un tempo guidato dagli Stati Uniti. Quel sistema offriva a piccole nazioni come Israele un percorso verso la rilevanza, la resilienza e la prosperità. La sua erosione minaccia la stabilità globale e favorisce le alternative autocratiche.
Una strada da percorrere esiste ancora. I liberali in Israele, negli Stati Uniti e in tutto il mondo democratico devono riarticolare le ragioni di un sistema economico aperto ma resistente, equo ma strategico, che valorizzi la reciprocità, protegga i suoi alleati e ristabilisca il commercio come meccanismo di fiducia, non di coercizione.
Il ponte costruito nel 1985 non riguardava solo i beni. Si trattava di valori. Trump lo ha distrutto. Netanyahu finora è rimasto in disparte. Ricostruirlo non solo è possibile, ma è essenziale. Ma richiederà una leadership fondata sui principi, non sull’ego. Cosa che né Trump né Netanyahu sembrano possedere. - - - * Head of Strategic Communications presso Number 10 Strategies, una società di consulenza internazionale per la strategia, la ricerca e le comunicazioni.
(Rights Reporter, 9 aprile 2025)
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"Più soldati sul campo": così Israele lancia la nuova guerra totale contro Hamas
Il nuovo capo di stato maggiore israeliano pronto ad inviare decine di migliaia di soldati nella Striscia di Gaza.
di Valerio Chiapparino
Una nuova fase delle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza è alle porte e potrebbe essere ancora più violenta delle precedenti. I segnali non mancano: domenica l’emittente qatariota Al Jazeera ha riportato infatti di raid dello Stato ebraico nell’enclave palestinese, in particolare a Khan Younis e a Rafah, che hanno provocato la morte nell'arco di 24 ore di almeno 46 persone. Dal 18 marzo, giorno della rottura del cessate il fuoco scattato a gennaio scorso, si sono registrate oltre 1300 vittime e circa 3200 feriti.
La conferma dei progetti di intensificazione dei blitz di Tel Aviv era già arrivata dal nuovo capo di stato maggiore d'Israele, il tenente generale Eyal Zamir, il quale a inizio marzo ha dichiarato che il 2025 sarà “un anno di guerra” nonostante le speranze suscitate dall’accordo che per due mesi ha sospeso le ostilità nella Striscia. Un concetto rafforzato pochi giorni fa quando il cinquantanovenne ex comandante di carri armati ha affermato che le truppe dell’Idf “stanno intensificando l’operazione e continueranno ad un ritmo deliberato e determinato”.
Il Wall Street Journal ha ricostruito in queste ore il profilo di Zamir sottolineando che l’attuale capo di stato maggiore ha trascorso quasi tutta la sua vita nell’esercito - a 14 anni ha lasciato la sua casa per unirsi ad un collegio militare – ed è cresciuto ammirando i comandanti dei tank che hanno respinto le truppe siriane ed egiziane nel conflitto arabo-israeliano del 1973.
Durante la seconda intifada dei primi anni Duemila, Zamir ha guidato una brigata composta da una novantina di carri armati in un’operazione di assedio della città di Jenin in Cisgiordania. Nel 2012 è diventato il segretario militare del primo ministro (quest’ultimo anche all’epoca era Benjamin Netanyahu): secondo persone citate dal quotidiano Usa, i due avrebbero sviluppato un solido rapporto professionale ma non personale.
Più volte Zamir ha visto sfumare la nomina a capo di stato maggiore, in precedenza assegnata a militari di unità d'élite, e non è un caso che sia uno dei più accesi critici del culto delle forze speciali israeliane. Quando pochi anni fa ha lasciato l’esercito, l’ex comandante di carri armati, ha pronunciato un discorso di commiato in cui ha individuato due punti deboli dell’Idf: l’eccessiva dipendenza dalla tecnologia e la mancanza di soldati per combattere una guerra prolungata su più fronti.
Zamir, che la scorsa settimana ha incontrato anche il generale Michael Kurilla, comandante del Centcom, si prepara adesso a lanciare un’offensiva di terra nella Striscia “della durata di mesi”. L’operazione, sostenuta dal governo Netanyahu, dovrebbe prevedere lo schieramento di decine di migliaia di militari allo scopo di liberare gli ostaggi ancora in mano ad Hamas, eliminare l’organizzazione islamista “prima che venga decisa una soluzione politica per Gaza” e controllare la distribuzione degli aiuti umanitari nell’enclave palestinese.
Ehud Yaari del Washington Institute for Near East Policy sostiene che il nuovo capo di stato maggiore ”proviene da una cultura militare diversa” rispetto ai suoi predecessori che è incentrata su “un dispiegamento massiccio”. Più in generale, per il Wall Street Journal la figura di Zamir riassume il dibattito globale su come le guerre vengono combattute e vinte ai nostri giorni. Una riflessione che ci porta su un altro fronte caldo nell’Europa orientale. Nello scontro tra Russia e. Ucraina, le nuove tecnologie hanno sin qui aiutato Kiev a “neutralizzare la potenza militare della Russia” ma gli ucraini hanno perso battaglie importati perché Mosca ha fatto ricorso allo schieramento di migliaia di soldati dimostrando che “gli stivali sul terreno sono ancora necessari per conquistare e mantenere il territorio”.
Ad ogni modo, resta da vedere come Zamir possa davvero applicare la lezione ucraina nella Striscia di Gaza e quali risultati possa ottenere nella lotta totale contro un’organizzazione come Hamas.
Il rischio della scommessa del capo dell’Idf è ben riassunto da Israel Ziv, generale in pensione dello Stato ebraico, che afferma che “tornare in guerra per il gusto di combattere o semplicemente per schiacciare” l’organizzazione islamista “è un errore strategico molto grande”.
(il Giornale, 8 aprile 2025)
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Israele introduce un piano di monitoraggio delle forniture di aiuti per prevenire le interferenze di Hamas
di Joshua Marks
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Camion palestinesi vicino al valico di frontiera di Kerem Shalom, dopo che Israele ha sospeso le consegne di aiuti il 2 marzo 2025
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GERUSALEMME - Le Forze di Difesa Israeliane e il Dipartimento delle Attività Governative nei Territori (COGAT) del Ministero della Difesa hanno annunciato il lancio di un sistema rivisto per la consegna degli aiuti alla Striscia di Gaza. L'iniziativa mira a migliorare la distribuzione degli aiuti e a garantire che le forniture non vengano rubate dall'organizzazione terroristica di Hamas.
In una dichiarazione rilasciata lunedì, le Forze di Difesa israeliane hanno chiarito che stanno “agendo in conformità con le istruzioni dei vertici politici” e hanno ribadito che “Israele non trasferisce e non trasferirà aiuti ad Hamas”.
Secondo il COGAT, il quadro aggiornato mira ad aumentare la trasparenza e a rendere sicuri i percorsi degli aiuti per i civili in difficoltà. “Per evitare che Hamas confischi le forniture umanitarie e per garantire che il lavoro delle organizzazioni rimanga neutrale e imparziale, è essenziale introdurre un meccanismo strutturato di monitoraggio e accesso agli aiuti”.
L'obiettivo è rafforzare gli accordi di sicurezza per le operazioni umanitarie e sostenere le organizzazioni internazionali che lavorano a Gaza. “Gli aiuti devono raggiungere la popolazione civile che ne ha bisogno e non devono essere deviati e rubati da Hamas”, ha sottolineato il COGAT.
In risposta alla copertura mediatica della situazione degli aiuti, l'Ufficio del Primo Ministro ha risposto a un rapporto pubblicato da Ynet, affermando: “Il rapporto è falso. Come da istruzioni della leadership politica, le Forze di Difesa israeliane continueranno ad aumentare la pressione su Hamas per garantire il ritorno dei nostri ostaggi e raggiungere tutti gli obiettivi della guerra in conformità con il diritto internazionale”.
La decisione di attuare questo meccanismo arriva in un momento in cui c'è grande preoccupazione per il fatto che le forniture di aiuti a Gaza potrebbero presto esaurirsi. Come parte dell'iniziativa, Israele lancerà un programma pilota per la distribuzione diretta di cibo nel sud della Striscia di Gaza - in particolare nella regione di Rafah - prendendo precauzioni per prevenire qualsiasi influenza di Hamas sul processo di aiuti.
Il 2 marzo il governo israeliano ha annunciato di aver sospeso tutti gli aiuti alla Striscia di Gaza dopo che l'organizzazione terroristica Hamas ha rifiutato un'estensione del cessate il fuoco proposta dall'inviato statunitense per il Medio Oriente Steve Witkoff.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato in quell'occasione che nessun altro bene o rifornimento sarebbe entrato nella Striscia di Gaza fino a nuovo avviso e ha ribadito che Gerusalemme non avrebbe accettato un cessate il fuoco senza il rilascio dei suoi ostaggi.
(Israel Heute, 8 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Netanyahu alla Casa Bianca
Trump annuncia trattative dirette con l’Iran e un nuovo accordo sugli ostaggi
di Luca Spizzichino
Con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu al suo fianco, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato lunedì l’avvio di colloqui diretti tra Washington e Teheran sul programma nucleare iraniano. Una dichiarazione che ha colto di sorpresa sia l’opinione pubblica che lo stesso Netanyahu, e che è stata prontamente smentita da funzionari iraniani.
“Stiamo avendo colloqui diretti con l’Iran e continueranno sabato. Abbiamo un grande incontro e vedremo cosa succederà. Penso che tutti concordino sul fatto che un accordo sarebbe preferibile”, ha detto Trump alla stampa nella Sala Ovale. Il Presidente americano ha poi aggiunto un monito: “Se i colloqui non avranno successo, sarà un giorno molto brutto per l’Iran. L’Iran non può avere un’arma nucleare”. Secondo una fonte diplomatica israeliana, Netanyahu non era stato informato in anticipo dell’annuncio del Presidente Trump riguardo ai colloqui con Teheran. “È emerso chiaramente dalla conferenza stampa che il Primo Ministro è stato colto di sorpresa”, ha detto la fonte. Tuttavia, ha aggiunto che Israele è stato successivamente rassicurato dal fatto che verrà tenuto informato su ogni sviluppo delle trattative. Durante l’incontro, Netanyahu ha ribadito che l’obiettivo comune deve restare quello di impedire all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare: “Se questo può essere raggiunto diplomaticamente, in modo completo, come fu fatto con la Libia, sarebbe una buona cosa. Ma dobbiamo assicurarci che l’Iran non abbia mai un’arma nucleare”.
Fonti diplomatiche iraniane hanno immediatamente negato la natura diretta delle trattative, spiegando che l’incontro previsto per sabato a Mascate, in Oman, sarà condotto in forma indiretta, con diplomatici omaniti a fare da mediatori. Secondo quanto riportato dal New York Times, Teheran potrebbe aprire alla possibilità di negoziati diretti soltanto in seguito a un esito positivo degli incontri preliminari. Il Ministero degli Esteri iraniano ha bollato le dichiarazioni di Trump come parte di “un’operazione psicologica destinata a influenzare l’opinione pubblica locale e internazionale”, mentre Nournews, media legato al Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano, ha definito l’annuncio un tentativo di “pressione mediatica”.
Trump e Netanyahu hanno anche discusso della crisi in corso a Gaza e della questione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Netanyahu ha dichiarato che, insieme all’amministrazione Trump, sta lavorando a un nuovo accordo per la loro liberazione.
“Vogliamo portarli tutti a casa”, ha detto il premier israeliano lodando l’impegno del rappresentante di Trump, Steve Witkoff, che in precedenza aveva contribuito alla liberazione di 25 ostaggi. L’Egitto avrebbe proposto un nuovo piano per un cessate il fuoco, che prevede la liberazione di otto ostaggi vivi e delle salme di altri otto, in cambio della scarcerazione di numerosi prigionieri palestinesi e una tregua tra i 40 e i 70 giorni. Tuttavia, fonti israeliane hanno riferito di non aver ancora ricevuto una proposta formale da parte del Cairo. Trump ha detto di credere che la guerra a Gaza finirà “in un futuro non troppo lontano”: “Voglio vedere la guerra fermarsi. È un processo lungo, ma non dovrebbe esserlo. Questo uomo [Netanyahu] sta lavorando molto duramente con noi”.
Nel corso del bilaterale, Netanyahu ha promesso di eliminare rapidamente il surplus commerciale di Israele nei confronti degli Stati Uniti – pari a 7,4 miliardi di dollari lo scorso anno – e di abbattere le barriere doganali. Una mossa significativa, alla luce delle nuove politiche tariffarie di Trump, che impongono un dazio del 17% sulle merci israeliane. Alla domanda se l’amministrazione fosse disposta a ridurre le tariffe, Trump ha risposto seccamente: “Siamo stati sfruttati da molti Paesi per anni, e non possiamo permettercelo più”.
Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro presenza militare nella regione, spostando bombardieri stealth e una nuova portaerei nell’area del Medio Oriente e dell’Oceano Indiano, in posizione strategica rispetto sia allo Yemen sia all’Iran. La mossa è letta come un chiaro messaggio a Teheran. “Spero in un accordo perché l’alternativa è molto pericolosa. Stiamo entrando in un territorio rischioso”, ha concluso Trump.
(Shalom, 8 aprile 2025)
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Le minoranze perseguitate dal nuovo regime di Damasco chiedono aiuto a Israele
Qualcuno si chiede perché?
di Paolo Salom
[Voci dal lontano Occidente] Da decenni siamo abituati a sentirci dire che il conflitto in Medio Oriente “è complicato”, che le ragioni sono “ugualmente distribuite” e, dal momento che Israele è la parte più forte, tocca allo Stato ebraico fare concessioni per garantire ai palestinesi “i loro diritti” nel cosiddetto processo di pace destinato alla creazione di “due Stati per due popoli”.
Dal 7 ottobre 2023, dall’osceno massacro perpetrato contro intere famiglie da parte dei terroristi di Hamas, coadiuvati dai volonterosi (e feroci) cittadini venuti da Gaza, con il rapimento di uomini, donne, bambini, anziani – molti dei quali trucidati con comodo nei tunnel della Striscia – trovo che la questione si sia chiarita una volta per tutte.
Primo, non esiste alcun processo di pace anche se il sospetto su questo punto l’avevamo da un po’, almeno da quando Arafat (e dopo di lui Abu Mazen) ha ripetutamente rifiutato la miglior offerta che Israele potesse fare in vista della nascita di uno Stato arabo-palestinese.
Secondo, l’unico punto su cui i palestinesi si trovano d’accordo è la volontà di distruggere Israele per sostituirlo con un regime arabo musulmano, il ventitreesimo sulla carta. Per fare questo, la macchina della propaganda ha lavorato con alacrità (e con buoni risultati, ahimè).
Come altro spiegare le follie che si sono ripetute nel lontano Occidente, negli ultimi quindici mesi, quando le azioni in difesa dello Stato ebraico sono state condannate, a tutti i livelli, a partire dall’Onu, e definite “un tentativo di genocidio” contro i palestinesi?
Quando le violenze e gli stupri – rivendicati da chi li aveva commessi! – sono stati ignorati in tutte le sedi possibili e immaginabili, mentre le associazioni internazionali delle donne hanno proibito alle israeliane non solo di prendere parte alle loro manifestazioni, ma addirittura di denunciare quanto subito perché in contrasto con la narrativa delle uniche vittime, quelle palestinesi? Tutto ciò non è altro che un tentativo coordinato da determinate nazioni (per prima l’Iran, ma non è certo l’unica) per sconfiggere Israele, per “estirparlo” dal Medio Oriente.
Noi oggi confidiamo che questo insano progetto, fallito in passato, continuerà a finire nel nulla. L’ipocrisia di chi dice che Israele è un corpo estraneo – e non una legittima espressione di un popolo finalmente sovrano nella sua terra – è ancor più evidente ora che la Siria è collassata in una guerra civile di cui non si vede la fine, quanto meno a breve. Soprattutto, ascoltando le grida di aiuto della comunità alauita, la minoranza sciita di cui fa parte la famiglia Assad, che dopo aver vissuto da “padrona”, si è ritrovata a subire la violenza spaventosa di nuovi padroni sunniti.
E che cosa hanno fatto gli alauiti (prima di loro è capitato ai drusi)? Hanno chiesto aiuto a Israele, allo Stato degli ebrei. Non si sono rivolti ai loro protettori iraniani. Né ad altri Paesi della comunità islamica. No: hanno lanciato le loro invocazioni agli israeliani, gli unici in quella regione martoriata ad avere la fama di considerare il valore della vita sopra ogni cosa. Naturalmente, nel lontano Occidente tutto questo è passato pressoché inosservato. Così come le immagini terribili dei massacri (quelli veri) di civili nelle città della comunità alauita della Siria. Ecco un genocidio in atto: ci sono le immagini, ci sono i proclami osceni degli autori e, ahimè, il silenzio assordante e ingiustificabile del resto del mondo.
(Bet Magazine Mosaico, 8 aprile 2025)
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Trump rinnova l'invito a trasferire i gazesi in altri paesi
di David Isaac
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rinnovato lunedì il suo appello a trasferire in luoghi più sicuri i palestinesi che desiderano lasciare la Striscia di Gaza.
“Per anni e anni ho sentito parlare solo di uccisioni, di Hamas e di problemi”, ha detto durante un incontro con la stampa nello Studio Ovale lunedì insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
“E se prendete le persone, i palestinesi, e li spostate in paesi diversi, e ci sono molti paesi che lo faranno... avrete davvero una zona di libertà... una zona in cui le persone non verranno uccise ogni giorno”, ha aggiunto.
Il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato per la prima volta il suo piano di trasferimento a Gaza durante una conferenza stampa con Netanyahu a febbraio.
Netanyahu, che ha appoggiato il piano, ha detto lunedì che “ciò di cui parla il presidente significa dare alla gente una scelta”. I gazesi sono stati chiusi in casa. In ogni altro luogo, che sia l'Ucraina o la Siria, o qualsiasi altro luogo, la gente può andarsene. Cosa c'è di sbagliato nel dare alla gente una scelta? ... Permettere alla gente di Gaza di scegliere davvero di andare dove vuole?”.
Ha osservato che la ricostruzione di Gaza richiederà anni.
Una fonte diplomatica israeliana di alto livello ha dichiarato a JNS il 4 aprile che i sondaggi hanno mostrato che molti palestinesi a Gaza vogliono andarsene.
“Anche prima che Israele ricominciasse l'azione militare, il 60% ha detto di volersene andare - il 40% di questi non vuole tornare, e un altro 20% vuole andarsene ma con la possibilità di tornare. Si tratta di più di 1 milione di persone che dicono di voler partire”, ha detto la fonte.
Secondo i sondaggi, gli israeliani sostengono la proposta del Presidente.
Il punto critico sembra essere la ricerca di paesi partner disposti ad accogliere i gazesi. Tuttavia, lunedì Netanyahu ha dichiarato che “i paesi stanno rispondendo alla visione [di Trump]. Ci stiamo lavorando. Spero che avremo buone notizie per voi”.
Anche se non ha voluto fare i nomi dei paesi, Danny Danon, che è tornato a ricoprire il ruolo di ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite nel 2024, dopo averlo ricoperto in precedenza dal 2015 al 2020, ha dichiarato nel dicembre 2023 che i paesi sudamericani e africani hanno espresso interesse ad accogliere i palestinesi in cambio di una remunerazione finanziaria.
Anche i paesi arabi dovrebbero dare una mano, perché “hanno l'obbligo di aiutare i palestinesi. Che aiutino invece di fare discorsi infiammatori”, ha detto Danon.
Finora i paesi arabi si sono rifiutati di dare una mano alla proposta di Trump, offrendo invece piani di ricostruzione alternativi in cui i gazesi rimarrebbero al loro posto.
L'inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff, in un'intervista rilasciata a marzo a Tucker Carlson, è sembrato respingere tali piani di ricostruzione in quanto irrealistici.
“Penso che sia davvero importante che quando si prendono queste decisioni ci si basi sui fatti”, ha detto, sottolineando che le condizioni nella Striscia sono troppo pericolose per viverci.
“Come possiamo rimettere le persone in una zona di battaglia dove ci sono munizioni dappertutto? O dove ci sono queste condizioni latenti per cui un bambino può cadere in una buca e andare a 40, 50, 60 piedi di profondità, e non si saprebbe mai che era lì”, ha aggiunto.
“Chi farebbe una cosa del genere? Se avessimo edifici in quelle condizioni a New York, ci sarebbe del nastro giallo tutto intorno e nessuno potrebbe entrare”, ha detto Witkoff, stimando che ci vorrebbero 15-20 anni per ricostruire Gaza.
Ha condiviso l'opinione del presidente secondo cui le precedenti ricette politiche per Gaza non hanno funzionato, perpetuando un ciclo di guerra, ricostruzione e ancora guerra. Non aveva “alcun senso”, ha detto, aggiungendo: “Il presidente ha iniziato a dire: ‘Forse dobbiamo pensare a qualcosa di diverso’”.
(JNS, 8 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Razzi di Hamas colpiscono città costiere israeliane
Diversi feriti, solo metà dei razzi sono stati intercettati; il ministro della Difesa israeliano promette una risposta dura.
Domenica sera Hamas ha segnalato di essere tutt'altro che sconfitto quando ha lanciato una raffica di dieci razzi contro le città costiere israeliane di Ashkelon e Ashdod. Almeno la metà dei razzi è stata intercettata, ma i razzi caduti e le schegge hanno ferito diverse persone e causato danni.
Uno dei razzi è atterrato in un'area residenziale di Ashkelon, causando feriti e panico generale. Il Centro medico Barzilai di Ashkelon ha riferito che dopo l'attacco sono arrivate 27 persone per essere curate. Di queste, 17 soffrivano di ansia, sette erano ferite da schegge, una persona ha riportato una ferita agli occhi e altre due sono state ferite mentre correvano verso un rifugio antiaereo. Tutte le ferite sono state classificate come lievi.
Diversi veicoli sono stati danneggiati da frammenti di razzo caduto vicino a un parcheggio nell'area di Ashkelon. Il sindaco di Ashkelon, Tomer Glam, ha visitato il sito e ha rilasciato una dura dichiarazione:
“Mi aspetto che il governo israeliano e le Forze di Difesa israeliane attacchino Hamas con tutte le loro forze e distruggano qualsiasi capacità di Hamas di interrompere nuovamente la nostra vita quotidiana in città”.
Hamas ha subito rivendicato la responsabilità dell'attacco, descrivendolo come una rappresaglia per le nuove operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che si stava recando negli Stati Uniti per un incontro con il presidente americano Donald Trump, ha convocato una riunione d'emergenza con il ministro della Difesa Israel Katz. In seguito al loro incontro, Netanyahu ha autorizzato un'intensificazione delle operazioni militari contro Hamas.
Katz ha annunciato pubblicamente di aver dato istruzioni alle Forze di Difesa israeliane di intensificare la loro risposta e ha dichiarato che l'obiettivo era quello di infliggere un duro colpo al gruppo terroristico.
In seguito al lancio di razzi, le forze israeliane hanno lanciato attacchi aerei sul sito di lancio. Prima degli attacchi, l'esercito ha dichiarato di aver lanciato un appello urgente all'evacuazione dei residenti in alcune zone di Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza.
(Israel Heute, 7 aprile 2025)
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Oggi l’incontro Trump-Netanyahu: sul tavolo anche i dazi
La guerra a Gaza, il ritorno degli ostaggi, la minaccia iraniana, la nuova politica dei dazi. Sono i principali argomenti dei quali dovrebbero discutere Donald Trump e Benjamin Netanyahu nel loro incontro lunedì sera (ora italiana) alla Casa Bianca. Il primo ministro israeliano, arrivato a Washington dall’Ungheria, sarà il primo leader straniero a essere ricevuto da Trump dopo che questi ha imposto dazi nei confronti di mezzo mondo.
Se nei confronti dell’Ue i dazi sono stati fissati al 20%, per Israele si attestano al 17%. Alle 20.30 ora italiana i due leader interverranno in una conferenza stampa congiunta. Netanyahu si è già confrontato nel merito con Howard Williams Lutnick, il segretario al commercio dell’amministrazione Trump. L’incontro tra i due è avvenuto nella serata di domenica ed è stato «caloroso, amichevole e produttivo», informa l’ufficio stampa del governo israeliano.In Israele tiene banco anche la politica interna. Negli scorsi giorni Netanyahu ha denunciato l’esistenza in Israele di uno “Stato profondo” a suo dire impegnato a mettere i bastoni tra le ruote al governo. Al premier ha risposto il presidente Isaac Herzog, in una intervista con il quotidiano Yedioth Ahronoth nella quale afferma: «Non c’è uno stato profondo e non c’è una dittatura». In merito al Qatargate, Herzog ritiene che ci siano «questioni da approfondire» con la massima attenzione, perché l’indagine tratta aspetti «critici per la sicurezza d’Israele». Di sicurezza ha parlato in queste ore anche il presidente francese Emmanuel Macron, incontrando al Cairo il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. «Hamas non deve svolgere alcun ruolo nel governo di Gaza e il gruppo non deve rappresentare in alcun modo una minaccia per Israele», ha sostenuto Macron, esprimendo il proprio sostegno a un ruolo di mediazione dell’Egitto. L’inquilino dell’Eliseo ha lanciato anche un appello per il rilascio di tutti gli ostaggi.
(moked, 7 aprile 2025)
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Per la decima volta consecutiva: la Banca d'Israele mantiene invariato il suo tasso di riferimento
La decisione di mantenere invariato il tasso riflette la cautela della Banca centrale di fronte alle attuali incertezze economiche.
Il professor Amir Yaron, governatore della Banca d'Israele, ha annunciato lunedì che l'istituto ha deciso di non modificare il tasso di riferimento. Il tasso di riferimento rimarrà quindi al 4,5%. Questa decisione giunge sullo sfondo del piano del presidente statunitense Donald Trump di imporre una tassa del 17% sui beni importati da Israele.
• Stabilità prolungata dei tassi
È la decima volta consecutiva che la Banca centrale israeliana mantiene invariati i tassi. L'ultimo taglio risale a 14 mesi fa, il 1° gennaio 2024, quando il tasso è stato ridotto di un quarto di punto, dopo una serie di aumenti iniziati nell'aprile 2022.
Questo periodo di aumenti successivi ha colpito in particolare i mutuatari di case, che hanno visto un aumento medio di circa 1.500 shekel (circa 380 euro) dei loro rimborsi mensili, oltre a un aumento dei rimborsi dei prestiti per le famiglie in generale.
• Prospettive per il 2025
Gli analisti di mercato ritengono che un taglio dei tassi sarà possibile solo nella seconda metà dell'anno, con la possibilità di due riduzioni. Questa previsione è in linea con le recenti dichiarazioni del Governatore della Banca d'Israele, che ha indicato che tali tagli sarebbero condizionati alla fine del conflitto entro la prima metà del 2025 e alla continuazione delle tendenze fiscali osservate negli ultimi mesi. La decisione di mantenere il tasso invariato riflette la cautela della Banca Centrale di fronte alle attuali incertezze economiche, in particolare quelle legate alle nuove tensioni commerciali con gli Stati Uniti e al continuo impatto del conflitto in corso.
In un momento in cui l'economia israeliana si trova ad affrontare molteplici sfide, sia a livello nazionale che internazionale, questa stabilità monetaria riflette un approccio conservativo volto a preservare gli equilibri macroeconomici in un contesto particolarmente volatile.
(i24, 7 aprile 2025)
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Hamas chiese 500 milioni a Teheran per distruggere Israele”
Katz: “Iran dietro l’attacco del 7 ottobre
di Luca Spizzichino
In una dichiarazione video diffusa domenica, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha rivelato l’esistenza di un documento di intelligence che collegherebbe direttamente l’Iran alla pianificazione dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Il documento, rinvenuto nei tunnel dei vertici di Hamas a Gaza, risale al giugno 2021 e consiste in una lettera inviata dai leader del gruppo, Yahya Sinwar e Muhammad Deif, al comandante della Forza Quds del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, Esmail Qaani.
“Presento per la prima volta un documento che dimostra in modo inequivocabile la connessione diretta tra l’Iran e i capi di Hamas, come parte del loro piano per distruggere Israele” ha dichiarato Katz durante una visita all’unità dell’intelligence militare israeliana specializzata nell’analisi del cosiddetto “bottino tecnico”, nota con l’acronimo ebraico Amshat.
Nel documento, Sinwar e Deif chiedevano al comandante iraniano un finanziamento di 500 milioni di dollari, pari a circa 20 milioni di dollari al mese per due anni, al fine di portare avanti un progetto finalizzato alla distruzione dello Stato di Israele.
Secondo quanto riportato da Katz, Saeed Izadi, responsabile della Divisione Palestinese all’interno dell’IRGC, avrebbe accettato la richiesta, garantendo che, nonostante la difficile situazione economica dell’Iran, Teheran avrebbe continuato a finanziare Hamas. “La lotta contro Israele e gli Stati Uniti è la priorità assoluta del regime iraniano” avrebbe affermato Izadi in risposta.
“La conclusione è chiara: l’Iran è la testa del serpente,” ha dichiarato Katz. “Nonostante tutte le sue smentite, finanzia e promuove il terrorismo in tutta la regione: da Gaza al Libano, dalla Siria alla Giudea e Samaria, fino agli Houthi in Yemen, con un unico obiettivo: distruggere Israele.” Il ministro ha poi ribadito che “Israele farà tutto il possibile per impedire all’Iran di ottenere un’arma nucleare e continuerà a colpire i suoi proxy nella regione finché l’asse del male iraniano non sarà annientato e sconfitto”.
(Shalom, 7 aprile 2025)
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Iran pronto ai negoziati sul nucleare, in cambio della revoca delle sanzioni
TEL AVIV - L’Iran, seguendo la logica della costruzione della fiducia, è disposto a negoziare sul suo programma nucleare in cambio della revoca delle sanzioni unilaterali imposte al Paese. Lo ha dichiarato il Ministro degli Esteri iraniano, Seyyed Abbas Araghchi.
Parlando a un incontro con i capi delle missioni diplomatiche straniere a Teheran lo scorso 5 aprile, Araghchi ha sottolineato che il programma nucleare iraniano è interamente pacifico e che il Paese ha volontariamente intrapreso diverse misure nell’ambito del Piano d’azione congiunto globale (JCPOA) per creare fiducia sulle sue intenzioni nucleari. Tuttavia, gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente dal JCPOA.
Araghchi ha aggiunto che l’Iran rimane impegnato nel dialogo e nella diplomazia per risolvere incomprensioni e conflitti, ed è pronto a qualsiasi risultato possibile. Se da un lato l’Iran è serio nei negoziati e nella diplomazia, dall’altro sarà fermo nel difendere la propria sovranità e i propri interessi, ha dichiarato.
“In linea di principio, le discussioni dirette con Paesi che minacciano l’uso della forza e adottano posizioni contraddittorie, contrarie alla Carta delle Nazioni Unite, non avrebbero senso. Tuttavia, l’Iran è pronto a esplorare discussioni indirette nel quadro della diplomazia”, ha osservato.
Il ministro iraniano ha inoltre sottolineato che l’Iran segue una politica di principio nello sviluppo delle relazioni con i Paesi vicini e con altri nel mondo. Ha espresso la speranza che il nuovo anno iraniano porti ulteriori opportunità per lo sviluppo di relazioni politiche, economiche e culturali con vari Paesi.
Il 16 gennaio 2016 è entrato in vigore il JCPOA tra l’Iran e il gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) sul programma nucleare iraniano. Tuttavia, l’8 maggio 2018, gli Stati Uniti si sono ritirati dal Piano d’azione congiunto globale (JCPOA) tra l’Iran e il gruppo 5+1 (Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Germania) e hanno imposto nuove sanzioni all’Iran a partire dal novembre 2018.
Entro la fine del 2020, il Parlamento iraniano ha deciso di perseguire un piano strategico nel settore nucleare per contrastare le sanzioni, che ha portato alla sospensione dei passi aggiuntivi e del Protocollo aggiuntivo previsti dall’accordo nucleare.
Di conseguenza, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha dovuto affrontare una riduzione delle capacità di monitoraggio del 20-30%.
L’Iran ha ufficialmente affermato che la sua strategia non è quella di perseguire lo sviluppo di una bomba atomica e che non sostiene la produzione di armi di distruzione di massa. Ma nessuno si fida degli Ayatollah.
(Rights Reporter, 7 aprile 2025)
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La semplicità della vita senza preoccupazioni
di Dietrich Bonhoeffer
«Non accumulatevi tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine logorano e i ladri scassinano e rubano. Accumulate invece tesori nel cielo, dove né il tarlo né la ruggine logorano e i ladri non scassinano né rubano. Infatti dov’è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore. La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato, se invero il tuo occhio è guasto, tutto il tuo corpo sarà oscuro. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra. Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro; non potete servire a Dio e a Mammona» (Matteo 6,19-24).
La vita del seguace si dimostra nel fatto che nulla si frappone fra Cristo e lui, né la legge né la pietà, ma neppure il mondo. Il seguace vede sempre solo Cristo; non vede Cristo e il mondo. Non incomincerà nemmeno a riflettere su questo, segue semplicemente Cristo in tutto. Perciò il suo occhio è sano; posa solamente sulla luce che gli viene da Cristo e non ha in sé nessuna ombra, nessuna ambiguità. Come l’occhio deve essere sano, chiaro, puro, perché il corpo resti nella luce, come mani e piedi non ricevono luce se non dall’occhio, come il piede inciampa e la mano sbaglia se l’occhio è opaco, come tutto il corpo si trova all’oscuro se l’occhio si spegne, così il seguace è luce solo finché guarda semplicemente a Cristo e non a questo o a quell’altro; così il cuore del discepolo deve essere intento solo a Cristo, Se l’occhio vede qualcosa di diverso della realtà, tutto il corpo è tratto in inganno. Se un cuore si attacca alle apparenze del mondo, alla creatura invece che al creatore, il discepolo è perso.
Sono i beni del mondo che cercano di distrarre il cuore del discepolo di Gesù, A che cosa è rivolto il cuore del discepolo? Ecco la domanda. È rivolto ai beni del mondo? o anche solo a Cristo e ai beni del mondo? oppure è rivolto a Cristo solo? La lucerna del corpo è l’occhio, la lucerna di chi segue Gesù è il cuore. Se l’occhio è opaco, quanto opaco dev’essere il corpo! Se il cuore è oscuro, quanta oscurità dev’esserci nel discepolo! Ma il cuore diviene oscuro se si attacca ai beni di questo mondo. Allora, per quanto energica possa essere la chiamata di Gesù, essa rimbalza, non può penetrare nell’uomo, perché il suo cuore è chiuso, appartiene ad un altro. Come nel corpo non può penetrare luce se l’occhio è malvagio, così la Parola di Gesù non raggiunge più il discepolo se il suo cuore si chiude. La Parola è soffocata come il seme tra le spine «dalle cure e dalle ricchezze e dai piaceri della vita» (Luca 8,14).
La semplicità dell’occhio e del cuore corrisponde a quella segretezza che non conosce altro che la Parola di Cristo e la chiamata che consiste nella completa comunione con Cristo. Come può il seguace di Cristo usare dei beni terreni in modo semplice?
Gesù non vieta l’uso dei beni. Gesù era uomo; mangiava e beveva come i suoi discepoli. Così ha purificato l’uso dei beni terreni. Il seguace usi pure con riconoscenza i beni che vanno consumati sul momento, di cui ha bisogno ogni giorno per le necessità e il nutrimento della vita corporale.
«Si deve camminare come pellegrini, liberi, nudi e veramente vuoti; raccogliere, tenere per sé molte cose e agire molto rende il cammino assai pesante. Chi vuole si carichi pure tanto da morirne; noi camminiamo separati dal mondo, contenti di poco; abbiamo bisogno solo del necessario» (G. Tersteegen).
I beni sono dati per essere usati, non per essere accumulati. Come Israele nel deserto ricevette la manna da Dio ogni giorno e non doveva preoccuparsi del cibo e della bevanda, e come la manna che veniva conservata per il giorno dopo marciva presto, così il discepolo di Gesù deve ricevere da Dio ogni giorno il necessario; ma se lo accumula per un possesso duraturo, rovina il dono e se stesso. Il suo cuore resta attaccato al tesoro accumulato. Il bene accumulato si pone fra me e Dio. Lì dov’è il mio tesoro, è anche la mia fiducia, la mia sicurezza, il mio conforto, il mio Dio. Il tesoro è idolatria.
Ma dov’è il limite tra i beni che devo usare e il tesoro che non devo avere? Rovesciamo la proposizione e diciamo: - il tuo tesoro è ciò a cui attacchi il tuo cuore; e così la risposta è data. Può essere un tesoro molto insignificante; non è la grandezza che conta, è solo il cuore che conta, tu stesso. Se poi chiedo, da che cosa riconosco a che cosa è legato il mio cuore, la risposta è semplice e chiara: tutto ciò che ti impedisce di amare Dio sopra ogni altra cosa, ciò che si frappone fra te e l’obbedienza a Gesù è il tesoro al quale è legato il tuo cuore.
Ma poiché il cuore umano si attacca a un tesoro, perciò l’uomo, anche per volontà di Gesù, può avere un tesoro, ma non in terra dove esso si sciupa, bensì in cielo dove rimane. I ‘tesori’ in cielo, dei quali parla Gesù, evidentemente non sono l’unico tesoro cioè Gesù stesso, ma veri tesori raccolti dai suoi seguaci. C’è una grande promessa nell’affermazione che il discepolo, seguendo Gesù, si acquista tesori nel cielo, che non si consumano, ma che lo attendono, con i quali si riunirà. Quali altri tesori possono essere se non quel che v’è di straordinario, di segreto nella vita del discepolo? quali tesori possono essere se non i frutti della passione di Cristo che la vita del seguace produce?
Se il discepolo ha il suo cuore completamente riposto in Dio, è evidente che non può servire a due padroni. Non è possibile. Seguendo Gesù non è possibile. Sarebbe certo naturale cercare di dimostrare la propria prudenza ed esperienza cristiana col far vedere che, ciononostante, si sa servire ad ambedue i signori, a Mammona e a Dio, che si sa dare ad ognuno il suo diritto limitato. Perché come figli di Dio non dovremmo essere anche allegri figli del mondo, che godono i beni e accettano i suoi tesori come benedizioni di Dio? Dio e il mondo, Dio e i beni sono in contrasto, perché il mondo e i suoi beni vogliono impadronirsi del nostro cuore e sono quel che sono solo quando hanno conquistato il nostro cuore. Senza il nostro cuore i beni e il mondo non sono nulla. Essi vivono del nostro cuore. Perciò sono contro Dio. Possiamo dare il nostro cuore pieno di amore solo ad uno, possiamo essere legati totalmente solo a un signore. Ciò che si oppone a questo amore incorre nell’odio. Secondo la Parola di Dio non si può che o amare o odiare. Se non amiamo Dio, lo odiamo. Non c’è via di mezzo. Dio è Dio, perché può essere solo amato o odiato. C’è solo un «aut aut»: o ami Dio o ami i beni del mondo. Se ami il mondo odii Dio, se ami Dio odii il mondo. Non importa affatto che tu lo voglia o lo faccia coscientemente. Certo non lo vuoi, forse anche non sai quello che fai; anzi, tu non lo vuoi, ma vuoi appunto servire ambedue i signori. Tu vuoi amare Dio e i beni, perciò riterrai sempre una falsa accusa l’affermazione che odii Dio. Tu credi di amarlo. Ma appunto se ami Dio e anche i beni del mondo, questo amore è odio per Dio. L’occhio non è più semplice, non è più in comunione con Gesù. Volere o non volere, non può essere diversamente. Non potete servire a due signori, voi che seguite Gesù.
«Perciò vi dico: non vi affannate per la vostra vita, di che cosa mangerete o berrete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. La vita non vale forse più del nutrimento e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo che non seminano né mietono né radunano in granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre; non valete voi forse più di essi? E chi di voi, pur affannandosi, può prolungare d’un solo cubito la propria vita? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate i gigli del campo come crescono: non faticano né filano, eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria si vestì come uno di essi. Ora se Dio veste così l’erba del campo che oggi è e domani verrà data al fuoco, quanto più farà per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: che mangeremo o che berremo, o di che ei vestiremo? Tutte queste cose infatti cercano ansiosamente i pagani, ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate invece prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani si affannerà da se stesso; basta a ciascun giorno la sua pena» (Matteo 6,25-34).
Non preoccupatevi! I beni fanno credere al cuore umano di essere in grado di dargli sicurezza e serenità; ma in realtà sono loro a causare preoccupazioni. Il cuore che cerca appiglio ai beni, con essi viene caricato del peso opprimente della preoccupazione. La preoccupazione si crea dei tesori e i tesori a loro volta creano preoccupazioni. Vogliamo assicurare la nostra vita per mezzo di beni; vogliamo liberarci dalle preoccupazioni per mezzo delle preoccupazioni stesse; ma in realtà accade il contrario. I vincoli che ci legano ai beni, che trattengono i beni, sono essi stessi... preoccupazioni.
L’abuso dei beni consiste nel fatto che noi ce ne serviamo per assicurarci il giorno seguente. La preoccupazione è sempre rivolta al futuro. Ma i beni sono decisamente destinati all’oggi. È proprio il desiderio di assicurarsi per l’indomani a renderli così malsicuri oggi. Basta che ogni giorno abbia la sua pena. Solo chi affida il domani completamente a Dio ed oggi accetta quello che gli serve per vivere, vive veramente sicuro. Il ricevere ogni giorno il suo mi libera dal domani. Il pensiero del domani mi espone a preoccupazioni senza fine. «Non affannatevi dunque per il domani», queste parole sono o un terribile scherno dei poveri e miserabili - ai quali Gesù appunto si rivolge -, di tutti coloro che dal punto di vista umano domani morranno di fame se non ci pensano oggi, ed è una legge insopportabile che l’uomo respinge con ripugnanza, oppure, invece, è l’unico annunzio dell’Evangelo stesso della libertà dei figli di Dio, che hanno un Padre celeste il quale ha donato loro il suo Figlio diletto. «Come non ci donerebbe tutto con lui?».
«Non affannatevi per il domani», non sono parole da considerare come un modo saggio per affrontare la vita; non sono una legge. Le si può solo comprendere come Evangelo di Gesù Cristo. Solo chi segue Gesù, chi ha riconosciuto Gesù in questa Parola, riceve l’assicurazione dell’amore del Padre di Gesù Cristo e la libertà da ogni cosa. Non è la previdenza a rendere il discepolo libero da preoccupazioni, ma la fede in Gesù Cristo. Ora egli sa: non possiamo nemmeno provvedere. Il prossimo giorno, la prossima ora non sono in nostro potere. È inutile far finta di poter provvedere. Non possiamo cambiar nulla nella situazione del mondo. Solo Dio può provvedere, perché Egli governa il mondo. Dato che non possiamo provvedere, dato che siamo tanto impotenti, non dobbiamo nemmeno preoccuparci. Non arroghiamoci con le nostre preoccupazioni il governo che spetta a Dio.
Ma il seguace sa che non solo non può e non deve preoccuparsi, ma che non ha nemmeno bisogno di farlo. Non è la preoccupazione e nemmeno il lavoro a procurarci il pane quotidiano, ma Dio Padre. Gli uccelli e i gigli non lavorano e non tessono, eppure vengono nutriti e vestiti, ricevono ogni giorno il necessario senza preoccuparsene. Usano i beni del mondo solo per la vita quotidiana, non li accumulano, e proprio così glorificano il Creatore, non mediante la loro diligenza, il loro lavoro, la loro previdenza, ma ricevendo ogni giorno semplicemente il dono che Dio offre. Così uccelli e gigli divengono esempio per chi segue Gesù. Gesù scioglie il nesso tra lavoro e nutrimento, ritenuto necessario non tenendo conto di Dio. Egli non parla del pane quotidiano come di una ricompensa per il lavoro, ma loda la vita semplice e senza preoccupazioni di chi cammina sulla via di Gesù e riceve tutto da Dio.
«Ora nessun animale lavora per il proprio nutrimento, ma ognuno ha il suo compito, poi cerca e trova il suo cibo. L’uccello vola e canta, nidifica e genera pulcini; questo è il suo compito; ma non si nutre di questo. I buoi arano, i cavalli portano l’uomo e combattono, le pecore danno la lana, il latte, il formaggio, questo è il loro lavoro; ma di questo non si nutrono; ma la terra fa crescere l’erba e li nutre per la benedizione di Dio. Altrettanto l’uomo deve lavorare e fare qualcosa, ma pure deve sapere che è un Altro a nutrirlo, e non il suo lavoro; è la ricca benedizione del Signore; per quanto sembri essere il suo lavoro a nutrirlo, perché Dio non gli dà nulla senza il suo lavoro; così come l’uccellino non semina né raccoglie, eppure dovrebbe morire di fame se non volasse in cerca di cibo. Ma non è il suo lavoro che gli fa trovare il cibo, bensì la bontà di Dio. Infatti, chi ha sparso cibo perché lo trovi? Dove Dio non pone nulla, nessuno può trovare qualcosa, anche se lavorasse e cercasse fino a sfinirsi» (Lutero).
Ma se uccelli e gigli vengono mantenuti dal Creatore, il Padre non dovrebbe tanto più nutrire i suoi figli che gliela chiedono ogni giorno, non dovrebbe poter dar loro ciò di cui hanno bisogno per la loro vita quotidiana, lui al quale appartengono tutti i beni della terra e che può distribuirli come gli piace? «Dio mi dà ogni giorno solo quanto mi è necessario per vivere; se lo dà agli uccelli sul tetto, come non dovrebbe darlo a me?» (Claudius).
Preoccuparsi è da pagani che non credono, che si fidano delle proprie forze e del proprio lavoro, ma non di Dio. Pagani sono coloro che si preoccupano, perché non sanno che il Padre sa che hanno bisogno di tutte queste cose. Perciò vogliono fare loro stessi quello che non si aspettano da Dio. Ma per chi segue Gesù vale: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più».
Da ciò è evidente che preoccuparsi del nutrimento e del vestiario non vuol dire ancora preoccuparsi del regno di Dio, come noi spesso vogliamo credere, quasi l’adempimento del nostro lavoro per la nostra famiglia e per noi, quasi la nostra preoccupazione per il vitto e l’alloggio fossero già un cercare il regno di Dio, come se questo si realizzasse entro queste preoccupazioni. Il regno di Dio e la sua giustizia è qualcosa di completamente diverso dai doni del mondo che ci vengono dati. Non è altro che la giustizia, di cui si parla in Matteo 5 e 6, la giustizia della croce di Cristo e del cammino al seguito di Gesù, sotto la croce.
La comunione con Gesù e l’obbedienza ai suoi comandamenti vien prima, tutto il resto segue. Non è un insieme, ma una successione. Prima delle preoccupazioni per la nostra vita, per il nutrimento e il vestiario, per la professione e la famiglia viene la ricerca della giustizia di Cristo. Qui è solo data un’estrema sintesi di ciò che già era stato detto. Anche questa parola di Gesù è un peso insopportabile, una impossibile distruzione dell’esistenza umana dei poveri e miserabili, oppure è l’Evangelo stesso, che rende completamente liberi e felici. Gesù non parla di quello che l’uomo deve e non può, ma di quello che Dio ci ha donato e ci promette ancora. Se Cristo ci è stato donato, se siamo chiamati a seguirlo, allora con lui ci viene donato tutto, veramente tutto. Tutto il resto ci sarà dato in più. Chi, seguendo Gesù, guarda solo alla giustizia di Cristo, è al sicuro nella mano e sotto la protezione di Gesù Cristo e di suo Padre, e chi è così in comunione con lui non può più dubitare che il Padre non sappia nutrire i suoi figli e non li farà soffrire la fame. Dio aiuterà al momento opportuno. Egli sa di che cosa abbiamo bisogno.
Chi segue Gesù, anche dopo essere stato a lungo suo discepolo, alla domanda del Signore: «Vi è mai mancato qualcosa?» risponderà: «Mai, Signore». Come potrebbe mancare di qualcosa chi, pur affamato e nudo, nella persecuzione e nel pericolo, è certo della comunione con Gesù Cristo?
(da "Sequela", di Dietrich Bonhoeffer)
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Indossare la Kippah in solidarietà agli ebrei, l'iniziativa dei radicali a Milano
"Gli ebrei rischiano contestazioni e aggressioni". L'iniziativa di solidarietà lanciata a Milano, verrà estesa ai sindaci delle città principali: indossare la Kippah nei luoghi pubblici per alcune settimane.
di Massimiliano Melley
Indossare la Kippah come gesto simbolico di solidarietà nei confronti delle persone di religione ebraica che, per il fatto di essere riconosciute come tali, ogni giorno rischiano contestazioni e aggressioni. L'iniziativa è stata promossa da Europa Radicale, e presentata a Milano dal suo portavoce Igor Boni insieme a Lorenzo Strik Lievers (ex deputato radicale) e Carmelo Palma. Per la comunità ebraica milanese c'erano il vice presidente Ilan Boni e il delegato alla comunicazione David Blei.
"L’antisemitismo, cioè la quotidiana imputazione agli ebrei, in quanto ebrei, di colpe e nequizie inemendabili, è tornato a essere un pregiudizio di massa, culturalmente e politicamente legittimato da istanze cosiddette 'antisioniste', cioè di contestazione non delle scelte, ma della legittimità di Israele", è stato detto durante la conferenza stampa di presentazione.
• L’invito ai sindaci
Sotto accusa Hamas, che ha "come fondamentale obiettivo la distruzione di Israele" e quindi, oltre a lasciare lo stato israeliano in una condizione di pericolo, impedisce di fatto di costruire una pace fondata sul principio "due popoli, due stati", che implica "un riconoscimento reciproco". Igor Boni, Lorenzo Strik Lievers e Carmelo Palma, alla fine della conferenza stampa, hanno indossato una Kippah, impegnandosi a portarla nei luoghi pubblici nelle prossime settimane, e scriveranno ai sindaci delle principali città italiane, tra cui Beppe Sala, invitandoli a fare lo stesso.
• “Clima pesante"
"A Milano c'è una situazione molto pesante, ma in altre zone d'Italia è pure peggio, per cui non saprei se c'è un caso Milano specifico", ha aggiunto Ilan Boni per la comunità ebraica. Percepisco che nel capoluogo lombardo la situazione è molto critica ma è anche un effetto di un movimento mondiale, di un certo clima internazionale. Per questo ritengo che indossare la Kippah sia un gesto simbolico nonché un messaggio importante".
(MilanoToday, 5 aprile 2025)
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"Voglio lasciare Gaza”, dicono i palestinesi alla BBC Arabic
Una donna palestinese ha spiegato che suo marito, cittadino giordano, è stato costretto dall'Egitto a tornare a Gaza senza la sua famiglia.
Nonostante la proposta di trasferire i palestinesi da Gaza sia stata accolta dall'indignazione internazionale, la scorsa settimana alcuni palestinesi hanno dichiarato alla BBC Arabic di voler lasciare l'enclave. “Non ce la faccio più, soprattutto ora che la guerra è tornata. Le nostre vite sono minacciate ogni giorno. Voglio lasciare Gaza”, ha detto Alaa alla BBC. Ola, una donna palestinese che vive a Jabalya, ha detto al sito di notizie che la maggior parte dei gazesi vuole lasciare la Striscia di Gaza, citando “la mancanza di una vita decente. Non ci sono luoghi adatti per vivere, né cibo buono, né opportunità di lavoro. Manca tutto, anche le necessità più elementari della vita”. Coloro che sono disposti e vogliono rimanere a Gaza, ha detto l'Ola, spesso hanno un buon lavoro “ma se ne andranno non appena troveranno un'opportunità migliore”. Ha riconosciuto che alcune persone vorrebbero rimanere e investire nel futuro di Gaza, ma che la generazione più giovane sta cercando sempre più spesso di fuggire per avere migliori prospettive all'estero.
Le possibilità per i giovani di lasciare Gaza possono essere quelle di ottenere borse di studio, ma le opportunità di lavoro sono difficili e alcuni potrebbero ricorrere all'immigrazione clandestina, se ne hanno la possibilità”, ha affermato l'autrice, aggiungendo che gli anziani non sono più in grado di lavorare. “Guardare gli anziani a Gaza è straziante. Le loro possibilità di lasciare la Striscia sono scarse, tranne che per i malati e i feriti, che vengono ospitati da alcuni Paesi per essere curati. Gli altri non hanno soldi, cibo e nemmeno una tenda”, ha sottolineato. “Ogni giorno cercano un posto sicuro e cercano di soddisfare alcuni dei loro bisogni. Quindi, se hanno una buona opportunità, se ne andranno anche loro, “e molto probabilmente rimarranno intrappolati in situazioni non sicure all'interno della Striscia di Gaza”. Quando le è stato chiesto di indicare dove pensava che i palestinesi avrebbero potuto ripartire, ha detto che molti guardavano all'Indonesia o agli Stati arabi circostanti, ma ha aggiunto che i giovani speravano in un futuro in Europa. Un altro palestinese, un uomo reso anonimo con il nome di “Mahdi”, ha potuto lasciare la sua casa di Rafah con la figlia per sottoporsi a cure mediche in Egitto. “Non intendo tornare a Gaza a meno che non sia costretto a farlo”, ha confermato alla BBC. “Dicono che siamo fuggiti da Gaza, ma la verità è un'altra”, ha spiegato Mahdi. “Non siamo fuggiti e non abbiamo scelto di vivere nella sofferenza. Volete che moriamo sotto le macerie e che diventiamo solo resti? Vi piace vederci morti e fatti a pezzi? No, non è questo il nostro obiettivo”. E ha aggiunto: “Non siamo traditori se vogliamo andarcene. Ognuno di noi ha la capacità di sopportare, e molti di noi non ce la fanno più”. Un terzo palestinese, Ahmed, ha dichiarato alla BBC di desiderare di trasferirsi in un Paese “che abbracci me e mio fratello in modo da poter lavorare e vivere con dignità”. “So che la gente fraintenderà la nostra uscita da Gaza”, ha ripetuto più volte durante l'intervista con la BBC. “Io e molte persone che conosco vogliamo lasciare Gaza, ma senza che ci vengano imposte condizioni su come partire o tornare, o addirittura senza tornare a Gaza, come si dice in giro. In definitiva, questo è il nostro Paese e vogliamo entrare e uscire di nostra spontanea volontà”. Sebbene molti palestinesi desiderino andarsene, alcuni hanno raccontato come i loro sforzi legali per emigrare siano stati ostacolati dagli Stati confinanti. Hadeel ha raccontato dalla sua nuova casa in Giordania che suo marito, che ha la cittadinanza giordana, è stato rimpatriato dall'Egitto a Gaza. Ora vive con le sue figlie e aspetta che la famiglia si riunisca.
• Quanti palestinesi vogliono andarsene?
“Ci sono molte persone a Gaza che desiderano recarsi in Paesi europei come il Belgio, la Germania e la Grecia, ma sono il blocco, la chiusura e i costi esorbitanti del viaggio a impedirglielo”, ha spiegato Hadeel. “D'altra parte, ci sono anche coloro che rimangono impegnati a Gaza e vi rimangono nonostante le difficili condizioni”. Mentre BBC Arabic ha riportato le dichiarazioni di tre persone che affermavano di voler rimanere a Gaza, un sondaggio di Gallup International pubblicato a marzo ha indicato che la stragrande maggioranza voleva andarsene. Condotto dal 2 al 13 marzo, il sondaggio ha rilevato che il 38% degli intervistati avrebbe optato per un trasferimento temporaneo, il 14% si sarebbe trasferito in modo permanente e il 4% avrebbe mandato all'estero i propri familiari.
(Jerusalem Post, 5 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L'inviato di Trump incontra il presidente libanese nell'ambito degli sforzi per disarmare Hezbollah
Il vice inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Morgan Ortagus, ha incontrato sabato a Beirut il presidente libanese Joseph Aoun, dopo che Israele e Libano hanno concordato di tenere dei colloqui per risolvere le loro controversie sui confini.
La visita avviene sullo sfondo di oltre un anno di guerra tra lo Stato ebraico e il gruppo terroristico sciita libanese.
Washington ha esortato il governo libanese a disarmare Hezbollah per garantire la calma lungo il confine.
Ortagus ha discusso con Aoun anche dell'escalation degli attacchi israeliani contro obiettivi delle organizzazioni terroristiche Hezbollah e Hamas, concentrati soprattutto nel Libano meridionale, che negli ultimi giorni hanno raggiunto anche la periferia di Beirut.
La presidenza libanese ha affermato in una nota che l'incontro tra Ortagus e Aoun "è stato costruttivo" e che le delegazioni guidate dai due hanno discusso "della situazione nel Libano meridionale, del confine tra Libano e Siria e delle riforme finanziarie ed economiche per combattere la corruzione" nel Paese mediterraneo.
La dichiarazione non ha fornito ulteriori dettagli, sebbene abbia indicato che l'incontro è stato preceduto da un incontro "privato" tra il capo di Stato libanese e il funzionario statunitense.
Dopo aver concluso l'incontro con Aoun, Ortagus ha incontrato il primo ministro libanese Nawaf Salam e dovrebbe incontrare anche il presidente del Parlamento Nabih Berri, che è anche il principale negoziatore per la cessazione delle ostilità tra Israele e Hezbollah.
La sua visita avviene in un momento in cui aumentano gli attacchi delle Forze di difesa israeliane, che la scorsa settimana hanno lanciato due attacchi aerei contro obiettivi terroristici alla periferia di Beirut, per la prima volta da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco quattro mesi fa, e ieri hanno preso di mira un leader di Hamas nella città meridionale di Sidone.
Nelle prime ore del mattino, appena 12 ore prima dell'arrivo del rappresentante degli Stati Uniti, un attacco di precisione israeliano su un appartamento di quella città ha ucciso Hassan Farhat, comandante del gruppo terroristico palestinese Hamas in Libano, e i suoi due figli.
Washington, principale mediatore della cessazione delle ostilità, ha esortato il Libano ad accelerare il disarmo dei gruppi non statali e ad avviare negoziati per demarcare il confine con lo Stato ebraico, attualmente diviso solo da una linea di ritiro tracciata dall'ONU.
(Aurora Israel, 5 aprile 2025)

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“Am Israel run”: si conclude 14ª Maratona Internazionale di Gerusalemme
di Michelle Zarfati
Circa 40.000 corridori hanno partecipato venerdì alla 14ª Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner”, che si è svolta sotto il tema “Am Israel Runs”. L’evento ha reso omaggio all’IDF e alle forze di sicurezza e di soccorso israeliane, e ha rappresentato la resilienza, la speranza, la forza e lo spirito del popolo israeliano. La corsa è stata inaugurata da Karina Ariev, liberata dalla prigionia di Hamas a Gaza dopo oltre 500 giorni. Nel suo discorso ai corridori prima della partenza, ha detto: “Mentre correte, sentite la libertà, l’abbraccio confortante di ciò che vi circonda. Dedicate questa corsa alla memoria dei nostri eroi che hanno sacrificato le loro vite perché noi potessimo essere qui oggi, agli ostaggi – che possano tornare presto e in sicurezza – a noi stessi e all’intero popolo di Israele”.
Tra i corridori c’erano circa 15.000 soldati dell’IDF – sia riservisti che personale in servizio attivo – oltre ai membri dei servizi di sicurezza e di emergenza di Israele. La maratona ha attirato anche circa 1.800 partecipanti internazionali, che hanno corso lungo un percorso straordinario che ha toccato punti di riferimento iconici come la Knesset, le mura della Città Vecchia, la Piscina del Sultano, Mishkenot Sha’ananim, il Monte Sion, la Colonia Tedesca, Rehavia, la Passeggiata Armon Hanatziv, la Collina delle Munizioni, il Parco Sacher, il Monte Scopus, il Monte degli Ulivi e altro ancora.
Tra i partecipanti di quest’anno c’era anche il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion, che ha corso nella gara di 5 km. “La Maratona Internazionale di Gerusalemme ‘Winner’ è uno degli eventi sportivi più professionali e stimolanti per i corridori in Israele e nel mondo. Sono orgoglioso che ancora una volta abbiamo battuto un record assoluto di partecipazione e abbiamo ospitato con successo la maratona sotto il tema “Am Israel Run” ha detto Lion, salutando inoltre l’IDF, le forze di sicurezza e i soccorritori di emergenza. “Ringrazio le decine di migliaia di corridori che hanno preso parte al più grande evento sportivo israeliano, tenutosi nella capitale dello sport del Paese. Tutti noi speriamo in un rapido ritorno di tutti gli ostaggi alle loro famiglie e nel ritorno in sicurezza dei nostri soldati. Ci vediamo alla prossima maratona nel 2026″.
Il vincitore della 14ª Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner” è stato Bohdan Semenovych, 39 anni, con il tempo di 02:22:47. Al secondo posto: Gabriyesos Tachlowini Melake, 27 anni, con un tempo di 02:23:05. Al terzo posto: Yonah Amitai, 31 anni, da Israele, con il tempo di 02:23:18.
Campionessa femminile: Salgong Pauline Gepkirui dal Kenya che ha tagliato il traguardo in 02:51:58. Secondo posto: Mantamar Bikaya da Israele che ha completato la gara in 02:56:53 Terzo posto: Noah Berkman da Israele, con un tempo di 02:59:48.
La 14a Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner” prevedeva sei categorie di gara, offrendo ai partecipanti una serie di sfide. I corridori hanno affrontato la maratona completa (42,195 km), la mezza maratona (21,1 km), la corsa di 10 km, la corsa di 5 km e la corsa per famiglie di 1,7 km. Inoltre, l’evento comprendeva l’esclusiva Community Race, una caratteristica esclusiva della Maratona di Gerusalemme.
Il vincitore della maratona si è aggiudicato un premio di 3.750 dollari, mentre il secondo classificato ha ricevuto 2.500 dollari e il terzo classificato 1.250 dollari.
La Maratona Internazionale di Gerusalemme “Winner” è stata organizzata dal Comune di Gerusalemme, in collaborazione con l’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme e con il sostegno del Ministero di Gerusalemme e del Patrimonio, del Ministero della Cultura e dello Sport e del Ministero del Turismo. Lo sponsor principale dell’evento è stato Toto Winner. Il brand Saucony ha collaborato all’evento, commercializzando le scarpe da corsa e le magliette ufficiali della Maratona di Gerusalemme. Altri sponsor sono stati Hapoel Center, Eldan, Cinema City, Reidman College e Bezeq Business. La maratona è stata prodotta da Electra Target.
(Shalom, 4 aprile 2025)
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Israele e gli USA alla prova dei dazi: effetti economici e risposte politiche
di Davide Cucciati
Israele si trova coinvolto nella nuova guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti. Il 2 aprile, il presidente Donald Trump ha annunciato un vasto piano di dazi, illustrato, secondo quanto riportato da Globes, come un modo per “riportare la ricchezza in America” e rilanciare l’industria nazionale. La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha definito la giornata dell’annuncio come “uno dei momenti più importanti della storia americana moderna”. In un comunicato ufficiale, l’amministrazione statunitense ha inoltre affermato che “questi dazi sono centrali nel piano del presidente Trump per invertire i danni economici lasciati dal presidente Biden e portare l’America verso una nuova età dell’oro”.
Secondo Globes, Israele è tra gli Stati a cui si applicheranno i nuovi dazi, con un’aliquota del 17%. Si tratta di un valore intermedio: più basso rispetto a quello imposto alla Cina (34% che, in combinazione con i dazi preesistenti, porta il livello effettivo al 54%, secondo quanto chiarito dalla Casa Bianca alla CNBC), all’India (26%), al Giappone (24%) e all’Unione Europea (20%), ma superiore a quello riservato a partner come Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Turchia o Singapore. La Casa Bianca ha spiegato che le nuove aliquote non sono direttamente proporzionali al disavanzo commerciale, ma riflettono, secondo quanto dichiarato dal presidente Trump e riportato da Reuters, “circa la metà” del livello delle tariffe, delle barriere non tariffarie e delle altre restrizioni che i singoli Stati impongono alle merci statunitensi.
Nel caso di Israele, è stata calcolata un’aliquota del 17% sulla base di questo criterio. L’inclusione tra i Paesi “penalizzati” preoccupa il ministero delle finanze israeliano poiché gli Stati Uniti rappresentano di gran lunga il principale mercato di esportazione per Israele. Secondo la testata economica israeliana, nel 2024 l’export di beni israeliani verso gli USA è stato pari a 17,3 miliardi di dollari. A titolo di confronto, il secondo Paese in classifica è l’Irlanda (3,2 miliardi), seguita dalla Cina (2,8 miliardi). I settori più esposti all’impatto dei dazi sono quelli dell’elettronica e dei macchinari industriali, le apparecchiature mediche e ottiche, il settore farmaceutico e i diamanti.I dazi, almeno per ora, si applicano solo alle merci e non ai servizi: le esportazioni israeliane di servizi verso gli USA (soprattutto nel settore high-tech) hanno raggiunto i 16,7 miliardi di dollari nel 2024 e non saranno colpite direttamente. Il danno potenziale sul fronte dei beni è comunque rilevante: con un dazio medio del 17% sul valore esportato, si stima una ricaduta potenziale di circa 2,9 miliardi di dollari l’anno che potrebbe ridurre la competitività dei prodotti israeliani e aumentare i costi per i consumatori americani.
Successivamente all’annuncio, il ministro delle finanze israeliano Smotrich ha convocato una riunione d’emergenza con i funzionari del ministero e il presidente dell’associazione degli industriali, Ron Tomer. Secondo quanto dichiarato da fonti del ministero a Globes, il gruppo di lavoro ha avviato un’analisi per individuare i comparti più vulnerabili e pianificare interventi mirati. Peraltro, Israele aveva cercato di muoversi in anticipo. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti all’annuncio, il governo aveva adottato due misure: l’abolizione dei dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti e l’estensione della riforma “Ciò che è buono per l’Europa è buono per Israele”, adattandola anche agli standard statunitensi. Preme precisare che l’abolizione dei dazi richiede ancora l’approvazione della Commissione Finanze della Knesset. A differenza dell’Unione Europea, Israele ha escluso per ora l’adozione di dazi di ritorsione: l’intenzione è mantenere i canali aperti e puntare a una riduzione delle tariffe, non a una loro escalation. Non mancano, secondo gli analisti israeliani, possibili margini di opportunità. Il fatto che Israele sia tassato meno di UE, India e Giappone potrebbe rendere alcune produzioni israeliane più competitive ma il contesto rimane altamente incerto. Molto dipenderà dalle reazioni europee e dalle dinamiche di una possibile guerra commerciale globale.
Nel frattempo, il mondo della finanza ha reagito con durezza. Il giorno dopo l’annuncio di Trump, i mercati hanno subito un tonfo. Secondo la SkyTG24, il 3 aprile, in apertura del mercato, il Dow Jones ha perso il 2,62%, il Nasdaq il 4,40% mentre lo S&P 500 “lascia sul terreno il 3,4%”. Nike ha segnato un -13% scendendo ai minimi dal 2017; Apple un-8,5% bruciando 255 miliardi di dollari di valore. Il capo stratega di B. Riley Wealth Management, Art Hogan, ha definito l’annuncio “caotico come tutto ciò che questa amministrazione ha fatto finora”, osservando che “il livello di complicazione è peggiore del previsto e non ancora scontato dai mercati”.
Anche sul piano teorico, la scelta di Trump ha suscitato ampie critiche: Piercamillo Falasca, direttore de L’Europeista e in passato responsabile dell’ufficio legislativo di un gruppo parlamentare alla Camera dei Deputati, ha osservato su X che “il fatto che gli Stati Uniti siano in deficit commerciale con il mondo non è di per sé un problema”, poiché negli ultimi venticinque anni hanno attratto una quota crescente di investimenti diretti esteri. “I soldi uscivano sotto forma di consumi, ma rientravano sotto forma di investimenti”, ha scritto, ricordando anche che il dollaro è la valuta degli scambi internazionali, e ciò rappresenta “un altro modo indiretto per finanziare l’economia americana”. Secondo dati del Dipartimento del Commercio USA, gli investimenti diretti esteri nel Paese hanno superato i 5 trilioni di dollari nel 2023, con un’incidenza sul PIL superiore al 20%. “Dalla guerra dei dazi scatenata da Trump non ne verrà nulla di buono”, conclude Falasca. “Abbiamo secoli di evidenza a spiegarcelo. Il mondo non stava fregando gli USA: è Trump a illudere i suoi cittadini e a far male a tutti”.
Anche The Economist ha preso posizione in modo netto, definendo l’iniziativa “la decisione economica più grave e inutile dell’era moderna”. Nell’editoriale del 3 aprile, la rivista britannica accusa Trump di voler riscrivere la politica commerciale americana con criteri arbitrari e privi di basi economiche. Secondo la testata, le conseguenze sono quasi inevitabili: inflazione, interruzione degli scambi, ritorsioni da parte di altri Stati e, potenzialmente, una nuova recessione globale.
Israele si trova così ad affrontare una sfida complessa: difendere l’accesso al suo mercato di esportazione principale e orientarsi in un contesto internazionale sempre più instabile.
(Bet Magazine Mosaico, 4 aprile 2025)
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Hamas sotto pressione. Come Israele indebolisce il terrore
di Luca Spizzichino
Hamas è in difficolta. Secondo quanto riportato dal quotidiano arabo Asharq Al-Awsat e ripreso da Ynet, gli ultimi attacchi mirati dell’IDF, che hanno colpito la leadership politica, militare e amministrativa, hanno sconvolto la catena di comando e modificato la struttura decisionale, creando di fatto un grave vuoto organizzativo all’interno di Hamas.
Gli attacchi israeliani hanno compromesso inoltre il pagamento degli stipendi ai dipendenti dell’amministrazione controllata dal gruppo a Gaza, con tagli che hanno ridotto le retribuzioni dei ranghi politici e militari al 60% durante l’Eid al-Fitr. Secondo fonti di Hamas, i ritardi nei pagamenti sono stati aggravati dal caos interno e dalla sorveglianza israeliana sui funzionari finanziari.
I raid hanno avuto un impatto significativo sulle operazioni di Hamas. La struttura decisionale si è ristretta a un piccolo “consiglio di leadership”, composto da leader regionali che consultano il più ampio ufficio politico solo in casi di estrema necessità. Attualmente, il capo di questo consiglio è Muhammad Darwish, che ha preso il posto di Osama al-Mazini dopo la sua uccisione nei primi giorni della guerra nell’ottobre 2023. Mentre l’ufficio politico di Hamas, che contava originariamente più di 20 membri, ora ne comprende tra i 5 e i 7.
Delle figure chiave di Hamas, Ismail Haniyeh e Saleh al-Arouri sono stati uccisi all’estero, mentre circa 15 membri del politburo sono stati eliminati all’interno di Gaza. Fonti di Hamas hanno rivelato che, a causa della pressione israeliana, il processo decisionale è passato direttamente al consiglio di leadership, escludendo i comandanti sul campo a meno che non sia strettamente necessario. Tuttavia, rimangono alcune linee rosse: né il consiglio né la squadra negoziale possono prendere decisioni critiche senza consultare l’intero ufficio politico, in particolare i membri ancora presenti a Gaza e il comando militare delle Brigate Qassam, guidato da Mohammed Sinwar, fratello di Yahya Sinwar.
Durante la tregua, Hamas ha tentato di riorganizzarsi rapidamente attraverso nuove nomine ed elezioni interne. Questo processo ha portato all’ascesa di Khalil al-Hayya, che ha sostituito Yahya Sinwar e ha svolto un ruolo centrale nei negoziati, viaggiando tra Egitto, Turchia e altri Paesi per coordinare le trattative. Tuttavia, anche alcuni membri della delegazione negoziale, tra cui Muhammad al-Jamasi, Yasser Harb, Ismail Barhoum ed Essam al-Da’alis, sono stati successivamente uccisi nei raid aerei israeliani.
Parlando con Reuters, alcuni funzionari di Hamas hanno sostenuto che l’organizzazione mantiene un sistema di governo efficace nonostante il conflitto. “Il movimento ha le risorse umane per ricostruire. Le fazioni palestinesi subiscono colpi da decenni, ma riescono sempre a riemergere più forti”. Hamas starebbe valutando l’ipotesi di ritirarsi dalla gestione civile di Gaza per alleviare le pressioni interne, ma non intende rinunciare al proprio arsenale militare. Secondo le fonti citate da Asharq Al-Awsat, il gruppo disporrebbe di ulteriori “strumenti di pressione” oltre agli ostaggi, anche se non sono stati specificati dettagli in merito.
La strategia di Israele, basata su eliminazioni mirate e pressione costante sulle reti operative di Hamas, sta infliggendo un duro colpo alla capacità del gruppo terroristico di coordinare attacchi e mantenere il controllo della Striscia di Gaza. Con una leadership decimata e crescenti difficoltà amministrative.
(Shalom, 4 aprile 2025)
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I palestinesi sono un popolo antico o una creazione moderna?
Sullo sfondo storico dei palestinesi nel Mandato britannico, nella Striscia di Gaza, in Giudea e Samaria e nel mondo musulmano.
di Harold Rhode
Prima del 1948, anno di fondazione dello Stato ebraico, quasi esclusivamente gli ebrei che vi abitavano si definivano palestinesi. Gli altri abitanti della regione, principalmente arabi musulmani, si definivano innanzitutto musulmani. Una certa consapevolezza dell'appartenenza territoriale esisteva solo in piccoli circoli intellettuali, che consideravano la regione come Grande Siria, Siria meridionale o “Ash-Sham” (la regione levantina).
L'identità palestinese moderna è stata in gran parte creata solo nel 1964 con la fondazione dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). È controverso se gli attuali abitanti di Gaza e della “Cisgiordania” abbiano legami storici con la Palestina del Mandato britannico (prima del 1948).
• Matrimonio e commercio: una rete di connessioni regionali
Storicamente, le relazioni familiari e tribali in Medio Oriente sono state spesso definite da reti economiche e commerciali, non da confini geografici. In molte parti del mondo musulmano, i matrimoni seguivano le rotte commerciali e rafforzavano i legami economici e sociali a lungo termine. Il concetto occidentale di confini fissi non ha avuto alcun ruolo in questo contesto. Questa dinamica può essere osservata anche nella Palestina pre-1948, dove le pratiche matrimoniali tradizionali collegavano le comunità al di là dei moderni confini statali.
Ad esempio, le famiglie di Nablus si sposavano spesso con famiglie di Al-Balqa, una regione a est del fiume Giordano. Di conseguenza, nomi di famiglie importanti come Toukan e Masri sono comparsi su entrambe le sponde del fiume. Legami simili esistevano tra le famiglie di Jenin e la città di Irbid, nel nord della Giordania, e tra le famiglie musulmane di Nazareth. I politici giordani di alto rango fanno spesso riferimento alle radici familiari a Hebron o a Safed, il che sottolinea ulteriormente gli stretti legami storici attraverso il fiume Giordano. Questi legami dimostrano che l'identità della regione è stata storicamente fluida e caratterizzata da relazioni sociali ed economiche piuttosto che dai moderni confini politici.
• Demografia del XIX secolo: una terra vuota?
Fino al XIX secolo, gran parte di quella che oggi è la “Cisgiordania” e Gaza era scarsamente popolata e sottosviluppata. Viaggiatori come Mark Twain e il presidente degli Stati Uniti Ulysses S. Grant descrissero la regione come in gran parte arida e disabitata. Questi resoconti, scritti senza un'agenda politica, danno un'idea dello stato del Paese prima dei successivi cambiamenti demografici.
Durante questo periodo, l'Impero Ottomano tentò di rivitalizzare la regione insediandovi immigrati musulmani provenienti da Albania, Bosnia e Caucaso. Questa politica aveva lo scopo di rivitalizzare il Paese dal punto di vista economico, ma contribuì anche alla diversità etnica della popolazione poi identificata come “palestinese”. Oggi alcuni giovani commentatori sauditi fanno riferimento a questa storia per affermare che i palestinesi non sono “veri arabi” - un'affermazione che riflette la complessa politica identitaria della regione.
• La migrazione e l'emergere dell'identità palestinese
I documenti storici e le tradizioni familiari orali indicano che significative ondate migratorie hanno contribuito all'emergere dell'attuale popolazione palestinese. Negli anni '40 del XIX secolo, le truppe egiziane occuparono l'area e ciò portò all'insediamento di molti egiziani. Il nome della famiglia “Masri” (“egiziano” in arabo) è oggi molto diffuso tra i palestinesi e testimonia questa migrazione. Alcuni di questi coloni egiziani si trasferirono poi a Salt, a est del fiume Giordano.
Alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo, un'altra ondata migratoria arrivò nella regione, innescata dalla costruzione della ferrovia ottomana, che collegava il sud-est della Turchia con l'Hejaz (e la Mecca). Il ramo di Haifa di questa ferrovia attirò molti lavoratori dalla Giordania e dalla Siria, molti dei quali rimasero. Questi movimenti di lavoratori portarono la regione a essere conosciuta come “Umm al-Amal” (“Madre del Lavoro”), sottolineando il suo ruolo di centro economico.
Ulteriori spostamenti demografici si verificarono durante il periodo del Mandato britannico. Con l'aumento dell'immigrazione ebraica, anche i lavoratori arabi provenienti dalla Transgiordania si riversarono nell'area, attratti dalle opportunità di lavoro e dai migliori servizi sanitari offerti dagli immigrati ebrei. Mentre le autorità britanniche controllavano rigorosamente l'immigrazione ebraica, ignoravano ampiamente l'immigrazione araba nel territorio.
• L’autonomia culturale di Gaza
Gaza ha storicamente avuto legami culturali e linguistici più stretti con l'Egitto che con altre parti della Palestina. Il dialetto arabo locale e molte tradizioni riflettono questa influenza e indicano un'identità culturale distinta da quella della Cisgiordania. Molti palestinesi oggi sono consapevoli delle loro radici familiari e riconoscono apertamente le loro origini diverse. Questa prospettiva storica mette in discussione l'idea che l'identità palestinese sia esclusivamente legata alla Palestina del Mandato britannico (prima del 1948) e solleva interrogativi sulle origini del nazionalismo e delle rivendicazioni territoriali palestinesi.
• La dimensione politica: un conflitto creato artificialmente?
Dati i modelli storici di migrazione e la fluidità delle identità, l'identità nazionale palestinese è una costruzione relativamente nuova. Questa prospettiva sta alimentando il dibattito sulla politica internazionale nei confronti dei territori palestinesi. La proposta del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di reinsediare i residenti di Gaza ed eventualmente della Cisgiordania negli Stati arabi confinanti è in linea con questa realtà storica. Secondo questa visione, i palestinesi - molti dei quali hanno vissuto secoli di migrazioni - non dovrebbero soffrire sotto il dominio di gruppi oppressivi come Hamas o l'Autorità Palestinese (AP).
I critici della risposta araba alla questione palestinese sostengono che i leader regionali hanno a lungo usato la questione come leva politica contro Israele, piuttosto che promuovere attivamente soluzioni per i rifugiati palestinesi. Nonostante la loro retorica, molti Stati arabi hanno impedito la piena integrazione dei palestinesi per conservarli come merce di scambio geopolitico.
• Due pesi e due misure occidentali
L'Occidente ha sostenuto ampiamente i palestinesi - in contrasto con la quasi totale assenza di sostegno da parte dei Paesi arabi o musulmani. Il senso di colpa occidentale per il colonialismo e l'ingiustizia percepita nei confronti del mondo non occidentale ha generato un sostegno sproporzionato alla causa palestinese. Al contrario, l'approccio di Trump chiede agli Stati arabi di assumersi la responsabilità per i “loro fratelli” piuttosto che fare affidamento sulla generosità occidentale.
• Conclusione
I legami storici tra i palestinesi della Striscia di Gaza, della “Cisgiordania” e della Palestina del mandato britannico sono complessi e caratterizzati da secoli di migrazioni, scambi commerciali e cambiamenti politici. I palestinesi non sono un unico gruppo etnico, ma un insieme di popoli diversi che si sono stabiliti nella regione solo negli ultimi 200 anni. Mentre continuano i dibattiti sul reinsediamento e sulle soluzioni politiche, la domanda rimane: le potenze arabe dovrebbero assumere un ruolo più attivo nella questione palestinese, o lo status quo rimarrà invariato? --- L'autore Harold Rhode è stato per 28 anni consulente per gli affari del mondo islamico presso l'Ufficio del Segretario alla Difesa degli Stati Uniti. È membro del Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs e del Gatestone Institute di New York.
(Israel Heute, 4 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Vayikrà. Non c’è etica senza Dio
di Donato Grosser
Alla fine di questa parashà la Torà prescrive cosa devono fare coloro che si comportano in modo disonesto nei confronti del prossimo, per espiare i rispettivi peccati: “Il Signore parlò a Moshè dicendo: se una persona pecca e commette un reato di appropriazione indebita contro Dio, mentendo al suo vicino riguardo a un articolo lasciato in custodia, a un affare commerciale, a una ruberia, a una trattenuta di fondi o al ritrovamento di un oggetto smarrito negando di averlo trovato. Se una persona giura falsamente in uno qualsiasi di questi casi che coinvolgono relazioni umane, è considerata colpevole. Quando si rende colpevole di un tale peccato, deve restituire l’articolo rubato, i fondi trattenuti, l’articolo lasciato in custodia, l’articolo trovato o qualsiasi altra cosa riguardo alla quale ha giurato il falso. Deve restituire il capitale e poi aggiungervi un quinto al legittimo proprietario nel giorno in cui vorrà fare espiazione” (Vaykrà, 5:20-26).
Una domanda che nasce spontanea dalla lettura di questo passo è per quale motivo la Torà parla di un reato nei confronti del Signore quando poi elenca una serie di reati nei confronti del prossimo.
Una risposta la offre r. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) In Mesoras Harav (po. 30-31). Egli cita la Toseftà Shevu’ot (3:5) dove è detto: “R. Chananya ben Chakhinai disse: è scritto che una persona pecca nei confronti di Dio quando nega falsamente di aver derubato il suo prossimo. Ed è così perché una persona non deruba il prossimo se non ha negato il principio essenziale (dell’esistenza di Dio)”. Se una persona ha veramente fede in Dio, non si comporta in modo immorale, non deruba il prossimo e non giura in falso.
La Toseftà continua con un racconto strano: “Una volta r. Reuven passò uno Shabbàt a Tiberiade. Vi incontrò un filosofo che gli fece una domanda: Chi è colui che è odiato (dall’Onnipresente) in questo mondo? R. Reuven rispose: chi nega l’esistenza di Colui che l’ha creato. R. Soloveitchik commenta che il filosofo non riusciva a capire la risposta. Perché un non credente deve essere disprezzato e considerato odioso? La fede in Dio non è una questione privata? Il suo scetticismo non fa alcun danno alla società! R. Reuven rispose: “Onora tuo padre e tua madre, non uccidere, non commettere adulterio, non rubare. Non c’è nessuno che violi questi precetti se non ha negato l’esistenza del suo Creatore”.
Il filosofo si aspettava che r. Reuven rispondesse che solo i criminali che fanno male al prossimo meritano il disprezzo della società, ma non gli agnostici o atei innocenti. La risposta al filosofo fu immediata e chiara. L’assenza nella fede in Dio conduce necessariamente al crollo della moralità sociale. Il punto cruciale dell’etica sociale è la fede in un Dio trascendentale e personale che chiede che l’uomo lo imiti. All’inizio, gli scettici dicono che i comandamenti “Io sono il Signore Dio tuo e non avrai gli dei degli altri in Mia presenza” sono socialmente irrilevanti, poiché è possibile organizzare una società sulle fondamenta di una moralità creata dall’uomo. Poi finalmente capiscono che senza “Io sono il Signore Dio tuo”, l’uomo perde la sua sensibilità etica e diventa ignaro dei principi più elementari di moralità.
(Kolòt - Morashà, 4 aprile 2025)
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Parashà della settimana: Vayikrà (E chiamò)
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Israele pronta a costruire una nuova barriera con la Giordania
Un progetto stimato da 1,4 miliardi di dollari
di Nina Deutsch
Israele ha deciso: entro pochi mesi partiranno finalmente i lavori promessi e tanto attesi per una nuova e sofisticata barriera di confine ad alta tecnologia con la Giordania. Lo ha annunciato il ministro della Difesa Israel Katz durante una visita alla valle del Giordano lunedì. Si tratta di un progetto imponente di cui si parla da tempo, dal costo stimato di 1,4 miliardi di dollari. Il progetto prevede la costruzione di una recinzione che si estenderà da Hamat Gader, situata all’estremità meridionale delle alture del Golan, fino all’aeroporto internazionale Ramon, a nord di Eilat. Questa zona, una sezione di 30 chilometri del confine con la Giordania, è già stata rafforzata con una struttura simile a quella eretta lungo i confini di Israele con l’Egitto e la Striscia di Gaza nei primi anni 2010.
• Obiettivi del progetto
L’iniziativa mira a rafforzare la sicurezza lungo il confine giordano e a contrastare il contrabbando di droga e armi che, nell’ultimo decennio, ha alimentato un’ondata di violenza nelle comunità arabe in Israele. Inoltre, la barriera è progettata per prevenire infiltrazioni ostili, essendo dotata di sensori e sistemi di sorveglianza all’avanguardia. Attualmente, la recinzione esistente lascia circa 170 chilometri quadrati tra sé e il confine effettivo, una zona considerata vulnerabile dalle autorità. La Direzione per i confini e le giunzioni eseguirà il progetto in coordinamento con la divisione Ingegneria e costruzione, la Direzione per gli appalti della difesa, la Direzione per il potenziamento delle forze armate e i Comandi centrale e meridionale delle IDF.
L’iniziativa include anche l’istituzione di avamposti Nahal lungo il percorso della recinzione, rafforzando ulteriormente la presenza di Israele nell’area. Inoltre, secondo quanto riportato, Israele ha intenzione di avviare lo sviluppo di nuove città lungo questo tratto di confine. Secondo Katz, il progetto è direttamente legato agli sforzi per smantellare le reti terroristiche che operano in Giudea e Samaria e impedire all’Iran di stabilire un fronte terroristico orientale contro Israele.
• Contesto e sviluppi recenti
L’idea di potenziare la recinzione esistente o di costruire una sorta di muro di confine è stata ripetutamente proposta dal primo ministro Benjamin Netanyahu e da altri funzionari israeliani per oltre un decennio. Tuttavia, molti hanno ritenuto improbabile un simile sforzo a causa dell’enorme lunghezza del confine e dei costi elevati. Nel settembre 2024, Netanyahu ha nuovamente rilanciato l’idea di costruire una recinzione altamente tecnologica lungo l’intera lunghezza del confine per «garantire che non ci siano infiltrazioni».
• Un confine poroso, preoccupazioni per la sicurezza
Il confine con la Giordania è considerato poroso, con un aumento significativo delle infiltrazioni illegali. Secondo dati del governo, il numero di ingressi illegali è passato da meno di 90 al mese nel 2022 a circa 600 nel 2023. Le autorità israeliane temono che, oltre ai trafficanti, vi sia il rischio di infiltrazioni terroristiche. Israele ha iniziato a progettare la recinzione di confine con la Giordania nel novembre 2024, in seguito a un attacco mortale al valico di Allenby Bridge, in cui sono stati uccisi tre israeliani e un uomo armato giordano.
Nonostante Israele e Giordania abbiano un trattato di pace dal 1994, la costruzione di questa barriera solleva interrogativi sullo stato attuale delle loro relazioni. (Il trattato di pace israelo-giordano del 1994 – o trattato di pace Israele-Giordania; formalmente trattato di pace tra lo Stato di Israele e il Regno hascemita di Giordania – a volte indicato come trattato di Wadi Araba, fu firmato il 26 ottobre 1994 a Washington).
La Giordania, che ospita una vasta popolazione palestinese e mantiene un equilibrio delicato nei rapporti con Israele, non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sul progetto. Tuttavia, la decisione israeliana potrebbe essere interpretata come un segnale di sfiducia, in un momento già complicato dal conflitto in corso tra Israele e Hamas.
Al momento, i lavori sono previsti per i prossimi mesi. Resta da vedere se questa barriera rappresenterà una soluzione efficace o se diventerà un ulteriore simbolo delle divisioni in un Medio Oriente sempre più frammentato.
(Bet Magazine Mosaico, 3 aprile 2025)
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L'Ungheria lascia la Corte penale internazionale
Con il plauso di Netanyahu
L’Ungheria si ritirerà dalla Corte penale internazionale (Cpi) perché lo ritiene «un tribunale politico, come le decisioni su Israele hanno dimostrato». L’annuncio, nell’aria da giorni, è stato ufficializzato nel corso della conferenza stampa congiunta del primo ministro ungherese Viktor Orban e del suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu, in visita in questi giorni a Budapest e contro il quale la Cpi ha spiccato in novembre un mandato d’arresto, al pari dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. «Sono stato il primo ministro che ha firmato il documento di adesione alla Corte penale internazionale e ora ho firmato il documento per il ritiro», ha affermato Orban durante l’incontro con i giornalisti.
«Stiamo combattendo contro l’Islam radicale, guidato dall’Iran, con ramificazioni come gli Houthi e Hezbollah. Stiamo combattendo contro l’Iran e contro la campagna omicida di Hamas che ci ha attaccati», ha dichiarato Netanyahu, il quale ha anche parlato di «asse del male da schiacciare» nell’interesse dell’Occidente stesso. «Alcuni paesi non lo capiscono, Orban sì». Secondo Netanyahu, che ha definito la Cpi «una organizzazione corrotta», l’Ungheria è stata la prima ma non sarà l’ultima a lasciare.
(moked, 3 aprile 2025)
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Benjamin Netanyahu in visita ufficiale in Ungheria
È il primo viaggio di Netanyahu in Europa da quando la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è arrivato a Budapest mercoledì sera per una visita ufficiale di Stato, la prima in un Paese europeo da quando è stato emesso un mandato di arresto nei suoi confronti da parte della Corte penale internazionale (CPI) dell'Aia.
Netanyahu, accompagnato dalla moglie Sara, è stato accolto nella capitale ungherese, dove incontrerà il Presidente della Repubblica e il suo omologo ungherese, Viktor Orban. In serata è prevista una cena ufficiale con Orban.
Questa visita è di particolare importanza diplomatica, poiché l'Ungheria ha chiarito che non eseguirà il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale a seguito delle operazioni militari israeliane contro Hamas a Gaza. Diverse organizzazioni, tra cui Amnesty International, avevano chiesto a Budapest di arrestare il primo ministro israeliano non appena fosse entrato nel Paese. Poche ore dopo l'arrivo di Netanyahu, l'Ungheria ha annunciato il suo ritiro dalla Corte penale internazionale.
Secondo fonti diplomatiche, i colloqui dovrebbero concentrarsi sul rafforzamento delle relazioni bilaterali, sulla cooperazione economica e sul sostegno di Budapest alle posizioni di Israele sulla scena internazionale, in un momento in cui Israele sta cercando di consolidare le sue alleanze europee di fronte alla crescente pressione internazionale.
Prima della sua partenza da Israele, il Primo Ministro è stato omaggiato con matzot “chmourot” per Pesach dal rabbino Habad David Nachshon. Il rabbino Nachshon gli ha anche consegnato un libro di Salmi che era sul petto del rabbino di Loubavitch quando era in vita, accompagnato dalla tradizionale benedizione: “Che Dio ti custodisca dalla tua partenza fino al tuo ritorno e per sempre”.
(i24, 3 aprile 2025)
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Israele attacca la Siria da cielo e da terra
E apre un nuovo fronte con la Turchia
di Eliana Riva
Tra mercoledì 2 e giovedì 3 aprile, Israele ha lanciato in Siria una serie di attacchi aerei e di terra, uccidendo almeno 29 persone, tra civili e militari. Nel giro di pochi minuti, cinque aree del Paese sono state bombardate, in particolare Hama e il suo aeroporto militare che, secondo le autorità al potere a Damasco, è stato quasi completamente distrutto. Più di dieci raid hanno colpito la struttura, causando diverse vittime. È stata colpita anche la base aerea T4 nelle campagne di Homs, in quelle che sembra essere stata un’azione coordinata per lanciare un avvertimento alla Turchia.
La tensione tra Ankara e Gerusalemme sta aumentando, soprattutto nelle ultime settimane. Erdoğan, sostenitore (e mente) dell’azione che ha rovesciato Bashar al-Assad, ha in programma di utilizzare alcune delle strutture militari preesistenti sul territorio siriano, trasformandole in basi da cui controllare droni o sistemare aerei da guerra. Netanyahu sta tentando, invece, di approfittare del vuoto di potere, da un lato occupando terre e dall’altro cercando di limitare l’influenza di altri attori regionali, ad esempio distruggendo le basi militari e scientifiche che la Turchia intende controllare.
L’aeroporto militare di Hama e la base aerea T4 sono state messe fuori funzionamento. Anche il Centro scientifico di ricerca Barzah, appena fuori Damasco, è stato attaccato da Israele, il quale ha fatto coincidere i bombardamenti con un’incursione militare di terra nella Siria meridionale. I carri armati sono avanzati in profondità e violenti scontri sono scoppiati tra i militari di Tel Aviv e combattenti del posto. Fonti locali hanno confermato che almeno nove civili sono stati uccisi e molti altri feriti nella foresta di Al-Jubailiyah Dam, ad ovest di Daraa, nel sud della Siria, in seguito agli attacchi aerei e all’avanzata di terra israeliana.
Le incursioni sono rese più semplici dalla costruzione di strade e infrastrutture di collegamento che lo stesso esercito sta realizzando attraverso le alture del Golan occupate fin dentro il Paese, in profondità. A Daraa e Quneitra le invasioni di Tel Aviv sono diventate sempre più frequenti.
Le autorità di Damasco hanno condannato gli attacchi come una grave violazione della sovranità territoriale e un tentativo di mantenere il Paese destabilizzato e insicuro per poter sfruttare la sua debolezza secondo i propri scopi. Il ministro della difesa Israel Katz ha rivendicato i raid, descrivendoli come “un avvertimento per il futuro”. Katz si è rivolto direttamente al leader Ahmad al-Shara’ (al-Joulani): “Avverto il leader siriano Joulani: se permetti alle forze ostili di entrare in Siria e minacciare gli interessi di sicurezza israeliani, pagherai un prezzo pesante”. Tel Aviv ha chiesto la completa smilitarizzazione del sud della Siria, dichiarando di non volere la presenza di personale militare governativo. Allo stesso tempo, l’esercito effettua incursioni sempre più all’interno del paese, intendendo la propria occupazione a tempo “indefinito”.
(Pagine Esteri, 3 aprile 2025)
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Riprendono le proteste contro Hamas
Tornano le proteste contro Hamas? Dopo diversi giorni di calma, circa 200 palestinesi hanno manifestato ieri a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, gridando “Hamas, fuori, fuori” e chiedendo la fine della guerra e la caduta di Hamas.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Immagini dalla Striscia di Gaza mostrano residenti che reggono cartelli con scritto, tra l'altro, “Stop alla guerra” e “I bambini della Palestina vogliono vivere”. Tuttavia, resta da chiedersi se le proteste riprenderanno anche in altre aree. Nonostante l'esplosione delle proteste a Beit Lahia, negli ultimi giorni è stata relativamente tranquilla e non è chiaro in quale direzione si svilupperà il movimento di protesta contro Hamas.
Ma nel centro della Striscia di Gaza si è verificato un incidente che fa pensare a una svolta contro Hamas. Dei cosiddetti poliziotti appartenenti alle file dei terroristi di Hamas hanno sparato e ucciso il giovane Abd al-Rahman Abu Samra mentre era in fila per comprare della farina a Deir al-Balah.
In risposta, i membri della famiglia del clan Abu Samra hanno arrestato il poliziotto di Hamas, lo hanno preso da parte e lo hanno ucciso in strada. Una vendetta di sangue.
Si tratta indubbiamente di un episodio insolito in cui un clan della Striscia di Gaza agisce contro Hamas in pieno giorno e a viso aperto.
La famiglia del poliziotto di Hamas Ibrahim ha rilasciato una dichiarazione di condanna della sua esecuzione. Hanno dichiarato che i poliziotti avevano solo sparato dei colpi di avvertimento in aria come parte del loro dovere quando stavano mettendo in sicurezza un convoglio, uccidendo Abd al-Rahman Abu Samra. La famiglia del poliziotto di Hamas invita tutte le parti a mostrare moderazione, ma chiede vendetta e che i responsabili della sua esecuzione siano consegnati alla giustizia.
La polizia di Hamas risponde con una propria dichiarazione all'esecuzione del poliziotto a Deir al-Balah: “Stiamo indagando sulla morte di un poliziotto mentre era in servizio e cercava di risolvere un conflitto tra clan a Deir al-Balah a mezzogiorno di oggi. La polizia sta indagando sull'incidente per arrestare i responsabili. Prenderemo provvedimenti legali severi contro i responsabili di questo crimine efferato”.
Una nuova esplosione di rabbia sembra scoppiare nella Striscia di Gaza mentre la massiccia pressione di Israele su Hamas spinge la popolazione di Gaza in una situazione di maggiore disagio. Ieri, ad esempio, i palestinesi hanno preso d'assalto un deposito di farina delle Nazioni Unite.
Data la risposta violenta di Hamas ai manifestanti negli ultimi giorni, è tutt'altro che certo che le proteste guadagneranno effettivamente slancio, anche se si rianimeranno. Inoltre, mancano di una chiara leadership. Non essendoci un'alternativa politica ad Hamas, è probabile che l'influenza di queste proteste sulla situazione generale della Striscia di Gaza e sull'andamento dei combattimenti rimarrà limitata per il momento.
(Israel Heute, 3 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Bennett prepara il ritorno, l’Ocse chiede riforme
Dopo oltre due anni lontano dalla politica, Naftali Bennett muove il primo passo verso un possibile ritorno. Ha registrato un nuovo partito con il nome provvisorio di “Bennett 2026”, mentre i sondaggi lo vedono già in testa rispetto al Likud di Benjamin Netanyahu. Una proiezione del sito Maariv assegna alla sua ipotetica lista 27 seggi, contro i 19 del partito del primo ministro. Ufficialmente, non c’è ancora una dichiarazione di candidatura, ma l’ex premier ha iniziato a tessere contatti e riattivare la rete di sostenitori, scrivono i media locali.
• Produttività, disuguaglianze e costo della vita: le sfide per l’economia
La sicurezza e l’economia restano i due assi principali del dibattito pubblico israeliano. Sul secondo fronte, l’Ocse ha pubblicato il suo rapporto annuale sull’economia dello stato ebraico, prevedendo una ripresa nel 2025, ma con tassi di crescita inferiori alle stime locali: +3,4% secondo l’organizzazione, contro il 4% previsto dalla Banca d’Israele. Il rapporto chiede riforme strutturali per migliorare la produttività, ridurre le disuguaglianze e affrontare il costo della vita, oggi tra i più alti tra i paesi Ocse. Tra le priorità indicate, come in passato: taglio ai sussidi per gli studenti delle yeshiva, aumento della partecipazione al lavoro di arabi e ultraortodossi, e meno burocrazia per le imprese al di fuori dell’hi-tech.
Oltre alla sfida economica, Netanyahu è alle prese con la successione alla guida dello Shin Bet. Dopo aver ritirato la candidatura dell’ex comandante della Marina Eli Sharvit, il primo ministro ha nominato l’attuale vicedirettore – identificato solo con la lettera “Shin” – come capo ad interim. Il mandato dell’attuale numero uno, Ronen Bar, dovrebbe concludersi il 10 aprile, ma la Corte suprema ha congelato la sua rimozione, decisa dal governo, e si esprimerà sul caso l’8 aprile.
• Le operazioni a Gaza
Sul piano militare, l’esercito ha ampliato l’operazione «Forza e Spada» a Gaza. Le Idf hanno intensificato le operazioni su Rafah e Khan Yunis, mentre il ministro della Difesa, Israel Katz, ha annunciato l’intenzione di annettere nuove aree di Gaza alla cintura di sicurezza israeliana. «Chiedo agli abitanti di Gaza di agire ora per rimuovere Hamas e restituire tutti gli ostaggi. Questo è l’unico modo per porre fine alla guerra», ha affermato il ministro.
L’aumento della pressione militare per il Forum delle famiglie degli ostaggi non è però la strada giusta. «La nostra sensazione è che il ritorno dei rapiti sia stato posto in fondo alla lista delle priorità», ha commentato il Forum, chiedendo al governo di chiarire cosa intende fare per riportare a casa i 59 israeliani ancora nelle mani di Hamas. «Ogni esplosione infrange un po’ di più le speranze degli ostaggi. Io ero lì. Lo so», ha dichiarato Romi Gonen, sequestrata il 7 ottobre e liberata nell’accordo di tregua di gennaio.
(moked, 2 aprile 2025)
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Il benvenuto di Tirana al volo da Tel Aviv. Albania e Israele mai così vicini
di Loredana Buoso
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L’Ambasciatrice albanese Meri Kumbe taglia il nastro inaugurale del nuovo volo di linea
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L’aeroporto internazionale “Madre Teresa” di Rinas ha accolto ieri il primo aereo decollato dalla capitale Israeliana, in attuazione delle intese propiziate dalla più recente visita di Stato in terra Israeliana della Vicepremier Belinda Balluku
La linea sarà operativa tre volte a settimana, a beneficio dei viaggi turistici e d’affari, come è stato bene evidenziato dal Direttore operativo del grande Scalo di Rinas, Pier Vittorio Farabbi, parlando di “un ponte che collega non solo due Città, ma anzitutto due Popoli. Sappiamo che Israele è un mercato di grande interesse per il turismo, e ci auguriamo che questo sia solo l’inizio di una collaborazione di successo”.
Il Direttore dell’ente di Aviazione civile della Repubblica d’Albania, Maksim Et’hemaj, ha aggiunto che “uno dei compiti principali dell’Aviazione civile è quello di collegare Continenti, Paesi, culture e persone. Siamo orgogliosi di porgere il benvenuto a un operatore prestigioso come SunDor, che giunge qui grazie al risultato di un lavoro congiunto e continuo. I turisti Israeliani porteranno nel proprio Paese bellissimi ricordi dall’Albania, e questo flusso è destinato a crescere”, ha dichiarato.
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Galit Peleg, Ambasciatrice di Israele a Tirana
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L’Ambasciatrice di Tel Aviv in Albania, onorevole Galit Peleg, ha messo in evidenza gli stretti rapporti binazionali: “Oggi viviamo un momento storico, che concretizza i legami speciali tra Israele e Albania tramite un volo diretto e quindi una connessione fisica. Sono certa che SunDor Airlines porterà più cittadini Israeliani in Albania e, nello stesso modo, condurrà più agevolmente gli Albanesi in Israele”.
Il direttore esecutivo di SunDor, Gal Gershon, si è infine soffermato su un bilancio del volo di esordio: “I passeggeri sono stati entusiasti. Sono molto contento che Sandor stia collegando Israele con l’Albania, e spero che sempre più israeliani avranno l’opportunità di visitare questo Paese meraviglioso alle porte dei Balcani occidentali”.
(notizieinunclick, 3 aprile 2025)
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Il “Qatar-Gate” scuote Israele: tra rischi per la sicurezza e intrighi politici
Itamar Eichner, corrispondente di Israel Heute, parla delle gravi accuse contro i confidenti del primo ministro, della presunta influenza del Qatar sulla politica israeliana e del fragile equilibrio tra magistratura e governo.
di Itamar Eichner
GERUSALEMME - La vicenda del “Qatar-gate”, scoperta di recente, sta provocando un'agitazione senza precedenti nella politica e nell'opinione pubblica israeliana. Le accuse rivolte ai consiglieri del primo ministro, Yonatan Urich e Eli Feldstein, sollevano domande esplosive: Come è stata effettivamente impostata la politica di comunicazione del governo e da dove provengono i messaggi trasmessi ai media israeliani e internazionali?
Al centro della vicenda c'è l'accusa che i due consiglieri abbiano diffuso contenuti mediatici che sarebbero stati originati da ambienti della sicurezza e della politica estera israeliana, ma che in realtà provenivano dal Qatar, uno Stato considerato un attore problematico in Israele, soprattutto per il suo sostegno ad Hamas e alla Fratellanza Musulmana.
• Qatar: mediatore o Stato ostile?
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Israeliani protestano contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo governo vicino alla Knesset, il 31 marzo 2025
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Sebbene il Qatar non sia ufficialmente uno Stato nemico, il suo comportamento da anni lascia pochi dubbi sulle sue intenzioni. Il canale d'informazione qatariota Al-Jazeera funge regolarmente da piattaforma di incitamento contro Israele e offre un ampio palcoscenico ai rappresentanti di Hamas e delle ideologie islamiste estremiste. Allo stesso tempo, il Qatar svolge un ruolo centrale come mediatore nella questione degli ostaggi e in processi politici delicati. Questo duplice ruolo solleva una questione cruciale: Il Qatar può essere considerato un mediatore equo o è un attore con un'agenda anti-israeliana che si nasconde dietro la maschera della neutralità?
• Le accuse: informazioni segrete, influenza straniera e fughe di notizie mirate
Al centro dell'indagine c'è il sospetto che Urich e Feldstein non abbiano agito in modo indipendente, ma abbiano invece agito come strumenti degli interessi del Qatar con l'obiettivo di influenzare il discorso pubblico in Israele. Secondo i risultati dell'indagine, hanno presentato i messaggi come dichiarazioni degli ambienti della sicurezza israeliana, mentre in realtà erano il risultato della manipolazione di attori vicini al Qatar. Secondo quanto emerso, si sospetta che persone all'interno dell'Ufficio del Primo Ministro siano collegate a uno Stato che ha un atteggiamento ostile nei confronti di Israele.
C'è anche il fondato sospetto che una società americana che rappresenta gli interessi del Qatar fosse in contatto con Urich. L'obiettivo della collaborazione era presentare il ruolo del Qatar nella questione degli ostaggi in una luce positiva e allo stesso tempo gettare l'Egitto in una luce negativa. E sembra che del denaro sia affluito a Feldstein.
Un aspetto particolarmente allarmante: si sospetta che Feldstein abbia passato informazioni segrete al Qatar, con l'obiettivo di minare la sicurezza di Israele. Se ciò risultasse vero, non si tratterebbe solo di un grave reato penale, ma di una minaccia diretta alla sicurezza nazionale.
• Dimensione politica: Netanyahu contrattacca, la procura si difende
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha risposto con un attacco frontale alle autorità di polizia. Ha etichettato Urich e Feldstein come “ostaggi” di un'indagine politica che mira esclusivamente a far cadere il suo governo. A suo avviso, si tratta di una campagna contro la sua persona e le sue iniziative politiche: un prodotto della persecuzione politica.
Persone vicine a Netanyahu sostengono addirittura che la vicenda sia stata inventata dal capo del servizio segreto interno Shin Bet, Ronen Bar, per evitare il proprio imminente licenziamento. I rappresentanti dello Shin Bet ribattono che l'indagine era già iniziata prima dell'annuncio del licenziamento di Bar. Netanyahu, da parte sua, ha dichiarato di aver perso la fiducia in Bar il 7 ottobre - perché non aveva svegliato lui e altri decisori la notte dell'attacco di Hamas, cosa che avrebbe potuto prevenire o almeno ridurre i danni. Lo Shin Bet ribatte che Netanyahu ha elogiato pubblicamente Bar e i servizi segreti più volte dall'inizio della guerra - e che l'indagine sulla vicenda è iniziata prima dei piani per il suo licenziamento.
Nel frattempo, gli investigatori sottolineano che si tratta di un caso grave con implicazioni di vasta portata per la sicurezza di Israele e l'integrità della funzione pubblica.
• Critiche all'operato della polizia
Il giudice Menachem Mizrachi ha criticato aspramente l'operato della polizia. In particolare, ha criticato il fatto che non sia stato applicato l'ordine di bavaglio imposto, il che ha portato a ripetute fughe di notizie. Questa critica solleva la questione se le indagini siano puramente professionali o politicamente motivate.
• È un caso di corruzione?
Un altro punto controverso è la questione se Urich e Feldstein siano colpevoli di corruzione. La difesa sostiene che nessuno dei due è un pubblico ufficiale nel senso tradizionale del termine, il che significa che non esiste una base legale per questa accusa. I pubblici ministeri, invece, fanno riferimento a una sentenza della Corte Suprema, secondo la quale anche i consulenti esterni che supportano gli enti pubblici possono rientrare nella definizione di “pubblico ufficiale”.
• Cosa succederà in seguito?
La vicenda del Qatar-Gate solleva questioni profonde che vanno ben oltre i due consulenti arrestati. Rivela quanto gli interessi stranieri possano essere già penetrati nei centri decisionali israeliani e quanto facilmente il dibattito pubblico possa essere manipolato da attori esterni. Si tratta di un caso isolato o stiamo vedendo la punta di un iceberg?
In un clima politico in cui la fiducia dell'opinione pubblica nel governo e nella magistratura è già stata scossa, questa vicenda funge da acceleratore. Se le accuse contro Urich e Feldstein dovessero essere confermate, il sistema politico israeliano subirebbe una vera e propria scossa. Se invece le indagini si rivelassero inconsistenti, il “Qatar-Gate” potrebbe diventare il prossimo episodio dell'escalation di scontri tra l'esecutivo e le forze dell'ordine.
In ogni caso, questa vicenda terrà Israele occupato per molto tempo ancora - e potrebbe essere decisiva per il suo futuro politico.
(Israel Heute, 2 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Droni, basi e alleanze con il nuovo regime siriano: la nuova minaccia turca per Israele
di Luca Spizzichino
Le tensioni con la Turchia continuano a crescere. Ankara infatti sta rafforzando i legami con il nuovo governo siriano guidato da Ahmed al-Sharaa, ex leader di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), gruppo con forti connessioni con la Turchia. L’escalation è stata accompagnata da dichiarazioni senza precedenti del presidente Recep Tayyip Erdogan, che il 30 marzo ha invocato Allah affinché porti “distruzione su Israele sionista”. Questo segnale di aperta ostilità rafforza la convinzione che uno scontro militare diretto non sia più un’ipotesi remota.
Questo sviluppo rappresenta una minaccia strategica per Israele, che negli ultimi mesi ha intensificato attacchi mirati contro installazioni militari e infrastrutture strategiche siriane, nel tentativo di impedire alla Turchia di consolidare la propria presenza nella regione.
Dopo il colpo di Stato in Siria infatti, avvenuto con il sostegno turco nel dicembre 2024, Ankara è diventata il principale attore politico nel paese, controllando direttamente o indirettamente circa 8.000 km², da Idlib a Ras al-Ayn, pericolosamente vicino al confine israeliano.
Il nuovo governo siriano, di orientamento islamista e ora apertamente alleato di Ankara, sta negoziando un patto di difesa che prevede la presenza permanente di truppe turche e l’installazione di avanzati sistemi di difesa aerea sul suolo siriano, un’evoluzione che modificherebbe radicalmente l’equilibrio strategico nell’area. Secondo diverse fonti d’intelligence, la Turchia sta già predisponendo basi aeree nel nord della Siria, in grado di lanciare operazioni con droni, ponendo una minaccia diretta allo spazio aereo israeliano e limitando la libertà operativa di Israele.
In risposta a queste minacce, l’aviazione israeliana ha recentemente colpito la base aerea di T-4, nei pressi di Palmira, una struttura precedentemente utilizzata dall’Iran e dal regime siriano.
Il rapporto del Comitato Nagel, pubblicato nel gennaio 2025, ha identificato il crescente radicamento militare turco in Siria come una minaccia “potenzialmente più pericolosa di quella iraniana”. Ad aggravare il quadro è il crescente sostegno turco ad Hamas, che opera sempre più liberamente all’interno del territorio turco. Operativi di alto livello, tra cui Saleh al-Arouri, coordinano operazioni terroristiche direttamente da Istanbul. Inoltre, rapporti d’intelligence del 2024 hanno sollevato allarme tra i legislatori statunitensi per la possibile espansione di Hamas a Cipro del Nord, sotto occupazione turca. Questa evoluzione alimenta i timori israeliani che la Turchia possa utilizzare i propri proxy per colpire Israele da nuove basi avanzate.
I consiglieri più vicini a Erdogan hanno pubblicamente alimentato una retorica aggressiva contro Israele, arrivando a suggerire l’attivazione dei sistemi missilistici S-400 di fabbricazione russa, a conferma della postura sempre più ostile della Turchia.
Parallelamente tuttavia, Erdogan si trova a gestire una crisi interna senza precedenti, con un’inflazione superiore al 44% e un clima politico turbolento, segnato dall’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Tradizionalmente, i leader in difficoltà hanno spesso sfruttato crisi internazionali per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Per questo motivo, gli analisti israeliani temono che Erdogan possa deliberatamente alimentare le tensioni con Israele per rafforzare il consenso interno e distogliere l’attenzione dai problemi interni.
(Shalom, 2 aprile 2025)
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Hamas falsa di nuovo il numero dei morti nei suoi report sulla guerra a Gaza
di Nina Prenda
Secondo The Telegraph, una nuova ricerca mostra che Hamas ha silenziosamente ricalcolato nei suoi database il numero delle vittime di Gaza, eliminando migliaia di morti dalle sue liste sulle vittime della guerra.
Salo Aizenberg, giornalista dell’organizzazione non-profit Honest Reporting, con sede negli Stati Uniti, che nella guerra in corso si è distinta per l’affidabilità della sua informazione, ha affermato che nell’aggiornamento delle vittime di Hamas di marzo 2025 l’organizzazione aveva rimosso migliaia di persone che in precedenza aveva elencato come uccise nel corso del 2024. Queste, improvvisamente, non ci sono più. “Il nuovo elenco delle vittime di marzo 2025 di Hamas elimina silenziosamente 3.400 morti completamente ‘identificati’ elencati nei suoi rapporti di agosto e ottobre 2024, tra cui 1.080 bambini. Queste ‘morti’ non sono mai avvenute. I numeri sono stati falsificati, di nuovo”, ha scritto Aizenberg.
Gli elenchi delle vittime vengono pubblicati in formato PDF dal cosiddetto “Ministero della salute” di Gaza, gestito da Hamas, che è stato citato dai media internazionali come fonte di dati sulle vittime nell’enclave dall’inizio della guerra.
A dicembre, un rapporto della Henry Jackson Society affermava che il numero di civili uccisi nel conflitto di Gaza era stato probabilmente aumentato da Hamas per dare l’impressione che Israele prendesse deliberatamente di mira persone innocenti. Andrew Fox, l’autore del rapporto, ha affermato che le ultime cancellazioni sono state condotte probabilmente per un tentativo di Hamas di mantenere una sorta di credibilità. “Sapevamo che c’erano una serie di errori nei loro resoconti – , ha affermato Fox. – C’è una spiegazione ragionevole nel fatto che i loro sistemi informatici abbiano avuto un collasso a novembre 2023, quindi è stato difficile per loro riferire in modo accurato, ma le liste sono così inaffidabili che i media mondiali non dovrebbero citarle come affidabili”. Inoltre Fox ha aggiunto: “L’Onu prende anche solo le cifre di Hamas e le pubblica con una nota che afferma che le cifre non sono confermate”. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite nel maggio del 2024 aveva in parte ritrattato alcuni numeri rilasciati dai terroristi riguardo ai morti in Gaza.
Le liste di Hamas contengono informazioni come nomi e numeri di identificazione e possono essere compilate da chiunque abbia un collegamento al modulo Google per il documento.
Hamas “avrà esaminato la lista, cercando di renderla il più convincente possibile. Hanno accettato nomi su quella lista senza alcuna prova -, ha spiegato Fox. – Quindi quello che immagino stiano cercando di fare è diradare i nomi che non possono affatto comprovare”.
Fox è un ex paracadutista britannico che ha lavorato con Aizenberg in ricerche precedenti. Ha detto che le loro squadre di lavoro usano i dati di Hamas disponibili al pubblico e li confrontano nome per nome. “La ricerca di Salo cercherebbe nomi che erano su liste precedenti ma che ora sono scomparsi – ha spiegato Fox. – Hamas pubblica gli elenchi in formato PDF, quindi è più difficile fare confronti, ma trasferiamo i nomi su un foglio Excel per fare un confronto di massa in questo modo”.
• Le vittime citate da Hamas sono davvero civili?
Fox ha osservato che i dati all’interno delle liste di Hamas indeboliscono l’affermazione secondo cui la maggior parte delle vittime sono civili. “I dati demografici sono la cosa più importante in tutto questo. Abbiamo sentito affermazioni secondo cui circa il 70 percento dei decessi sono donne e bambini, e queste liste, specialmente le più recenti, dimostrano che è una totale assurdità”, ha affermato. Non è la prima fonte ad affermarlo. Il Jerusalem Post aveva riportato il riconteggio dell’Onu l’11 maggio 2024. Nel giornale veniva scritto: “Il 6 maggio, l’ONU ha pubblicato dati che mostrano che a Gaza sarebbero state uccise 34.735 persone, tra cui oltre 9.500 donne e oltre 14.500 bambini. L’8 maggio, le Nazioni Unite hanno pubblicato dati che mostrano che sarebbero state uccise 34.844 persone, tra cui 4.959 donne e 7.797 bambini”.
“Circa il 72% delle vittime di età compresa tra 13 e 55 anni sono uomini, che è la fascia di età approssimativa dei combattenti di Hamas”, ha affermato Fox. “Sappiamo che Hamas usa bambini soldato e queste statistiche mostrano chiaramente che Israele sta prendendo di mira uomini in età da combattimento”.
Nei precedenti conflitti, le cifre di Hamas sono state spesso corroborate da organizzazioni esterne, ha affermato Fox. Il rapporto di dicembre della Henry Jackson Society affermava: “Il ministero della salute, operando sotto Hamas, ha sistematicamente aumentato il numero delle vittime, non distinguendo tra morti civili e combattenti, sovrastimando i decessi tra donne e bambini e persino includendo individui deceduti prima dell’inizio del conflitto. Questo ha portato a una narrazione in cui le Forze di difesa israeliane sono descritte come persone che prendono di mira in modo sproporzionato i civili, mentre i numeri effettivi suggeriscono che una parte significativa dei morti sono combattenti”.
Hamas ha affermato che il numero di morti a Gaza dall’inizio della guerra al momento è superiore a 50.000. Tzahal, l’esercito israeliano, afferma di aver ucciso 20.000 combattenti di Hamas durante la guerra e afferma di fare tutto il possibile per ridurre le vittime civili.
“L’IDF compie grandi sforzi per stimare e considerare potenziali danni collaterali civili nei suoi attacchi. L’IDF non ha mai, e non prenderà mai, deliberatamente di mira i bambini”, ha affermato l’esercito israeliano in una dichiarazione.
(Bet Magazine Mosaico, 2 aprile 2025)
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Gaza: famiglie degli ostaggi “inorridite” dalla decisione di riprendere l’offensiva
Nella notte l'annuncio dell'allargamento delle operazioni di terra a Gaza. Per le famiglie degli ostaggi "la loro liberazione è stata relegata in fondo alle priorità ed è diventata semplicemente un obiettivo secondario" e "sacrificata per un mero guadagno territoriale”.
L’esercito israeliano ha annunciato questa notte che avrebbe espanso l’offensiva di terra nel sud della Striscia di Gaza
Secondo un comunicato diffuso dal ministro della Difesa Israel Katz, l’IDF espanderà le operazioni per bonificare le aree “da terroristi e infrastrutture e catturare un vasto territorio che verrà aggiunto alle aree di sicurezza dello Stato di Israele”.
Questa mattina, dopo una notte di pesanti bombardamenti, la 35esima Divisione è entrata in maniera ” massiccia” nella Striscia di Gaza nelle zone di Rafah e Khan Younis.
• Famiglie degli ostaggi “inorridite”
In risposta all’annuncio dell’allargamento dell’operazione militare a Rafah, l’Hostages and Missing Families Forum ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “È stato deciso di sacrificare gli ostaggi per ottenere guadagni territoriali?”
Aggiunge: “Invece di garantire il rilascio degli ostaggi attraverso un accordo e porre fine alla guerra, il governo israeliano sta inviando più soldati a Gaza per combattere nelle stesse aree in cui le battaglie hanno già avuto luogo ripetutamente”.
Il Forum afferma che le famiglie “sono rimaste inorridite quando questa mattina si sono svegliate con l’annuncio del ministro della Difesa secondo cui l’operazione militare a Gaza sarebbe stata estesa allo scopo di conquistare un vasto territorio“.
“La responsabilità della liberazione dei 59 ostaggi tenuti da Hamas ricade sul governo israeliano. La nostra grave preoccupazione è che questa missione sia stata relegata in fondo alle sue priorità e sia diventata semplicemente un obiettivo secondario.”
(Rights Reporter, 2 aprile 2025)
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"La responsabilità della liberazione dei 59 ostaggi tenuti da Hamas ricade sul governo israeliano", hanno detto famiglie israeliane di ostaggi incatenati e torturati da Hamas. Ed è una frase che fa inorridire. M.C.
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Perché alcuni ebrei statunitensi abbandonano l’ortodossia? Un nuovo studio cerca di mappare le ragioni
Un sondaggio su 29 ebrei una volta osservanti condotto dall’Orthodox Union conclude che sinagoghe e scuole devono adottare mentalità più inclusive mentre i genitori dovrebbero fornire un chiaro sostegno
di Zev Stub
Un nuovo sondaggio degli ebrei americani che hanno abbandonato l’ebraismo ortodosso pone domande difficili alla comunità mentre descrive la complessa rete di fattori che spingono le persone ad abbandonare la comunità. Pubblicato dall’Orthodox Union (OU), una delle organizzazioni più importanti del mondo ortodosso, le conclusioni del sondaggio invitano sinagoghe e scuole ad adottare mentalità più inclusive, i rabbini a prendersi cura dei bambini ai margini e i genitori a stabilire aspettative chiare con amore e sostegno.
Una delle più grandi sorprese dello studio è stata che molti degli individui intervistati che hanno lasciato l’ortodossia rimangono comunque connessi alla comunità.
“Abbiamo scoperto che molte delle persone con cui abbiamo parlato non erano alienate o arrabbiate“, ha dichiarato il ricercatore principale dello studio, Moshe Krakowski, Direttore degli Studi Dottorali presso la Azrieli Graduate School of Jewish Education dell’Università Yeshiva, in un’intervista con The Times of Israel. “Spesso, le persone esprimevano un mix di sentimenti positivi e negativi. Questo ha importanti implicazioni perché molti mantengono ancora stretti legami all’interno della comunità ortodossa dopo averla lasciata e potrebbero voler continuare a partecipare in qualche modo“.
Tra gli intervistati che hanno dichiarato di sentire poco o nessun legame con l’ortodossia, la maggior parte ha affermato che ciò era dovuto al fatto che si sentivano alienati dalle risposte della comunità ortodossa nei loro confronti dopo il cambiamento del loro stile di vita, ha notato il rapporto.
Nella prima parte di uno studio in due fasi, il Center for Communal Research (CCR) dell’OU con sede a New York ha condotto nel 2023 interviste approfondite con 29 uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 43 anni, che avevano precedentemente abbandonato l’ortodossia. I partecipanti vivevano principalmente negli Stati Uniti e provenivano da background ebraici Modern Orthodox, Yeshivish, Chabad e Hassidici.
Gli ebrei ortodossi costituiscono circa il nove percento dei 7,5 milioni di ebrei che si trovano negli Stati Uniti, o approssimativamente 700.000 persone, secondo un rapporto del Pew Research del 2020.
Il CCR è un’ala dell’OU che cerca di “dare potere alla comunità ebraica con i dati” in modo che la comunità possa prendere decisioni informate. “Aiutiamo le organizzazioni ebraiche a tradurre le evidenze in azione“, afferma il suo sito web. Pertanto, il sondaggio ha incluso anche una chiara chiamata all’azione nonostante le dimensioni ridotte del campione.
“Questo tipo di studio non può essere utilizzato per quantificare i dati di una popolazione, ma è uno strumento comune nelle scienze sociali per scoprire narrazioni chiave su come le persone sperimentano determinati processi“, ha spiegato Yossi David, responsabile del laboratorio per la Comunicazione e la Ricerca sui BIAS (Credenze, Ideologie, Affetti e Stereotipi) Sociali presso l’Università Ben-Gurion del Negev. “È un modo per approfondire un argomento e sondare nuove sfaccettature“.
Un sondaggio di follow-up più ampio basato sui risultati cercherà di quantificare i dati e presentare un quadro generale delle sfide, ha notato Krakowski. I risultati forniscono informazioni sulle tendenze di abbandono in Nord America e, in misura minore, in Europa, ma non necessariamente in Israele, ha osservato Krakowski. “Ci sono così tanti fattori e relazioni diverse che operano lì”, ha detto.
• Tendenze principali
Il sondaggio ha identificato diversi fili conduttori comuni che apparivano frequentemente nelle interviste. Tendenze significativamente diverse erano discernibili tra quelli provenienti da comunità modern-Orthodox liberali rispetto alle persone provenienti da comunità religiose più rigide e di destra, ha notato Krakowski.
“Ogni caso è diverso, ma nell’Ortodossia Moderna, i confini sono spesso in qualche modo labili“, ha detto Krakowski. “Spesso non c’è un grande controllo su come le persone agiscono, e questo significa che è più facile allontanarsi o scivolare via dall’impegno“.
Un partecipante che non è più religioso ha descritto così parte del processo di allontanamento: “La prima cosa che è successa è stata che ero solito aspettare sei ore tra [il consumo di] carne e latte, e poi sei ore sono diventate tre, e tre sono diventate una, e [alla fine], mi sono semplicemente sciacquato la bocca con l’acqua“. Nel frattempo, nelle comunità più religiose, spesso si può vedere l’estremo opposto, ha detto. “Le persone dicono che le aspettative e le strutture rigide della comunità le fanno sentire confinate e costrette, e questo le spinge a voler andarsene“.
C’è molta sovrapposizione tra diverse categorie, e molti soggetti provenienti da background Modern Orthodox hanno anche parlato di sentirsi costretti, ha notato Krakowski.
I partecipanti provenienti da background Modern Orthodox e Chabad si sono lamentati del trattamento delle questioni femministe più di quelli cresciuti Yeshivish e Hasidic. Altri reclami includevano atteggiamenti di superiorità verso gli altri e il trattamento della comunità LGBTQ all’interno dell’ortodossia.
Altri fattori di rischio includevano questioni di appartenenza e stabilità. “Per tutti quelli con cui abbiamo parlato, c’era un certo grado di non adattamento completo alle istituzioni comunitarie“, ha detto Krakowski. “Per esempio, andare in una scuola che è molto più religiosa della tua famiglia, o molto meno religiosa, o essere l’unico bambino Hasidico in una scuola non Hasidica. Questo tipo di disallineamento appariva ripetutamente“.
“Questo non significa che chiunque vada in una scuola che non è allineata con loro abbandonerà l’ortodossia, ma è qualcosa che devi guardare e su cui riflettere in modo più profondo“, ha aggiunto Krakowski.
L’incoerenza religiosa all’interno della famiglia è stato un altro fattore importante scoperto nel sondaggio.
“Abbiamo visto molti casi in cui i genitori sono diventati religiosi quando prima non lo erano, o quelli che sono diventati molto di destra dopo essere stati inizialmente più liberali, o viceversa“, ha detto Krakowski. “A volte era persino un cambiamento avvenuto prima che il bambino potesse capire. Questo può far sembrare che l’ebraismo non sia stabile e può avere un impatto significativo, specialmente quando accade rapidamente“.
Un intervistato con genitori provenienti da background non ortodossi ha detto: “Quando ci siamo trasferiti a [una città nel Midwest], all’improvviso ho capito che le persone pensavano che fossimo strani. E così penso che alla fine abbiamo finito per fare amicizia con altre famiglie che la comunità vedeva come strane“.
Una donna ha ricordato un trauma vissuto in un liceo dove gli educatori mettevano le violazioni dei rigidi valori comunitari allo stesso livello dei peccati più gravi. “Il mio insegnante ha detto che se leggi Harry Potter, è come se avessi fatto avodah zarah [commesso idolatria], e io ero super ossessivo-compulsivo, quindi sono andato nella mia stanza per alcune ore e ho recitato un viduy [preghiere di confessione]“, ha detto.
Si è scoperto che le figure religiose esercitano un’influenza sorprendente nella vita dei soggetti intervistati. “Non abbiamo chiesto esplicitamente di questo, ma molte persone hanno parlato dell’influenza dei rabbini e di altre figure di autorità religiosa“, ha detto Krakowski. “Una brutta esperienza con un’autorità rabbinica che in qualche modo rappresenta l’ebraismo per te può creare un vero senso di sconvolgimento che ti fa venire voglia di andartene. Alcuni hanno descritto un senso di disgusto quando hanno sperimentato qualcosa che sembrava ipocrita, come quando qualcuno ricco veniva trattato diversamente dagli altri“. D’altra parte, ha notato Krakowski, molti soggetti hanno anche parlato delle potenti impressioni lasciate dai rabbini che li hanno sostenuti o che hanno servito come modelli positivi.
Infine, i traumi, come la morte di un amico o di una persona cara, o abusi fisici o sessuali possono giocare un fattore importante, ha notato Krakowski.
• Approcci diversi alla cultura esterna
Un fattore che non è emerso come fattore di rischio è stata l’esposizione alla cultura popolare e ai social media. Molti intervistati hanno espresso percezioni negative della società laica e del materialismo, ha scoperto il sondaggio. “Sorprendentemente, questo non è emerso nelle interviste nel modo in cui avremmo potuto pensare“, ha detto Krakowski. “Non è che i social media siano una sorta di forza che risucchia le persone in un mondo che le allontana dall’ortodossia. Ma potrebbero giocare un ruolo in un processo più ampio di allontanamento“.
In questo senso, queste influenze agiscono più come facilitatori che come causa principale dell’abbandono per gli ebrei ortodossi negli Stati Uniti, ha detto Krakowski. “Non si possono confrontare questi risultati. Le comunità sono troppo diverse“, ha detto David.
Nella società Haredi, ha detto David, “i dati mostrano che ci sono due forze principali che spingono le persone a lasciare le loro comunità — cose che ti spingono fuori e cose che ti attirano dentro“.
A volte, le persone lasciano la società ultra-ortodossa a causa di un fattore che le costringe a cercare un cambiamento, come la mancanza di rispetto per le donne, problemi con l’accettazione dei convertiti e dei nuovi religiosi, o intolleranza tra diverse sette o etnie, ha detto David. In altri casi, gli ex Haredim sono attratti dalla società laica da un’esposizione alla cultura e al mondo moderno o dalla necessità di apprendere argomenti fondamentali non insegnati nei sistemi scolastici Haredi per formarsi per una professione, ha aggiunto. In queste comunità, l’accesso alla tecnologia è considerato un fattore più significativo per l’abbandono rispetto agli Stati Uniti, ha detto David.
• Affrontare le sfide
Molte delle sfide nell’educare i figli a seguire le pratiche religiose dei loro genitori sono universali, ha notato Krakowski. “Ricerche precedenti hanno scoperto che i genitori che stabiliscono chiare aspettative normative per i loro figli tendono a vederli seguire i loro percorsi più dei genitori che lasciano che i loro figli si orientino da soli“, ha detto Krakowski, attingendo a ricerche condotte dal National Study of Youth and Religion dell’Università di Notre Dame.
La maggior parte dei partecipanti allo studio ha descritto forti connessioni con le tradizioni e le pratiche ortodosse, spesso perché avevano bei ricordi o perché rimanevano importanti per loro e le loro famiglie.
Un intervistato ha detto: “Mi piace il lato culturale. Non ho problemi con esso. Sento che la maggior parte delle persone che smettono di essere religiose, di solito, lo fanno da un luogo di dolore o rabbia, e io non ho niente di tutto ciò“.
L’OU ha raccomandato ai genitori di considerare come i loro figli sperimentano questi rituali e di lavorare per costruire associazioni positive. I genitori dovrebbero anche esprimere amore e sostegno per i loro figli, fornire un senso di stabilità indipendentemente dalle scelte di vita dei figli e lavorare per aiutare i bambini a sviluppare un sano senso di autonomia e fiducia in se stessi.
Nel frattempo, si consiglia ai rabbini e ai leader della comunità di imparare a comprendere ed empatizzare con i membri della comunità e imparare a identificare i segnali di avvertimento e a impegnarsi con le persone che si interrogano il prima possibile.
“La messa in dubbio dei valori inizia presto“, dice la Ricercatrice Principale del CCR Rachel Ginsberg. “Aspettare fino alla fine del liceo per valutare se gli studenti si stanno connettendo è troppo tardi. Ascoltare, validare le preoccupazioni e offrire spazio per l’esplorazione è fondamentale“.
Lo studio ha raccomandato che sinagoghe e scuole adottino mentalità più inclusive e promuovano la tolleranza per le differenze degli altri, dando il benvenuto a coloro che se ne vanno e tenendo la porta aperta per il loro ritorno.
Ha anche suggerito che il sostegno della comunità alle famiglie con disallineamenti religiosi, specialmente per i convertiti e i nuovi religiosi, può aiutare a prevenire l’abbandono. Identificare i modi appropriati per farlo richiederà una più ampia conversazione comunitaria, ha affermato.
La sfida, ha detto il Vicepresidente Esecutivo dell’OU Rabbi Moshe Hauer, è se le persone all’interno della comunità ortodossa sono disposte a cambiare i loro comportamenti.
“Se vogliamo veramente fare un cambiamento significativo e positivo riguardo all’abbandono ebraico ortodosso americano“, ha detto, “faremo bene tutti a leggere questo rapporto, a studiarlo e a guardarci a lungo e onestamente allo specchio“.
(Kolòt - Morashà, 2 aprile 2025)
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Hamas ammazza i palestinesi che protestano
Sette gazawi rapiti, torturati e uccisi per aver partecipato nella Striscia al corteo anti tagliagole. Intanto gli jihadisti invitano i loro sostenitori in tutto il mondo a imbracciare le armi contro il piano di Trump. Il premier israeliano: «La pressione militare funziona»
di Stefano Piazza
Dopo aver usato fino a oggi la popolazione di Gaza come scudo umano, dopo aver fatto saltare ogni accordo che comprendeva il rilascio degli ostaggi rapiti il 7 ottobre 2023 (oltre 1.200 morti e centinaia di feriti), aver rubato gli aiuti destinati alla popolazione di Gaza e dopo aver ingannato il mondo, ora Hamas i palestinesi li ammazza senza alcun problema e con tanto di dedica per i familiari.
Come abbiamo raccontato più volte, per il gruppo jihadista mantenere il controllo nella Striscia di Gaza è sempre più difficile dopo che la popolazione, arrivata a 543 giorni di guerra, si sta sollevando contro i tagliagole. Le proteste degli scorsi giorni, alle quali hanno partecipato migliaia di persone, e il ritiro da parte dei clan del loro appoggio hanno mandato in cortocircuito quello che resta della leadership di Hamas a Gaza e, come era lecito attendersi, la risposta è stata violentissima. Durante le manifestazioni uomini a volto coperto si sono schierati per le strade della Striscia nel tentativo di far desistere i manifestanti senza intervenire a causa della presenze delle Idf, ma soprattutto per prendere nomi e cognomi dei leader della protesta. Una volta terminato l'Eid Al Fitr che segue l'ultimo giorno di Ramadan (la notte tra sabato 29 e domenica 30 marzo), si è saputo delle spedizioni punitive contro coloro che hanno animato le proteste. Sette giovani gazawi sarebbero stati uccisi e tra loro c'è Uday al-Rubai, 22 anni, residente nel quartiere Tel alHawa di Gaza City. E stato rapito dall'organizzazione terroristica dopo aver incitato alle manifestazioni e torturato brutalmente per quattro ore. È stato trascinato con una corda al collo nella città di Gaza, picchiato su tutto il corpo con mazze e spranghe di ferro davanti ai passanti e consegnato alla sua famiglia mentre stava morendo con un biglietto: «Questo è quello che succede a chi critica Hamas».
Uno degli assassini è stato identificato in Saadi Kahlil, un agente delle Brigate al Qassam. Al funerale di al-Rubai, i presenti continuavano a gridare: «Fuori Hamas, fuori!» mentre il padre affermava che non sarebbe stata eretta alcuna tenda funebre per suo figlio finché l'assassino non fosse stato punito. Visto quanto accaduto, le manifestazioni, a cui hanno partecipato centinaia di palestinesi, si sono calmate e non si registrano più ulteriori inviti a protestare contro Hamas.
Il gruppo terroristico ha anche rapito e picchiato Hussam al-Majdalawi, un residente di Gaza che aveva espresso critiche nei confronti del gruppo. Dopo avergli sparato alle gambe, lo hanno lasciato ferito in una piazza nei pressi del campo di Nuseirat. Che Hamas avrebbe reagito lo si era capito lo scorso 27 marzo, quando un'alleanza di gruppi armati con base a Gaza, tra cui Hamas, nota come «Fazioni di resistenza», ha diffuso questa dichiarazione: «Questi individui sospetti sono responsabili quanto l'occupazione dello spargimento di sangue del nostro popolo e saranno trattati di conseguenza», si legge nel comunicato. E così è stato, e questo dovrebbe rappresentare un campanello d'allarme per Israele: nonostante quasi 18 mesi di guerra, l'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran continua, seppur tra le difficoltà, a esercitare un controllo significativo sulla popolazione di Gaza.
Ieri uno dei leader di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha invitato i sostenitori del movimento in tutto il mondo a imbracciare le armi e a combattere il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire più di due milioni di abitanti di Gaza in Paesi confinanti come Egitto e Giordania. A lui ha replicato Benjamin Netanyahu, aprendo la riunione di governo: «La pressione militare funziona. Funziona perché opera simultaneamente: da un lato, schiaccia le capacità militari e governative di Hamas e, dall'altro, crea le condizioni per il rilascio dei nostri ostaggi. Hamas deporrà le armi. Ai suoi leader sarà permesso di andarsene. Garantiremo la sicurezza generale nella Striscia di Gaza e permetteremo l'attuazione del piano Trump, il piano di immigrazione volontaria». Le Forze di Difesa israeliane (Idf) ieri hanno ordinato l'evacuazione dei palestinesi da tutta l'area di Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, annunciando che «l'esercito tornerà a combattere con forza per smantellare le capacità delle organizzazioni terroristiche presenti nella zona». In un post su X, il portavoce delle Idf per il pubblico arabo, il colonnello Avichay Adraee, ha condiviso una mappa delle aree interessate dall'evacuazione, esortando i residenti a spostarsi verso la zona costiera di al-Mawasi, nel sud della Striscia. Lo Shin Bet e la polizia israeliana hanno arrestato una cellula terroristica a Shechem che operava sotto la direzione e il finanziamento di Hamas in Turchia e pianificava attacchi in Israele.
Capitolo ostaggi: Israele ha proposto ad Hamas la liberazione di 11 ostaggi il primo giorno e un cessate il fuoco di 40 giorni. Per contro Hamas sta offrendo un rilascio graduale in cambio di un cessate il fuoco di 50 giorni. Infine, si arroventa sempre di più il clima tra l'Iran e gli Usa dopo che Donald Trump ha affermato: «Se non troveranno un accordo sul nucleare, ci saranno bombardamenti, ma c'è la possibilità che, se non fanno un accordo, io imponga dazi secondari su di loro come ho fatto quattro anni fa». Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha dichiarato domenica che Teheran non intende tenere negoziati diretti con gli Stati Uniti. Ora però vedremo se cambierà idea.
(La Verità, 1 aprile 2025)
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Il 25 aprile di Gaza
E il silenzio degli antifascisti. La rivolta popolare contro Hamas e le ong così taciturne
di Giulio Meotti
ROMA - Le ong non hanno mai avuto molto a cuore la sorte degli ostaggi israeliani nel sottosuolo di Gaza. Keith Siegel, recentemente rilasciato, a “60 minutes” della Cbs rivela: “Ho assistito a una giovane donna torturata dal terrorista, intendo tortura letterale, non solo in senso figurato. Ho visto aggressioni sessuali su ostaggi donne”. I suoi rapitori gli hanno rasato la testa e le parti intime. “Forse li divertiva”. Certi occidentali sono disposti a combattere Israele non solo fino all’ultimo ostaggio, ma anche fino all’ultimo palestinese. Con l’uccisione dei dissidenti, Hamas ha iniziato l’opera di repressione dei palestinesi di Gaza che hanno partecipato alle proteste al grido di “Hamas arhabiyah” (terroristi)”. Tra le persone trucidate Odai al Rubai, che aveva promosso le manifestazioni e si era espresso contro Hamas sui social. Lo hanno sequestrato e torturato per ore, per restituirlo alla famiglia moribondo. Hussam al Majdalawi è stato “gambizzato” e abbandonato in piazza. Il mukhtar al Barrawi aveva chiesto a Hamas di liberare gli ostaggi: è morto a causa di un “infarto”.
I famigliari di Rubai hanno rilasciato una dichiarazione in video in cui esortano “tutte le organizzazioni per i diritti umani a sostenere la popolazione di Gaza contro questi criminali”. Organizzazioni per i diritti umani? In questo caso, niente “occhi puntati su Rafah”.
I gruppi vestiti di kefiah che riempiono le strade di Londra, Roma, Parigi e New York sventolando bandiere dell’Olp e denunciando Israele come “genocida” sono visibilmente silenziosi sugli arabi di Gaza che protestano non contro Israele, ma contro Hamas. Nulla da Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’Onu. Nulla da Amnesty International, che “ha sospeso la sua sezione locale israeliana a gennaio perché abbiamo reso evidenti i crimini di Hamas contro gli israeliani e i palestinesi”, come rivela su Haaretz Yariv Mohar. “Prima che la sospensione avesse luogo, io, come vicedirettore, ho riscontrato un modello preoccupante: una tendenza del movimento a minimizzare e sminuire le critiche legittime e importanti a Hamas. Ora siamo alla resa dei conti morale per il mondo dei diritti umani”.
Racconta Mohar che “figure di spicco di Amnesty hanno chiesto che rimuovessimo un documento pubblicato sulla retorica disumanizzante verso gli israeliani e che glorifica Hamas utilizzata tra circoli progressisti in occidente. I membri di Amnesty hanno lasciato intendere che condannare troppo Hamas potrebbe rafforzare la narrazione israeliana”.
L’Atlantic americano ha un’inchiesta sulle ong. Rasha Khoury, a capo del consiglio di Medici senza frontiere in America, “è l’incarnazione di questa nuova tendenza nell’establishment dei diritti umani”. Un mese dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Khoury ha pubblicato un saggio sulla bacheca digitale dell’organizzazione, nota come Souk: “Dobbiamo decolonizzare le nostre menti”. Doug Sandok ha lavorato con Medici senza frontiere in Ruanda, Cecenia e Sri Lanka negli anni Novanta. “Sono andato a un incontro dell’intera organizzazione nel novembre 2023 e il discorso mi ha scioccato, tutto incentrato sul colonialismo antioccidentale e sul razzismo. Alcuni di noi hanno chiesto: ‘E’davvero scontato che Israele abbia commesso un genocidio?’”.
Per Dan Balson, lavorare per Amnesty era un sogno. Lui e i suoi genitori sono usciti dall’Unione sovietica nel 1988 parte di un’ondata di emigrati ebrei. Amnesty ha avuto un ruolo chiave nel fare pressione su Mosca affinché liberasse famiglie come la sua. Balson è diventato il direttore dell’advocacy di Amnesty per l’Europa e l’Asia centrale, coprendo un territorio che va dalla Russia all’Afghanistan all’Ucraina. Ma quando ha visitato la sede globale di Amnesty a Londra ha percepito un’antipatia verso Israele e gli ebrei.
La mattina del 7 ottobre, Balson aprì X e vide che la sua collega Rasha Abdul Rahim, direttrice dei servizi tecnici per Amnesty, scrisse: “Essere veramente antirazzisti e decoloniali significa riconoscere che la resistenza contro l’oppressione a volte è brutta”. Balson si è dimesso. Anche Roy Yellin è un attivista israeliana per i diritti umani che ha lavorato con i grandi gruppi internazionali in Europa e negli Stati Uniti. “Pensa che se si limitassero a urlare ‘genocidio’ e ‘apartheid’ forse torneremo in Europa. A volte mi sento come se fossi stato solo un utile idiota”. Lo era, ma a differenza degli altri, ha avuto almeno il coraggio di confessarlo.
Il Foglio, 1 aprile 2025)
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Netanyahu ritira la nomina di Sharvit a capo dello Shin Bet
Dopo le aspre critiche nazionali e internazionali, il Primo Ministro fa marcia indietro e abbandona la candidatura del generale a capo del servizio di sicurezza interno.
L'Ufficio del Primo Ministro israeliano ha reso noto che Benjamin Netanyahu ha incontrato ieri sera il generale Eli Sharvit per discutere della sua nomina a capo dello Shin Bet (Servizio di sicurezza interna). Il Primo Ministro ha ringraziato il generale Sharvit per la sua disponibilità a “rispondere alla chiamata del dovere”, ma lo ha informato che avrebbe preso in considerazione altri candidati per l'incarico.
In una dichiarazione, il generale Eli Sharvit ha affermato: “Il Primo Ministro mi ha chiesto di assumere la posizione di direttore del Servizio e di continuare a servire lo Stato di Israele in questo momento difficile - cosa che ho accettato. Ho piena fiducia nella capacità del Servizio di Sicurezza Generale di affrontare le complesse sfide che si trova attualmente ad affrontare, e un'umile fiducia nelle mie capacità di guidarlo in questa missione.” “Il servizio dello Stato, la sua sicurezza e quella dei suoi cittadini rimarranno sempre la mia priorità assoluta”, ha aggiunto.
La decisione arriva in un contesto di critiche internazionali. “Mentre non c'è dubbio che Israele rimanga il miglior amico dell'America, la nomina di Eli Sharvit come nuovo capo dello Shin Bet è più che problematica”, ha dichiarato il senatore repubblicano Lindsay Graham, presidente della Commissione Bilancio del Senato statunitense. A suo avviso, le passate dichiarazioni di Sharvit contro il presidente Donald Trump “creerebbero inutili pressioni in un momento critico”. Netanyahu ha dichiarato lunedì di non essere stato informato di “tutti i dettagli” del coinvolgimento di Sharvit nelle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, che avrebbe contribuito al ritiro della sua candidatura di fronte alle pressioni della destra israeliana.
(i24, 1 aprile 2025)
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“Disposti a tutto pur di non dover lasciare le proprie case”: chi sono gli ultimi novemila ebrei residenti in Iran.
Come si vive da ebrei nel Paese degli Ayatollah? Orgogliosi della propria cultura, affezionati a tradizioni millenarie, legati visceralmente a una terra che in tanti hanno lasciato ma che continua a tenerli stretti a sé. E chi ha scelto di restare in Iran continua a sperare in giorni felici. Così, per sopravvivere, gli ebrei vivono scissi fra due polarità: quella persiana e quella ebraica. Negando (pubblicamente) Israele. Tra mille contraddizioni e lacerazioni, tre voci raccontano come vivere e fuggire da Teheran
di David Zebuloni
«Ho ancora un desiderio – mi ha sussurrato nell’orecchio mio nonno, non molto tempo fa -. Tornare a casa, visitare l’Iran un’ultima volta», ha poi aggiunto con gli occhi socchiusi e un tono nostalgico che decisamente non gli appartiene. Mio nonno, oggi novantenne, è nato nella città di Mashad, da cui è fuggito in circostanze non proprio felici, dopo anni bui di umiliazioni e persecuzioni. Quando ho cercato di capire il motivo di tanta nostalgia, lui mi ha sorriso e ha detto che ci sono cose che non posso capire. E ha ragione. L’ossessione che molti ebrei iraniani hanno della loro prima patria, è una cosa che fatico decisamente a capire. D’altronde, come si può amare un luogo che ti ha rigettato brutalmente? Come si può avere nostalgia della povertà? Della paura? Delle piccole e grandi mortificazioni quotidiane?
Eppure, una cosa è certa e assolutamente innegabile: forse più di ogni altro ebreo fuggito da casa propria, talvolta verso ignota destinazione, l’ebreo iraniano è il più attaccato al luogo in cui è nato. È il più orgoglioso della sua cultura. Il più affezionato alle proprie usanze millenarie. Non a caso una delle comunità ebraiche più antiche e testarde del Medio Oriente risiede ancora lì, nel paese nemico per eccellenza di Israele. E non ha alcuna intenzione di andarsene.
Per comprendere a fondo la nostalgia di mio nonno e per capire soprattutto i motivi per i quali molti ebrei sono disposti a tutto pur di continuare ad abitare in Iran, mi faccio aiutare da tre personaggi d’eccezione: Beni Sabti, uno dei massimi esperti del regime iraniano e ricercatore presso l’Istituto per la Sicurezza Nazionale (INSS); Maureen Nehedar, cantante iraniana di fama internazionale; e il giovane Gavriel Shem, trasferitosi dall’Iran in Israele appena un anno e mezzo fa. Le storie di Beni, Maureen e Gavriel si intrecciano perfettamente, creando insieme un puzzle affascinante che racconta l’unicità della comunità ebraica in Iran, che oggi conta circa 9.000 persone e innumerevoli contraddizioni.
• Ingannati dalla rivoluzione
Sabti, il più anziano del gruppo, è nato a Teheran nel 1972, cioè sette anni prima della rivoluzione islamica, e ricorda chiaramente come il suo paese amato sia cambiato da un giorno all’altro davanti ai suoi occhi. Suo padre lavorava come contabile in un ospedale e sua madre lavorava come direttrice presso un orfanotrofio. «Nei giorni turbolenti della rivoluzione, non uscivamo di casa – racconta -. Salivamo sui tetti e guardavamo le battaglie. Non capivamo esattamente chi fosse il buono e chi fosse il cattivo, ma l’idea che il debole potesse vincere il forte ci affascinava. Così, quando vedevamo i manifestanti sopraffare i soldati dello Scià, applaudivamo emozionati. Per noi bambini, tutto sembrava un film. Tuttavia, presto capimmo chi fosse il buono e chi invece il cattivo. I rivoluzionari, capeggiati da Khomeini, ci ingannarono. Promisero libertà e prosperità, e noi, come molti ingenui iraniani, abboccammo. Presto la realtà ci è esplosa in faccia».
A differenza di decine di migliaia di ebrei che lasciarono l’Iran proprio nell’anno della rivoluzione, i genitori di Beni decisero di restare a Teheran poiché credevano che il loro rispettabile lavoro li avrebbe protetti. «Erano anni difficili e oscuri – ricorda con dolore -. Un giorno gli uomini di Khomeini mi fermarono e mi rasarono a zero in mezzo alla strada. Barba e capelli. Ridevano esilarati. Alcuni anni dopo, quando arrivai in Israele e vidi le immagini della Shoah, capii quanto fosse grave l’umiliazione che avevo subito. Non voglio fare paragoni, ma l’odio è odio. L’umiliazione è umiliazione». Solo nel 1987, otto anni dopo la rivoluzione, quando suo padre fu intenzionalmente investito da una jeep, solo perché ebreo, davanti all’ospedale dove lavorava, i genitori di Beni capirono che era ora di fuggire.
• Salvi in Israele, nonostante le difficoltà
La storia di Maureen è molto diversa. Nata nel settembre 1977, ovvero un anno prima della rivoluzione, venne portata in Israele non appena Khomeini salì al potere. A differenza dei genitori ottimisti di Sabti, i genitori di Nehedar capirono subito che in Iran non avrebbero potuto garantire un futuro sicuro ai loro figli. «La mia famiglia si è lasciata tutto alle spalle: i soldi, la casa, i gioielli. Siamo arrivati in Israele con due valigie piene di vestiti e alcune cassette – spiega la cantante con voce rotta -. L’inizio, in Israele, fu difficile. Vivevamo nella povertà. Tuttavia i miei genitori mi hanno insegnato a camminare a testa alta e a non incolpare nessuno delle mie mancanze. Dicevano sempre che chi lavora sodo, alla fine ottiene tutto».
• Partire dall’Iran dopo il 7 ottobre
La storia di Gavriel è forse la storia di tutta la comunità ebraica che ancora abita in Iran. Nato in Isfahan nel 2002, cullato dai racconti di un paese libero che non ha mai conosciuto, in cuor suo ha sempre sognato di lasciare l’Iran per trasferirsi in Israele. Così, l’8 ottobre, il giorno dopo la grande strage compiuta da Hamas, Gavriel e sua sorella hanno preso la decisione più cruciale della loro vita. «Guardavamo le immagini del massacro al telegiornale e ci siamo detti: o ce ne andiamo ora, o restiamo in Iran per sempre – racconta -. Così abbiamo deciso di partire. Abbiamo salutato tutti e siamo saliti sull’aereo diretto a Istanbul». Quattro giorni dopo sono arrivati per la prima volta in vita loro nella Terra Promessa: lo Stato d’Israele.
«Oggi non posso più tornare in Iran, ed è una delle ragioni per le quali molti ebrei non vogliono lasciare la loro casa: sanno che se non si trovano bene in Israele, non hanno dove tornare. È una decisione irreversibile – sottolinea Gavriel -. I miei genitori non volevano che io e mia sorella partissimo. Loro sono rimasti là, intrappolati in quella triste realtà, mentre noi stiamo costruendo una nuova vita. Non è facile. È da un anno e mezzo ormai che non li vedo. Ho festeggiato il mio compleanno con loro al telefono, una situazione del tutto innaturale. Ancora oggi cerco di accettare il fatto che la mia mamma e il mio papà non saranno con me nei momenti importanti della mia vita».
• L’Iran non ti lascia mai
Su una cosa Beni,
Maureen, Gavriel e persino mio nonno sono d’accordo: puoi lasciare l’Iran, ma l’Iran non ti lascia mai. «Gli ebrei che vivono là credono ancora che le cose presto cambieranno – spiega Gavriel con l’autorità di chi quella realtà l’ha vissuta in prima persona, e non sentita raccontare da terzi -. Posticipano il momento della loro partenza di un po’ e ancora un po’ perché dentro di loro sono erroneamente convinti che il regime stia per crollare e che presto torneranno i giorni felici che hanno preceduto la rivoluzione. Che a breve potranno continuare la loro vita interrotta dal punto esatto in cui l’hanno fermata quasi cinquant’anni fa».
E non è tutto. «Alla fine, c’è qualcosa che accomuna tutti gli ebrei persiani. Tutti, compresi quelli che vivono in Israele da cinquant’anni e non vorrebbero abitare in nessun altro luogo al mondo – sottolinea Gavriel -. Ecco, tutti sentono la mancanza della casa in cui sono cresciuti. A tutti manca quel calore. Quelle usanze dalle radici così antiche. Quel folclore. Quella cultura ineguagliabile di ospitalità e di condivisione. Di dare agli altri anche quando non hai per te stesso».
Per molti può sembrare un paradosso inseguire il luogo da cui si è fuggiti, ma per Maureen non vi è nulla di più naturale. «Ho sempre pensato che sarei diventata una cantare lirica e che mi sarei occupata di musica classica, ma poi la nostalgia ha cominciato a farsi sentire e ho deciso di ridare vita a quella musica persiana che mi scorre nelle vene – dice visibilmente emozionata -. La mia è la nostalgia per qualcosa che non conosco, per un mondo che appena ho vissuto, ma che è sempre con me – aggiunge dopo una breve pausa -. Ancora oggi non so se questa nostalgia sia per un luogo fisico, ovvero per l’Iran, o per un luogo ideale dove ti senti parte di un microcosmo che diventa casa e famiglia, ovvero la comunità ebraica nella quale sono nata. Forse ciò che mi manca è proprio la casa dei nonni. Le loro radici, che sono anche le mie. Una cosa è certa: più esploro il mio passato, e più questo si fa doloroso. Mi sembra di scavare una ferita aperta, ancora sanguinante. Tuttavia, non riesco a smettere. Non voglio smettere. Questo è il mio passato. Questa sono io».
A differenza degli altri due, Sabti si mostra molto meno nostalgico e molto più critico nei confronti di quella comunità che accetta tutto pur di non lasciare la propria patria. «Gli ebrei dell’Iran sono ostaggi del regime a tutti gli effetti – dichiara intransigente -. Negli ultimi mesi stanno manifestando contro Israele, a favore di Hamas e di Hezbollah. Hanno anche scritto una lettera di ringraziamento a Nasrallah per aver bombardato Tel Aviv e un comunicato di condanna per l’uccisione di Ismail Haniyeh. So che è tutta una sceneggiata, che non possono fare altrimenti poiché verrebbero appesi in piazza, ma condannare Israele per continuare a vivere in Iran a mio avviso è un errore clamoroso».
Proprio lui, Beni, l’unico del gruppo che ha vissuto gli anni felici che hanno preceduto la rivoluzione, si mostra più intransigente dei suoi connazionali. «Gli ebrei iraniani si aggrappano a un ricordo passato di un mondo che non esiste più. Io c’ero, e porto sempre nel cuore quel luogo meraviglioso in cui sono cresciuto, ma so che vi sono linee rosse che non vanno oltrepassate. Anche ai miei tempi ci veniva chiesto di dichiarare fedeltà al regime e di condannare Israele, ma sapevamo che vi erano alcune cose che, qualunque cosa accadesse, non avremmo mai detto o fatto. Sapevamo anche che potevamo prendere e fuggire, proprio come possono fare quegli ultimi novemila ebrei che abitano lì, ancora oggi».
Le dure parole del ricercatore fanno riflettere, ma più che provare rancore o risentimento, mi strugge il dramma che sta vivendo questa piccola comunità lacerata tra due mondi. Da un lato il desiderio di non cancellare oltre duemila anni di storia ebraica-iraniana. Di non rinnegare le proprie origini per via di un regime sadico e dittatoriale. Dall’altro, il prezzo più caro che un ebreo possa pagare: la negazione di se stessi. D’altronde, anche se pubblicamente gli ebrei dell’Iran si mostrano entusiasti di sostenere il regime degli Ayatollah, da diverse testimonianze emerge che segretamente pregano per il benessere dello Stato di Israele e per la salute dei soldati israeliani feriti in guerra contro il terrorismo. Secondo queste testimonianze, la maggior parte degli ebrei iraniani sono profondamente sionisti, ma devono fingere di non esserlo per non andare incontro alla morte certa. Un prezzo che sono disposti a pagare pur di non rinunciare al luogo che hanno tanto amato, ma che oggi esiste solo nei loro ricordi.
(Bet Magazine Mosaico, 1 aprile 2025)
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Israele invia squadre di soccorso in Myanmar e Thailandia colpiti dal terremoto
Anche Israele si è attivato in soccorso delle vittime del devastante terremoto di magnitudo 7,7 che ha colpito il Sud-Est Asiatico. Una squadra di ingegneri e ufficiali del Comando del Fronte interno dell’Idf e del Ministero della Difesa è arrivata a Bangkok, in Thailandia, per assistere le autorità locali e supportare le operazioni di ricerca e soccorso.
Il team, composto da 21 persone, è guidato dal colonnello Yossi Pinto, comandante dell’Unità nazionale di ricerca e soccorso di riserva delle Idf. Gli israeliani hanno iniziato la propria missione eseguendo una valutazione della situazione e condividendo competenze tecnologiche con le autorità thailandesi.
Anche la ong israeliana SmartAid è già operativa nelle città di Mandalay, Naypyitaw e Sagaing, in Myanmar, coordinando gli sforzi con i partner governativi e non governativi locali.
Il devastante terremoto di venerdì scorso, avvertito in tutto il Sud-Est asiatico, ha avuto come epicentro Sagaing, in Myanmar, seguìto pochi minuti dopo da una scossa di assestamento di magnitudo 6,4, causando finora oltre 2mila morti e 3.400 feriti. Anche la Thailandia continua a contare le proprie vittime: almeno 18, a causa del crollo di un grattacielo di 33 piani in costruzione a Bangkok.
Vista l’entità dell’evento sismico, il capo del governo militare del Myanmar ha dichiarato lo stato di emergenza, chiedendo l’aiuto dei paesi vicini. Cina, Russia e India sono state tra le nazioni a rispondere alla richiesta.
(Shalom, 31 marzo 2025)
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Israele alla prova dell’“enigma Trump”
di Ugo Volli
Paese piccolo, con un’industria avanzata ma risorse limitate in termini di materie prime, mercato, territorio, circondato da nemici numerosi e accaniti, insidiato dal terrorismo, Israele non può permettersi di scegliere i suoi alleati. Il primo e spesso unico alleato dai tempi di Ben Gurion, sono gli USA, concretamente i loro presidenti. Alcuni erano sostenitori veri, come Truman e Reagan, altri scettici come Nixon, diffidenti e antipatizzanti come Carter e Obama, contraddittori come Biden. Oggi c’è Trump, cui Israele ha sempre riconosciuto appoggio e molti meriti, dal trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e gli accordi di Abramo nel primo mandato fino ai rifornimenti di armi di queste settimane. Ma si può essere sicuri che questo appoggio continuerà? Non potrebbe finire anche Israele nella situazione di isolamento e ostilità che il presidente americano ha riservato per esempio a Zelenski e all’Ucraina?
Di Trump non si può mai essere sicuri. L’incertezza su quel che farà, la sorpresa di alcune sue scelte, il carattere provocatorio e eccessivo delle sue dichiarazioni non sono casi isolati ma fanno parte del suo stile di governo e di comunicazione. Vi sono diverse ragioni per questo atteggiamento. La prima è che nella società dello spettacolo in cui viviamo per un leader è essenziale fare notizia e certamente le sue sparate lo mettono ogni giorno sui titoli di testa di quotidiani e telegiornali. La seconda è che in una trattativa chi, avendo una base di forza adeguata, fa pretese esagerate, può spesso concludere accordi migliori di quelli che avrebbe ottenuto con proposte accettabili. La terza ragione è, per così dire, ideologica. Trump è convinto di essere stato imbrogliato e sfruttato in maniera disonesta: lui personalmente con le elezioni del 2020 e i procedimenti giudiziari che ne sono seguiti; gli USA guidati da truffatori e da incapaci e circondati da alleati disonesti e ingrati che si sono approfittati della protezione americana. È necessario dunque, dal suo punto di vista, non solo riparare a queste ingiustizie, ma anche far vedere chi comanda, gridare, insultare, per ristabilire il giusto rapporto gerarchico fra USA e resto del mondo e naturalmente anche fra lui e il “deep State”. Sullo sfondo, vi è anche l’idea che la politica sia un gioco a somma zero, dove uno vince e gli altri perdono e bisogna a ogni costo essere vincitori.
Questo modo di fare sorprende molto l’opinione pubblica europea, da generazioni abituata a non preoccuparsi della sua difesa perché sta sotto l’ombrello americano, a consumare la cultura popolare e i prodotti made in USA, ma dall’altro si riserva il diritto di snobbare la “primitiva” società americana e di contrastare quanto può la sua politica, anche in Medio Oriente.
In Israele l’atteggiamento è diverso, non solo per la presenza massiccia di immigrati americani. Lo Stato ebraico, impegnato nella lotta quotidiana per la difesa da chi lo vuole distruggere, ha conosciuto pressioni e veri e propri ricatti da tutti i presidenti americani. Ci sono stati epici scontri fra Golda Meir e Nixon (o Kissinger che lo rappresentava), come fra Netanyahu e Obama e anche di recente con Biden. Israele sa insomma come discutere con un alleato essenziale e molto più potente e conosce i limiti della propria libertà d’azione, come si è visto negli ultimi tempi da certe decisioni come il ritardo nell’ingresso a Rafah o il recente cessate il fuoco. Di più, Israele sa di significare molto più per il popolo americano dell’Ucraina o dell’Unione Europea. Possiamo sperare che il mondo politico israeliano e in particolare Netanyahu, con la sua grande esperienza, continuerà a saper leggere l’“enigma Trump” e trovare con lui i necessari compromessi.
(Shalom, 31 marzo 2025)
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“Dobbiamo imparare dagli errori”: l’IDF mostra al pubblico i risultati dell’indagine sul massacro al Nova Festival
I famigliari delle vittime e dei superstiti sono stati invitati a delle presentazioni della ricerca dal 30 marzo al 3 aprile. L’indagine sul Nova Music Festival rappresenta la 41esima analisi condotta e pubblicata dall’IDF sugli scontri del 7 ottobre e ha seguito le dimissioni del colonnello Haim Cohen, responsabile della sicurezza dell’area, avvenute il 25 marzo.
di Pietro Baragiola
All’inizio della prossima settimana le Forze di Difesa Israeliane inizieranno a presentare i risultati dell’indagine militare incentrata sul massacro al Nova Music Festival alle famiglie dei partecipanti uccisi e a coloro che sono sopravvissuti.
Questi risultati verranno presentati accuratamente dal capo della squadra investigativa del Nova, il generale di brigata Ido Mizrahi e dal generale maggiore Dan Goldfus.
“L’obiettivo di questa indagine sarà trarre conclusioni operative ottimali per imparare dagli errori e dai tempi di risposta dell’esercito israeliano durante il 7 ottobre” afferma il comunicato rilasciato dall’IDF. “L’analisi si concentrerà su diversi punti: le modalità di approvazione del festival; i preparativi militari; l’inizio del massacro; una panoramica completa degli eventi del 7 ottobre; la condotta delle truppe israeliane nel parcheggio di Re’im”.
Secondo quanto riportato dai portavoce dell’IDF, l’indagine non coprirà gli attacchi che si sono verificati al di fuori dell’area diretta di Nova, del suo parcheggio e del primo tratto dell’autostrada Route 232. Non verranno presi in considerazione neanche gli eventi e omicidi che si sono verificati su strade vicine, rifugi o in altre aree del sud di Israele in quanto sono oggetto di indagini di alto livello separate.
• Le presentazioni dell’indagine
Mercoledì 26 marzo i famigliari delle vittime e dei superstiti hanno ricevuto una comunicazione con le istruzioni su come iscriversi ad una delle presentazioni in cui verranno divulgati i risultati dell’indagine.
Questi incontri si svolgeranno dal 30 marzo al 3 aprile presso il palazzo dell’Expo di Tel Aviv e, secondo le comunicazioni ufficiali, si divideranno nel seguente modo: un incontro per le famiglie dei 344 civili uccisi durante l’attacco al Nova Music Festival; uno per i famigliari dei 16 soldati e dei 2 operatori dello Shin Bet caduti; uno per i parenti dei 40 partecipanti presi in ostaggio (compresi quelli che sono tornati a casa). L’ultimo incontro, che si terrà il 3 aprile, sarà dedicato ai sopravvissuti all’attacco e vedrà la partecipazione di consulenti e terapeuti esperti.
A ciascun gruppo verranno riservate le informazioni più rilevanti alla propria categoria e saranno dedicati due slot di appuntamenti in modo da permettere a tutti i famigliari di partecipare.
L’indagine sul Nova Music Festival rappresenta la 41esima analisi condotta e pubblicata dall’IDF sugli scontri del 7 ottobre e ha seguito le dimissioni del colonnello Haim Cohen, responsabile della sicurezza dell’area.
• Le dimissioni del colonnello Cohen
Martedì 25 marzo il colonnello Haim Cohen, comandante della Brigata Nord dell’IDF ha infatti annunciato le sue dimissioni per il suo ruolo nei fallimenti dell’esercito israeliano.
“Il 7 ottobre la brigata sotto il mio comando non ha compiuto la sua missione di proteggere i residenti dell’area” ha dichiarato Cohen nella sua lettera di dimissioni. “Come dimostrano i risultati dell’indagine, ho fallito!”
La divisione dell’IDF schierata lungo il confine con la Striscia di Gaza è composta da tre brigate: Nord, Centro e Sud. Cohen e la sua brigata erano incaricati della supervisione dell’area che racchiude il festival di Nova, il Kibbutz Be’eri e Nahal Oz.
Secondo quanto emerso dall’indagine interna dell’IDF, Cohen ha dimostrato ‘una cattiva gestione operativa dalla base di Nahal Oz e non ha rappresentato accuratamente la situazione sul campo durante l’attacco di Hamas’.
“Non dimenticherò mai i campi pieni di civili innocenti che giacevano nel loro stesso sangue né l’inferno vissuto o l’eroismo mostrato dalle poche forze sotto il mio comando. Tutti riservisti e civili coraggiosi, figli della luce contro un barbaro esercito terrorista” ha scritto Cohen. “Non dimenticherò mai il profondo senso di delusione per la totale sorpresa e le prime ore in cui abbiamo combattuto da soli. L’odore di morte e le urla alla radio non lasceranno mai la mia memoria.”
Cohen ha concluso la sua lettera incoraggiando il nuovo Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir a “condurre l’esercito ad una vittoria completa”: “la missione non è finita! Dobbiamo urgentemente riportare indietro i nostri fratelli che languono in cattività e dare una degna sepoltura ai nostri caduti! Sono certo che lei condurrà l’esercito a una vittoria completa sui codardi. Porgo un saluto i miei fratelli e sorelle caduti in armi, con i migliori auguri di guarigione ai feriti e con la preghiera per la restituzione degli ostaggi.”
(Bet Magazine Mosaico, 31 marzo 2025)
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Chi è Eli Sharvit, nominato da Netanyahu a capo dello Shin Bet
Non conosce l'arabo e non si è mai occupato di questioni palestinesi. Ha partecipato in passato alle proteste contro i piani di revisione giudiziaria del governo.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha deciso di nominare l’ex comandante della Marina, il viceammiraglio (ris.) Eli Sharvit, come prossimo capo dello Shin Bet, ha annunciato l’Ufficio del primo ministro.
Sharvit sostituisce Ronen Bar, che il Gabinetto ha votato per il licenziamento formale all’inizio del mese.
Bar rimane al suo posto, con un’ingiunzione temporanea imposta al suo licenziamento dall’Alta Corte di Giustizia. Mentre la Corte ha congelato il licenziamento di Bar, ha permesso a Netanyahu di intervistare i candidati per sostituirlo.
Netanyahu ha intervistato sette candidati, secondo il PMO. La candidatura di Sharvit sarà ora esaminata dal comitato di controllo prima che la decisione arrivi al gabinetto.
Il viceammiraglio Eli Sharvit ha partecipato in passato alle proteste contro i piani di revisione giudiziaria del governo.
Secondo un rapporto di Ynet del marzo 2023, Sharvit si è unito a una protesta nella via Kaplan di Tel Aviv, insieme ad altri ex ufficiali militari. Non ha lanciato un appello a rifiutarsi di presentarsi in servizio, come hanno fatto altri riservisti, ma ha solo espresso preoccupazione per la legislazione prevista, secondo il rapporto.
Secondo quanto riferito, Sharvit non conosce l’arabo e non si è mai occupato di questioni palestinesi. Anche se questo non sarebbe un fatto inedito per un capo dello Shin Bet.
Ha iniziato il suo servizio in Marina nel 1985, diventando ufficiale. Nel corso degli anni ha comandato diverse navi missilistiche e ha ricoperto altri ruoli di rilievo.
Nel 2006, Sharvit è stato il vice comandante della flotta di navi missilistiche della Marina e, durante la Seconda guerra del Libano, ha comandato una delle sue squadriglie.
Tra il 2007 e il 2009 è stato capo dipartimento della Direzione delle operazioni dell’IDF, l’unico ruolo che ha ricoperto al di fuori della Marina.
Sharvit è poi tornato a comandare la flotta di navi missilistiche fino al 2011. Successivamente è stato nominato al comando della base navale di Haifa, dove ha prestato servizio fino al 2014.
Tra il 2014 e il 2016 ha ricoperto il ruolo di capo di stato maggiore della Marina, prima di essere promosso al grado di viceammiraglio e diventare comandante della Marina.
Sharvit ha comandato la Marina fino al 2021, anche durante il conflitto con Hamas del maggio 2021.
Da quando è uscito dall’esercito, ha ricoperto diversi ruoli di primo piano in aziende civili.
All’inizio di questo mese, Sharvit è stato nominato dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Ten. Gen. Eyal Zamir, membro di un gruppo di ex ufficiali che dovrà esaminare e valutare le indagini militari del 7 ottobre.
Sharvit non sarebbe il primo capo dello Shin Bet che viene dall’esterno dell’organizzazione e non ha familiarità con il suo funzionamento, con l’arabo e con gli affari palestinesi. Nel 1996, Ami Ayalon, anch’egli ex comandante della Marina, fu nominato a capo dello Shin Bet dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin.
(Rights Reporter, 31 marzo 2025)
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L’Islam radicale – non il sionismo – vuole trascinare e colonizzare il mondo in una nuova guerra
di Rav Scialom Bahbout
La narrazione secondo la quale il ritorno degli ebrei in terra di Israele sarebbe una sorta di nuova colonizzazione simile a quella fatta dai paesi europei in Africa, in Asia eccetera, è assolutamente inconsistente e dimostra di non conoscere né la storia, né la cultura, né i riti che caratterizzano la vita ebraica. Spieghiamo perché: se gli ebrei avessero voluto colonizzare un paese qualsiasi avrebbero accettato la proposta di creare uno Stato in Uganda o in Argentina. Questa era una proposta inaccettabile perché gli ebrei in tutto il periodo in cui sono stati in Esilio hanno desiderato sempre di voler tornare solo a Sion (questo dicono gli ebrei nelle preghiere di tutti i giorni …. ). Inoltre il ritorno degli ebrei in terra d’Israele non è iniziato con il congresso di Basilea del 1897. Molti anni prima, gli ebrei, da quando sono stati cacciati dalla terra di Israele, chiamata provocatoriamente Palestina da Adriano per cancellare l’identità ebraica collegata con la terra, hanno cercato di tornare in terra di Israele. Basta leggere le storie dei gruppi e dei singoli che decidono di tornare in Erez Israel.
Questo è avvenuto nel corso dei secoli, ci sono esempi che chiunque può andarsi a leggere nei libri di storia di Israele. A parte questo, ci fu un tentativo di costituire un nucleo di stato ebraico non soggetto alle decisioni dei re o dei dittatori di turno era stato già tentato in periodo non coloniale: L’artefice di questo progetto fu Donna Grazia Mendes che, dopo essere stata costretta a vagare per l’Europa perché non riusciva a stare tranquilla da nessuna parte a causa delle persecuzioni cristiane, decise che era arrivato il momento di tornare alla terra di Israele e cercare un rifugio per il popolo ebraico. Si rivolse quindi al Sultano di Istanbul che accolse con favore la richiesta di Donna Grazia: è evidente che lui riteneva che la Terra d’Israele è il luogo destinato agli ebrei (come risulta dal Corano che lui conosceva molto bene).
L’unico rifugio possibile era la madre patria, e cioè la terra di Israele. Questo ha cercato di fare Donna Grazia Mendes, con il consenso del sultano. Questo accade nel 1550: la morte di Donna Gracia e altri motivi non permisero la realizzazione del progetto., ma dettero la spinta per creare nuove attività nella Galilea portarono all’immigrazione di molti arabi musulmani residenti al nord (Siria, Libano). La crisi che seguì il fallimento del movimento di Shabbetai Zevi, (che era assistito da Natan di Gaza) fece il resto. Quindi gli ebrei erano a Gaza fin dal XVII secolo e anche prima: ebrei rimasti in quelle terre ci furono e questo è testimoniato dai testi.
Come scrive Mark Twain, nel suo reportage sul suo pellegrinaggio assieme a un gruppo di protestanti in terra di Israele, la terra era desolata. C’erano abitanti quasi esclusivamente nelle città sante, le città che sono ricordate nella Bibbia, come in Gerusalemme, Jaffa, Hebron, Safed. Sono città nelle quali gli ebrei hanno continuato ad abitare come comunità e non come singoli, anche nei territori conquistati dai musulmani.
La verità è che il mondo islamico, sotto la spinta di Maometto e dei suoi successori, ha cercato di conquistare e colonizzare quanti più paesi possibili. Si è espanso in tutto il Mediterraneo e ha cercato anche di occupare l’Europa, ma non ci riuscì e fu costretto a interrompere la sua espansione. La narrazione di storici privi delle conoscenze storiche e culturali del popolo ebraico è contraria alla verità. L’Islam e i suoi seguaci colonizzarono la terra d’Israele. Non è irrealistico pensare che la causa palestinese possa divenire lo strumento che l’Islam potrebbe oggi usare per conquistare l’Europa.
Non è questa una narrazione inventata. Di fatto ci sono molti paesi in Europa in cui la presenza islamica oggi è molto consistente. Quindi il processo di colonizzazione da parte dell’Islam non è finito, è stato interrotto solo per alcuni secoli.
Ci sono naturalmente anche delle persone moderate nel mondo islamico, ma purtroppo le persone moderate sono irrilevanti perché sovrastate da minoranze che stabiliscono la narrazione e il progetto. da maggioranze da un punto di vista storico. Perché le maggiori rivoluzioni, i maggiori cambiamenti sono state fatte da piccoli gruppi che hanno poi trascinati gli altri volenti o nolenti. Semplicemente perché sono sempre le minoranze che fanno la storia, non la maggioranza.
E così è anche oggi per quanto riguarda gli arabi di Palestina. Perché quello che è accaduto è che Hamas non aveva certamente la maggioranza, ha preso il potere per tornare ad occupare quelle terre e a cacciare gli ebrei.
Quindi bisogna guardare alla realtà con una visione prospettica e non limitata semplicemente a quello che accade in questo momento. C’è un processo in corso e in questo processo l’Islam sta cercando di eliminare coloro che ritiene siano gli infedeli. Non tutti sanno che secondo gli sciiti (quindi Iran)i veri ebrei sarebbero i mussulmani.
Quindi hanno cancellato gli ebrei storici e hanno cercato di prendere il loro posto. E in un certo senso il processo che ha fatto la Chiesa per molto tempo stabilendo che la Chiesa è il vero Israel: noi siamo il vero Israel dicono gli Sciiti dopo aver cancellato quello storico.
Come abbiamo dimostrato nel corso della storia gli ebrei hanno continuato a desiderare di tornare a Gerusalemme ogni anno, almeno in due occasioni. Tutti hanno detto l’anno prossimo a Gerusalemme e questo sia nel giorno della sera di Pasqua che poi nel giorno di Kippur alla fine del digiuno. Questo è il desiderio: quindi il sionismo, quello che qualcuno vuole tacciare di colonialismo, non è mai stato colonialista, ma legato alla tradizione ebraica “L’anno prossimo a Gerusalemme”
Anche i sionisti tornati nell’Ottocento in terra di Israele, lo hanno fatto solo in quanto legati alla tradizione. L’unico gruppo che ha vissuto in terra di Israele lungo tutta la storia, anche se non sempre in grandi quantità proprio perché deportati e massacrati sono stati gli ebrei. Quindi nessuna colonizzazione ebraica. La colonizzazione vera è stata quella islamica fatta dagli arabi musulmani: la storia non può essere riscritta.
Concludo ricordando la storia della mia famiglia: cacciata dalla Spagna nel 1492 (con lingua madre lo spagnolo), si è spostata in Marocco, dove è rimasta per oltre 200 anni, fino a quando a causa del pogrom di Marrakesh (1864 – 1880) e il mio bisnonno, decise di muoversi per andare in Erez Israele. Lui, con la famiglia e con molti altri ebrei abbandonarono il Marocco sotto la pressione del pogrom di Marrakesh, e agli altri pogrom. Quindi il ritorno era previsto: è stata semplicemente una questione di tempo e di opportunità.
Comunque per completare il quadro, nel 1948 i soldati arabi della Giordania invasero Gerusalemme Vecchia e la mia famiglia fu costretta ad abbandonare la città. Una foto di mia nonna sui gradini di casa con un soldato giordano che la controllava è stata anche pubblicata su Life.
La stessa sorte subirono tutti gli ebrei che abitavano nel quartiere ebraico di Gerusalemme; le tombe del Monte degli ulivi furono profanate e le lapidi usate per scopi abitativi e financo per latrine; i sopravvissuti riuscirono a trasferirsi nella città nuova, portando con sé i sacri rotoli della legge. I rotoli ritorneranno in sinagoghe improvvisate dopo la tregua firmata a Rodi nel 1949 e definitivamente solo dopo la guerra dei sei giorni, scatenata dalla Giordania.
Di fronte a questo panorama che sembra non dare alcuna speranza, cosa bisogna fare se si vuole arrivare alla pace?
I palestinesi – Hamas e non – devono cancellare dagli statuti e dal loro progetto quello di volere distruggere e cancellare Israele e gli ebrei.
I palestinesi (e gli arabi di molti paesi in cui gli ebrei hanno vissuto) devono pentirsi di aver massacrato gli ebrei nel corso della Storia e chiedere perdono per tutti i pogrom e le uccisioni fatte
I palestinesi devono educare i propri figli ad amare e non a odiare gli ebrei: per questo obiettivo avranno bisogno di essere aiutati.
Una Commissione che controllerà per un periodo di tempo congruo che questi principi verranno osservati. Solo al termine di questo periodo si potrà aspirare a una pace.
(Kolòt - Morashà, 31 marzo 2025)
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Venerdì la maratona di Gerusalemme: «Corriamo per la speranza»
A tredici anni un giovane ebreo diventa bar mitzvah, entrando nel mondo dei grandi attraverso un rito di passaggio. Anche la maratona di Gerusalemme ha affrontato lo scorso anno una prova di maturità, nella sua 13esima edizione: la più complessa da organizzare a livello emotivo per via della presenza in gara e sulle strade della capitale d’Israele di ex ostaggi, loro familiari, amici e gruppi di sostegno, soldati feriti.
Si annuncia dello stesso tenore la quattordicesima, al via venerdì mattina con partenza dall’esterno del Museo d’Israele e arrivo nel parco Sacher dopo 42 chilometri e 195 metri tra i più movimentati del circuito internazionale. Se l’anno scorso i partenti raggiunsero la cifra record di 40mila unità, quest’anno il dato dovrebbe attestarsi attorno ai 35mila podisti complessivi, in gara nella corsa principale e su varie distanze. Tra le quali gli 800 metri della Community Race nata alcuni anni fa su proposta di Shalva, centro locale di assistenza per l’infanzia con disabilità fisico-psichica.
«Per la comunità dei podisti, tutto passa attraverso le gambe. Vogliamo dimostrare che andiamo avanti a testa alta, perché non abbiamo altra scelta», ha spiegato al Jerusalem Post la responsabile del dipartimento sportivo della municipalità di Gerusalemme, Ariella Rajuan. «Corriamo per dare un messaggio di speranza a Israele, per i soldati a cui diciamo “grazie” ogni mattina, per i feriti e per gli ostaggi, affinché possano tornare a casa sani e salvi al più presto». La corsa si svolgerà quasi tutta nei quartieri moderni fatta eccezione per un passaggio di alcune centinaia di metri nella Città Vecchia, tra le porte di Giaffa e Sion. «Correremo attraverso il cuore di Gerusalemme per dichiarare che questa città rappresenta l’intero paese», ha dichiarato Rajuan. Secondo la dirigente dell’amministrazione comunale, non esiste città al mondo con l’eterogeneità di Gerusalemme. La sua conclusione è che «la convivenza è possibile e con questo senso di unità andiamo avanti». a.s.
(moked, 31 marzo 2025)
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La verità in tempi di menzogna - una prospettiva biblica
Tra fake news, ideologia e fede: perché oggi è più importante che mai aggrapparsi alla verità divina.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Ai nostri giorni, la verità è diventata qualcosa di commerciale e malleabile. Nell'era della tecnologia avanzata e della conoscenza accessibile, è difficile distinguere tra fatti, opinioni, notizie vere e fake news. L'influenza dei social media rafforza ancora di più questa sensazione. Sui social network le bugie vengono spacciate come verità.
Già nel passato, in tempi privi di Instagram, i profeti criticavano il fatto che “la menzogna è diventata più forte della verità”. Geremia diceva: “Gli uni ingannano gli altri e non dicono la verità”.
Oggi si tende a dire che non esiste una verità assoluta, ma che ognuno comprende la realtà e gli eventi a partire dalla propria visione del mondo. Verità personale o verità di Dio? La verità si confonde con gli interessi politici o ideologici. Non è facile distinguere tra verità e menzogna, ma anche ai tempi della Bibbia era difficile.
Nel contesto della Bibbia ebraica, ci sono connessioni interessanti. Nella Bibbia, la verità è chiamata emet (אמת). Emet deriva dalla radice A-M-N (א-מ-נ), così come Emuna - fede (אמונה) e “credo” - Amen (אמן). Concludete le vostre preghiere con la parola ebraica “Io credo” - la vostra verità. Fede e verità derivano dalla stessa parola Amen (אמן). In questo senso, anche la parola ebraica che indica la formazione Imun (אמון) deriva da Amen. Per mantenere la fede e la verità, bisogna abituare il cuore a seguire Dio e la verità, e a rimanergli fedeli. La mia fede determina la mia o la verità in senso biblico.
Emet אמת è composto dalla prima (א), media (מ) e ultima (ת) lettera dell'alfabeto ebraico. Questo indica la loro assoluta portata e perfezione, l'inizio e la fine. “Il Signore Dio è verità”, disse il profeta Geremia (10). La verità è collegata alla divinità. Nel Nuovo Testamento, Gesù ha detto: “Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine”.
Nella Bibbia, la verità appare in relazione a Dio, alla moralità e alla retta via. Anche le parole del salmista “grazia e verità si incontrano” indicano la qualità di Dio. Nella Bibbia la verità è sinonimo di stabilità, fede, giustizia e santità. È un attributo di Dio, la base per una società giusta e parte essenziale dell'alleanza con Dio. Per questo motivo, Dio deve costantemente formare, educare il suo popolo affinché mantenga la fede e la verità. Questo vale anche per noi. Per rimanere fedeli a Dio e alla verità, non dobbiamo lasciarci distrarre da altre “verità”.
Per il profeta Zaccaria, anche la Città Santa di Gerusalemme, in alto sul monte, è la “città della verità”. Agli occhi del profeta, Gerusalemme è il centro della rettitudine e della giustizia. Gerusalemme è la dimora di Dio, dove è stata stabilita la casa di Dio. “Così dice il Signore: Tornerò su Sion e abiterò di nuovo in mezzo a Gerusalemme, e Gerusalemme sarà chiamata la città della verità (עיר אמת, ir emet)”. Poi dice: “Di' la verità al tuo prossimo, giudica con giustizia e pace nelle tue porte”. E infine: “ma ama la verità e la pace”. E queste due cose spesso non vanno d'accordo. Cos'è più santo, la pace o la verità? Questa tensione tra verità e pace continua a commuovere gli uomini ancora oggi. Nessuno, sia a destra che a sinistra, vuole scendere a compromessi e rinunciare ai propri valori: la pace o la verità.
In un'epoca di fake news e disinformazione, la ricerca della verità è più importante che mai. Come nella Bibbia, anche oggi la verità è legata all'autenticità, alla fedele adesione a valori e convinzioni. Come nella Bibbia, la verità rimane un'ancora di stabilità in un mondo caotico. E in questa frenesia mediatica, noi di Israel Heute vogliamo essere una voce chiara, forte e vera per le nazioni da Gerusalemme.
(Israel Heute, 31 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Una parashah di generosità, devozione e fede
Il Tabernacolo era molto più di un centro spirituale: era un segno visibile della riconciliazione e della vicinanza di Dio.
di Ariel Winkler
Il 1° marzo 2025, 1° Adar 5785, nelle sinagoghe si è letta la parashah “Terumah”. Questa parashah è incentrata sulle istruzioni che Dio dà a Mosè per la costruzione del Tabernacolo e dei suoi utensili. Vengono descritte le donazioni necessarie da parte del popolo per la costruzione, tra cui oro, argento, rame, tessuti preziosi e legno di acacia. Inoltre, vengono spiegati in dettaglio gli utensili centrali del tabernacolo: l'arca dell'alleanza, la tavola dei pani, il lampadario, l'altare dell'incenso e il cortile che circondava il tabernacolo. Queste istruzioni dettagliate sottolineano la grande importanza che Dio attribuisce al tabernacolo come luogo di incontro con il suo popolo. Simboleggiano la santità e l'ordine richiesti per l'adorazione di Dio.
Il tabernacolo è stato costruito secondo un progetto che Dio ha mostrato a Mosè in cielo: “Secondo tutto ciò che ti mostro, il modello del tabernacolo e il modello di tutti i suoi utensili, così lo farai” (Esodo 25,9). Questo chiarisce che il tabernacolo non era solo un edificio fisico, ma aveva un significato spirituale più profondo. Il suo scopo era quello di essere il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: “Mi faranno un santuario, perché io abiti in mezzo a loro” (Esodo 25,8). Il tabernacolo incarna il piano di Dio per superare la separazione causata dal peccato di Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden (Genesi 3). Era molto più di un centro spirituale: era un segno visibile della riconciliazione e della vicinanza di Dio.
La parashah inizia con la descrizione di come il popolo d'Israele lavori con gioia ed entusiasmo alla costruzione del tabernacolo. Essi portano donazioni volontarie di oro, argento, rame, tessuti preziosi, pietre preziose e altri materiali. La loro generosità finisce per superare il bisogno, così Mosè deve interrompere le donazioni (Esodo 36,5-7). Questo comportamento mostra la profonda gratitudine e devozione del popolo verso Dio e il suo desiderio di esprimere il proprio amore e la propria fede attraverso una gioiosa donazione.
Nel Nuovo Testamento, anche noi credenti siamo chiamati a mostrare generosità e a investire nell'edificazione della Chiesa. In Efesini 2:21-22 si legge: “Nel quale tutto l'edificio, unito insieme, cresce fino a diventare un tempio santo nel Signore, nel quale anche voi venite edificati per formare una dimora di Dio nello Spirito”. Proprio come il popolo d'Israele ha dato al tabernacolo, anche noi siamo chiamati a essere generosi e a contribuire con tempo, risorse e talenti a rafforzare il corpo di Cristo. La nostra generosità dimostra le nostre priorità, la nostra unità di credenti e il nostro desiderio di sostenere l'opera di Dio nel mondo.
Dio ha provveduto in anticipo a fare doni agli israeliti per costruire il tabernacolo, anche se sono usciti dall'Egitto come schiavi. Quando lasciarono l'Egitto, Dio ordinò loro di chiedere agli egiziani oggetti d'argento e d'oro e vestiti (Esodo 12,35-36), e gli egiziani diedero loro molto. In questo modo, Dio non solo preparò materialmente il popolo per il viaggio attraverso il deserto, ma anche per la costruzione del tabernacolo. Questa cura dimostra che Dio è la fonte di ogni abbondanza. E ciò che diamo è in definitiva un privilegio, in quanto gli restituiamo ciò che ci ha dato.
Come cristiani, crediamo che Dio si prenda cura di noi anche oggi e conosca i nostri bisogni. Come si legge in Filippesi 4:19: “Ma il mio Dio provvederà a tutte le vostre necessità secondo le sue ricchezze nella gloria, per mezzo di Cristo Gesù”. La sua cura non è solo per i nostri bisogni fisici, ma anche per la nostra preparazione a fare la sua volontà. Così come si è preso cura del popolo d'Israele nel deserto, ci dà i mezzi per servirlo e costruire il suo regno nel mondo.
Paolo invita le chiese del Nuovo Testamento a mostrare generosità e sostegno reciproco. In 2 Corinzi 8, ricorda alle chiese che la loro abbondanza non è solo per il loro uso personale, ma anche per condividerla con i bisognosi, specialmente con i fratelli e le sorelle di Gerusalemme che soffrivano di difficoltà economiche (Romani 15:26).
Questo sostegno è un'espressione dell'unità del corpo di Cristo e un ringraziamento a Dio, da cui provengono tutte le benedizioni.
Durante la guerra delle “Spade di ferro”, i credenti di tutto il mondo hanno mostrato solidarietà alle congregazioni messianiche in Israele e al popolo ebraico. Questo sostegno si è manifestato attraverso preghiere, donazioni finanziarie e aiuto pratico. Riflette la responsabilità reciproca nel corpo di Cristo e dimostra l'amore di Cristo attraverso l'unità e l'azione.
La parashah “Terumah” ci insegna la generosità, la devozione e la fede. Il tabernacolo non era solo una struttura fisica, ma un simbolo della presenza di Dio tra il suo popolo. Allo stesso modo, anche noi siamo chiamati ad applicare questi principi nella costruzione della Chiesa, che è il tempio di Dio. Come Israele nel deserto, anche noi possiamo sperimentare come Dio provveda a tutte le nostre necessità e ci inviti a far parte del suo piano. La generosità, il sostegno reciproco e l'unità sono testimonianze vive della nostra fede in Cristo, attraverso le quali possiamo portare luce e benedizione in questo mondo.
(Nachrichten aus Israel, marzo 2025/5785 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Sondaggio Israele: il 70% degli israeliani non si fida del Governo Netanyahu
di Sarah G. Frankl
TEL AVIV – Secondo un sondaggio andato in onda su Channel 12, alla domanda se gli israeliani si fidano dell’attuale governo Netanyahu, il 70% degli intervistati ha risposto di no, rispetto al 27% che ha detto di sì. Anche tra gli elettori della coalizione, solo il 51% ha detto di fidarsi del governo, rispetto al 36% che ha detto di non fidarsi.
Alla domanda su quale impatto avrà il bilancio approvato questa settimana dalla coalizione sulle tasche degli israeliani, il 54% degli intervistati ha risposto che danneggerà la loro situazione finanziaria personale, il 20% ha detto che non avrà un impatto e solo il 7% ha detto che migliorerà la loro posizione.
Alla domanda su chi sia più interessato al governo – gli israeliani ultraortodossi e altri settori affiliati alla coalizione o l’intera opinione pubblica – solo il 24% degli intervistati ha risposto la seconda, mentre il 66% dell’opinione pubblica ha risposto i primi gruppi.
Alla domanda sulla legge di revisione del sistema giudiziario che il governo sta avanzando, solo il 34% degli intervistati ha detto di sostenerla, rispetto al 50% che ha detto di non volerla e al 16% che ha detto di non essere sicuro.
Alla domanda su chi sia più adatto a ricoprire il ruolo di primo ministro, il 35% degli intervistati ha risposto Benjamin Netanyahu, contro il 26% che ha indicato il presidente dell’opposizione Yair Lapid mentre il 33% ha indicato nessuno dei due.
Quando Netanyahu è stato messo a confronto con il presidente di Unità Nazionale Benny Gantz, il primo ha ricevuto il 34%, rispetto al secondo, che ha ricevuto il 26% – una cifra particolarmente bassa per Gantz, che da tempo è in vantaggio su Lapid. Il 35% degli intervistati ha dichiarato che né Netanyahu né Gantz sono adatti a ricoprire il ruolo di premier.
Il numero due di Unità Nazionale, Gadi Eisenkot, è andato leggermente meglio contro Netanyahu, ricevendo il 29% e facendo scendere la categoria “nessuno dei due” al 29%.
Se confrontato con il capo dei Democratici di sinistra Yair Golan, Netanyahu ha ricevuto il 37%, rispetto al 21% del primo, mentre il 37% non ha detto nessuno dei due.
L’ex primo ministro Naftali Bennett è l’unico politico che ha ottenuto risultati migliori di Netanyahu in un testa a testa, ricevendo il 38%, rispetto al 31% dell’attuale premier, mentre il 24% degli intervistati ha detto che nessuno dei due è adatto a governare.
(Rights Reporter, 29 marzo 2025)
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“Se rifiutate la mano tesa, la risposta sarà ferma”: svelata la lettera di Trump a Khamenei
"È giunto il momento di lasciarci alle spalle l'ostilità e di aprire una nuova pagina di cooperazione e di rispetto reciproco. Oggi abbiamo davanti a noi un'opportunità storica”.
La lettera inviata dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei è stata rivelata per la prima volta sabato mattina da Sky News Arabia. Nella missiva, Trump esprime il desiderio di avviare negoziati, formulando però un chiaro avvertimento: “Se rifiutate la mano tesa e scegliete la strada dell'escalation e del sostegno alle organizzazioni terroristiche, vi avverto di una risposta rapida e determinata”.
Il Presidente degli Stati Uniti inizia la sua lettera con un appello alla comprensione tra le due nazioni: “Scrivo questa lettera con l'obiettivo di aprire nuovi orizzonti per le nostre relazioni, lontano dagli anni di conflitti, incomprensioni e inutili scontri a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni”.
“È giunto il momento di lasciarci alle spalle l'ostilità e di aprire una nuova pagina di cooperazione e di rispetto reciproco. Oggi abbiamo un'opportunità storica davanti a noi”, ha proseguito, prima di chiarire che gli Stati Uniti ‘non resteranno inerti di fronte alle minacce del vostro regime contro il nostro popolo o i nostri alleati’.
Trump ha sottolineato la sua disponibilità ad avviare negoziati: “Se siete pronti a negoziare, lo siamo anche noi. Ma se continuerete a ignorare le richieste del mondo, la storia testimonierà che avete perso un'eccellente opportunità”.
La lettera è stata inviata dalla Casa Bianca circa tre settimane fa, in un contesto di crescenti tensioni con l'Iran. Teheran ha risposto formalmente all'inizio di questa settimana, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi.
Il Presidente degli Stati Uniti ha ribadito ieri la sua posizione in una dichiarazione sulla questione del nucleare iraniano. “La mia preferenza è quella di andare d'accordo con l'Iran, ma se non lo facciamo, accadranno cose molto brutte”, ha avvertito.
In questo contesto di tensione, recenti immagini satellitari confermano che gli Stati Uniti hanno schierato bombardieri stealth dell'Aeronautica Militare nell'Oceano Indiano, vicino all'Iran e allo Yemen. La presenza di queste armi nella regione di Diego Garcia segnala un potenziale cambiamento nella postura militare statunitense nell'area indo-pacifica.
(i24, 29 marzo 2025)
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Israele e il paradosso della felicità: perché è tra i Paesi più felici al mondo?
Il segreto? Resilienza e comunità. Se c’è una cosa che gli israeliani sanno fare bene, è adattarsi e non perdere mai la speranza. Vivere in un contesto complesso ha sviluppato in loro una capacità unica di affrontare le difficoltà. E non solo sopravvivere, ma trovare momenti di gioia anche nei periodi peggiori. Non è un caso che Israele sia al quinto posto al mondo per supporto sociale. Qui, se hai un problema, non sei mai davvero solo. Dopo ogni crisi, la solidarietà cresce.
di Marina Gersony
Israele è uno dei Paesi più felici del pianeta. Da non credere, vero? Eppure, nonostante il conflitto in corso, le tensioni politiche, un contesto geopolitico complicato e le tragedie che hanno colpito le famiglie, gli israeliani sorridono decisamente più di tanti europei e americani. Tanto da classificarsi come ottava nazione più felice nel sondaggio globale, in netta controtendenza rispetto agli Stati Uniti che sono al 24° posto. Ma com’è possibile che un Paese costantemente sotto pressione riesca a essere così in alto nella classifica? Come si misura la felicità? Le risposte sono meno ovvie di quanto sembra.
Il World Happiness Report 2025, che ogni anno misura il benessere delle nazioni, non si basa su semplici interviste a persone di buon umore. Il livello di felicità viene calcolato tenendo conto di sei fattori: reddito (più soldi, più serenità… almeno fino a un certo punto); salute e aspettativa di vita; supporto sociale e fiducia (avere qualcuno su cui contare); libertà personale; assenza di corruzione; generosità (sì, aiutare gli altri rende più felici).
Ora, osservando questi parametri, è chiaro che Israele ha qualcosa di speciale. Il 2022, prima dell’attacco di Hamas, è stato l’anno migliore per Israele, classificandosi al secondo posto. Nel 2023 era al 21° posto (un calo drammatico dovuto alla controversia interna derivante dalla riforma giudiziaria promossa dall’attuale governo israeliano, alla guerra scatenata da Hamas e alle dimensioni assunte dal conflitto armato); nel 2024 è salito al 7°, nel 2025 è previsto all’8°. Un’ascesa notevole, soprattutto considerando le sfide che il Paese affronta.
Ma cosa c’è dietro questa felicità? Il segreto? Resilienza e comunità. Se c’è una cosa che gli israeliani sanno fare bene, è adattarsi e non perdere mai la speranza. Definiti come noto “sabras” o fichi d’india, nessun altra espressione riflette il carattere tipico degli israeliani nati in Eretz Israel: possono sembrare diretti, schietti e talvolta bruschi, ma sono anche calorosi, leali e generosi.
Vivere in un contesto complesso ha sviluppato in loro una capacità unica di affrontare le difficoltà. E non solo sopravvivere, ma trovare momenti di gioia anche nei periodi peggiori. Non è un caso che Israele sia al quinto posto al mondo per supporto sociale. Qui, se hai un problema, non sei mai davvero solo. Dopo ogni crisi, la solidarietà cresce: le persone si aiutano tra loro, il volontariato aumenta, le donazioni fioccano. C’è un senso di appartenenza che in molti altri Paesi si è perso. Lo si è visto dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, con migliaia di persone in fila per donare il sangue o volontari che preparavano pasti per i soldati, pacchi per gli sfollati o andavano a lavorare nei kibbutzim colpiti.
Secondo uno studio dell’Università di Tel Aviv, nei momenti difficili l’empatia sociale in Israele sale alle stelle. Come hanno sottolineato in modi diversi numerosi pensatori e filosofi, le difficoltà comuni rafforzano i legami all’interno della comunità, favorendo la solidarietà e il benessere collettivo, dove famiglia e tradizione rappresentano i veri pilastri di questo equilibrio. Se chiedi a un israeliano qual è la cosa più importante nella sua vita, quasi sempre ti risponderà: la mishpacha, la famiglia. Mentre in molti Paesi occidentali si parla di crisi dei rapporti familiari, in Israele i legami restano forti e profondi. Un modo per ritrovare equilibrio, rafforzare i legami e sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Non a caso, secondo il Jerusalem Institute for Policy Research, il 78% degli israeliani considera la famiglia la principale fonte di felicità. Ma la felicità, qui, ha un significato diverso rispetto ad altre parti del mondo. Non è l’assenza di problemi, ma la capacità di affrontarli. Il concetto di Tikun Olam – di “riparare il mondo” – è profondamente radicato nella cultura israeliana. L’idea di fondo è semplice: anche nei momenti più difficili, c’è sempre qualcosa che si può fare per migliorare la propria vita e quella della comunità.
E poi c’è il servizio militare. Anche se può sembrare un’esperienza dura, crea legami fortissimi tra i giovani. «Nel momento in cui sai di poter contare sugli altri, affronti la vita in modo diverso», spiega la sociologa Anat Fanti dell’Università Bar-Ilan.
Felici nonostante tutto, Israele ci insegna che la felicità non è solo una questione di comfort o stabilità. È la forza di un gruppo, il supporto degli amici e della famiglia, la resilienza che nasce dalle difficoltà. In molti Paesi, la felicità è vista come qualcosa da raggiungere individualmente. In Israele, è un’esperienza collettiva.
In termini di libertà, tuttavia, gli israeliani hanno classificato il loro paese all’87° posto su circa 130 paesi studiati, mentre in termini di corruzione è visto solo come il 32° posto più corrotto. In termini di disuguaglianza, ha ottenuto il 15° punteggio più alto, dove un punteggio più alto significa meno disuguaglianza.
(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2025)
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Bufera su Conte: lo sdegno della comunità ebraica e della politica per le sue dichiarazioni
di Luca Spizzichino
Le recenti dichiarazioni di Giuseppe Conte, in cui chiede agli ebrei di dissociarsi da Israele, hanno suscitato un’ondata di polemiche e indignazione, in particolare da parte delle comunità ebraiche di Roma e Milano e di numerosi esponenti politici, che hanno definito le affermazioni del leader del M5S discriminatorie e potenzialmente antisemite.
Già nei giorni scorsi la dichiarazione di Conte era stata definita “oscena” dal direttore di ‘Shalom’ Ariela Piattelli, che in un editoriale ha ricordato come richieste simili in passato abbiano contribuito ad alimentare un clima antisemita.
Il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Victor Fadlun, ha reagito con fermezza in una lettera indirizzata al direttore de ‘Il Foglio’: “Non siamo qui per dissociarci da Israele. Israele è la nostra carne, la nostra storia, il nostro respiro. Non ci dissociamo, non ci discolpiamo, non ci nascondiamo. Non siamo colpevoli in quanto ebrei”. Fadlun ha poi ricordato l’appello di Conte sia una “replica inquietante di quel ‘Davide, discolpati’ che Rosellina Balbi denunciava su ‘Repubblica’ nel luglio 1982, dopo che un corteo sindacale scaraventò una bara davanti alla sinagoga di Roma per protestare contro le azioni del governo Begin in Libano. Pochi mesi dopo, il Tempio Maggiore fu teatro di un attentato terroristico, in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché. “Allora il dito era puntato su Israele. Oggi è quello di Conte, che abusa del termine ‘sterminio’, lo scandisce e lo cuce alla bandiera di Israele davanti alle telecamere.”
Sul medesimo tono si è espresso Walker Meghnagi, presidente della Comunità Ebraica di Milano, dichiarandosi “esterrefatto” dalle parole di Conte e definendole “razziste e anticostituzionali”. Meghnagi ha inoltre lanciato un appello al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché intervenga ufficialmente sulla questione.
Anche dal mondo politico si sono levate dure critiche. Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan, ha accusato Conte di aver compiuto “un atto di razzismo”, ricordando che la definizione di antisemitismo adottata dal governo Conte stesso stabilisce che attribuire agli ebrei la responsabilità per le azioni di Israele costituisce una forma di antisemitismo. Maria Stella Gelmini, esponente di Noi Moderati, ha messo in guardia contro il rischio che la manifestazione pacifista del 5 aprile si trasformi in un “raduno antisemita”. Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, ha criticato aspramente Conte con un post su X: “Ci si chiede cosa sia l’antisemitismo. Per esempio, pensare che tutti gli ebrei italiani siano prima di tutto ebrei, una categoria. Poi, forse, eventualmente, anche degli italiani”.
(Shalom, 28 marzo 2025)
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Il cretinismo antisemita contagia Conte, l’appello agli “amici ebrei” del politico neopacifista assetato di voti
Manipolazione e negazione della verità
di Michele Magno
Il conflitto in Medio Oriente è ormai diventato – non solo in Italia – una specie di porto delle nebbie, in cui i figli delle vittime della Shoah sono ritenuti responsabili del massacro di un altro popolo. La semplice comparazione è ignobile, ma la sua percezione è diffusa. Da ultimo, ci ha pensato Giuseppe Conte ad accodarsi al “cretinismo antisemita” (spero a sua insaputa), con l’appello agli “amici ebrei” affinché condannino lo “sterminio” dei palestinesi.
La verità è che almeno dal 1982 – anno dell’invasione del Libano – la memoria dell’Olocausto si è scontrata con difficoltà crescenti. Anche perché, nell’antropologia del sacrificio, la vittima deve sempre apparire innocente. Lo Stato israeliano non è innocente, l’ebreo di Israele non è innocente, perché hanno osato difendersi e combattere per la loro sopravvivenza. E fin qui, per fortuna, con successo.
Ma dal 7 ottobre 2023 il proprio diritto a esistere è stato di nuovo messo in discussione, questa volta dai macellai di Hamas e dai suoi burattinai, a cui forse non dispiace che Gaza venga rasa al suolo per proclamare la “guerra santa” contro gli infedeli. Chi non ha perso il senno sa che da oltre mezzo secolo la questione israelo-palestinese provoca non una critica (lecita) delle politiche dei suoi governi, bensì la sua delegittimazione come Stato. Come se non bastasse, l’identificazione di sempre più ampi settori della diaspora con Israele ha steso il tappeto a un nuovo antiebraismo, non riconducibile né alla tradizione antigiudaica cristiana né all’antisemitismo razziale.
Manipolazione e negazione della verità, cioè di fatti accertati e provati, sono procedure caratteristiche della propaganda contro gli ebrei. La contrapposizione tra l’Europa cristiano-ariana e l’ebraismo rappresentava il centro della storia del mondo e giustificava la “funzione di salvezza” della missione del Führer. Per i negazionisti della sinistra radicale, eredi delle derive ideologiche dell’antimperialismo occidentale, tutti i regimi politici del Novecento (dalla democrazia liberale al fascismo) sono stati varianti di un unico dominio totalitario. E non da ora questo verdetto aberrante viene emesso contro l’unica democrazia che esiste nel Medio Oriente. Oggi ne possiamo vedere tutte le tragiche conseguenze culturali e morali, appunto, anche nelle dichiarazioni di un leader politico neopacifista assetato di voti.
(Il Riformista, 29 marzo 2025)
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Razzi dal Libano sul nord di Israele. Immediata risposta di Gerusalemme
di Sarah G. Frankl
Questa mattina presto almeno due razzi sono stati lanciati dal Libano meridionale verso il nord di Israele. Secondo l’IDF uno dei razzi è stato intercettato dal sistema Iron Dome in quanto potenzialmente diretto su un centro abitato, mentre l’altro è caduto in uno spazio aperto.
Questo è il secondo attacco dal Libano nell’ultima settimana, dopo i tre razzi lanciati su Metula il 22 marzo.
Quasi immediata la risposta israeliana. Caccia dell’aviazione di Gerusalemme hanno bombardato nella zona di Nabatieh, nel Libano meridionale. Più nello specifico hanno colpito le aree di periferia di Qaaqaait al-Jisr e la città di Khiam.
In un commento di pochi minuti fa il ministro della Difesa israeliano Israel Katz avverte che “il destino di Kiryat Shmona è lo stesso di Beirut”, in un’apparente minaccia alla capitale libanese.
Afferma che senza la pace nelle comunità del confine settentrionale di Israele, “non ci sarà pace nemmeno a Beirut”.
“Il governo libanese ha la responsabilità diretta di qualsiasi attacco alla Galilea”, accusa. “Garantiremo la sicurezza dei residenti della Galilea e agiremo con forza contro qualsiasi minaccia”.
(Rights Reporter, 28 marzo 2025)
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A Gaza terzo giorno di rivolta palestinese. «Hamas vada via, qui c’è l’inferno».
I jihadisti reprimono le proteste, Israele valuta la tregua offerta tramite l'Egitto. Un volo Ita devia la rotta per i missili degli Huthi
di Stefano Piazza
Ieri a Gaza, per il terzo giorno consecutivo, centinaia di palestinesi anti Hamas hanno nuovamente manifestato contro il gruppo jihadista. Stavolta hanno anche lanciato un messaggio alle persone in tutto il mondo che sostengono Hamas invece che loro. In uno dei tanti video che circolano in rete si vede un uomo disperato che grida davanti alle telecamere: «Vieni a vivere l'inferno che stiamo sopportando, poi potrai parlare». Le proteste di ieri sono state interrotte dall'inizio di un intenso bombardamento, del quale i manifestanti sono stati avvisati per tempo. Tra coloro che si sentono in sintonia con Hamas, oltre ai tanti pro Pal, sembra esserci anche il deputato Riccardo Ricciardi (Mss), che ha letto in Parlamento le ultime volontà di Hossam Shabat, un terrorista di Hamas che ha preso parte al massacro del 7 ottobre 2023; l'onorevole lo ha fatto come se parlasse del Mahatma Gandhi.
Tornando alle proteste nella Striscia di Gaza, Hamas sta facendo di tutto per soffocarle; mercoledì i miliziani sono intervenuti per disperdere una manifestazione nei pressi dell'ospedale indonesiano a Beit Lahia e alcuni manifestati sono stati picchiati. Ora si attende la vendetta sugli organizzatori delle proteste. Come vi abbiamo raccontato ieri, tutto avviene senza che l'emittente qatarina al-Jazeera dedichi un solo servizio alle proteste contro Hamas, perché ciò disturberebbe la Fratellanza musulmana, della quale Hamas è il braccio armato. Sui canali Telegram e gli altri social, Hamas sta provando a screditare le proteste, affermando che i manifestanti sarebbero «degli attori pagati dal Mossad. Chi c'è davvero dietro i tumulti? Prima di tutto, la disperazione di una popolazione portata allo stremo da Hamas, che ha rifiutato ogni accordo e che continua a tenere i 59 ostaggi israeliani (tra vivi e morti) nei tunnel usando la popolazione civile come scudo. Poi c'è sicuramente l'Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas, che da mesi chiede ad Hamas di lasciare il potere, ma su questo nessuno si illude più. Ieri, i clan delle province meridionali di Gaza hanno annunciato il ritiro del loro sostegno all'organizzazione islamista, intimandole di non reprimere le proteste pacifiche.
La guerra intanto prosegue: ieri mattina Hamas ha annunciato che il suo portavoce, Abdul Latif al-Qanou, è stato eliminato in un attacco israeliano a Jabalia, nella Striscia di Gaza settentrionale. AI-Qanou è colui che la notte del 18 ottobre 2023 divulgò la notizia secondo la quale, alle 18.59 di quella sera, Israele aveva bombardato l'ospedale al-Ahli di Gaza «facendo oltre 500 morti". Da qual momento iniziò quella campagna d'odio che dura ancora oggi contro Israele. Giorni dopo le prove mostrarono che invece si trattava di un missile difettoso lanciato dalla Jihad islamica, che fece 20 morti, ma il danno, in termini di immagine, è stato enorme, al punto che ancora oggi c'è chi ha il coraggio di parlare di «vicenda controversa».
Sempre nella giornata di ieri, secondo quanto riportato dal quotidiano libanese L'Orìent - Le Jour, tre appartenenti a Hezbollah sono stati inceneriti da un drone israeliano mentre si trovavano su un auto nell'area di Yohmor el-Chakìf nella regione di Nabatiye, nel Sud del Libano.
Nonostante le recenti operazioni militari condotte dagli Stati Uniti in Yemen - al centro dell'ormai noto chatgate» - gli Huthi continuano a ostacolare la sicurezza di rotte aeree e marittime nel Medio Oriente, tanto che, ieri, il volo Ita Airways AZ806, partito da Roma Fiumicino e diretto a Tel Aviv, ha dovuto deviare la rotta verso il mare a causa del lancio di due missili balistici provenienti dallo Yemen. Il velivolo è poi atterrato «in tutta sicurezza». Nel primo pomeriggio, le sirene d'allarme hanno risuonato in tutto l'aeroporto di Tel Aviv e in altre zone del Paese, in seguito al lancio di un missile partito dallo Yemen. L'esercito ha fatto sapere che entrambi i missili sono stati intercettati prima che potessero oltrepassare il confine israeliano. «Due missili lanciati dallo Yemen sono stati intercettati prima di entrare nel nostro spazio aereo. Le sirene sono scattate in linea con le procedure previste», ha reso noto l'Idf.
A fronte della situazione in Medio Oriente, le sigle sindacali Filt Cgil, Uiltrasporti e Anpac hanno inviato una richiesta formale alla Airways per un confronto immediato «in merito alla direttrice Tel Aviv e alla possibilità di una sospensione temporanea delle operazioni su quella tratta».
Infine, fonti della sicurezza hanno riferito a Reuters che Israele avrebbe dato segnali favorevoli a una nuova proposta per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza avanzata dall'Egitto, uno dei principali mediatori nei colloqui. Il piano includerebbe una fase di transizione, e - secondo alcune fonti - prevederebbe il rilascio da parte di Hamas di cinque ostaggi israeliani a cadenza settimanale.
(La Verità, 28 marzo 2025)
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Le proteste anti-Hamas a Gaza
di Seth Mandel
I palestinesi di Gaza stanno imparando a proprie spese che non hanno nemico più grande sulla scena mondiale degli antisionisti occidentali.
Beh, forse il Qatar. Chiamiamolo pareggio.
L’altro ieri, un palestinese trentaduenne di nome Ibrahim è andato a fare la spesa nel centro di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, e si è imbattuto in una scena straordinaria: centinaia di abitanti di Gaza stavano marciando per protestare contro Hamas. Così si è unito a loro. Il messaggio dei manifestanti a Hamas era semplice: andatevene da Gaza e non tornate più.
I
l New York Times riporta con adorabile onestà: “I gazani, almeno pubblicamente, tendono a incolpare Israele per gran parte della morte, della distruzione e della fame che la guerra ha portato. Ma almeno alcuni ritengono anche Hamas responsabile per avere iniziato il conflitto guidando l’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele, rapendo 251 persone a Gaza e continuando a combattere piuttosto che rinunciare al proprio potere in cambio di un cessate il fuoco”.
Per quanto possa essere difficile da credere, è vero: i cittadini di Gaza non sono stati completamente onesti in pubblico. C’è una ragione per questo. Per fare un solo esempio, Amin Abed è stato quasi picchiato a morte con dei martelli per aver criticato Hamas. Abed è stato salvato dagli astanti, quindi presumibilmente, l’intenzione era quella di finirlo. Durante il cessate il fuoco, i membri di Hamas si sono vantati di avere giustiziato dei “collaboratori” e si sono filmati mentre sparavano ai civili.
Ecco cosa rende le proteste ancora più significative. Protestare contro Hamas in pubblico significa mettere a repentaglio la propria vita. Ciò è particolarmente vero perché le proteste erano destinate a essere filmate, per fare arrivare il messaggio al mondo. Il motivo per cui il mondo ha bisogno di sentire quel messaggio è che gli occidentali sono stati gli strumenti di propaganda volontari di Hamas. Le proteste nei campus non sono “pro-palestinesi”, sono pro-Hamas, e la gente di Gaza è vittima di Hamas. Ciò significa che il movimento di protesta antisionista in tutto il mondo si schiera oggettivamente contro le vittime e i civili di Gaza.
È vero ciò che dicono: i sinistrorsi occidentali sono disposti a combattere Israele fino all’ultimo palestinese. Gli attivisti agiati di Morningside Heights invocano la “resistenza” perché non attribuiscono alcun valore alle vite di ebrei o arabi, israeliani o palestinesi. Si illudono anche di credere a cose che i cittadini di Gaza non possono permettersi di credere, ad esempio che Israele distrugga in modo sconsiderato gli edifici residenziali perché gli piace farlo. In realtà, i cittadini di Gaza sanno che Hamas costruisce ingressi ai tunnel del terrore nelle case dei civili perché è stato fatto nelle loro abitazioni. Non è l’IDF a nascondere le bombe all’interno degli animali di peluche nelle camerette dei bambini palestinesi insieme a una telecamera per sapere quando fare esplodere quell’orsacchiotto del terrore. I cittadini di Gaza sanno che le loro case sarebbero ancora in piedi se non ci fosse Hamas; è davvero così semplice.
Ecco perché i cittadini di Gaza stanno dicendo esattamente la stessa cosa che hanno detto il governo israeliano e il governo degli Stati Uniti. Nelle parole di un uomo di Beit Lahiya: “Se Hamas non se ne va, la prossima guerra sarà solo questione di tempo”.
Il punto chiave non è esplicitato: anche i cittadini di Gaza sanno che non è Israele a desiderare la guerra, ma Hamas. Se i palestinesi di Gaza non cadono nell’equivalenza morale tra Hamas e Israele, che scusa hanno gli americani?
La risposta è nessuna. Nessuno, da nessuna parte, ha una scusa per tentare di equiparare Hamas e Israele. E nell’istante in cui un palestinese a Gaza ha la minima possibilità di essere onesto, lo dice chiaramente. L’esistenza di Israele non necessita della guerra; quella di Hamas sì.
Durante le proteste ci sono state anche lamentele in merito ad al Jazeera, la televisione di propaganda del Qatar. Il Qatar sponsorizza Hamas e veste i terroristi con gilet da giornalisti rendendo quasi impossibile distinguere Hamas da chiunque altro. I cittadini di Gaza non lo apprezzano, e non apprezzano le bugie diffuse in tutto il mondo dalla piattaforma di al Jazeera. Quelle bugie, dopotutto, condannano a morte i cittadini di Gaza di tutti i giorni. (Forse Steve Witkoff può parlare con i suoi amici qatarioti, che ha subissato di elogi per il loro presunto desiderio di pace.)
Chiunque affermi di lamentarsi delle tragiche condizioni di Gaza e tuttavia sostenga la continua esistenza di Hamas sta contribuendo e aggravando la miseria palestinese nella Striscia di Gaza. Questo è un raro punto di accordo tra israeliani e palestinesi. La connessione tra Hamas e la devastante guerra a Gaza è la stessa della connessione tra gravità e caduta di oggetti. La differenza è che nel caso di Hamas, il problema può essere risolto.
(L'informale, 28 marzo 2025)
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Un documentario mostra il puro odio verso Israele nelle università d'élite
Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, gli studenti americani sono esplosi in un puro odio verso Israele. Un documentario fa capire che il gruppo terroristico ha lavorato per molti anni al fine di manipolare l'immagine di Israele in Occidente.
di Jörn Schumacher
Il documentario “8 ottobre” è proiettato nei cinema degli Stati Uniti dal 14 marzo. Il documentario fa luce sull'aumento dell'antisemitismo nelle università statunitensi, nei social media e nelle strade dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023. Una richiesta di Israelnetz di ottenere una copia del film per una recensione non ha avuto risposta. Non si sa se il film sarà mai tradotto in tedesco.
La regista del film, Wendy Sachs, ha intervistato quasi due dozzine di persone sugli indicibili disordini negli Stati Uniti. Tra gli intervistati figurano leader ebrei, analisti politici, accademici, autori, attori e studenti.
Nel documentario sono presenti, tra gli altri, il deputato democratico statunitense Ritchie Torres, l'attrice israeliana Noa Tishby, l'attrice americana Debra Messing e il regista Michael Rapaport. Parleranno di antisemitismo anche Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei membri fondatori di Hamas, la politica statunitense Kirsten Gillibrand e Shai Davidai, assistente israeliano di amministrazione aziendale alla Columbia Business School. Quest'ultimo è diventato famoso per la sua difesa a favore di Israele e contro le occupazioni pro-palestinesi del campus della Columbia University di New York nel 2024.
Si può vedere anche Sheryl Sandberg, l'ex co-CEO di “Meta” (ex Facebook). Nel giugno 2022 ha annunciato che in autunno si sarebbe dimessa dal ruolo di co-CEO per dedicare più tempo alla sua fondazione. L'anno scorso, la Sandberg ha realizzato “Screams Before Silence”, un documentario sulla violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre.
• Indignazione per le vittime che si ribellano
Le immagini degli accampamenti di protesta davanti agli edifici universitari hanno fatto il giro del mondo. Erano manifestazioni a sostegno dei palestinesi durante il conflitto tra Israele e l'islamico palestinese Hamas. Il limite dell’aperto antisemitismo è stato superato più volte.
Subito dopo il massacro, queste manifestazioni studentesche sono state organizzate per opporsi a Israele, anche se non se ne sapeva molto. Nelle prime ore dell'8 ottobre, 34 gruppi studenteschi dell'Università di Harvard hanno firmato una dichiarazione in cui ritenevano “il regime israeliano responsabile di tutte le violenze”.
Dan Senor, autore di “Start-Up Nation” e conduttore di podcast, riassume la situazione nel filmato come segue: “I terroristi di Hamas erano ancora nelle comunità del sud di Israele. Si combatteva ancora. Israele continuava a contare il numero di morti, mutilati, stuprati e rapiti. E c'era una protesta contro Israele a Times Square. L'indignazione non era contro coloro che massacravano gli ebrei, ma contro gli ebrei che resistevano al massacro”.
Gli studenti ebrei hanno denunciato molestie in diversi college e i professori della Ivy League hanno espresso gioia per l'uccisione degli ebrei il 7 ottobre. Lorenzo Vidino, direttore del programma sull'estremismo della George Washington University, afferma: “Abbiamo assistito a proteste che esaltavano le azioni della ‘resistenza’, che è una specie di parola in codice per Hamas. È stato chiaro fin dall'inizio che c'era un gruppo di persone a livello nazionale che promuoveva una narrativa a favore di Hamas”.
Vidino presenta le prove di una riunione del 1993 di 25 leader di Hamas a Filadelfia, registrata dall'FBI. I partecipanti hanno delineato un piano per “infiltrarsi nei media, nelle università e nei centri di ricerca americani”. Secondo Vidino, “hanno discusso principalmente su come ritrarre le attività di Hamas e renderle appetibili agli americani”.
• “Il mondo intero ha perso la testa”
Come riporta l'“Hollywood Reporter”, Sachs ha iniziato a progettare il suo film un anno dopo gli attacchi nel sud di Israele, ma nessun partner di distribuzione voleva finanziarlo. Gli studios a cui si è rivolta le hanno detto che il film piaceva, ma che non vedevano grandi opportunità di guadagno. La Sachs ha quindi finanziato il film con donazioni. È stato raccolto un budget di 2 milioni di dollari USA.
La regista ha dichiarato all'Hollywood Reporter che quando ha visto le proteste contro Israele nelle università americane d'élite ha pensato: “Il mondo intero ha perso la testa”. Le è sembrata “la versione moderna della Notte dei cristalli”. È rimasta scioccata dal fatto che il Congresso, i gruppi per i diritti delle donne e l'intera Hollywood siano rimasti in silenzio. La regista sottolinea: “Ci sono molte cose che la gente non sa su Israele, soprattutto i giovani. Su Israele, sulla storia ebraica”.
Nell'intervista, Noa Tishby racconta di aver vissuto in America per 20 anni, ma di essere accolta con grande diffidenza quando dice di provenire da Israele. Negli ultimi anni, l'Occidente è stato inondato da una massiccia ondata di propaganda su Israele.
Il “Jerusalem Post” definisce il film “completo, ben strutturato e convincente”. “Il documentario mostra in modo esauriente quanto sia diffuso l'antisemitismo e come sia stato promosso da Hamas”.
Giudizio della rivista “Variety”: “Questo film informativo attira l'attenzione su una questione importante”. Tuttavia, il recensore sottolinea che l'argomento del film è “unilaterale”: “La reazione di Israele agli attacchi è menzionata solo di sfuggita”. Tuttavia, il film “vale la pena di essere visto, se non altro per capire cos'è l'antisemitismo, quali sono i limiti della libertà di espressione, perché la retorica contro gli ebrei è così odiosa e perché i presidenti delle università d'élite si sono dimessi o sono stati licenziati dopo le proteste pro-palestinesi”.
(Israelnetz, 28 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In Usa, un quarto degli adulti cresciuti ebrei non si identificano più come ebrei
Il rapporto si concentra sul fenomeno del “cambiare religione” in tutto il mondo e si basa su dati ottenuti da quasi 37.000 americani e oltre 41.000 individui in altri 35 Paesi, tra cui Israele. Negli Stati Uniti, solo il 76% degli intervistati che hanno affermato di essere cresciuti ebrei si identificano ancora come tali. Del restante 24%, il 17% ora si descrive come non affiliato, il 2% come cristiano e l’1% come musulmano.
di Nina Prenda
Secondo un recente studio dell’istituto di ricerca Pew Reserch Center, quasi un adulto statunitense su quattro che è stato cresciuto come ebreo non si identifica più come tale, ha dimostrato un rapporto pubblicato mercoledì 26 marzo 2025.
Il rapporto si concentra sul fenomeno del “cambiare religione” in tutto il mondo e si basa su dati ottenuti da quasi 37.000 americani e oltre 41.000 individui in altri 35 Paesi, tra cui Israele. Lo studio offre informazioni significative sull’identità religiosa e l’affiliazione nel XXI secolo.
“Il motivo per cui abbiamo scelto il termine ‘cambio religioso’ invece di ‘conversione’ è perché il cambiamento può avvenire in più direzioni”, ha detto Kirsten Lesage, autrice principale del rapporto, al Times of Israel in un’intervista telefonica. “Una persona può passare da un gruppo religioso a un altro, come dal cristianesimo al buddismo, ma potrebbe anche significare passare da una religione a nessuna religione, e questo include chiunque si identifichi come ateo, agnostico o niente in particolare”.
Lo studio ha dedicato un capitolo al passaggio religioso dentro e fuori dall’ebraismo, attingendo ai dati raccolti negli Stati Uniti e in Israele, dove, secondo il rapporto, circa l’80% degli ebrei del mondo vive. “Ci sono due motivi per cui abbiamo incluso un intero capitolo sull’ebraismo”, ha detto l’autrice Kirsten Lesage. “In primo luogo, avevamo un Paese, Israele, dove la maggioranza della popolazione è di religione ebraica. In secondo luogo, eravamo davvero interessati a guardare al cambio religioso in alcune delle principali religioni mondiali. Abbiamo intenzionalmente cercato di coprirne il maggior numero possibile. Siamo stati in grado di includere il cristianesimo, l’islam, l’induismo, il buddismo, l’ebraismo e i religiosi non affiliati”.
Nel complesso, Lesage ha evidenziato che l’ebraismo come gruppo religioso ha un alto tasso di ritenzione (significa che di tutte le persone che affermano di essere cresciute in un particolare gruppo religioso, la percentuale si descrive ancora come appartenenti a quel determinato gruppo religioso dove è cresciuta). Il cristianesimo, al contrario, è descritto nel rapporto come il gruppo con il più alto rapporto tra le persone che lasciano e quelle che si uniscono, nella maggior parte dei Paesi toccati dall’intervista.
Per quanto concerne l’ebraismo, le situazioni negli Stati Uniti e in Israele sono emerse come significativamente diverse.
Negli Stati Uniti, solo il 76% degli intervistati che hanno affermato di essere cresciuti ebrei si identificano ancora come tali. Del restante 24%, il 17% ora si descrive come non affiliato, il 2% come cristiano e l’1% come musulmano.
Le domande chiave poste agli intervistati erano quale fosse la loro religione attuale (se presente) e se pensavano a quando erano bambini in quale religione fossero cresciuti (e se ancora presente).
“Le persone potrebbero identificarsi solo come culturalmente ebraiche o etnicamente ebraiche”, ha detto l’autrice del rapporto. In Israele, il 100% degli intervistati – 591 adulti intervistati faccia a faccia nella primavera del 2024 – ha dichiarato di essere stati cresciuti e ancora identificati come ebrei. “Naturalmente, del 100%, stiamo arrotondando all’intero più vicino”, ha detto Lesage. “Non significa necessariamente che ogni singola persona in Israele che è stata cresciuta come ebrea si consideri ancora ebrea oggi”.
Di tutti gli intervistati che si sono identificati come attualmente ebrei, solo l’1% in Israele ha dichiarato di non essere cresciuto come tale. Negli Stati Uniti, il 14% della popolazione ebraica è convertito, tra cui il 7% che è stato cresciuto come cristiano e il 6% che è stato cresciuto religiosamente non affiliato.
I ricercatori hanno anche documentato l’affiliazione della popolazione ebraica israeliana a diversi gruppi ebraici, in particolare Haredim (ultra-ortodossi), datiim leumim (religiosi nazionalisti), masortim (tradizionalisti) e hilonim (secolarizzati). Oltre un ebreo israeliano su cinque – circa il 22% – ha dichiarato di essere cresciuto in un gruppo ebraico diverso da quello con cui si identificano oggi. Inoltre, gli israeliani più anziani (dai 50 anni in su) avevano maggiori probabilità rispetto agli individui sotto i 35 anni di aver cambiato gruppo religioso (33% contro 8%).
Complessivamente, oltre 9 israeliani su 10 cresciuti laici continuano a identificarsi come tali in età adulta. Al contrario, solo il 60% di coloro che sono cresciuti come Datiim Leumi o Masortim hanno mantenuto la loro identità infantile (a causa delle limitazioni delle dimensioni del campione, i ricercatori non hanno potuto analizzare i tassi di ritenzione per coloro che hanno allevato Haredi separatamente).
In futuro, l’istituto di ricerca Pew rilascerà ulteriori risultati relativi alle pratiche religiose che hanno indagato mentre conducevano il sondaggio in Israele. “Abbiamo posto ulteriori domande su diverse credenze e pratiche religiose, e in realtà stiamo lavorando su altri rapporti esaminando le risposte a quelle domande”, ha detto l’autrice della ricerca Lesage.
• Similitudini tra ebraismo ed Islam
Ci sono risultati simili tra ebrei e musulmani intervistati. L’istituto Pew ha anche intervistato la popolazione musulmana in Israele e negli Stati Uniti. Simile alla controparte ebraica, praticamente nessuno che sia cresciuto come musulmano in Israele è successivamente passato a un gruppo religioso diverso.
Questo era coerente con le ricerche sugli individui musulmani in altri Paesi. Secondo il rapporto, 13 dei 36 Paesi analizzati avevano campioni di musulmani di dimensioni sufficienti per consentire l’analisi del passaggio religioso dentro e fuori dall’Islam, compresi gli Stati Uniti, dove circa l’1% della popolazione si identifica come musulmana. Nel complesso, i ricercatori hanno documentato che solo una piccola frazione della popolazione adulta aveva lasciato o si era unita all’Islam nella maggior parte dei Paesi, mentre il 20% della popolazione musulmana negli Stati Uniti è convertita.
(Bet Magazine Mosaico, 28 marzo 2025)
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I soldi degli evangelici americani per portare gli ebrei in Israele. Così la terra promessa diventa un prodotto Usa
L'invito di Tel Aviv agli "olim" è quello di abitare le regioni di periferia - a nord e sud - in Cisgiordania. Un obiettivo sostenuto anche da gruppi di protestanti americani.
di Estefano Tamburrini
Tel Aviv potrebbe accogliere un milione di olim, ovvero di ebrei che da diverse parti del mondo emigrano in Israele, anche fra pochi anni. Il loro eventuale arrivo farebbe lievitare la popolazione israeliana di circa il 10%. La stima è stata data dal presidente dell’Agenzia ebraica Doron Almog, che tra le cause sottolinea l’aumento dell’antisemitismo a livello globale e la crescita della società israeliana nonostante la guerra su più fronti. L’Agenzia offre tutela, orientamento e reti di appoggio agli aspiranti olim. Ha facilitato il rientro di oltre 260mila persone dal 2010. Loro, i “nuovi arrivati”, discendono da madre ebrea o sono persone convertite all’ebraismo. Soltanto nel 2024 ne sono arrivati 32mila, di cui 11mila solo dagli Stati Uniti. Godono di uno status speciale una volta arrivati a destinazione: alloggio durante i primi mesi, assistenza sanitaria, sussidi, sconti fiscali e altri benefici. Elementi che rientrano nella cornice della Legge del ritorno approvata dal 1950 e che alcuni settori della Knesset vorrebbero riformare.
“Stiamo tornando a casa”, dice Benjamin Goldberg al fatto.it contestando il termine “trasferimento” per rivendicare una continuità “genealogica con il territorio israeliano”. A 27 anni ha abbandonato gli Usa nel nome dell’aliyah, cioè il rientro degli ebrei alla terra madre (che comprende anche i territori palestinesi). Ma a dire il vero l’aliyah, che ha origini settecentesche, ora si presenta come prodotto a stelle e strisce. E il suo main sponsor sono le Chiese evangeliche, anziché le diaspore (sempre più laiche, plurali, critiche). Basta citare il contributo di personalità come Yechiel Eckstein, dell’International Fellowship of Christian and Jews, che ogni anno dona 170 milioni per il ritorno degli olim. C’è poi una rete che si estende all’International Christian Embassy Jerusalem (Icej) parla di “nuova ondata” e promette di assistere “il maggior numero possibile di nuovi migranti in Israele“. Quello dell’ultradestra evangelica è quindi un sostegno “appassionato e inequivocabile”, per dirla con le parole di Ron Dermer, ministro degli affari strategici di Tel Aviv. Gli evangelici sono stati anche il primo gruppo incontrato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu durante la sua ultima visita in Usa, lo scorso febbraio. “Che il nostro meeting si svolga prima di quello con il presidente Trump e altre cariche è segno dell’amicizia storica che esiste tra Israele e i cristiani d’America”, ha allora commentato il pastore Jentezen Franklin.
Era presente anche John Hagee, fondatore di Cristiani uniti per Israele (Cui). L’organizzazione vanta dieci milioni di iscritti. “Il gigante del sionismo cristiano è sveglio”, ha commentato Hagee in vista del summit per il ventesimo anniversario che si terrà quest’estate a Washington, proprio a Capitol Hill. Parlando di “ordine divino”, Hagee dice di sostenere Israele perché “la Bibbia dice: benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà”. Già in passato lo stesso pastore si è riferito ad Adolf Hitler come “mandato da Dio” affinché il popolo ebreo raggiungesse la terra promessa. Gruppi come quello di Hagee sostengono la continuità tra l’antico Israele e l’attuale Stato nazione, che è il destinatario delle Scritture. L’aliyah è quindi il presupposto per la venuta del Messia. Tesi sostenuta anche dal controverso pastore Benny Hinn, tra i primi sponsor del turismo in Israele, che parla di Israele riferendosi anche a Gaza e Cisgiordania. Non mancano poi le piattaforme online dedicate a facilitare il ritorno delle comunità ebree: Return ministries e la rete Keren Hayesod supportano anche economicamente “il popolo eletto” affinché “possa rivedere la terra promessa“.
Oltre al sostegno finanziario, le piattaforme offrono corsi di formazione culturale e religiosa e consigli pratici per la vita quotidiana in terre israelo-palestinesi. L’invito di Tel Aviv agli olim è quello di abitare le regioni di periferia – a nord e sud – in Cisgiordania. A tale scopo i ministri per l’aliyah e l’integrazione Olif Sofer e per le finanze Bezalel Smotrich hanno varato, a metà febbraio, un piano finanziario da 19 milioni di dollari per le famiglie destinatarie. Nelle stesse settimane, la National Religious Broadcaster Convention e altri membri della Camera hanno sostenuto di opporsi “all’uso erroneo del termine West Bank per descrivere la terra biblica al cuore dell’Israele biblico” e ha chiesto all’amministrazione Usa di ribattezzare la regione “Giudea e Samaria”. Pretesa non più folle, dopo che Trump ha deciso di rinominare Golfo d’America in Golfo del Messico. Ma anche a seguito della revoca delle sanzioni applicate dal suo predecessore Joe Biden ai coloni in Cisgiordania, che sono oltre 500mila. L’ultradestra cristiana sostiene anche di “difendere l’integrità dello Stato ebraico e offrire assoluto supporto alla sovranità israeliana su Giudea e Samaria”. E il traguardo è quasi raggiunto. Basti pensare che nel 2024 Tel Aviv ha confiscato 23 chilometri quadrati di terra in Cisgiordania e demolito quasi 2mila unità abitative appartenenti a cittadini palestinesi per “assenza di permessi”, causando 4.527 sfollati e 612 vittime. I permessi non sono poi facili da ottenere, come testimonia il fondatore di Tent of Nations, Daoud Nassar, a ilfatto.it, che da quasi trentaquattro anni mantiene una battaglia legale “per evitare la confisca delle terre” da parte dell’amministrazione israeliana. Per Nassar l’alternativa è quella di “resistere, incanalare il dolore e trasformarlo in proposte positive”. E ancora: “Non bisogna sedersi a piangere, né abbonare. E nemmeno cedere alla violenza”.
Dall’ottobre 2023 a oggi nei territori occupati sono state costruite 20mila unità abitative ed è stata approvata la costruzione di altre 10mila. “La linea che distingue la violenza dei coloni da quella dello Stato si sta sbiadendo e prima o poi scomparirà”, ha detto l’alto commissario Onu per i diritti umani Volker Türk denunciando l’impunità che dilaga in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. L’Onu ritiene che il trasferimento della popolazione civile israeliana nei territori occupati equivalga a un crimine di guerra. Ma per Washington il volume dei sermoni è più alto della flebile voce del Palazzo di vetro. Almeno in termini di voti e soldi.
(il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2025)
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Israele elimina leader di Hamas e Hezbollah in due operazioni mirate
di Luca Spizzichino
Israele ha intensificato le operazioni nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale, colpendo diverse figure chiave di Hamas e Hezbollah, indebolendo ulteriormente la loro struttura di comando.
Mercoledì notte, un attacco aereo israeliano a Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza, ha ucciso Abdel Latif al-Qanou, definito uno dei portavoce di Hamas. La notizia è stata inizialmente riportata dall’agenzia di stampa Shehab, affiliata ad Hamas, e successivamente confermata dalla stessa organizzazione terroristica giovedì mattina.
Questo attacco rientra in una serie di operazioni mirate contro i vertici di Hamas, che hanno visto anche l’eliminazione di Ismail Barhoum e Salah al-Bardaweel, membri del consiglio politico del gruppo. Secondo fonti interne ad Hamas, su 20 membri dell’ufficio politico, 11 sarebbero stati uccisi dall’inizio del conflitto nel 2023.
Parallelamente, Israele ha colpito obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano. In un attacco con droni avvenuto nelle prime ore di giovedì, l’IDF ha eliminato Ahmed Adnan Bajija, comandante di battaglione delle forze d’élite Radwan. Bajija era responsabile di numerosi attacchi contro Israele e, anche durante il cessate il fuoco, avrebbe continuato a pianificare operazioni contro obiettivi israeliani. L’attacco, avvenuto nel villaggio di Derdghaiya, nel distretto di Tiro, ha distrutto completamente il veicolo del comandante, come documentato dalle immagini diffuse dall’IDF.
Sempre giovedì mattina, un altro raid aereo israeliano ha colpito un gruppo di operativi di Hezbollah nella zona di Yohmor, mentre stavano trasportando armi.
(Shalom, 27 marzo 2025)
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Manifestazioni a Gaza: Hamas evita la repressione diretta ma manovra per soffocare la rivolta
Hamas lancia razzi dalle zone in cui sono previste manifestazioni, nella speranza di provocare attacchi israeliani che disperderebbero i raduni.
Di fronte alle manifestazioni che si moltiplicano in Gaza, Hamas sta impiegando una serie di tattiche per contenere quelle che un funzionario israeliano ha definito “le più significative manifestazioni dall'inizio della guerra”. Il gruppo terroristico, visibilmente preoccupato, ha finora evitato la repressione diretta dei contestatori, temendo che una reazione violenta amplifichi il movimento di rivolta. Secondo fonti locali, Hamas ricorre piuttosto a metodi indiretti per soffocare la protesta.
Tra queste strategie vi è il coordinamento con il Jihad islamico per lanciare razzi dalle zone in cui sono previste manifestazioni, nella speranza di provocare attacchi israeliani che disperderebbero i raduni. Hamas mobilita anche i suoi “agenti di sicurezza” per intimidire i manifestanti e sollecita il sostegno dei capi dei clan influenti per delegittimare il movimento e reindirizzare la rabbia popolare contro Israele.
La tensione è aumentata di un livello all'ospedale Amal, dove è scoppiato uno scontro fisico tra la direzione della struttura e membri di Hamas, che minacciano rappresaglie contro coloro che tentano di allontanarli.
Le proteste, che coinvolgono diverse roccaforti tradizionali del movimento come Sajayia, Jabalia e Khan Younès, esprimono l'esasperazione per l'impennata dei prezzi, la carenza d'acqua e la mancanza di servizi essenziali. I manifestanti denunciano anche la catena Al-Jazeera, accusata di non presentare i loro raduni e di sostenere attivamente Hamas. Questa contestazione rappresenta una sfida senza precedenti per l'autorità del gruppo terroristico, la cui gestione della crisi è ora apertamente messa in discussione da una parte della popolazione di Gaza.
(i24, 27 marzo 2025)
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Gli ebrei norvegesi nascondono la loro identità per ricevere cure mediche
In una lettera alle autorità sanitarie, i rappresentanti ebrei mettono in guardia da una tendenza estremamente preoccupante che non si verificava “dalla seconda guerra mondiale”.
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La sinagoga di Oslo. La Norvegia è ancora sicura per gli ebrei?
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In Norvegia si sta verificando una tendenza estremamente preoccupante: i membri della comunità ebraica temono di ricorrere all'assistenza medica a causa del crescente sentimento anti-israeliano tra gli operatori sanitari. In una lettera senza precedenti alle autorità sanitarie, i leader ebraici avvertono che i membri della comunità nascondono la propria identità nelle strutture mediche, una situazione che non si verificava “dalla seconda guerra mondiale”.
La lettera firmata da Marius Gaarder, presidente della comunità ebraica di Oslo, e John Arne Moen, della comunità ebraica di Trondheim, è motivo di grande preoccupazione.
“Poco dopo il 7 ottobre 2023, diversi membri della comunità ebraica hanno espresso la loro preoccupazione per il fatto che si sentirebbero a disagio nel ricevere cure mediche e temono che non riceverebbero cure ottimali se si identificassero come ebrei, data la crescente mobilitazione anti israeliana in alcune parti del personale sanitario, delle strutture sanitarie e della comunità medica”, si legge nella lettera. ‘Questa è una situazione che non abbiamo vissuto dalla seconda guerra mondiale’, continua.
Il dottor Rolf Kirschner, un medico ebreo con 45 anni di esperienza nel sistema sanitario pubblico norvegese e membro dell'Ordine dei medici norvegese, ha definito questo fenomeno senza precedenti. “Le persone non osano indossare simboli ebraici come la stella di David durante gli esami e i pazienti ebrei temono che i loro nomi vengano pronunciati ad alta voce nelle sale d'attesa, preoccupati che il personale sanitario o altre persone possano scoprire che sono ebrei”, ha spiegato.
La situazione è peggiorata perché i pazienti si trovano di fronte a contesti politicamente carichi. “Alcuni pazienti ebrei si sono sentiti a disagio quando hanno trovato manifesti e opuscoli politici di professionisti medici che esprimevano il loro sostegno ai palestinesi, e hanno paura di lamentarsi per paura di reazioni negative da parte del personale medico da cui dipende la loro salute”, ha aggiunto Kirschner.
Pur riconoscendo il diritto alla libertà di espressione in Norvegia, Kirschner ritiene che certe manifestazioni politiche dovrebbero rimanere fuori dalle strutture mediche: “La lettera chiede ai servizi sanitari, alle organizzazioni competenti e al governo di garantire che gli ebrei si sentano a proprio agio negli ospedali e non abbiano paura di cercare assistenza medica o di nascondere la propria identità negli ospedali”.
La popolazione ebraica della Norvegia è piccola: a livello nazionale sono registrati circa 1.500 ebrei, 800 dei quali vivono a Oslo. Questa vulnerabilità è ulteriormente aggravata dalla forte posizione filopalestinese del governo norvegese. Kirschner riferisce che i membri della comunità hanno espresso il timore di ricevere cure di qualità inferiore a causa della solidarietà di varie associazioni professionali mediche con le cause palestinesi e gli appelli al boicottaggio di Israele.
Kirschner ha citato solo cinque o sei casi documentati in cui i pazienti hanno espresso queste preoccupazioni ai leader della comunità, ma ritiene che indichino un modello più ampio. Questi timori sono aumentati dopo la diffusione virale di un video in cui il personale ospedaliero australiano descrive come maltratta i pazienti israeliani. In risposta, Kirschner ha esortato le associazioni professionali ad agire: “I sindacati dovrebbero informare i propri membri che gli operatori sanitari devono rimanere neutrali sul posto di lavoro e non devono ostentare simboli politici. Dovrebbero chiarire che ai membri del sindacato è vietato partecipare a manifestazioni politiche sul posto di lavoro”.
Il ministro della Salute norvegese, Jan Christian Vestre, ha risposto alle preoccupazioni dicendo: “Tutti i pazienti dovrebbero sentirsi al sicuro quando vengono curati nel nostro sistema sanitario pubblico. Nessuno dovrebbe sentirsi a disagio o preoccupato quando riceve assistenza sanitaria e mi aspetto che tutti siano trattati con dignità”. Ha sottolineato che la creazione di ambienti inclusivi è ancora “una responsabilità locale delle istituzioni mediche”, che le autorità dovrebbero “prendere sul serio”. Anche il capo dell'associazione infermieristica ha riconosciuto queste preoccupazioni e ha promesso di affrontarle.
On Alpeleg, che vive in Israele e Norvegia da oltre trent'anni, colloca queste preoccupazioni in un contesto storico preoccupante: “Il sistema sanitario norvegese ha un passato e un presente problematici, senza dubbio influenzati dall'influenza politica. La Norvegia ha sostenuto i nazisti nella deportazione degli ebrei nei campi di sterminio ed è oggi l'unico paese occidentale che rifiuta di riconoscere l'organizzazione omicida Hamas come organizzazione terroristica. Come cittadino ebreo della Norvegia, sono profondamente preoccupato per l'influenza della politica sull'etica e la professionalità del sistema sanitario”.
(da Israel Hayom)
(Israel Heute, 27 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Per i giovani israeliani il servizio militare è una cosa ovvia
HANNOVER/BERLINO – Per Inbar (nome modificato) la questione del servizio militare, attualmente oggetto di accese discussioni in Germania, è sempre stata chiara: “Tutti quelli che mi circondano hanno svolto il servizio militare”, racconta l'israeliano di 24 anni. “Mia madre, mio padre, i miei nonni, zii, zie, proprio tutti. Per me non c'era dubbio che avrei fatto lo stesso”, dice lo studente di ingegneria elettrica che vive vicino a Tel Aviv. ‘Volevo restituire qualcosa al mio paese’.
Inbar non solo ha prestato servizio militare per due anni e mezzo nelle forze di difesa israeliane, ma si è anche impegnato per altri due anni. Oggi è tenente della riserva attiva e continua a prestare servizio. “Ciò significa che, anche se studio, devo partecipare più volte a esercitazioni durante il semestre ed essere costantemente pronto per un'operazione”, racconta. Inbar è quindi uno dei circa 470.000 riservisti dell'esercito israeliano. A questi si aggiungono circa 180.000 soldati attivi.
Lo studente considera il servizio militare come un contributo necessario alla protezione del suo paese. “Voglio proteggere il mio paese e i suoi valori. In caso di attacco da parte di un altro paese o di un'organizzazione terroristica, nessuno ci aiuterà se non noi stessi”.
Il giovane atletico ha trovato l'addestramento nell'esercito molto duro. “Mi ha portato ai miei limiti, sia mentalmente che fisicamente”. Ma l'esercito lo ha anche fatto maturare, trasmettendogli valori come la fiducia, l'umanità e la responsabilità. “Ho ricevuto molto, molto di più di quanto abbia investito”.
• Alto valore nella società
Rispetto ad altri Paesi, l'esercito ha un'importanza molto elevata nella società israeliana, afferma l'esperto di Medio Oriente Peter Lintl della Stiftung Wissenschaft und Politik di Berlino. Ciò è dovuto al fatto che Israele è un Paese piccolo e circondato da nemici potenziali o reali. “Esiste una sorta di contratto sociale secondo il quale l'esercito protegge gli israeliani e in cambio le famiglie mandano i loro figli al servizio militare”, spiega Lintl.
Tuttavia, in Israele solo il 50% circa dei giovani adulti viene arruolato per il servizio militare al termine della scuola: le donne per due anni, gli uomini dalla fine del 2024 per tre anni. Sono esclusi gli ebrei ultraortodossi e gli arabi israeliani. Secondo il politologo, questi ultimi sono molto critici nei confronti dell'esercito. Il servizio militare obbligatorio recentemente introdotto per gli ultraortodossi non viene di fatto applicato.
Inoltre, secondo Lintl, circa il 10% di una classe di età non presta servizio militare per motivi psicologici. Non esiste un servizio civile generale. Secondo Amnesty International, gli obiettori di coscienza rischiano la reclusione. Chi si rifiuta di prestare servizio per motivi pacifisti può essere esentato.
Inbar vede gli obiettori di coscienza in modo critico. Anche chi non vuole combattere può trovare molti compiti nell'esercito, ad esempio nella logistica o nell'assistenza sanitaria. Secondo il tenente, gli obiettori dovrebbero almeno adempiere a una sorta di obbligo di servizio civile.
• Crescere tra minacce e guerre
Per suo cugino Lasse (nome modificato), che è cresciuto e vive in Bassa Sassonia, il tema della coscrizione obbligatoria è lontano, nonostante la possibile minaccia della Russia. Il ventunenne studia relazioni pubbliche. Non ritiene che la coscrizione obbligatoria abbia senso in Germania. Piuttosto, la Bundeswehr dovrebbe diventare più attraente per i volontari.
La situazione in Israele è completamente diversa: “Gli israeliani crescono con la minaccia e la guerra”. Ecco perché il servizio militare obbligatorio è giusto e importante. Da giovane, ha anche pensato per un attimo di prestare servizio volontario nell'esercito israeliano. “So da Inbar e da altri che, per quanto strano possa sembrare ad alcuni, si sono divertiti nell'esercito”.
Il cugino Inbar è consapevole che anche lui, come soldato, rischia la vita. Ora, durante la guerra di Gaza, ci pensa più spesso: “Non voglio morire, non voglio vedere morire i miei futuri figli”. Ma in caso di emergenza, sacrificherebbe la sua vita per difendere Israele e i suoi cittadini, dice con enfasi: “Devi essere pronto a proteggere ciò che ami”.
(Israelnetz, 27 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l'antisemitismo ha soprattutto un colore
Alla Conferenza del governo israeliano partecipano leader europei di destra. Gli avversari la snobbano
di Fiamma Nirenstein
Israele, ovvero il ministro per la Diaspora Amichai Chikli, ha invitato i rappresentanti politici e culturali di tutto il mondo a una Conferenza internazionale per combattere l'antisemitismo. È fondamentale per Israele essere alla testa di questa battaglia: da anni ormai l'odio antisemita è la base della vasta congrega woke in cui gli «oppressi» combattono gli «oppressori» ovvero: vogliono distruggere Israele. L'odio più antico si è trasformato in piazza e nelle università in moderna contestazione di tutti i valori giudaico-cristiani dell'Occidente. L'antisemitismo politico di massa è stata la sorpresa seguita alla strage del 7 ottobre, ogni ebreo del mondo è minacciato. Israele invita sia i rappresentanti della sinistra che denunciano giustamente gli eredi dei nazifascisti sia quelli della destra che indicano anche nell'islamismo radicale una delle centrali più attive dell'antisemitismo. È sbagliato? Certo che no: tutti gli attacchi, i numeri, gli studi, indicano che la strada è quella di affrontare il fronte dell'odio per Israele nelle università e nelle piazze.
Ma una parte degli invitati, pochi giorni prima di oggi, giorno dell'incontro, si è tirata indietro. Il rifiuto viene da chi sostiene che gli antisemiti veri siano i rappresentanti della politica europea di destra, che gli invitati dunque siano odiosi antisemiti. Ma allora, si sarebbe dovuto discutere, accusare, chiedere. L'antisemitismo è una malattia professata, altrimenti non ha senso. Gli inviti a Gerusalemme sono stati larghi, se qualcuno voleva contestare la destra europea, non andando l'ha invece evitata compiendo un gesto di delegittimazione verso l'ospite, Israele. Perché mai? Fra gli invitati compaiono Jordan Bardella, presidente del Rn francese, successore di Marine Le Pen, a sua volta succeduta al padre Jean Marie, lui sì antisemita. Ma Marine ha ripetuto di rifiutare l'antisemitismo del vecchio fascista: fu lei a dire che «la Shoah è il maggiore scempio della storia». E il 29enne Bardella, che del fascismo ha sentito parlare dai nonni, ha detto che la sua scelta «è quella di impegno totale nella lotta contro l'antisemitismo». Ma la sua riabilitazione come quella di Vox, dei Democratici Svedesi, del partito olandese per la Libertà, hanno allontanato molti ebrei: il presidente dell'European Jewish Congress Ariel Muzicant, l'Unione delle Comunità italiane e di quelle francesi, il capo rabbino d'Inghilterra e altre organizzazioni. Dato che la loro accusa è una presunzione di colpevolezza retroattiva, si manifesta nel presente soltanto contro Netanyahu.
Quando sulla Stampa una storica scrive che l'estrema destra e gli evangelici si sono avvicinati «all'Israele dei governi razzisti e antidemocratici come quello di Netanyahu» e per questo dice che a quella conferenza non si vuole riconoscere il vero antisemitismo ma «il presunto antisemitismo dell'Onu e delle Corti di Giustizia», le sue osservazioni non consentono neppure una risposta sensata, sono vuote. La democrazia in Israele splende. Alla Conferenza non è andato nemmeno Bernard Henry Levy: descrive le sue ragioni in un pezzo così autoreferenziato, da risultare un'autoaccusa a carattere psicoanalitico. Creda gentile professore, la nobiltà del sionismo consiste proprio nella battaglia per cui cerca di salvare la nazione ebraica in una dolorosa guerra di sopravvivenza.
«Kill the jews» nelle piazze americane e europee l'hanno gridato soprattutto schiere di propal di sinistra, tutta la costruzione di un'Israele immaginata come colonialista, razzista, genocida. Il terrorismo ha accompagnato l'antisemitismo. Questa è la storia. Con cautela Israele è arrivata a capire che a destra ormai ci sono anche molti amici. Anche Bardella.
(La Stampa, 27 marzo 2025)
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Le proteste palestinesi faranno cadere Hamas?
Le proteste contro il brutale regime di Hamas nel nord della Striscia di Gaza sono in aumento, segnalando un nuovo punto di svolta nella Striscia.
di Aviel Schneider
Oggi è un giorno cruciale. Ieri, numerosi video dalla Striscia di Gaza sono diventati virali sui social network e sui media, rivelando una svolta nella popolazione civile palestinese: I palestinesi protestano ad alta voce e apertamente davanti alle telecamere in funzione contro il loro stesso regime, Hamas.
Centinaia di residenti di Beit Lahia sono scesi in strada al tramonto e altre proteste sono state segnalate dopo il tramonto nel campo profughi di Jabalia e a Khan Yunis. Nella maggior parte dei video, i palestinesi gridano “Barra Hamas, Barra Hamas - Hamas fuori”. I palestinesi affermano davanti alle telecamere che Hamas ha rovinato la Striscia di Gaza e che vogliono vivere. Non gli importa chi li governa, sudanesi o altri, ma non Hamas.
Gli abitanti di Gaza, che almeno pubblicamente tendono ad accusare Israele per la morte, la distruzione e la fame che la guerra ha portato, hanno manifestato per la prima volta in una rara protesta contro Hamas. Dopo 17 mesi di guerra, il mondo si è abituato a raccontare le manifestazioni pro-palestinesi e i media internazionali di solito incolpano Israele per le conseguenze della guerra a Gaza. Ma dopo che ieri centinaia di palestinesi hanno manifestato per la prima volta contro Hamas, non sono mancate le reazioni internazionali. Le proteste sono state riportate anche nel mondo arabo e il giornale saudita Asharq Al-Awsat, pubblicato a Londra, ha persino dedicato la prima pagina alla questione. Il titolo recitava: “Gaza: le manifestazioni contro Hamas chiedono la fine della guerra”, con immagini delle proteste di ieri in basso.
L'emittente saudita Al-Hadath Al-Arabiya ha pubblicato nuovi filmati da Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, in cui i palestinesi gridano esplicitamente: “Hamas Barra, Hamas Barra, Hamas fuori, Hamas fuori”. I palestinesi alzano anche la bandiera bianca, segno di rinuncia.
In altri video si sentono i palestinesi dire che non vogliono più l'emittente qatariota Al-Jazeera nella Striscia di Gaza. Anche i palestinesi della Striscia di Gaza hanno capito che Al-Jazeera, che è vicina ad Hamas, non fa altro che aggiungere benzina al fuoco e non riporta la verità. Le reti e i media sauditi hanno riportato le proteste palestinesi contro Hamas, mentre l'emittente del Qatar non lo ha fatto.
Diversi canali arabi hanno anche pubblicato video delle proteste, diffusi da palestinesi della Striscia di Gaza. Un alto rappresentante palestinese è stato citato ieri dall'emittente saudita Al-Hadath per dire che le proteste si sarebbero probabilmente diffuse. Il giornalista egiziano Ahmed Moussa ha dichiarato nel suo programma sul canale egiziano Sada El-Balad che “le richieste dei residenti della Striscia di Gaza riflettono la sofferenza quotidiana del popolo palestinese di fronte alla crescente crisi”. Ha invitato Hamas ad ascoltare le voci del popolo e a cessare il fuoco per “salvare ciò che resta della Striscia di Gaza”.
La BBC, che ha assunto una linea chiaramente anti-Israele sin dallo scoppio della guerra, ha riferito della “più grande protesta contro Hamas dall'inizio della guerra, con centinaia di persone scese in strada per chiedere all'organizzazione di abbandonare il potere”. L'emittente britannica, che non descrive Hamas come un'organizzazione terroristica, ha poi riferito: “Combattenti di Hamas armati e mascherati, alcuni con pistole, altri con manganelli, hanno violentemente interrotto la manifestazione e attaccato alcuni dei manifestanti”.
L'agenzia di stampa di Gaza Shehab, legata ad Hamas, sta cercando di spingere una campagna online per etichettare chiunque pubblichi contenuti critici nei confronti del governo come parte della “rete mediatica del portavoce dell'esercito israeliano in arabo Avichay Adraee”. Shehab ha completamente ignorato le proteste di ieri nel nord della Striscia di Gaza e non ne ha dato notizia. Ora, però, l'agenzia sta cercando di prendere provvedimenti contro le proteste - senza nemmeno menzionare che hanno avuto luogo.
Cosa succederà ora? L'aspetto più notevole delle proteste finora è stato il loro semplice verificarsi - e il fatto che le grida contro Hamas sono state fatte apertamente e con grande coraggio, e a volto scoperto, è una novità. Ora dobbiamo vedere se le proteste pubbliche sono state solo un episodio isolato o se continueranno anche oggi. Le proteste prenderanno slancio e coinvolgeranno sempre più persone nella Striscia di Gaza? Quanti gazesi sono davvero abbastanza coraggiosi da prendere una posizione pubblica contro Hamas? Altre regioni della Striscia di Gaza si uniranno alle proteste? Hamas riuscirà a reprimere violentemente le manifestazioni - e sa esattamente come? I manifestanti riusciranno a mantenere il movimento?
Come l’esperienza dimostra, le probabilità di successo delle manifestazioni nella Striscia di Gaza sono molto basse. È possibile che Hamas intraprenda un'azione brutale contro le prossime proteste, e brutale significa sparare ai propri fratelli e sorelle. In che misura Fatah sarà coinvolta nel rovesciamento del regime di Hamas?
L'inizio delle proteste è stato senza dubbio un buon indicatore dell'efficacia della pressione israeliana sulla Striscia di Gaza, ma è ancora troppo presto per parlare di una “primavera araba a Gaza” che potrebbe portare al tanto atteso rovesciamento di Hamas. La pressione militare di Israele sulla Striscia di Gaza deve continuare con tutte le sue forze. In nessun caso Israele dovrebbe abbracciare o sostenere apertamente le proteste palestinesi a Gaza. Naturalmente, Hamas sta cercando di minare la legittimità delle proteste presentandole come una cooperazione con Israele.
(Israel Heute, 26 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Palestinesi contro Hamas: “vogliamo mangiare”
di Eugenio Vittorio
Le proteste continuano. Un evento più unico che raro, quello che ieri ha visto scendere in piazza diversi palestinesi per protestare contro il regime di Hamas. Come una miccia esplosa per autocombustione, così anche oggi decine di residenti del quartiere Shejaiya di Gaza city stanno partecipando a una protesta contro il governo dei terroristi, che da quasi 20 anni è al potere nella Striscia. I dimostranti hanno bruciato pneumatici e gridato Hamas fuori, stop guerra. Ieri le proteste si sono tenute nel campo profughi di Jabalia e a Khan Yunis. In passato (e ancora oggi) manifestazioni di questo tipo sono state estremamente rare.
Ma gli sfollati di Gaza non ce la fanno più, mai prima d’ora hanno patito una guerra così lunga e le successive privazioni, il freddo, la fame e il buio. La rabbia si è consolidata (e direi quasi autogestita) una settimana dopo la ripresa dei combattimenti nelle proteste scoppiate ieri. Decine di video postati sui social da account palestinesi hanno mostrato i cittadini di Gaza che urlano e chiedono la pace una volta per tutte. O almeno, la fine della guerra. Su Telegram e X ha preso a diffondersi fin dalla mattina di ieri l’appello alla protesta in un messaggio: “Tutta la popolazione di Gaza si rivolga ai propri anziani, ai notabili affinché tutti scendano in piazza domani per chiedere la fine della guerra e del governo della milizia di Hamas”. “Non so chi abbia organizzato la protesta”, ha detto all’Afp Mohammed, un manifestante che ha rifiutato di fornire il suo cognome per paura di rappresaglie, “ho partecipato per mandare un messaggio a nome del popolo: basta con la guerra”. Mohammed – il nome arabo del profeta Maometto, per chi volesse fare qualche parallelo – ha anche riferito di aver visto membri delle forze di sicurezza di Hamas in abiti civili interrompere la protesta. Come del resto mostrano i filmati postati nel pomeriggio da Beit Lahia, dove i manifestanti sono stati dispersi e inseguiti dai miliziani. Majdi, un altro ragazzo che ha preso parte alle proteste ha commentato che “la gente è stanca. Se Hamas lascia il potere a Gaza è la soluzione, perché Hamas non lascia il potere per proteggere il suo popolo?”, ha chiesto.
Il grido arrivato dal campo profughi di Jabalia, lascia poco all’immaginazione: “vogliamo mangiare”. Tra pneumatici bruciati, arrivano messaggi come “Risorgi, popolo, rompi la barriera della paura e dell’oppressione. Rivoltati”, ha scritto Mohammed su X, accusando duramente al Jazeera di essersi rifiutata di riprendere la rivolta. “La popolazione di Gaza smaschera i mercenari”, ha poi aggiunto. Nel frattempo i media della Striscia, legati a Hamas, stanno ignorando le manifestazioni, di cui non offrono alcuna copertura. L’inedita ondata di scontento degli sfollati invece non è passata inosservata in Cisgiordania, a Ramallah.
“Le manifestazioni nella Striscia di Gaza sono un grido dei residenti contro le politiche di Hamas”, ha dichiarato il consigliere del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, Mahmoud Al-Habash, alla tivù saudita al Hadath. Il leader palestinese ha precisato che la soluzione è ripristinare il controllo dell’Anp sulla Striscia. Ma probabilmente non è proprio questo che i manifestanti avrebbero in mente. “Dobbiamo concentrarci sulla rimozione di Hamas dal potere. Suggerisco all’organizzazione di ascoltare il popolo palestinese a Gaza”, ha sottolineato Habash, guardando al futuro dell’enclave, ma soprattutto, del suo partito.
(l'Opinione, 26 marzo 2025)
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Il mistero della ‘piramide’ rinvenuta nel deserto della Giudea
di Jacqueline Sermoneta
“Potrebbe essere una torre di guardia che sorvegliava un’importante rotta commerciale? Oppure un monumento funebre o commemorativo?”. Resta ancora un mistero per gli archeologi dell’Autorità israeliana per le Antichità (IAA) la funzione della monumentale struttura piramidale di 2.200 anni fa, rinvenuta a nord di Nahal Zohar, nel deserto della Giudea. Costruita durante il periodo ellenistico, sotto il dominio tolemaico, la struttura sorge su una più antica stazione di sosta.
Il sito ha già restituito una eccezionale serie di reperti storici: papiri scritti in greco, monete di bronzo dei Tolomei e di Antioco IV, armi, utensili in legno e tessuti conservati in modo ottimale grazie al clima desertico. Per questo è considerato “uno degli scavi archeologici più ricchi e intriganti mai scoperti nel deserto della Giudea. – hanno affermato i direttori degli scavi Matan Toledano, Eitan Klein e Amir Ganor – La struttura piramidale è enorme. Alta circa 6 metri, è costruita con pietre tagliate a mano, ciascuna del peso di centinaia di chili. Questo è un sito davvero sorprendente: ogni momento vengono fatte nuove scoperte”.
Il lavoro di scavo fa parte di un progetto più ampio, avviato otto anni fa dall’Autorità israeliana per le Antichità allo scopo di preservare i reperti archeologici dai saccheggi. Il team ha esplorato ben 180 chilometri di scogliere nel deserto, scoprendo circa 900 grotte e migliaia di reperti rari – rotoli, monete, utensili e papiri.
“Contrariamente alle precedenti ipotesi che facevano risalire questa struttura al periodo del Primo Tempio – hanno affermato i ricercatori – ora si pensa che sia stata costruita più tardi, durante il periodo ellenistico, quando la terra di Israele era sotto il dominio tolemaico. Non sappiamo ancora con certezza quale fosse lo scopo per il quale fu eretta. È un avvincente mistero storico”.
“L’indagine del deserto della Giudea è una delle operazioni archeologiche più importanti mai intraprese nella storia dello Stato di Israele – ha detto Eli Escusido, Direttore dell’IAA, invitando il pubblico a partecipare allo scavo – Le scoperte sono entusiasmanti ed emozionanti e il loro significato per la ricerca archeologica e storica è enorme”.
Lo scavo è un’iniziativa congiunta dell’Autorità per le Antichità di Israele e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, finanziata da diversi dipartimenti governativi.
(Shalom, 26 marzo 2025)
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Israele – La maggioranza approva il bilancio 2025
In una seduta tesa, il parlamento israeliano ha approvato in via definitiva la Legge di Bilancio per il 2025 con 66 voti favorevoli e 52 contrari. La manovra, da 755 miliardi di shekel (circa 189 miliardi di euro), assicura la sopravvivenza del governo di Benjamin Netanyahu, che sarebbe caduto senza il voto favorevole entro la scadenza del 31 marzo. La coalizione ha celebrato il via libera parlando di «vittoria responsabile», l’opposizione denuncia scelte miopi e tagli che colpiscono i cittadini più vulnerabili.
Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha difeso la legge, definendola «un bilancio di guerra e, con l’aiuto di Dio, il bilancio della vittoria». Secondo Smotrich, la manovra rappresenta una risposta necessaria all’emergenza nazionale, con misure che puntano a sostenere la Difesa, aiutare i riservisti e le loro famiglie, e garantire risorse alle imprese danneggiate dal conflitto. Il budget del ministero della Difesa per il 2025 è stato portato a circa 110 miliardi di shekel, rispetto ai 64 miliardi previsti per il 2024. Il secondo capitolo di spesa più rilevante è quello dell’Istruzione, con circa 92 miliardi di shekel.
Per il Financial Times, dietro l’apparente consolidamento del potere da parte di Netanyahu con l’approvazione del bilancio si cela una realtà più fragile: l’economia israeliana rimane sotto pressione a causa della guerra in corso e di una crisi istituzionale sempre più profonda. Il settore tecnologico, i sindacati e le amministrazioni locali hanno minacciato scioperi nel caso in cui il governo prosegua con il piano di rimuovere il capo dello Shin Bet e il procuratore generale, sfidando la Corte suprema. Le prossime settimane saranno cruciali, spiega il quotidiano economico, anche perché non è chiaro se l’esecutivo rispetterà le sentenze attese dal massimo organo giudiziario del Paese.
Anche il governatore della Banca di Israele, Amir Yaron, ha espresso perplessità sulla manovra, sottolineando come esista «spazio per ridurre spese che non contribuiscono a sufficienza al potenziale di crescita futura dell’economia». I critici sottolineano la decisione della coalizione di escludere dal bilancio i fondi previsti dalla cosiddetta “Legge Tkumah” per la ricostruzione delle comunità vicino a Gaza devastate il 7 ottobre, così come gli aiuti agli sfollati del nord.
Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha accusato il governo di disprezzare la classe media e di aver trasformato il budget in uno strumento di ricompensa politica. Nel suo intervento ha denunciato un sistema che toglie risorse a lavoratori e riservisti per finanziare settori che non contribuiscono né all’economia né alla sicurezza.
Critiche a cui il ministro delle Finanze ha replicato, dichiarando di aver elaborato il bilancio in collaborazione con le autorità locali, i sindacati e il settore imprenditoriale, e che si tratta di provvedimento volto «a rafforzare la crescita e mantenere la resilienza economica».
La coalizione si prepara a concentrare gli sforzi sulla discussa riforma giudiziaria. Un’iniziativa che promette nuove tensioni politiche, mentre la legge sulla leva militare, centrale per i partiti religiosi e al centro di un altro acceso dibattito, è ferma in Commissione Affari Esteri e Difesa, senza segnali di avanzamento.
(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2025)
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A Torino, un Purim internazionale per i giovani ebrei
È stato molto intenso l’International Purim Shabbaton tenutosi a Torino da venerdì 21 a domenica 23 marzo, e che ha radunato circa 170 giovani ebrei nella fascia d’età 18-35 anni, sia ebrei italiani o studenti stranieri residenti in Italia, ma anche ragazzi giunti apposta dall’estero, per un totale di oltre venti nazionalità diverse.
di Nathan Greppi
Entrando nei locali della comunità ebraica torinese, si capiva fin da subito che non era uno Shabbaton come gli altri: a confrontare le rispettive esperienze dell’ultimo periodo non erano solo ebrei italiani o studenti stranieri residenti in Italia, ma anche ragazzi giunti apposta dall’estero, per un totale di oltre venti nazionalità diverse, che hanno dato un tocco cosmopolita a tutto l’evento, e permesso che vi fosse una maggiore eterogeneità di esperienze da condividere per scambiare opinioni.
In sintesi, è stato molto intenso l’International Purim Shabbaton tenutosi a Torino da venerdì 21 a domenica 23 marzo, e che ha radunato circa 170 giovani ebrei nella fascia d’età 18-35 anni. Organizzato dall’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), l’evento ha visto come partner anche l’Unione degli Studenti Ebrei di Germania (JSUD), l’EUJS (European Union of Jewish Students), la NUIS (National Union of Israeli Students), l’Agenzia Ebraica, l’AJC (American Jewish Committee) e la Moishe House.
• Rompere il ghiaccio
Per dare inizio alle danze, venerdì pomeriggio la Moishe House ha organizzato un incontro dove i ragazzi potevano presentarsi e parlare un po’ di sé e delle loro vite, oltre a partecipare ad un quiz sulla storia degli ebrei in Italia. Dopo le prime attività ricreative, ci si è riuniti per accendere le candele di Shabbat, e dopo le preghiere di Minchà, Kabbalat Shabbat e Arvit i ragazzi hanno cenato tutti insieme nei locali della comunità. Più in generale, nel corso dell’evento chi voleva pregare ha sempre avuto un’occasione per farlo, sia per Shacharit la mattina che per Minchà e Arvit la sera.
• Dibattiti sull’attualità
Coloro che incarnano il futuro delle comunità ebraiche hanno avuto modo di confrontarsi sui temi più caldi del presente e puntare anche lo sguardo al passato, attraverso diversi dibattiti tenutisi in contemporanea sabato pomeriggio: Baruch Lampronti ha condotto una visita guidata della Sinagoga di Torino, illustrandone la storia e le peculiarità. Mentre la psicologa Ruth Mussi ha raccontato come si è evoluto, nel corso della storia, il ruolo della donna nell’ebraismo.
Passando dalla storia all’attualità, il rabbino capo di Torino Rav Ariel Finzi ha trattato la prospettiva ebraica sul rilascio degli ostaggi, sicuramente il tema che più di ogni altro oggi rappresenta una ferita aperta per gli ebrei in tutto il mondo. Più leggero, ma comunque di una certa importanza, il dibattito che ha visto confrontarsi tre esponenti del giornalismo ebraico giovanile, che hanno parlato del lavoro delle rispettive testate: David Di Segni per HaTikwa, organo di stampa dell’UGEI, Alexandra Krioukov per EDA, periodico della JSUD, e Ariela di Gioacchino per The Bridge, rivista in lingua inglese dell’EUJS. Un tema sentito è stato in particolare come queste realtà hanno reagito al 7 ottobre.
• Tra attivismo e divertimento
Siccome l’evento è stato organizzato per Purim, dopo la fine di Shabbat e la cena non poteva mancare la festa in maschera, dal titolo The enigma of Turin: Between Shadows and Wonders, tenutasi nella suggestiva cornice di Villa Sanquirico, nel cuore del capoluogo piemontese. Alla festa, oltre ad indossare i costumi e le maschere più svariate, i ragazzi hanno potuto ballare al ritmo dei grandi successi della musica italiana, israeliana e internazionale.
La mattina dopo, ancora stanchi dalla festa ma comunque reattivi, i ragazzi hanno fatto un giro a piedi alla scoperta di Torino e della sua storia. Al termine del tour, ognuno ha ripreso la strada di casa, portando con sé il ricordo di un fine settimana felice e carico di emozioni.
“Più di 170 ragazzi e ragazze da tutta Europa, e non solo, si sono incontrati in una delle città più suggestive del Bel Paese e che incarnava a pieno il tema scelto per le attività dello Shabbaton: ‘Tra Emancipazione e Liberazione’”, dichiara a Mosaico il presidente UGEI Luca Spizzichino. “Le discussioni di questi giorni ci hanno portato a una riflessione profonda su chi siamo oggi e sul nostro ruolo nella società civile come giovani ebrei italiani ed europei”.
(Bet Magazine Mosaico, 25 marzo 2025)
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Calcio – Italia e Israele ancora di fronte, come nel 2024
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Abbraccio a fine gara tra Luciano Spalletti e Ran Ben Shimon, allenatori rispettivamente di Italia e Israele
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Le strade calcistiche di Italia e Israele si sono incrociate l’ultima volta lo scorso anno, in Nations League. Nel primo incontro in campo neutro, nella gara “casalinga” d’Israele disputata il 6 settembre a Budapest, gli azzurri vinsero per 2 a 1. Imponendosi una seconda volta il 14 ottobre, allo stadio Friuli di Udine, con un più netto 4 a 1. Curiosamente, torneranno a incontrarsi con uno schema quasi identico nel 2025: l’8 settembre in Israele, il 14 ottobre in Italia. A prevederlo è il calendario del gruppo I di qualificazione al Mondiale del 2026, il girone al quale l’Italia è stata assegnata dopo l’eliminazione per mano della Germania nei quarti di finale di Nations League. Prima di incontrare Israele — dovesse essere ancora in corso la guerra, il match dell’8 settembre sarà verosimilmente giocato in campo neutro — l’Italia debutterà il 6 giugno in casa della Norvegia, forse l’unica reale antagonista per la conquista del primo posto che vale l’accesso diretto al Mondiale (dove l’Italia manca dal 2014). Poche sulla carta le possibilità per Israele che stasera, nell’ungherese Debrecen, sfiderà proprio la Norvegia. Entrambe le squadre hanno vinto all’esordio. Israele ha battuto 2 a 1 l’Estonia, mentre la Norvegia ha avuto la meglio della Moldavia per 5 a 0.
Negli scorsi mesi la federazione calcistica norvegese ha sostenuto l’istanza presentata da quella palestinese per sospendere Israele dalla Fifa, istanza ancora oggetto di approfondimento ai vertici del calcio mondiale. La presidente della federazione di Oslo, Lise Klaveness, in alcune dichiarazioni alla vigilia dell’incontro ha affermato: «Dobbiamo giocare, ma questo non significa che non sosteniamo i palestinesi, anzi. Sosteniamo la loro denuncia alla Fifa, ma boicottare la partita non è la mossa giusta». Alcuni calciatori norvegesi hanno rivolto critiche molto dure a Israele per il conflitto a Gaza. Erling Haaland, la star del team scandinavo, non si è invece espresso: «Non credo, come calciatore, di dovere dire la mia su questo argomento».
(moked, 25 marzo 2025)
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Il memoriale del Nova Festival attrae 7mila visitatori al giorno
di Michelle Zarfati

Il sito commemorativo per le vittime del Nova Festival creato dal KKL-JNF è diventato il luogo più visitato in Israele negli ultimi sei mesi, attirando circa 7mila visitatori al giorno che vogliono commemorare le vittime di quel terribile 7 ottobre 2023. Il sito presenta pilastri nel terreno che espongono le fotografie delle vittime insieme alle bandiere israeliane.
Meir Zohar, che ha perso la figlia Bar nel massacro, ha raccontato: “Come padre che ha perso la figlia durante il massacro del Nova, questo posto non è solo un luogo commemorativo per me e le altre famiglie in lutto, ma uno spazio in cui sentiamo che il nostro dolore è visto e ascoltato”. Il KKL-JNF ha intrapreso una missione davvero significativa: preservare la memoria delle vittime, rendere il sito accessibile e fornire alle famiglie un luogo dignitoso in cui entrare in contatto con i propri cari scomparsi. “Sono profondamente grato a tutti coloro che lavorano per garantire che questo posto rimanga così com’è, accessibile e degno, in modo che la storia delle vittime non venga mai dimenticata”, ha aggiunto Zohar.
Nelle discussioni con le famiglie e con l’obiettivo di rendere il sito più accessibile preservando al contempo la memoria delle vittime, il Keren Kayemeth LeIsrael Jewish National Fund (KKL-JNF) ha stanziato 4 milioni di shekel per migliorare il parcheggio di Re’im . I miglioramenti includono la costruzione di percorsi accessibili, servizi igienici, segnaletica durevole e appropriata, spazi educativi, un boschetto commemorativo e altro ancora. Yaniv Maimon, Direttore della Regione Meridionale del KKL-JNF e leader di questa iniziativa, ha aggiunto: “Siamo orgogliosi di svolgere un ruolo significativo in uno dei siti più visitati in Israele oggi. Questo luogo ha una grande importanza nazionale. Inoltre, molti membri del team Southern Region del KKL-JNF, responsabili della manutenzione del sito, sono stati personalmente colpiti dagli eventi del 7 ottobre, aggiungendo dunque le vicende personali al loro profondo impegno personale ed emotivo verso questo luogo”.
Ifat Ovadia-Luski, presidente del KKL-JNF, ha affermato che il Keren Kayemeth LeIsrael Jewish National Fund è stato al fianco delle famiglie colpite dal lutto fin dall’inizio, “migliorando e rendendo questo sito accessibile al pubblico, garantendo al contempo la dignitosa e rispettosa preservazione della memoria delle vittime: è per noi una missione morale e nazionale”.
L’organizzazione ha creato un luogo commemorativo aperto, ha piantato un boschetto insieme alle famiglie e ha ricostruito elementi chiave del festival, come il palco, il posto di comando, l’ambulanza e il container giallo: “Questo luogo non è solo un ricordo di ciò che è stato, è una testimonianza vivente della resilienza, dell’unione e del dolore dell’intera società israeliana”. Decine di migliaia di visitatori giungono al sito ogni settimana. La presidente sottolinea l’importanza del profondo bisogno del pubblico di ricordare e non dimenticare mai e che “questo non fa che rafforzare il nostro impegno a continuare a mantenere questo sito con l’onore che merita”.
(Shalom, 25 marzo 2025)
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Un altro Yad Vashem?
Quella mattina del 7 ottobre, i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma un’organizzata collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni e per la prima volta avveniva in Israele.
Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito, conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, quel risultato proprio non potevano immaginarselo.
Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina.
No, il memoriale di Nova Festival non sarà mai un altro Yad Vashem. M.C.
(Notizie su Israele, 25 marzo 2025)
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Quando la menzogna si fa sistema
L’odio per gli ebrei è l’impalcatura ideologica con cui intere civiltà giustificano i propri fallimenti, condannandosi all’autodistruzione.
di Levi Meir Clancy
L’odio per gli ebrei non è solo un pregiudizio delle persone. È un fallimento strutturale delle società.
Una società che crede che gli ebrei siano coloro che controllano le banche non costruirà mai un’economia stabile. Una società che crede che gli ebrei manipolino i media non svilupperà mai il libero pensiero. Una società che crede che gli ebrei stiano costantemente orchestrando tutte le guerre non comprenderà mai le vere dinamiche della guerra e della pace. Una società che crede che gli ebrei siano il nemico supremo non sfuggirà mai alla propria autodistruzione.
Questa non è solo una teoria. È uno schema coerente e verificabile.
La Germania nazista incanalò tutte le sue ansie economiche nell’odio per gli ebrei, finendo col precipitare nella propria rovina finanziaria e nella distruzione totale.
La Russia stalinista epurò i suoi intellettuali e leader ebrei, lasciando ai posteri un’eredità fatta di disfunzione e paranoia.
Il mondo arabo ha espulso le sue secolari comunità ebraiche ed è sprofondato nella sconfitta, nella discordia, nella dittatura.
Ora, nella nostra epoca attuale, in America alt-left e alt-right (sinistra e destra alternative, alias estremiste ndr) smerciano odio per gli ebrei attraverso selettività e disinformazione, col risultato di garantire che i loro movimenti rimangano intrappolati nelle allucinazioni anziché confrontarsi con la realtà.
L’odio per gli ebrei diventa l’impalcatura mediante cui intere civiltà giustificano i propri fallimenti. È così che acquisisce la sua intensità, la sua irrazionalità e la capacità di rimodellarsi per sopravvivere attraverso le generazioni.
Ovunque prenda piede, l’ossessione per il “controllo ebraico” non danneggia solo gli ebrei. Paralizza intere civiltà intente a riscrivere il passato, il presente e il futuro per adeguarsi alla menzogna.
Ecco perché i nazionalisti arabi insegnano che gli ebrei non hanno mai esercitato sovranità in Terra d’Israele, nonostante le schiaccianti prove del contrario.
Ecco perché americani frustrati ignorano i profughi ebrei dalle terre islamiche, mentre elevano gli arabi palestinesi al ruolo di vittime uniche e straordinarie.
Ecco perché persino la Shoah, meticolosamente documentata, viene ora distorta oltre ogni misura per descrivere, in sostanza, gli ebrei di oggi come aggressori anziché sopravvissuti.
Ciò che inizia come un pensiero cospirazionista diventa il fondamento di una visione politica del mondo. La menzogna si fa sistema.
Una società che vede gli ebrei come padroni dell’economia non si assumerà mai la responsabilità della propria crescita economica. La convinzione che gli ebrei manipolino la finanza globale consente a leader corrotti di sviare le accuse per i loro fallimenti. Epurano i loro cittadini più istruiti, limitano i commerci e giustificano politiche fallimentari dando la colpa a immaginari complotti ebraici.
Accusano lo stato ebraico di essere la fonte di ogni sofferenza, il che permette loro di non fare mai i conti con la corruzione, la dittatura e il settarismo nelle loro società.
Non è un caso se gli stati arabi che hanno espulso nel XX secolo oltre il novantanove percento dei loro cittadini ebrei, poi hanno subìto uno sbalorditivo declino economico e tecnologico.
Non è un caso se i paesi che oggi abbracciano sistematicamente l’odio per gli ebrei, dalla Repubblica Islamica dell’Iran alla Repubblica bolivariana del Venezuela, stanno collassando, mentre quelli che stabiliscono legami con lo stato di Israele, come gli Emirati Arabi Uniti, prosperano.
L’odio per gli ebrei non è solo una bancarotta morale. È un veleno. Un movimento che incolpa gli ebrei per i problemi globali non creerà mai nulla.
Una società che si impegna a distruggere gli ebrei, in tutto o in parte, si impegna inevitabilmente a distruggere se stessa.
La Germania nazista avrebbe potuto imporsi come un impero europeo. Invece, dedicò gran parte del suo sforzo bellico allo sterminio degli ebrei, anche quando ciò avveniva a costo di perdite militari. Risorse cruciali vennero sottratte allo sforzo bellico per mantenere i campi di sterminio. Pilastri dell’economia vennero sacrificati all’odio per gli ebrei, accelerando la sconfitta dell’Asse grazie alla tecnologia sviluppata dagli stessi ebrei che aveva esiliato.
Vediamo lo stesso schema in Egitto, dove proprietà e attività ebraiche esistono solo come ricordi fantasmatici di una comunità che esisteva solo pochi decenni fa.
E vediamo la Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo una delle nazioni islamiche più avanzate, sperperare decine di miliardi di dollari in Siria al solo scopo di picchiare ai confini dello stato ebraico.
L’odio per gli ebrei non si limita a frustrare coloro che lo coltivano. Li distrugge attivamente dall’interno.
Quando la Germania nazista cadde, non fu solo una sconfitta militare. Fu un crollo ideologico totale.
Quando l’Unione Sovietica è crollata, non ha solo perso la guerra fredda. Ha anche distrutto la credibilità di decenni di propaganda.
Quando diversi stati arabi iniziarono a normalizzare i rapporti con Israele, non si trattò solo di diplomazia. Fu il riconoscimento del fatto che l’ossessione pluridecennale per la distruzione degli ebrei non aveva portato da nessuna parte.
La domanda è: chi apprende dalla storia e chi si condanna a ripeterla?
L’odio per gli ebrei è suicida. Le società che lo rifiutano prosperano. Le società che lo abbracciano appassiscono.
Per secoli si è messo in conto che gli ebrei accettassero in silenzio la loro oppressione come vittime, collaboratori o spettatori passivi.
Ogni poche generazioni, i loro sforzi per l’autodifesa, l’autorappresentazione e l’autodeterminazione arrivavano quasi a ribaltare l’equazione. Quasi.
Poi finalmente il movimento sionista ha spinto questi sforzi oltre il punto di non ritorno.
La resilienza degli ebrei frantuma ogni predizione sulla loro fine. La sovranità ebraica contrasta ogni tentativo di distruzione. La sopravvivenza degli ebrei smaschera tutti i fallimenti di coloro che scommettono contro di loro.
Improvvisamente, noi ebrei non siamo più oggetti in balìa della storia: ne siamo gli attori, sostenuti anche dalla forza.
Non siamo una nota a piè di pagina: siamo la nostra stessa storia, sostenuti dalla verità.
(da Times of Israel, 15.3.25)
(israelnet.it, 24 marzo 2025)
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Ecco come nasce la recita delle quarte
di Anna Coen Di Segni
Giovanissima, appena diplomata, fui accompagnata da mia madre alla Scuola Polacco per “prendere confidenza con l’ambiente”. Erano i primi anni Sessanta, la scuola era nella “nuova sede” di Lungotevere Sanzio; mi pare che mia madre conoscesse la direttrice, l’anziana austera signora Ravenna, e qualche insegnante veterana: Emma Dell’Ariccia, Franca Nacamulli, Elisa Ascarelli. Io ero poco più di una bambina; non avevo ancora diciassette anni. La scuola mi sembrò subito bellissima: spazi grandi, aperti, terrazze su tutti i piani, un ambiente desueto rispetto alle scuole che avevo frequentato. Entrai per fare “tirocinio” all’inizio dell’anno scolastico, più incuriosita che intimidita. Respirai subito un’aria familiare; l’ambiente ebraico che frequentavo pochissimo e mi attraeva poiché ero in piena ricerca della mia identità si respirava in maniera inequivocabile; tutti si conoscevano ed erano imparentati, le custodi venivano chiamate dai bambini “zie”, la maestra “morà”; prima di iniziare la lezione i bambini recitavano lo Shemà con naturalezza e devozione. Non avevo mai frequentato altro che scuole comunali dove, durante la preghiera del mattino, mi riconoscevo solamente nell’amen finale che, sebbene pronunciato con un accento diverso, era l’unica parola che corrispondeva alle preghiere che sentivo al Tempio durante le feste. Sentire lo Shemà, che tutte le sere con mamma ripetevo nel mio letto, mi provocò subito una gioiosa sensazione di appartenenza. Ho imparato tanto nella mia carriera di insegnante alla Scuola Polacco: ho conquistato la mia agognata identità ebraica, completata con la frequenza assidua al Seminario Almagià, ho cominciato a capire un po’ del giudaico romanesco e, come tutti gli insegnanti, ho imparato tantissimo dai numerosi alunni ai quali ho cercato di insegnare in quaranta anni di servizio.
Ma la cosa più rilevante che ricordo è la storica irrinunciabile recita di Purim. Tutti gli anni, immancabilmente, la morà Enrica Dell’Ariccia e il morè Eliseo cominciavano a confabulare già dal mese di dicembre per scegliere l’argomento da prendere come spunto per far recitare i ragazzi delle quinte che raccontavano la storia della regina Ester, attualizzata e messa in scena imitando gli spettacoli del momento: una serie televisiva, un film per ragazzi, che servivano per trasformare in personaggi attuali, gli eroi protagonisti della nostra storia. La recita comprendeva sempre canti e cori con le musiche conosciute a cui venivano sostituite le parole e, il giorno di Purim, dopo aver adibito il salone con scenari costruiti dalle morot e dai ragazzi, scelti e creati sfondi e costumi, si andava in scena con grandissima emozione non solo dei protagonisti e degli insegnanti ma anche di genitori, zii, nonni e conoscenti che si assiepavano nel salone battendo le mani, commuovendosi e complimentandosi. Era sempre presente il Rabbino Capo che, oltre ad apprezzare quanto la recita servisse per approfondire e assimilare valori e messaggi della storia ebraica, mostrava di divertirsi anche lui. Il giorno successivo, Purim Shushan era la giornata di riposo più agognata dalle morot impegnate nella recita e sicuramente la più meritata dopo tanta fatica. Negli anni, quando per un breve periodo mi fu dato l’incarico di coordinatrice didattica, stabilimmo che la recita venisse fatta dalle classi quarte (tutte insieme) poiché la preparazione portava via molto tempo e le quinte classi dovevano affrontare l’esame finale del ciclo elementare. La cosa più difficile era sempre riuscire a coinvolgere tutti i bambini dando a tutti la sensazione di essere protagonisti, cosa non facile perché spesso le quarte comprendevano un totale di più di cento bambini. Quindi trovammo l’escamotage di far ricoprire lo stesso personaggio in scene diverse a bambini diversi delle varie classi in modo che ci fossero almeno quattro regine Vashtì, quattro Ester, quattro Mordechai e così via. Le altre classi poi non si esimevano certo dal fare la loro parte con una recita di classe ed assistevano alla recita ufficiale. I più piccoli con ammirazione per i compagni “grandi”, le quinte col rimpianto dell’anno precedente in cui erano state protagoniste, le terze con la certezza che l’anno prossimo sarebbe toccato a loro. Una tradizione che si è consolidata nel tempo e che resta tutt’ora punto cardine del percorso scolastico della Vittorio Polacco.
(Shalom, 18 marzo 2025)
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Regno Unito: il Parlamento pubblica un report completo e sconvolgente sulle atrocità del 7 ottobre
di Maia Principe
Un gruppo di legislatori britannici ha pubblicato un nuovo ed esauriente rapporto che documenta le atrocità dell’invasione del sud di Israele da parte dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas, avvenuta il 7 ottobre 2023, per stabilire una documentazione storica inconfutabile del massacro. La notizia, uscita sui media ebraici già settimana scorsa, è stata di fatto ignorata dai media occidentali.
“Lo scopo di commissionare il nostro rapporto è stato quello di descrivere gli eventi del 7 ottobre con chiarezza e meticolosa precisione, per garantire che non vengano mai dimenticati”, ha dichiarato Lord Andrew Roberts, un importante storico che ha presieduto lo studio di 318 pagine.
“La negazione dell’Olocausto ha impiegato alcuni anni per attecchire in alcune sacche della società, ma il 7 ottobre 2023 sono bastate poche ore per affermare che i massacri nel sud di Israele non hanno avuto luogo”, ha scritto Roberts nella prefazione del rapporto. “Hamas e i suoi alleati, sia in Medio Oriente che, altrettanto vergognosamente, in Occidente, hanno cercato di
negare le atrocità, nonostante il fatto ironico che molte delle prove dei massacri derivino da filmati di telecamere portate dagli stessi terroristi”.
“Il presente rapporto è stato redatto per contrastare tali opinioni perniciose e per fornire prove inconfutabili – per ora e per gli anni a venire – che quasi 1.200 persone innocenti sono state effettivamente uccise da Hamas e dai suoi alleati, molto spesso in scene di sadica barbarie che non si vedevano nella storia del mondo dal ratto di Nanchino del 1937”, ha continuato.
L’importante rapporto è stato prodotto dal
Gruppo parlamentare All-Party per il Regno Unito-Israele, un’alleanza informale di legislatori sia della Camera dei Comuni che della Camera dei Lord, attraverso un anno di ricerca e scrittura.
Tra le altre scoperte, il rapporto ha rivelato che durante l’assalto del 7 ottobre guidato da Hamas sono stati
uccisi più cittadini britannici (18) che in qualsiasi altro attacco terroristico straniero da quando Al Qaeda ha colpito gli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
Il rapporto ha anche fornito dettagli sulla
più giovane vittima del massacro, Naama Abu Rashed, che è stata colpita da un proiettile mentre era ancora nel grembo della madre e ha vissuto solo 14 ore dopo la nascita.
In totale, secondo il rapporto, il 7 ottobre 2023
circa 7.000 terroristi palestinesi guidati da Hamas hanno ucciso 1.182 persone, ne hanno ferite più di 4.000 e hanno rapito 251 ostaggi – 210 vivi e 41 morti al momento del rapimento.
“È stato il più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto e il più letale attacco terroristico pro capite, con poco più di un israeliano su 10.000 ucciso e il
terzo attacco terroristico più letale al mondo”, conclude lo studio.
Altri capitoli dello studio descrivono in dettaglio la
pianificazione di Hamas, le armi utilizzate e la violenza che si è verificata in ogni luogo, compresi i dettagli crudi di rapimenti, violenze sessuali, torture e profanazione di cadaveri.
“Le dichiarazioni dei testimoni oculari hanno confermato numerosi episodi di stupro e di stupro di gruppo, nonché lo stupro di cadaveri di donne. I testimoni oculari hanno anche raccontato l’abuso di vittime femminili che sono state passate tra più aggressori”, si legge nel rapporto. “Mentre le vittime fuggivano dal fuoco dei missili e dagli attacchi, i militanti inseguivano e davano attivamente la caccia alle vittime. Le vittime sono state trovate nude dalla vita in giù o completamente nude, molte con le mani legate dietro la schiena o legate ad alberi o pali intorno al sito del festival [Nova]. Altre hanno riportato ferite da arma da fuoco alla nuca”.
Lo studio descrive anche come
l’idea dell’attacco del 7 ottobre abbia cominciato a formarsi già nel 2014, con una preparazione ufficiale iniziata nel 2021.
Il rapporto identifica gli uomini maggiormente responsabili della decisione dell’attacco come “
Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Mohammed Sinwar (fratello di Yahya),
Rawhi Mushtaha (membro fondatore di Hamas, anch’egli vicino a Sinwar) e
Ayman Nofal, uno dei più stretti collaboratori di Deif ed ex capo dell’intelligence di Qassam, comandante della Brigata Centrale delle Brigate e capo della sala operativa congiunta per la resistenza”. Il rapporto ha anche tracciato un profilo dei gruppi che hanno aiutato Hamas negli attacchi, in particolare la
Jihad islamica palestinese (PIJ), il
Fronte popolare per la liberazione della Palestina (PFLP), il
Fronte democratico per la liberazione della Palestina (DFLP), le
Brigate dei martiri di Al-Aqsa, il
Movimento dei mujaheddin palestinesi, i Comitati di resistenza popolare (PRC) e
Al-Ahrar.
“Il gruppo parlamentare del Regno Unito ha riconosciuto l’importanza di stabilire il resoconto storico del 7 ottobre, proprio come il generale Dwight D. Eisenhower ha riconosciuto l’importanza di documentare gli orrori dell’Olocausto – ha dichiarato
David May, Research Manager e Senior Research Analyst -. I negazionisti delle atrocità cercano di scagionare i colpevoli, negare alle vittime il loro diritto all’autodifesa, giustificare le azioni che negano siano avvenute e desiderarne altre in futuro. Sebbene questi obiettivi siano contraddittori, i negazionisti del 7 ottobre esistono al di fuori della realtà, in un mondo di teorie cospirative e disprezzo per la verità”.
“Questo rapporto è il resoconto più completo finora sulle atrocità commesse da Hamas e dai suoi alleati il 7 ottobre – Ben Cohen, FDD Senior Analyst e Rapid Response Director -. Non lascia dubbi sul fatto che Hamas abbia lanciato un pogrom contro i civili, nonostante la sua ingannevole insistenza sul fatto che ciò a cui il mondo ha assistito quel giorno fosse un’operazione militare. Non lascia dubbi nemmeno sulla natura selvaggia del nemico che Israele deve affrontare e sul suo implacabile desiderio di cancellare violentemente Israele dalla mappa”.
Il report completo
(Bet Magazine Mosaico, 24 marzo 2025)
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Simbolo di prosperità e segno del prossimo futuro
L'albero di fico fruttifica più volte all'anno. Nella Bibbia simboleggia, tra l'altro, un segno di una nuova era imminente.
di Gundula Madeleine
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Albero di fico in Israele
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Il fico è uno dei sette frutti della terra d'Israele, insieme a datteri, melograni, olive, uva, orzo e grano. Oltre ai suoi frutti deliziosi, le persone hanno apprezzato le grandi foglie del fico come fonte di ombra fin dall'inizio dei tempi. Giovanni 1:48-50 dice: “ Natanaele gli disse: ”Come mi conosci? Gesù rispose e gli disse: “Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, ti ho visto”. Natanaele rispose e disse: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele”. Gesù rispose e gli disse: “Perché ti ho detto: ‘Ti ho visto sotto l'albero di fichi’, credi? La Bibbia di Elberfelder riporta la seguente nota: “Secondo alcuni esegeti biblici, non si tratta di una domanda ma di una proposizione: Perché vi ho detto... voi credete. Vedrete cose più grandi di queste”.
Nello Shir HaShirim, il Cantico dei Cantici, al capitolo 2, il versetto 13 elogia il fico: “ Il fico arrossisce i suoi fichi, e le viti in fiore danno profumo. Alzati, amico mio, mia bellezza, e vieni!
• Fichi precoci particolarmente ricercati
Il fico, tə'enāh in ebraico, fruttifica più volte all'anno. Va notato che i frutti precedenti, i paggîm, non sono commestibili. I fichi precoci, i bikkûrîm, sono particolarmente ricercati a partire dalla fine di maggio e in giugno (Osea 9:10; Michea 7:1, cfr. Cantico dei Cantici 2:13). I fichi tardivi, i tə'enîm, si raccolgono alla fine di agosto e a settembre. I fichi secchi erano utilizzati come provviste durante i viaggi; sono stati apprezzati fin dai tempi biblici anche quando venivano pressati e trasformati in una torta. In 1 Cronache 12, 40-41 si legge: “ Rimasero con Davide tre giorni, mangiando e bevendo, perché i loro fratelli avevano provveduto a tutto per loro”. Quelli che abitavano vicino a loro, fino a Issacar, Zabulon e Neftali, portarono cibo su asini, cammelli, muli e buoi: piatti di farina, dolci di fichi e dolci di uva sultanina, vino e olio, buoi e pecore in abbondanza, perché c'era gioia in Israele.
• Fonte rapida di energia
I fichi sono considerati una rapida fonte di energia; i fichi freschi contengono il 15% di fruttosio. In 1 Samuele 30:12 si legge: L'Amalecita che riferì a Davide della morte del re Saul mangiò una parte di una torta di fichi pressati e due torte di uva sultanina e “tornò in vita”. Gli diedero anche un pezzo di torta di fichi e due torte di uva passa. E quando ebbe mangiato, tornò in sé, perché non aveva mangiato pane e bevuto acqua per tre giorni e tre notti. Quando si mangiano i fichi secchi, è importante notare che sono ricchi di carboidrati e hanno un alto carico glicemico, in quanto il contenuto di zucchero sale al 60%, quindi le persone con glicemia alta dovrebbero evitarli. La Bibbia cita spesso il fico insieme alla vite. Il motivo potrebbe essere che alle persone piaceva far arrampicare la vite sull'albero di fico. Sedersi sotto la vite e il fico simboleggia la prosperità e la pace, come si legge in 1 Re 5,5: Giuda e Israele abitarono al sicuro, ognuno sotto la sua vite e sotto il suo fico, da Dan fino a Beer-Sceba, per tutto il tempo di Salomone.
• Impacco curativo di fichi per Ezechia
Il fico è molto apprezzato anche come pianta medicinale. In Isaia 38:21-22, viene menzionato come cataplasma per il re Ezechia, che a quanto pare stava morendo a causa di una pustola infiammata: “ E Isaia disse che bisognava prendere una torta di fichi - fatta di frutti di fico - e spalmarla sulla pustola perché guarisse. Allora Ezechia disse: “Qual è il segno che io salirò alla casa del Signore? Alcuni botanici ritengono che il fico sia originario della penisola arabica e la Bibbia lo cita già nella caduta dell'uomo: nel giardino dell'Eden, Adamo ed Eva si coprirono con foglie di fico. Il suo nome botanico è Ficus carica, il fico appartiene alla famiglia dei gelsi (moraceae). Cresce come piccolo albero o come grande arbusto. Le forme selvatiche del fico si trovano in tutta la regione mediterranea. Come pianta coltivata, il fico è documentato fin dall'VIII millennio a.C.. In Israele, i frutti secchi sono stati ritrovati nel kibbutz Gezer, situato nel centro del Paese, nella valle di Ajalon. Gli scienziati li hanno datati al 5000 a.C. circa. Gezer era una delle tre grandi città che sorvegliavano la Via Maris. La città si trovava in un punto strategicamente importante, dove la principale via commerciale conduceva verso l'interno per evitare le zone paludose lungo la costa. Oggi Tel Gezer è uno dei più grandi tumuli archeologici antichi di Israele. Documenti egiziani del 2700 circa e del III secolo a.C. menzionano il fico come un frutto importato in Egitto dalla Terra Santa insieme a olive, noci, miele e melograni. Lo storico romano Plinio il Vecchio (23/24 - 79 d.C.) riferisce di un fico minuscolo chiamato cottana - la radice della parola è ritenuta da alcuni essere nella parola ebraica katan, che significa piccolo. Era importato dalla Siria, una denominazione geografica che durante l'Impero Romano comprendeva anche l'odierno Israele.
• Prospera su terreni sassosi
Gli alberi di fico prosperano con poca irrigazione e anche su terreni sassosi. Le sue foglie sono ditate e ruvide. Vengono eliminate all'inizio dell'inverno e rispuntano all'inizio della primavera. Un albero di fico può vivere fino a 40 anni e impiega circa sei anni per dare il primo frutto. In natura, l'impollinazione incrociata è necessaria per la formazione dei frutti. Esistono alberi maschi e femmine. Si mangiano solo i fichi delle piante femmine. Il fico e i suoi frutti sono molto popolari anche nell'odierno Israele, dove si trovano sia allo stato selvatico che coltivati.
Il fico dà il nome a due villaggi sul Monte degli Ulivi, dove pare che i frutti crescessero particolarmente abbondanti: Betfage o Beit Pagi, la “casa dei fichi acerbi”, e Betania - Beit Te'ena, la “casa del fico”. Nei pressi di Betania, Gesù maledisse il fico che aveva foglie ma non frutti. Marco 11,12-14: E quando il giorno dopo furono partiti da Betania, egli ebbe fame. E, vedendo da lontano un fico che aveva delle foglie, andò a vedere se vi trovasse qualcosa; e quando vi giunse, non trovò altro che foglie, perché non era la stagione dei fichi. E cominciò a dirgli: “Nessuno mangerà più frutti da te”. E i suoi discepoli lo udirono. Altrove leggiamo in Marco 11,20-26: “ Passando di buon mattino, videro il fico appassito dalle radici. E Pietro si ricordò e gli disse: “Rabbì, ecco, il fico che hai maledetto è appassito”. E Gesù, rispondendo, disse loro: “Abbiate fede in Dio!Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: Chiunque dirà a questo monte: Sollevati e gettati nel mare, e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che ciò che dice avverrà, sarà fatto per lui. Perciò vi dico: Qualunque cosa preghiate e chiediate, credete che l'avete ricevuta e vi sarà fatta. E quando pregate, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni i vostri debiti.
• Visioni di cesti pieni di fichi
I profeti Geremia e Osea, l'unico dei profeti della Scrittura a provenire dal regno settentrionale di Israele, ebbero le seguenti visioni di cesti pieni di fichi: I “fichi buoni” - l'élite della nazione - sarebbero stati deportati a Babilonia, mentre i “fichi cattivi”, il re Zedekia, i suoi funzionari e la gente comune, sarebbero rimasti a Gerusalemme. Osea 9:10 vedeva la giovane nazione di Israele come “i primi frutti del fico”. La distruzione degli alberi di fico del paese era un simbolo profetico della distruzione della terra (Geremia 5:17; 8:13) e di Osea (2:12).
• Geremia 24:1-10
L'Eterno mi fece vedere - ed ecco che due ceste di fichi erano poste davanti al tempio dell'Eterno - dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva fatto prigioniero Geconia figlio di Jehoiakim, re di Giuda, i principi di Giuda, i fabbri e gli operai metallurgici di Gerusalemme e li aveva portati a Babilonia. Una cesta conteneva fichi molto buoni, come i fichi primaticci, e l'altra cesta conteneva fichi molto cattivi, che non potevano essere mangiati a causa della loro malvagità. Il Signore mi disse: “Che cosa vedi, Geremia? Io dissi: “Fichi; i fichi buoni sono molto buoni e i fichi cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare a causa della loro malvagità”. Allora mi giunse la parola dell'Eterno: “Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: ”Come questi fichi buoni, io guardo ai partenti di Giuda per il bene, che ho mandato via da questo luogo nel paese dei Caldei. Li tengo d'occhio per il bene e li riconduco in questo paese. Li edifico e non li abbatto; li pianto e non li sradico. E darò loro un cuore per conoscere me, che sono il Signore. Saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, perché torneranno a me con tutto il cuore. - Ma come i fichi cattivi che non si possono mangiare per la malvagità - sì, così dice il Signore - così farò di Zedekia, re di Giuda, dei suoi capi e del resto di Gerusalemme, di quelli che sono rimasti in questo paese e di quelli che si sono stabiliti nel paese d'Egitto. E farò di loro un terrore, una calamità per tutti i regni della terra, un rimprovero e un proverbio, uno scherno e una maledizione in ogni luogo dove li scaccerò. 10 E manderò in mezzo a loro la spada, la carestia e la peste, finché non saranno eliminati dal paese che ho dato a loro e ai loro padri. Nahum paragona le fortezze di Ninive, destinate alla distruzione, a fichi che cadono facilmente quando l'albero viene scosso (3,12-13): Tutte le tue fortezze sono alberi di fico con fichi precoci: Quando vengono scossi, cadono in bocca a chi li mangia. Ecco i tuoi guerrieri sono donne in mezzo a te! Le porte del tuo paese sono spalancate ai tuoi nemici; il fuoco consuma le tue sbarre. Anche il fico che non ha dato frutti per tre anni, ma a cui viene data la possibilità di dare frutti prima di essere tagliato, è una parabola biblica. Essa dice che a noi uomini è data la possibilità di pentirci, ma che il periodo di tempo per farlo è limitato (Luca 13:6-9). Ma egli raccontò questa parabola: Un tale aveva un fico piantato nella sua vigna; venne a cercarne i frutti e non ne trovò. Ma disse al vignaiolo: “Guarda, sono tre anni che cerco frutti su questo fico e non ne ho trovati. Taglialo! Perché rende inutile la terra? Ma lui risponde e gli dice: “Signore, lascialo per quest'anno, finché non ci scavi intorno e non ci metta del concime. E se in futuro porterà frutto, bene, ma se non lo farà, potrai tagliarlo”.
• Riferimento all'estate che si avvicina
L'Apocalisse (6:13) paragona la caduta delle stelle del cielo sulla terra all'apertura del sesto sigillo ai fichi tardivi scossi dal fico da un forte vento. Questo fa tremare la terra, il sole diventa nero, la luna diventa come sangue e le stelle cadono sulla terra (6:12-17): E le stelle del cielo caddero sulla terra, come un fico, scosso da un forte vento, getta i suoi fichi invernali. Anche Marco 13:28-31 parla di un tempo vicino ma ancora sconosciuto: “ Ma imparate la parabola dal fico: Quando il suo ramo è già tenero e mette le foglie, saprete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete accadere questo, riconoscerete che è vicino. In verità vi dico: Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non avranno luogo. I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Ma di quel giorno o di quell'ora nessuno sa, neppure gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre.
In Luca 21 si legge (29-31): E disse loro una parabola: “Guardate il fico e tutti gli alberi! Se stanno già germogliando, lo saprete da voi stessi quando vedrete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete questo, capirete che il regno di Dio è vicino”.
Anche Matteo 24 parla di un tempo vicino ma sconosciuto (32-33). Gesù insegnò ai suoi discepoli a interpretare i segni dei tempi: Ma imparate la parabola del fico: Quando il suo ramo è già tenero e mette le foglie, sapete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, saprete che è vicina la porta.
(Israelnetz, 24 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Aggredito un rabbino a Orléans
di Michelle Zarfati
Il rabbino Arié Engelberg di Orléans, in Francia, è stato violentemente attaccato davanti a suo figlio mentre tornava dalla sinagoga sabato, lo hanno riferito i notiziari francesi France 3 e France Bleu. Secondo i rapporti, il rabbino Engelberg stava tornando dalla sinagoga alle 13:30 – accompagnato da suo figlio di nove anni – quando è stato preso a calci e a pugni, morso alla spalla e insultato. Ha subito anche ferite alla testa. Un testimone dell’incidente ha condiviso filmati con la radio France Bleu Orléans. Secondo quanto riportato dalla fonte locale, un passante è intervenuto e l’aggressore ha lasciato la scena del crimine poco dopo.
Engelberg ha immediatamente presentato una denuncia alla stazione di polizia di Orléans. “Siamo inorriditi, indignati”, ha detto Joëlle Gellert, presidente della Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo a Loiret (LICRA). “Il razzismo non è un’opinione ma un crimine”. Il presidente del CRIF per la regione centrale della Francia, Eliane Klein, ha definito l’incidente “spaventoso”.
“Attualmente c’è un’atmosfera velenosa e chiaramente antisemita in Francia, ma non pensavo che avrebbe contaminato Orléans, che è una città pacifica. Fino ad ora, abbiamo notato graffiti di tanto in tanto, al massimo. Speravo che questa cancrena non si diffondesse a Orléans. Ecco perché è ancora più scioccante”, ha detto Klein. Yonathan Arfi, il capo del CRIF, ha prontamente inviato il suo sostegno al rabbino, definendo l’incidente un “attacco codardo e violento di fronte a suo figlio di nove anni”. Pascal Tebibel, vicepresidente dell’area metropolitana di Orléans, ha detto di essere stato “profondamente scioccato dall’attacco antisemita al rabbino Arié Engelberg a Orléans”.
“L’odio non ha posto nella nostra società. Siamo solidali con la comunità ebraica e non rimarremo in silenzio di fronte all’intollerabile”, ha scritto su X/Twitter il procuratore di Orléans che ha confermato a France 3 Centre-Val de Loire di aver aperto un’indagine sulla “violenza intenzionale commessa a causa della vera o presunta affiliazione religiosa della vittima”.
“Questo è un atto vile e intollerabile. La rinascita dell’antisemitismo in Francia e in tutta Europa non è solo allarmante, è un campanello d’allarme per i governi europei, i leader e la società civile. L’antisemitismo è pericoloso e richiede una risposta senza compromessi. Ci deve essere tolleranza zero per l’antisemitismo, e deve essere combattuto con incrollabile determinazione”, ha aggiunto Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha commentato l’incidente in un post domenica. “L’assalto al rabbino Arié Engelberg a Orléans ci sconvolge tutti. Estendo il mio pieno sostegno, così come quello della Nazione, a lui, a suo figlio e a tutti i nostri concittadini di fede ebraica”, ha scritto.
“L’antisemitismo è un veleno. Non cederemo al silenzio o all’inazione”, ha aggiunto.
La comunità di Orléans conta circa 400 persone. Engelberg è una figura di spicco all’interno della realtà comunitaria, avendo vissuto lì dal 2018, secondo un’intervista del 2020 con Hassidout. Il rabbino di Chabad-Lubavitch aveva raccontato a Hassidout dei numerosi elementi della vita ebraica sostenute nella comunità, tra cui lo studio della Torah, la carne kosher, una sinagoga, la preparazione del bar mitzvah e l’accensione pubblica delle candele durante Hanukkah. Il rabbino ha anche un canale YouTube, dove pubblica video sulla parte settimanale della Torah, sulla vita ebraica e sulla comunità di Orléans.
(Shalom, 24 marzo 2025)
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Cosa c’è di ebraico nel manifesto di Ventotene
di Ugo Volli
• Gli autori del Manifesto
Si è discusso molto nell’ultima settimana del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, che in realtà aveva come titolo originale “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Senza entrare in queste polemiche, vale certamente la pena di chiedersi se in esso vi sia una radice ebraica. La domanda è giustificata dall’identità degli autori. Il più noto dei tre antifascisti confinati nell’isola di Ventotene che lo scrissero nel 1941 (e due anni dopo furono fra i fondatori del Movimento Federalista Europeo) era Altiero Spinelli, anche perché fece una notevole carriera politica: fu deputato fra gli “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del PCI, poi deputato europeo, sempre col PCI, e anche membro della Commissione Europea. Ci sono testimonianze di un suo violento atteggiamento anti-israeliano, proseguito peraltro dalla figlia Barbara, anche lei politica di estrema sinistra. Il secondo firmatario del manifesto è Ernesto Rossi, giornalista, economista, polemista anticlericale e anche lui esponente politico nelle liste prima del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale.
• Eugenio Colorni, ebreo medaglia d’Oro della Resistenza
Quel che ci interessa, perché era ebreo, è invece Eugenio Colorni, forse il meno noto dei tre, se non altro perché non sopravvisse alla guerra, essendo stato ucciso dai tedeschi durante un’azione partigiana in Via Livorno a Roma poco prima della liberazione della città, il 30 maggio 1944. Gli fu assegnata per la sua attività partigiana la medaglia d’oro per il valore militare alla memoria. Colorni non poté dunque partecipare all’attività politica dell’Italia libera e non sappiamo se e come l’avrebbe fatto; la sua attività fu innanzitutto un gesto morale di resistenza al fascismo e poi all’occupazione nazista, ma la sua vocazione principale era diretta al pensiero filosofico; il suo precoce talento in questo campo era stato riconosciuto dai grandi filosofi italiani del tempo, Croce e Gentile. Vale la pena di usare questa occasione per ricordarne la bellissima figura. Nato a Milano nel 1909, secondogenito di Alessandro, industriale ebreo mantovano, e della pisana Clara Pontecorvo, fu fortemente influenzato in gioventù dal cugino Enzo Sereni, fervente sionista che immigrò in Israele nel 1927 e morì poi a Dachau ucciso dai nazisti dopo essersi paracadutato nel 1944 nell’Italia occupata. Colorni probabilmente pensò anche lui ad andare in Israele, sappiamo che da liceale si dedicò allo studio dell’ebraico, ma poi si iscrisse alla facoltà di filosofia a Milano, si laureò nel 1930 con Martinetti con una tesi su Leibniz. Frequentava nel frattempo circoli antifascisti, scrisse i primi articoli, poi un libro su Croce; fece un periodo da lettore di italiano all’Università di Marburgo dove ebbe occasione di vedere i nazisti in azione; tornò in Italia quando essi presero il potere. Nel 1934 ottenne una cattedra in un istituto magistrale a Trieste, dove rimase fino all’arresto del settembre 1938. A Trieste frequentò Eugenio Curiel, altro ebreo medaglia d’oro della Resistenza, Umberto Saba, Bruno Pincherle. Assolto in tribunale per insufficienza di prove dall’accusa di attività sovversiva, fu comunque messo al confino nel 1939 a Ventotene e poi spostato nel 1942 a Melfi, dove incontrò Ludovico Geymonat e insieme a lui abbandonò le posizioni idealiste per avvicinarsi alla filosofia della scienza. Nel frattempo era passato dagli ambienti del Partito d’Azione alla militanza nel Partito Socialista. Evaso dal confino, si diede tutto all’attività della Resistenza. Pubblicò allora per la prima volta il Manifesto di Ventotene, diresse l’edizione clandestina dell’”Avanti” e partecipò alla lotta armata antinazista, fino alla sua tragica fine.
• Le critiche
Torniamo al “Manifesto”. Nonostante le polemiche, è evidente a chi lo legga che le critiche di Meloni al testo sono difficilmente confutabili. L’idea di Europa che ne esce è “socialista”, con uno spazio solo residuale per proprietà privata e iniziativa individuale; la federazione europea dev’essere costituita da un “partito d’avanguardia” che agisca di forza senza badare all’opinione dei cittadini, le varie nazioni d’Europa possono avere delle specificità, ma devono obbedire alle scelte del centro europeo, anche perché costrette da un esercito la cui funzione principale è proprio questa. C’è una profonda sfiducia nel popolo e quindi nella democrazia, un atteggiamento elitario e dirigista, pochissima disponibilità per il pluralismo e il dissenso. Insomma, anche se nessuno dei tre firmatari era membro del partito comunista (Spinelli lo era stato per molti anni fino al 1937, quando fu espulso per “trotzkismo”), il modello è quello dell’Urss e del colpo di stato con cui Lenin prese il potere nella “rivoluzione d’ottobre”. Non ha senso giustificare queste idee autoritarie per il fatto che i tre erano confinati; certamente tutti conoscevano anche il pensiero liberale e democratico, avevano letto Croce, Calogero, Gobetti e tanti altri autori. Il punto è che scelsero una posizione di concorrenza all’Urss (che in quel momento era sostanzialmente alleata al nazismo, bisogna ricordare) ma restando sullo stesso terreno “rivoluzionario” e in sostanza autoritario. Un atteggiamento forse comprensibile allora. Che questo sia un modello per l’Europa di oggi invece preoccupa molto.
• C’è stata un’influenza ebraica sul “Manifesto”?
È chiaro che questo quadro mentale è profondamente lontano non solo da quello realizzato dal socialismo sionista in Israele, il solo esperimento veramente democratico di collettivismo democratico; ma anche da tutta la tradizione ebraica che almeno dalla diaspora è sempre stata fondata sulla dialettica delle idee e su organizzazioni comunitarie partecipative. Va aggiunto che la condanna degli stati nazionali, che è il fondamento del “Manifesto”, dell’attività successiva soprattutto di Spinelli e anche oggi di molti atteggiamenti europeisti, è il contrario della speranza sionista. Sul rapporto fra ebraismo ed Europa ci sarebbe molto da dire; è chiaro che nei venti secoli e passa di presenza ebraica sul continente i tempi di persecuzione e discriminazione sono stati lunghissimi e terribili; comunque che anche quando non vi era violenza, per esempio nell’Europa liberale fra rivoluzione francese e nazifascismo, la spinta all’assimilazione e alla riduzione dell’ebraismo da cultura di un popolo a religione privata è stata assolutamente dominante. Ed è chiaro anche che da quando c’è Israele l’Europa politica ha avuto in genere più simpatia per i suoi nemici che per lo Stato ebraico. Sul manifesto di Ventotene e sull’Europa insomma si può discutere; ma difficilmente si può attribuire loro un carattere ebraico.
(Shalom, 23 marzo 2025)
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Le illusioni e la realtà
di Niram Ferretti
In una recente intervista con Tucker Carlson, tra i giornalisti preferiti di Donald Trump, Steven Witkoff, l’inviato speciale per il Medio Oriente con delega speciale anche per il dossier Russia-Ucraina (è l’unico membro dell’Amministrazione Trump che nelle ultime settimane ha incontrato Vladimir Putin per due volte), ha affermato che ritiene che Hamas non sia così estremista come viene dipinto e che se accetterà di disarmarsi potrà avere un ruolo politico a Gaza in futuro. Questo dopo avere premesso che Hamas non potrà continuare a governare la Striscia.
L’ignoranza di Witkoff relativamente a cosa sia Hamas, alla sua storia, al jihadismo in senso stretto, nonché la sua totale inesperienza diplomatica e politica relativa al Medio Oriente, lo ha messo in pole position per il ruolo che gli è stato assegnato. Witkoff, infatti, è un immobiliarista, un coriaceo negoziatore del Bronx, e per Trump questo è quello che è sufficiente.
L’approccio trumpiano a problemi di natura politica e geopolitica è strettamente negoziale, è quindi del tutto irrilevante se non controproducente essere esperti relativamente alla cultura, alla storia e alla filosofia politica di un Paese, o di una entità con la quale si negozia, conta solo il fatto nudo e crudo della transazione, il do ut des.
Pensare che, soprattutto dopo il 7 ottobre, con Hamas sia possibile accordarsi, che Hamas possa disarmarsi, che Hamas possa dismettere i panni del radicalismo islamico per indossare quelli pragmatici di un attore negoziale, significa rimuovere dal tavolo il ruolo fondante e fondamentale delle idee e dell’ideologia.
Il pragmatismo transazionale può funzionare alla grande se ci si siede al tavolo per la compravendita di un immobile a New York, ma è assai diverso se dall’altra parte del tavolo siedono i talebani (con cui, prima della disastrosa uscita di scena dall’Afghanistan messa in atto da Joe Biden, l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo concordò per conto di Donald Trump i termini dell’abbandono americano del Paese), o Hamas.
Witkoff, il cui Hotel Park Lane a New York venne rilevato nel 2023 dal Qatar per 623 milioni di dollari, ha, sempre nella stessa intervista, speso parole di grande apprezzamento per l’Emirato, grande sponsor di Hamas e del radicalismo islamico. I qatarioti sono alleati degli Stati Unti, ha detto, “Persone per bene animate da ottime intenzioni…Sono un piccolo Paese che desidera essere riconosciuto come un facitore di pace…la gente li accusa di avere altri motivi, è insensato”. Sì, hanno peccato di radicalismo nel passato ma ora si sono moderati, e di loro ci si può fidare.
Come ha evidenziato Daniel Pipes in un articolo dedicato al ruolo del Qatar :
“L’influenza del Qatar è forse più evidente nel sostegno fornito a gruppi jihadisti in luoghi così diversi come l’Iraq (al-Qaeda), la Siria (Ahrar al-Sham, Jabhat al-Nusra), Gaza (Hamas) e la Libia (Brigate di Difesa di Bengasi). Inoltre, il Qatar sostiene importanti reti islamiste in tutto il mondo – tra cui i Fratelli Musulmani in Egitto, l’AKP in Turchia e Jamaat-e-Islami in Bangladesh…In Occidente, il potere del Qatar adotta più cautele e prospera incontrastato. Ad esempio, finanzia le moschee e altre istituzioni islamiche, che esprimono la loro gratitudine protestando all’esterno delle ambasciate dell’Arabia Saudita, a Londra e a Washington…Doha cerca anche di influenzare le istituzioni educative occidentali. La Qatar Foundation controllata dal regime elargisce decine di migliaia di dollari a scuole, college e ad altri istituti d’istruzione in Europa e nel Nord America. In effetti, il Qatar è ora il più grande donatore straniero alle università americane. I suoi finanziamenti sovvenzionano i costi per l’insegnamento della lingua araba e delle lezioni sulla cultura mediorientale e la loro inclinazione ideologica è talvolta sfacciatamente evidente, come nel modulo didattico delle scuole americane intitolato “Esprimi la tua fedeltà al Qatar”.
Witkoff non è il primo né l’ultimo funzionario americano che sul Medio Oriente e sulla natura del radicalismo islamico prende delle cantonate, lo hanno fatto molti altri prima di lui, e con curriculum assai più consistenti.
L’idea che la Fratellanza Musulmana fosse un interlocutore rispettabile è stata al centro della diplomazia mediorientale di Barack Obama, mentre la convinzione che ci si potesse fidare di Arafat e dell’Autorità Palestinese, ha informato trent’anni di politica americana in Medio Oriente. Questa ottica distorta è purtroppo stata fatta propria anche da una parte rilevante dell’establishment politico israeliano a cominciare con gli Accordi di Oslo del 1993. L’approccio transazionale che è il fulcro ideologico dell’Amministrazione Trump, e di cui Witkoff è una emanazione, contro il radicalismo islamico non ha funzionato mai.
Con Hamas non si può negoziare niente, se non una resa, come con i talebani. C’è un solo modo per risolvere il problema Hamas a Gaza ed è quello della sua sconfitta sul terreno con conseguente occupazione transitoria del territorio da parte di Israele, ma certamente non è quello che vuole il Qatar che nell’arco di quasi vent’anni ha fornito alla formazione jihadista miliardi di dollari, di cui una parte cospicua è servita per la costruzione di un reticolo lungo 800 chilometri di tunnel sotterranei.
Il Qatar, che ne dicano Witkoff, suo diretto beneficiario e Trump anche esso elogiativo dell’emiro Al Tahani, definito “uomo di pace”, quando, nel settembre del 2024, andò a trovarlo in Florida, è un attore infido e subdolo che sul palcoscenico interpreta vari ruoli, tra cui “alleato” degli Stati Uniti e sostenitore del jihad.
La guerra non ancora vinta da Israele, e di cui Hamas è un tassello, è una guerra contro il jihad. Forse qualcuno dovrebbe spiegarlo a Witkoff.
(L'informale, 22 marzo 2025)
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Desideriamo ardentemente il ritorno del Signore?
di David R. Reagan
Molti insegnanti biblici pensano che una delle prime preghiere della chiesa sia stata «Maranata!» (1 Corinzi 16:22). La parola è un'espressione in aramaico che significa: «Vieni Signore!» Questa preghiera esprime ciò che viene ribadito in numerosi altri passi biblici, ossia che la chiesa del primo secolo desiderava profondamente che il Signore Gesù ritornasse presto.
La chiesa del XXI sec. pare aver perso questa brama. Il cristiano medio di oggi non prega «Maranata!» e la maggior parte dei credenti non desidera che il Signore ritorni. Invece dello struggimento nell'attesa prevale la noia: un fenomeno molto triste, visto che la Bibbia afferma che il ritorno del Signore è la nostra «beata speranza» (Tito 2:13).
Le Scritture ci esortano ripetutamente ad aspettare il ritorno del Signore e a essere pronti. Gesù stesso disse: «I vostri fianchi siano cinti, e le vostre lampade accese» (Luca 12:35).
Esistono almeno sei motivi per cui ogni cristiano dovrebbe desiderare ardentemente che il Signore Gesù ritorni.
- Gloria del Signore Gesù. Quando Gesù Cristo ritornerà, riceverà ciò che gli spetta: onore, gloria e potere. Nella storia passata è stato umiliato, in quella futura sarà confermato e glorificato. Sarà incoronato Re dei re e Signore dei signori e governerà il mondo intero sul Monte Sion a Gerusalemme (Isaia 24:21-23).
- Sconfitta di Satana. Quando Gesù Cristo ritornerà, Satana riceverà quel che merita: sconfitta, disonore e umiliazione. Il destino di Satana è stato suggellato sulla croce, ma le sue azioni malvagie non finiranno prima che il Signore ritornerà. Allora Satana sarà schiacciato (Romani 16:20; Apocalisse 20:1-3).
- Ristoro per la terra. Quando Gesù Cristo ritornerà, il creato riceverà ciò che gli è stato promesso: restaurazione. La terra sarà rinnovata dopo essere stata scossa da terremoti e da fenomeni soprannaturali nel cielo. Il risultato sarà una terra più bella. Le forze distruttive della natura saranno vinte. I deserti fioriranno. La flora e la fauna saranno riscattate. Piante e animali velenosi non saranno più tali. Tutta la natura smetterà di combattere contro se stessa e coopererà invece in armonia per l'utile dell'umanità e per la gloria di Dio (Isaia 11:6-9; 35:1-10; 65:17-25; Atti 3:19-21; Romani 8:18-23).
- Pace per le nazioni. Quando Gesù Cristo ritornerà, le nazioni riceveranno ciò che è stato loro promesso: pace, diritto e giustizia (Isaia 9:6-7; 11:3-5; Michea 4:1-7).
- Posizione di privilegio per gli ebrei. Quando Gesù Cristo ritornerà, gli ebrei riceveranno ciò che è loro stato promesso: la redenzione e una posizione di privilegio. Verso la fine della tribolazione, un residuo degli ebrei accetterà Gesù come suo Messia. Tale residuo sarà riunito e Israele sarà stabilito come primo popolo della terra (Osea 2:14-20; Isaia 60-62; Romani 9-11).
- Benedizione per la Chiesa. Quando il Gesù Cristo ritornerà, i santi riceveranno ciò che è loro stato promesso: un corpo glorioso, una terra redenta, il dominio sui popoli e l'essere nuovamente riuniti con le persone amate che sono già andate con il Signore (Filippesi 3:20-21; Matteo 5:5; Apocalisse 2:26-27; 1 Tessalonicesi 4:14).
Queste sono sei ragioni per cui ogni cristiano dovrebbe provare un forte desiderio del ritorno del Signore. Invece nella realtà prevale l'indifferenza. Perché?
A mio parere, le cause della diffusa indifferenza nei confronti del ritorno del Signore fra i cristiani sono quattro:
- mancanza di fede,
- ignoranza,
- paura,
- carnalità.
Molti credenti professanti non credono che il Signore Gesù ritornerà. La maggior parte di loro ha un approccio liberale alla Bibbia e interpreta il significato del ritorno in modo figurato e spirituale, come chi dà un'interpretazione puramente rappresentativa alla nascita di Gesù da una vergine e ai suoi miracoli.
Tuttavia, la maggior parte dei cristiani probabilmente è solo ignorante per quanto riguarda gli avvenimenti che accompagnano il ritorno del Signore. Di conseguenza non può nutrire alcun entusiasmo per cose che conosce appena. Per trent'anni io stesso facevo parte di questo gruppo di cristiani. Nonostante frequentassi regolarmente le riunioni della mia assemblea, non ero informato perché la mia comunità trascurava l'insegnamento e la predicazione della parola profetica. Alcuni cristiani hanno paura del ritorno del Signore Gesù e cercano di rimuovere il pensiero che lui possa tornare dal cielo da un momento all'altro. Temono che possa ritornare in uno dei loro momenti «brutti» o quando un «peccato ignoto» pesa sulla loro coscienza. Queste persone sono prigioniere della convinzione che le buone opere conferiscano un qualche diritto o merito davanti a Dio. Non capiscono che sono salvate per grazia e che non c'è «più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù» (Romani 8:1).
Ci sono inoltre numerosi cristiani carnali che non nutrono alcun entusiasmo per il ritorno del Signore perché amano il mondo. Con un piede sono nella chiesa e con l'altro nel mondo. Desiderano che il Signore ritorni ma, se possibile, non prima che abbiano compiuto gli
ottant'anni e gustato tutto ciò che il mondo ha da offrire. In altre parole: desiderano che lui ritorni ma non vogliono che scombussoli la loro esistenza. Il messaggio del prossimo ritorno di Gesù Cristo è una spada a due tagli. Essa riguarda tanto i credenti quanto gli increduli. Per chi non crede, il messaggio consiste in: «Sfuggite l'ira futura (cfr. Matteo 3:7) e correte fra le braccia tese di Gesù (Matteo 11:28-30)!» Il messaggio per i credenti è: «Smettete di fare soltanto finta di essere una chiesa e prendete sul serio la dedizione a Cristo vivendo una vita santificata (1 Pietro 1:13-16)!»
Permettetemi la domanda:
Continuate a essere indifferenti? Se sì, perché? Se non dipende dalla paura o dall'ignoranza, dipende allora dalla mancanza di fede o dalla carnalità?
Vi invito a esporre i vostri cuori alla luce dei riflettori dello Spirito Santo per scoprire la ragione di qualsiasi indifferenza che possiate nutrire nei confronti dell'imminente ritorno del Signore.
Se ciò che vi frena nei confronti della profezia biblica è la mancanza di fede, mi appello a voi perché accettiate la validità di tutta la Parola di Dio per fede, e non solo la verità dell'evangelo (2 Timoteo 3:16-17). Riflettete sul fatto che, se mettete in dubbio una parte della Parola di Dio, ne mettete in discussione la validità nel suo complesso. Non sta a noi scegliere ciò che vogliamo credere della Parola di Dio e cosa preferiamo rifiutare. Siamo chiamati ad accettare per fede ogni sua affermazione (Romani 1:17).
Se il vostro problema è la carnalità, perché siete scesi a compromessi con il mondo, allora vi invito a impegnarvi a vivere una vita santa, permettendo al Signore Gesù di regnare su ogni aspetto della vostra esistenza (Romani 13:12-14). Fate un inventario della vostra vita e chiedetevi: Il Signore Gesù è il Signore dei film che guardo? È il Signore del mio televisore? Come stanno le cose
riguardo alla musica che ascolto e a ciò che leggo? È il Signore del mio lavoro? Del mio matrimonio? Del mio tempo libero? Di qualsiasi aspetto della mia vita? Mi viene in mente un'altra preoccupazione che può sorgere riguardo al ritorno del Signore Gesù e che potrebbe provocare un atteggiamento indifferente o esitante da parte vostra. Forse vi dite: «Vorrei che il Signore venga, ma vorrei che prima alcuni membri della mia famiglia e alcuni amici affidino la loro vita al Signore Gesù.»
Se questa è la vostra preoccupazione, non avete motivo di rimproverarvi perché si tratta di un atteggiamento spiritualmente corretto. È giusto preoccuparsi del destino eterno dei nostri familiari e amici. Considerate però che il Signore ritornerà esattamente al momento giusto; affidate quindi a lui la vostra preoccupazione per gli amici e i familiari e lasciate che se ne occupi lui. Egli desidera che il vostro cuore sia colmo di un desiderio incondizionato del suo imminente ritorno (2 Timoteo 4:7-8).
Ho esposto solo alcuni motivi per cui ogni cristiano dovrebbe nutrire un profondo desiderio del prossimo ritorno del Signore Gesù, ma vorrei aggiungere anche alcuni miei motivi personali. Desidero che Gesù ritorni perché
vorrei stare con lui,
vorrei gioire della presenza del suo amore e della sua santità,
vorrei vedere la gloria di Dio faccia a faccia,
vorrei baciare le mani forate e dire:
«Grazie
che sei morto per me,
che mi hai perdonato,
che mi hai trasformato,
che mi hai guidato,
che mi hai consolato,
che non mi hai mai abbandonato,
che hai dato un senso e uno scopo alla mia vita.»
Inoltre vorrei cantare con i santi e le miriadi celesti: «Degno è l'Agnello.» - Maranata!
(Chiamata di Mezzanotte, sett/ott 2021)
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Il capo dell'IDF: la guerra contro Hamas include anche Giudea e Samaria
Il ministro del governo afferma che le operazioni militari devono essere accompagnate da un'espansione degli “insediamenti” che porti alla sovranità sul cuore biblico.
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Carri armati israeliani durante un'operazione militare nella città di Jenin, nella Samaria settentrionale, 19 febbraio 2025
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L'attenzione rimane concentrata su Gaza, soprattutto sulla scena internazionale, ma Hamas deve essere sconfitto anche nel cuore biblico della Giudea e della Samaria, ha sottolineato il nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF, generale Eyal Zamir.
A Gaza abbiamo lanciato un'operazione sorprendente e potente, con la restituzione di tutti gli ostaggi come priorità assoluta, per la quale siamo impegnati in ogni azione”, ha detto Zamir durante una valutazione della sicurezza nella cosiddetta ‘Cisgiordania’.
“Quando parliamo di sconfiggere Hamas, significa sconfiggere Hamas ovunque, anche qui in Giudea e Samaria. Continuiamo le operazioni antiterrorismo in corso insieme a una difesa solida”, ha aggiunto.
Le forze israeliane hanno operato in silenzio (almeno per quanto riguarda la copertura mediatica internazionale) in Giudea e soprattutto in Samaria dallo scoppio della guerra il 7 ottobre 2023, concentrandosi sulla roccaforte del terrorismo di Jenin, nel nord della Samaria.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu questa settimana ha visitato le unità della Polizia di frontiera sotto copertura che svolgono molte delle operazioni antiterrorismo in Giudea e Samaria, descrivendo il loro lavoro come “un lavoro sacro per lo Stato di Israele”.
“Mentre stiamo conducendo un'intensa guerra contro Hamas a Gaza, siamo consapevoli della possibilità che un fronte più ampio e più intenso possa aprirsi qui in Giudea e Samaria”, ha sottolineato Netanyahu.

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Netanyahu con forze di polizia di frontiera sotto copertura in Samaria
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Secondo i dati diffusi dall'ONG “Hatzalah Judea e Samaria” (Soccorritori senza frontiere), il 17 febbraio, i terroristi palestinesi hanno attaccato gli ebrei in Giudea e Samaria almeno 6.343 volte nel 2024. Secondo il rapporto, 27 israeliani sono stati uccisi in Giudea e Samaria e oltre 300 altri sono stati feriti.
• Spinta alla sovranità
Il ministro dell'Economia e dell'Industria Nir Barkat insiste sul fatto che la soluzione a lungo termine del problema in Giudea e Samaria è che Israele ripristini la sua sovranità sull'antico cuore biblico.
“Ora è il momento della sovranità; è il momento di piantare i paletti nel terreno e sfruttare la finestra di opportunità che abbiamo ora”, ha dichiarato Barkat durante una visita alla zona industriale di Barkan, nella Samaria centrale.
Il ministro ha invitato il governo a espandere le comunità israeliane in Giudea e Samaria e a “consolidare la nostra presenza in tutte le parti della Terra d'Israele”.
“Più agiamo e applichiamo la sovranità nelle aree di Giudea e Samaria, più determiniamo il futuro dello Stato di Israele per generazioni”, ha aggiunto Barkat, membro del partito Likud al governo.
Il capo del Consiglio regionale della Samaria, Yossi Dagan, ha ringraziato Barkat e ha detto: “La vittoria è la terra, la vittoria è assicurare la nostra presa qui in Samaria, la vittoria è la sovranità - e la sovranità è la vittoria”.
Il leader della Samaria ha anche invitato il governo di Gerusalemme a “non perdere l'opportunità storica di applicare la sovranità nella regione”.
All'inizio del mese, Dagan ha visitato Washington e ha consegnato a Paula White, consigliere senior della Fede, una mezuzah da appendere alla Casa Bianca - un atto che molti hanno visto come un'enfatizzazione della posizione positiva dell'amministrazione Trump sulla sovranità ebraica in Giudea e Samaria.
A febbraio è stato chiesto al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump se fosse favorevole all'annessione ufficiale della Giudea e della Samaria. In quell'occasione ha risposto che la questione era ancora in fase di discussione e ha suggerito che Israele aveva esposto bene le sue ragioni.
Nello stesso periodo, il presidente della Knesset Amir Ohana (Likud) ha fatto una dichiarazione simile, sottolineando che il pieno controllo israeliano su Giudea e Samaria è l'unico modo per raggiungere una vera pace:
“Queste parti bibliche e originali della nostra terra, che raccontano la storia del nostro popolo nella Bibbia, sono destinate a noi, al popolo di Israele. Devono essere nel territorio dello Stato di Israele, sotto la proprietà israeliana, sotto la piena sovranità israeliana. Oggi questo è più chiaro che mai”.
I sondaggi mostrano costantemente che la maggioranza degli israeliani sostiene la sovranità israeliana in Giudea e Samaria e rifiuta i piani per la creazione di uno Stato arabo palestinese indipendente.
(Israel Heute, 22 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Trump vuole instaurare un «clima di fiducia» con l’Iran
Trump è un uomo di pace, per questo ha dato ulteriori due mesi agli Ayatollah, tante volte non avessero abbastanza tempo per sistemare le cose.
L’inviato di Donald Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, ha dichiarato che il Presidente degli Stati Uniti sta cercando di evitare un conflitto armato con l’Iran costruendo un rapporto di fiducia con Teheran.
In un’intervista con il conduttore di news online Tucker Carlson pubblicata su X, Witkoff afferma che la recente lettera di Trump alla Repubblica islamica non era intesa come una minaccia.
Witkoff, difendendo l’approccio di Trump, dice a Carlson che Trump ha il sopravvento militare e sarebbe più naturale per gli iraniani spingere per una soluzione diplomatica.
“Invece è lui a farlo”, dice a proposito della lettera.
“Diceva grossomodo: ‘Sono un presidente di pace. Questo è ciò che voglio. Non c’è motivo di agire militarmente. Dovremmo parlare”, dice Witkoff.
“Dovremmo creare un programma di verifica in modo che nessuno si preoccupi di armare il vostro materiale nucleare… perché l’alternativa non è molto buona”.
Witkoff afferma che le discussioni degli Stati Uniti con l’Iran continuano attraverso “canali secondari, attraverso più Paesi e più canali”.
Trump, afferma, è “aperto all’opportunità di ripulire tutto con l’Iran, in modo che torni al mondo e sia di nuovo una grande nazione… Vuole costruire la fiducia con loro”.
(Rights Reporter, 22 marzo 2025)
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“Il 7 ottobre ha definitivamente seppellito l'illusione di una soluzione a due Stati”
Il dottor Ido Netanyahu (fratello del Primo Ministro) espone la sua visione del futuro di Israele e critica aspramente il sistema giudiziario.
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Ido Netanyahu, fratello del Primo Ministro
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“La giornata del 7 ottobre ha cambiato la nostra percezione e quella del mondo intero”. Con queste parole il dottor Ido Netanyahu, fratello del Primo Ministro israeliano, ha aperto il suo discorso al forum culturale “Shabatarbout” di Beer Sheva questo sabato. In un discorso dalle forti sfumature politiche, il medico di formazione ha analizzato la situazione in Israele e le lezioni da trarre dall'attacco terroristico che ha scosso il Paese.
“La stragrande maggioranza degli israeliani si è scrollata di dosso l'illusione che due Stati per due popoli possano portare la pace”, ha detto a un pubblico attento. “Solo una minoranza ne parla ancora. La gente ha finalmente capito cosa vogliono davvero i nostri nemici: la nostra distruzione, la nostra eliminazione”. Il fratello del capo del governo non ha nascosto la sua incomprensione per quella che considera una presa di coscienza tardiva: “Non so perché questa realtà non fosse evidente durante l'Intifada, dopo gli accordi di Oslo o dopo il disimpegno da Gaza. Oggi i nostri avversari dicono apertamente che Israele non ha diritto di esistere, il loro vero volto è finalmente svelato”. In questo contesto, Ido Netanyahu è stato categorico sulla necessità di mantenere il controllo israeliano: “Non dobbiamo rinunciare alla nostra presa minima tra il mare e il Giordano, compreso il controllo militare su Gaza finché vi risiede una popolazione ostile”.
• Un'indagine sistemica piuttosto che personale
Passando alla delicata questione di una commissione d'inchiesta sugli eventi del 7 ottobre, Netanyahu ha sostenuto la necessità di un approccio incentrato sulle disfunzioni istituzionali piuttosto che sulle responsabilità individuali. “Dobbiamo indagare, naturalmente, ma questa indagine non deve essere personale, nemmeno contro il Capo di Stato Maggiore”, ha sottolineato. L'obiettivo deve essere quello di evitare che simili disastri si ripetano, non di puntare il dito contro le colpe”. Per il fratello del Primo Ministro, la colpa principale risiede in un “malinteso generale” che prevaleva prima dell'attacco. “Dobbiamo trasformare i nostri sistemi in modo che funzionino correttamente, in modo che non ci sia un'unica concezione dominante. Potrebbe essere necessario rafforzare la cooperazione tra lo Shin Bet e l'esercito, che era chiaramente insufficiente”.
• Lo “Stato profondo” di Israele sotto tiro
Ido Netanyahu ha attaccato frontalmente quello che percepisce come uno “Stato profondo” che opera all'interno delle istituzioni israeliane. “Lo Stato profondo è questa burocrazia che ha accumulato troppo potere e non obbedisce più ai rappresentanti eletti dal popolo”, ha denunciato. “Questi funzionari pubblici pensano di sapere meglio di chiunque altro, perché si considerano più intelligenti e più istruiti dei cittadini comuni”. La sua critica più aspra è stata rivolta alla magistratura: “La Corte Suprema e la Procura lavorano fianco a fianco. Si considerano i saggi, i buoni, quelli che devono impedire a questi 'barbari' di governare il Paese. È una concezione elitaria direttamente collegata alla visione di [ex presidente della Corte Suprema] Aharon Barak di una 'democrazia sostanziale' in cui sono gli 'illuminati' a governare”.
• Posizioni forti su questioni di attualità
Sulla questione del recente licenziamento del capo dello Shin Bet, Netanyahu ha difeso fermamente la decisione del governo: “È diritto e persino dovere del governo decidere chi dirige gli organi di sicurezza dello Stato”. Ha inoltre criticato i ricorsi presentati alla Corte Suprema contro la decisione, affermando che avrebbero dovuto essere “respinti ad ogni livello”. Nonostante le attuali tensioni sociali e politiche in Israele, Ido Netanyahu si è detto fiducioso che il Paese non scenderà in una guerra civile, “perché la maggioranza del popolo non appoggia un simile scenario”. Queste dichiarazioni del fratello del Primo Ministro arrivano in un momento critico in cui la società israeliana è profondamente divisa, tra coloro che sostengono la politica del governo e coloro che manifestano regolarmente contro alcune decisioni, in particolare la riforma giudiziaria e il recente licenziamento del capo dello Shin Bet. Alla domanda del conduttore sui suoi legami con il fratello Primo Ministro, Ido Netanyahu ha risposto semplicemente che stava esprimendo le sue opinioni personali, frutto delle sue riflessioni di cittadino israeliano, senza pretendere di parlare a nome del governo.
(i24, 22 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’ostaggio all’Onu
di Giulio Meotti
ROMA -“Mi chiamo Eli Sharabi. Ho 53 anni. Sono tornato dall’inferno. Sono tornato per raccontare la mia storia”.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu non l’aveva mai sentito un discorso simile. Lo ha pronunciato uno degli ostaggi israeliani liberati il mese scorso dalla prigionia da Gaza, sfinito, si reggeva appena in piedi, senza più la moglie e le figlie, uccise da Hamas.
“Il 7 ottobre il mio paradiso si è trasformato in inferno. Per 491 giorni, sono stato tenuto sotto terra nei tunnel del terrore di Hamas, incatenato, affamato, picchiato e umiliato. Sono sopravvissuto con avanzi di cibo, senza cure mediche e senza pietà”.
Quando è stato rilasciato, Eli pesava 44 chili. Ne aveva persi 30, la metà del suo peso corporeo.
“Ho sognato di rivedere la mia famiglia e solo quando sono tornato a casa, ho scoperto la verità”, ha detto Sharabi al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La moglie e le figlie massacrate dai terroristi di Hamas. Il corpo di suo fratello Yossi, assassinato durante la prigionia, è ancora in ostaggio.
“Mentre mi trascinavano fuori, ho gridato alle mie figlie: ‘Tornerò’. Ma quella è stata l’ultima volta che le ho viste. Ho visto più di cento terroristi filmarsi mentre festeggiavano, ridevano, facevano festa nei nostri giardini mentre massacravano i miei amici e vicini”.
Quando è arrivato a Gaza, una folla di civili ha cercato di linciarlo.
“Mi hanno tirato fuori dall’auto, ma i terroristi mi hanno portato via di corsa in una moschea. Ero il loro trofeo”.
Per i primi 52 giorni, Eli è stato tenuto in un appartamento. Era legato con delle corde.
“Le mie braccia e le mie gambe erano legate così strettamente che le corde mi laceravano la carne. Non mi hanno dato quasi niente da mangiare, niente acqua e non riuscivo a dormire. Il dolore era insopportabile”.
Poi Hamas lo ha portato in un tunnel. A cinquanta metri sotto terra. Le catene non gliele hanno mai tolte.
“Quelle catene mi hanno lacerato fino al giorno in cui sono stato rilasciato. Ogni passo che facevo non era più lungo di dieci centimetri. Ogni passeggiata verso il bagno richiedeva un’eternità. Non riesco nemmeno a descrivere l’agonia. Era un inferno”.
Gli davano da mangiare un pezzo di pita al giorno. La fame consumava tutto.
“Mi picchiavano. Mi rompevano le costole. Non me ne importava. Volevo solo un pezzo di pane. Non c’era mai abbastanza cibo. A volte, se imploravamo abbastanza, ottenevamo qualcosa in più. Dovevamo scegliere: un pezzo di pita in più o una tazza di tè. A volte ci lanciavano datteri secchi, e sembrava il regalo più bello del mondo. Dovevamo implorare cibo, implorare di andare in bagno”.
L’implorazione era la sua esistenza. Un giorno Eli si è tagliato con un rasoio per fargli credere che era ferito.
“Sono crollato mentre andavo in bagno così avrebbero pensato che ero troppo debole e li avrebbero incoraggiati a darci altro cibo. Ha funzionato. Ci hanno dato altro cibo. Siamo sopravvissuti grazie a quelle piccole vittorie”.
Ha fatto solo un bagno al mese, con mezzo secchio di acqua. Un giorno, un terrorista ha sfogato la sua rabbia su Eli. Gli ha rotto le costole.
“Non sono riuscito a respirare correttamente per un mese”.
L’8 febbraio Eli è stato rilasciato. Pesava 44 chili.
“Meno del peso corporeo della mia figlia più piccola, Yahel. Ero un guscio di me stesso. Lo sono ancora”.
Una rappresentante della Croce Rossa gli ha detto: “Ora sei al sicuro”.
“Dov’era stata la Croce Rossa negli ultimi 491 giorni?”, ha detto ancora Eli all’Onu.
“Dov’erano le Nazioni Unite?”
A redigere rapporti in cui Sharabi è ritratto come il colpevole del proprio rapimento e dell’uccisione dei suoi famigliari, ecco dov’era.
Il Foglio, 22 marzo 2025)
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Il pogrom è tuttora in corso d'opera. Esseri umani sono rinchiusi, incatenati, seviziati, torturati e tenuti sul mercato come merce di scambio a condizioni vantaggiose per i torturatori. Il mondo lo sa, ed è indignato non per quello che fanno i torturatori, ma per come reagisce Israele. M.C.
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Il governo vota all’unanimità per porre fine al mandato del capo dello Shin Bet Ronen Bar
di Luca Spizzichino
Il governo israeliano ha votato all’unanimità per porre fine al mandato di Ronen Bar come capo dello Shin Bet, secondo quanto annunciato dall’Ufficio del Primo Ministro nelle prime ore di venerdì mattina. Bar lascerà l’incarico il 10 aprile o quando verrà nominato un nuovo capo dello Shin Bet, a seconda di quale evento si verificherà per primo.
La decisione di licenziarlo è stata avanzata dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che domenica sera aveva annunciato la sua intenzione di proporre la rimozione del capo dello Shin Bet con 18 mesi di anticipo sulla scadenza naturale del mandato. Netanyahu ha motivato la sua decisione affermando di aver perso fiducia in Bar dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele. Secondo il Primo Ministro, Bar sarebbe stato “troppo morbido” e “non la persona giusta per riabilitare l’organizzazione”. Ha inoltre sostenuto che la sua rimozione dalla squadra negoziale abbia ridotto significativamente le fughe di informazioni e migliorato le trattative per il rilascio degli ostaggi.
Tuttavia, Bar ha replicato con una lettera inviata ai ministri del governo, in cui ha criticato le accuse mosse contro di lui definendole “pretestuose e basate su motivazioni estranee alla sicurezza nazionale”. Ha anche affermato che la decisione del governo rischia di indebolire il paese “sia internamente che nei confronti dei suoi nemici”.
Alla riunione di governo ha partecipato anche il Procuratore Generale Gali Baharav-Miara, mentre Bar non era presente. Nel frattempo, centinaia di israeliani si sono radunati fuori dall’ufficio del Primo Ministro a Gerusalemme per protestare contro la decisione dell’esecutivo di destituire il capo dello Shin Bet.
(Shalom, 21 marzo 2025)
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Quanto è indipendente Israele?
Quanto è indipendente il sistema politico e militare dalle potenze straniere?
di Aviel Schneider
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Il nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, Eyal Zamir, all'inizio di marzo al Muro del Pianto di Gerusalemme
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GERUSALEMME - Israele può davvero decidere tutto da solo? Probabilmente no. Da tempo nel Paese si discute se la leadership dell'esercito, in particolare dello Stato Maggiore, sia caratterizzata da un'ideologia di sinistra e se i suoi concetti strategici nel Paese siano irrealistici. Queste critiche provengono principalmente dai circoli conservatori nazionali, che accusano i vertici militari israeliani di non intraprendere azioni sufficientemente decisive contro i nemici di Israele e di essere troppo attenti alla politica. Anche il governo israeliano guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu è accusato di essere controllato dall'estero. Lui e la sua coalizione religiosa di destra si trovano sempre più spesso di fronte all'accusa che la politica bellica di Israele sia determinata da Washington.
I critici sostengono che molti ufficiali e generali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno una visione del mondo piuttosto liberale o di sinistra. In particolare, si sottolinea che gli ufficiali spesso entrano in politica dopo la carriera militare e si posizionano a sinistra, come Benny Gantz, Ehud Barak o Moshe Yaalon. Di conseguenza, Israele mostra un'eccessiva indulgenza nei confronti dei suoi nemici, è l'accusa.
• La politica militare di Israele
Non sono solo i politici di destra, come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ad accusare da anni i generali. L'intero panel del canale televisivo conservatore 14 è dello stesso parere. Essi sostengono che la tolleranza porta a una politica militare cauta, spesso contenuta, che indebolisce la deterrenza di Israele.
Israele non è un esercito aggressivo e questo è di per sé un punto debole in Medio Oriente. L'esercito israeliano è semplicemente troppo misericordioso per gli standard arabi e non si possono vincere le guerre con un colpo di mano in una regione islamica. Basti pensare alle azioni di Israele nell'attuale guerra a Gaza. L'opinione maggioritaria nel Paese è che dovrebbe tagliare le forniture di elettricità e acqua ai suoi nemici a Gaza e sospendere tutte le consegne di aiuti umanitari finché gli ostaggi israeliani sono tenuti nei tunnel del terrore.
Voci conservatrici, tra cui politici e commentatori, accusano i militari di aggrapparsi a concetti falliti come la strategia della concessione in cambio della pace. Le critiche sono state particolarmente forti dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005 e la falsa convinzione che le concessioni territoriali potessero portare sicurezza. Dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, ci sono state accuse massicce contro i militari per aver valutato male la minaccia proveniente dalla Striscia di Gaza.
• L’influenza di Washington
Un'accusa frequente è che Washington influenzi indirettamente la leadership militare di Israele. Si sostiene che gli Stati Uniti esercitino pressioni per moderare le azioni di Israele nei conflitti. Alcuni critici ritengono addirittura che i generali di alto rango vengano promossi per il loro allineamento con gli interessi americani.
La controargomentazione è che i processi decisionali militari sono spesso complessi e le strategie si basano su analisi di sicurezza piuttosto che sulla semplice ideologia politica. L'esercito israeliano agisce spesso con la mano pesante quando è necessario, il che non si concilia con una posizione di sinistra. Le buone relazioni con gli Stati Uniti sono fondamentali, poiché la dipendenza militare ed economica dagli USA rende inevitabile il coordinamento con Washington. Questa discussione rimane parte integrante della politica israeliana ed è stata sottolineata più volte, soprattutto dopo il 7 ottobre.
L'accusa dei politici di destra, che accusano i vertici dell'esercito di essere l'America a determinare la strategia e i generali di Israele, vale quindi anche per il governo. Da quando Donald Trump è tornato presidente degli Stati Uniti, in Israele si sono moltiplicate le critiche al fatto che Benjamin Netanyahu sia sottoposto a pressioni da parte di Washington, questa volta da parte di un'amministrazione repubblicana. Netanyahu si è spesso scontrato in passato con i rappresentanti delle amministrazioni democratiche statunitensi, come Barack Obama o Joe Biden, ma ora si sta piegando ai desideri di Trump per quanto riguarda l'accordo sugli ostaggi e il cessate il fuoco con Hamas, si dice.
I critici sostengono che Netanyahu abbia ammorbidito la sua dura posizione su un possibile accordo con Hamas perché Trump glielo chiede. Trump potrebbe essere interessato a garantire che il conflitto in Medio Oriente non si inasprisca ulteriormente, dal momento che ha annunciato di essere venuto per portare la pace, sia nel conflitto tra Russia e Ucraina che in Israele. Gli Stati Uniti sono coinvolti nei negoziati per il rilascio degli ostaggi israeliani e si ipotizza che l'amministrazione Trump stia usando pressioni o incentivi per convincere Israele a scendere a compromessi.
Si dice che Trump abbia esortato Netanyahu a limitare le operazioni militari nella Striscia di Gaza o ad accettare un cessate il fuoco temporaneo. Il motivo potrebbe essere che Trump non vuole mettere Israele in una situazione di guerra regionale di massa con l'Iran e gli altri suoi scagnozzi, che sarebbe problematica anche per gli Stati Uniti.
• Non abbastanza coerente
Le critiche del campo della destra rimproverano quindi a Netanyahu di non aver agito con sufficiente coerenza contro Hamas e di essersi lasciato guidare dagli americani. Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da un lato, vuole presentarsi come un leader forte che non si lascia imporre nulla dagli Stati Uniti. Dall'altro lato, Israele dipende dagli Stati Uniti dal punto di vista economico, diplomatico e militare. Alcune voci conservatrici - cioè della sua base elettorale - lo accusano di essersi subordinato a Trump, mentre i critici di sinistra e centristi dicono che sta giocando sul tempo e che sfrutterebbe ogni opportunità per rimanere al potere. Netanyahu ha sottolineato pubblicamente che Israele prende le proprie decisioni, ma gli addetti ai lavori vedono Washington giocare un ruolo importante nei negoziati.
Netanyahu è noto per la sua resilienza di fronte alle pressioni degli Stati Uniti. In passato, ha sfidato Obama e Biden sulla politica iraniana e sulla costruzione degli insediamenti. Ma Trump è di un altro livello. Non vuole mettersi contro di lui perché Trump e Netanyahu hanno tradizionalmente mantenuto stretti rapporti. Come controargomento, è più probabile che i due abbiano interessi simili su molti punti piuttosto che Trump stia “dando istruzioni a Netanyahu”.
Le accuse a Netanyahu di essere “dettato” da Trump provengono principalmente dagli integralisti di destra che non vogliono un compromesso con Hamas, oltre che dai critici di sinistra che vedono Netanyahu come tatticamente opportunista - ancora una volta, gli stessi ministri sopra citati e il canale televisivo 14. Sebbene sia ovvio che gli Stati Uniti stiano giocando un ruolo importante nel cessate il fuoco e nella questione degli ostaggi, rimane il dubbio se Netanyahu stia davvero agendo direttamente su istruzioni di Trump - o se semplicemente ritenga politicamente prudente lavorare con l'amministrazione Trump.
La politica fa parte della vita, allora come oggi. Ma la Bibbia sottolinea ripetutamente che Israele deve dipendere dal suo Dio prima che le potenze straniere possano interferire con la vita in Israele.
(Israel Heute, 21 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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È tempo di invadere Gaza e concludere con Hamas
di Giovanni Giacalone
Il 29 gennaio 2024 scrissi un breve articolo per il Washington Outsider intitolato “Limitazioni di tempo, negoziati e cessate il fuoco non vanno d’accordo con l’obiettivo di sradicare Hamas”, in cui criticavo la pressione esercitata dall’ex amministrazione statunitense su Israele per porre fine frettolosamente alla guerra a Gaza e negoziare con Hamas. Tra le altre cose, scrivevo che era assurdo anche solo pensare che sarebbe stato possibile sradicare 17 anni di governo di Hamas in un paio di mesi; che non si trattava solo di una guerra tra Hamas e Israele, ma di un conflitto regionale più ampio che coinvolgeva l’Iran e i suoi altri delegati, gli Houthi e Hezbollah.
Per quanto riguarda i negoziati sugli ostaggi, scrivevo che era altresì impossibile sradicare Hamas e allo stesso tempo cercare di concludere un accordo con essa, poiché, in quanto organizzazione terroristica e genocida, non è affidabile. Ma, cosa più importante, chiarivo che gli ostaggi sono l’unica assicurazione che possiede Hamas contro il suo sradicamento da Gaza. È quindi da ingenui credere che tutti gli ostaggi saranno rilasciati.
Siamo nel marzo 2025 e Hamas è ancora a Gaza, così come vi si trovano 59 ostaggi (24 indicati come ancora vivi e il resto presumibilmente morto, secondo le ultime informazioni). Hamas non ha rispettato l’accordo, rifiutandosi di liberare altri ostaggi e incolpando Israele, come sempre.
Lo ripeto ancora una volta, Hamas non libererà tutti gli ostaggi. Non c’è assolutamente alcun interesse da parte del gruppo terroristico a farlo. I leader di Hamas punteranno a trascinare il processo di rilascio per mesi, forse anni e, nel frattempo, Hamas chiederà garanzie sulla sua permanenza e sul suo ruolo politico a Gaza, mentre si riorganizza e si riarma.
Inoltre, l’intero meccanismo di rilascio di alcuni ostaggi al momento non avvantaggia nessuno, tranne Hamas (e chiunque altro desideri mantenere la situazione attuale). Gli ostaggi rimasti ancora vivi non sopravviveranno a lungo nei campi di concentramento sotterranei di Hamas. Inoltre, è ingiusto che alcuni vengano rilasciati e altri no. Meritano tutti di essere liberati immediatamente.
Il meccanismo del “pochi per volta” non fa che prolungare la problematica questione israeliana interna relativa alle manifestazioni a favore di un “accordo” che implicherebbe la resa a Hamas e al terrorismo transnazionale. Naturalmente, le famiglie degli ostaggi desiderano credere che accettare le richieste di Hamas sarebbe la soluzione, e ciò è comprensibile data la situazione drammatica in cui si trovano. Tuttavia, non viviamo nel Paese delle Meraviglie di Alice e la realtà spesso differisce da ciò che desideriamo.
Hamas deve essere sottoposta a una pressione tale da non avere altra scelta che quella di rilasciare gli ostaggi. Anche il Qatar, in quanto sostenitore di lunga data di Hamas, nonostante il suo presunto ruolo di “mediatore”, dovrebbe essere sottoposto a pressioni, e gli Stati Uniti hanno tutti gli strumenti per poterlo fare.
Come ho scritto più volte, stringere accordi con i terroristi è sbagliato, non solo sotto un profilo etico, ma anche pratico.
- I negoziati e gli accordi incoraggiano i terroristi a ripetere le atrocità già commesse, perché sanno che alla fine del gioco le loro richieste saranno soddisfatte. Negoziare con i terroristi significa mettere a rischio la vita di più cittadini, perché diventeranno bersagli di più azioni terroristiche, dentro e fuori i confini. (Hamas ha riconfermato che perpetrerà altri attacchi, e lo farà, forse attraverso le mani di coloro che vengono rilasciati da Israele. Inoltre, è emerso di recente che Hamas stava pianificando un nuovo attacco in stile 7 ottobre da Gaza). Non dimentichiamo inoltre che l’eccidio del 7 ottobre è stato il risultato di precedenti negoziati.
- I negoziati forniscono legittimità politica all’organizzazione terroristica, elevandola a interlocutore legittimo, quando invece andrebbe emarginata e sottoposta a forti pressioni con tutti i mezzi a disposizione.
- I negoziati e i possibili accordi permettono ai terroristi di potenziare la loro propaganda, presentando i risultati ottenuti come una “grande vittoria della resistenza”. È esattamente ciò che è accaduto durante la liberazione degli ostaggi, con Hamas che ha allestito un palcoscenico per dimostrare di essere ancora al potere, mentre umiliava gli ostaggi liberati.
- I terroristi e i loro sostenitori tendono a chiedere che il livello del conflitto venga innalzato quando sono in preda all’esaltazione. Ciò è chiaro e ovvio, perché quando i terroristi percepiscono la negoziazione come una “vittoria della resistenza” o una “resa del nemico”, mirano a persistere nella lotta con maggiore intensità.
L’unico modo per sradicare Hamas da Gaza è invadere la Striscia, occuparla militarmente e soffocare l’organizzazione terroristica fino alla sua resa completa. Il nemico deve essere accerchiato e totalmente isolato per evitare la possibilità di rifornirsi di armi, carburante e qualsiasi altro bene. Tutti i suoi leader devono essere braccati, ovunque si nascondano.
Questo è ciò che la coalizione guidata dagli USA ha fatto a Mosul contro l’ISIS; questo è ciò che l’esercito russo ha fatto in Cecenia durante la seconda guerra cecena. I ceceni hanno utilizzato tunnel e nascondigli sotterranei per evitare le truppe russe, ma questo espediente non li ha aiutati nel medio-lungo termine. Sarebbe stato ipotizzabile che gli USA o la Russia avrebbero concesso “aiuti umanitari” e carburante al loro nemico nel corso dell’assedio?
È arrivato il momento di entrare in azione e completare il lavoro. Contrariamente a quanto alcuni leader europei e arabi vorrebbero credere, l’unico ostacolo alla pace è Hamas, non l’attività militare israeliana, e il conflitto non può finire finché l’organizzazione terroristica non sarà stata sradicata.
(L'informale, 21 marzo 2025 - trad. Niram Ferretti)
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Israele è all’ottavo posto nella classifica dei Paesi più felici al mondo
di Jacqueline Sermoneta

Sebbene stia vivendo uno dei periodi più difficili della sua storia, Israele resta nella top ten dei Paesi più felici al mondo. Lo Stato ebraico si posiziona all’ottavo posto, secondo la classifica del World Happiness Report 2025, la pubblicazione annuale delle Nazioni Unite. Il rapporto valuta, attraverso un sondaggio di auto-valutazione, il benessere globale della vita da parte dei cittadini e si basa su fattori quali reddito, supporto sociale, livello di istruzione, salute pubblica, livello di corruzione, libertà di stampa e fiducia nelle istituzioni.
Israele, nonostante sia sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, continua a eccellere nella qualità delle relazioni sociali, anche se si rileva una minore aspettativa di vita e un calo della fiducia nelle istituzioni governative.
Le nazioni nordiche dominano la classifica. La Finlandia è al primo posto per l’ottavo anno consecutivo, seguita da Danimarca e Islanda, poi da Svezia e Paesi Bassi per chiudere la top five. Costa Rica e Norvegia precedono Israele che è seguito da Lussemburgo e Messico. L’Australia si è classificata all’11esimo posto, mentre gli Stati Uniti, mai stati così infelici, scendono al 24esimo, posizione attribuita soprattutto alla solitudine e ai problemi economici che hanno i giovani americani.
Israele detiene il primo posto fra i Paesi più felici in Medio Oriente. Il Libano è quasi in fondo alla classifica con il 145esimo posto, lo Yemen è al 140 e l’Iran al 99. L’Afghanistan è ancora una volta all’ultimo posto (il 147), preceduto da Sierra Leone, Libano, Malawi e Zimbabwe. L’Italia è salita di una posizione rispetto all’anno precedente, collocandosi al 40esimo posto.
Il World Happiness Report è realizzato grazie alla partnership tra la multinazionale di statistica Gallup, il Centro di Ricerca Wellbeing di Oxford, il Network delle Soluzioni per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
(Shalom, 21 marzo 2025)
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Parashà della settimana: Va'Jakel - Pecudè (Convocò - Inventario)
Esodo 35:1-38:20, 38:21-40:38
- Le due parashot Va-jakel (convocò l'assemblea) e Pecudè (inventario del Santuario) che chiudono il libro dell'Esodo, sono consacrate alla realizzazione del Tabernacolo. Dopo aver dato il programma per la sua costruzione nelle parashot di Terumà e Tezavè, la Torah ritorna sui dettagli per completarne l'opera. Bisogna notare che tra queste parashot si inserisce la parashà di Ki-Tissà con l'episodio del vitello d'oro. Per riparare questo peccato di idolatria, secondo Rashì, D-o ordina a Moshè di continuare la costruzione del Santuario e di osservare il giorno del sabato. "Per sei giorni lavorerai, ma il settimo giorno sarà per voi giorno di riposo, sabato consacrato al Signore" (Es. 35.2).
Quale è il legame tra il Tabernacolo e il sabato? Il primo è la santificazione dello spazio mentre il secondo è la santificazione del tempo. Le due dimensioni della Creazione a cui si aggiunge quella dell'Essere, che tramite la sua opera, malgrado la sua caduta per il peccato, può continuare nella realizzazione del processo di Redenzione mediante l'osservanza del sabato. Rabbi Eliezer sostiene che per merito dello shabat ogni peccatore viene salvato dal gheinnom (inferno). Il Bet Halevì sostiene che il ricordo e l'osservanza del sabato permettono la teshuvà (pentimento) e il perdono. Il tempo sacro del sabato deve essere usato dall'uomo per conoscere l'amore di D-o verso le sue creature come scritto: "Signore misericordioso, tardivo nella collera, pieno di bontà e di verità" (Es. 34.6).
Da questa ottica la costruzione del Santuario può essere considerata come la costruzione della casa "nuziale" dove i novelli sposi sono uniti con amore e fedeltà. Ma dopo il peccato di idolatria, la sposa adultera è terrorizzata dal pensiero che lo sposo possa abbandonarla, cosa questa che non accade. Lo sposo le offre la possibilità di riparare con il dono del sabato che più di ogni altro giorno, esprime il perdono Divino.
La costruzione del Tabernacolo
"Tutti gli uomini saggi di cuore tra di voi, verranno e faranno quello che il Signore ha ordinato" (Es. 35.10). L'espressione "saggi di cuore" è ripetuta per ben quattro volte nella nostra parashà. Quale è il significato di questa ripetizione? L'opinione comune è che la saggezza risieda nella mente dell'uomo e non sia legata al suo cuore che invece ne determina il suo comportamento. Difatti un uomo può essere un grande saggio, ma nella realtà si comporta senza etica. La Torah con questo vuole insegnarci che colui che costruisce la Casa di D-o deve essere un uomo saggio di cuore nel senso che non vi sia contrasto tra la sua saggezza e il suo comportamento.
Le offerte
"I principi delle tribù recano pietre d'onice e pietre da incastonare per il dorsale e il pettorale del gran Sacerdote" (Es. 35.27). Un commento alla Torah (il kelì yacar) fa notare che la parola "principi" è scritta senza la lettera Yod ed interpreta questa omissione come una punizione per costoro. Difatti i principi delle tribù dicono: "Aspettiamo che il popolo abbia finito di offrire e poi quello che manca verrà offerto da noi". Questo atteggiamento di orgoglio nell'ostentare la propria ricchezza, è stato punito dal Signore, togliendo il suo Nome (lettera Yod) dal contesto.
Con le ultime parashot sulla costruzione del Tabernacolo si chiude il libro dell'Esodo. A questo punto un ebreo, osservante della Torah, deve domandarsi: "Cosa vengono ad insegnarci e in come possono cambiare la nostra vita?" In Pecudè è scritto: "Questi sono gli inventari del Tabernacolo, il Tabernacolo della testimonianza" (Es. 38.21). Perché la parola Tabernacolo è ripetuta due volte? La Torah, spiegano i nostri Saggi, fa allusione ai due Santuari che in Gerusalemme verranno distrutti. Questa profezia sembra contraddire i fondamenti della morale sulla libertà dell'uomo nelle sue scelte. In realtà gli avvenimenti previsti nella Storia dalla profezia, sono inevitabili, ma saranno gli uomini a determinarne i processi con le loro azioni.
Il libro dell'Esodo, per terminare, è il libro della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d'Egitto e si chiude con la parashà di Pecudè. La storia del popolo ebraico, fatta di ombre e di luce, ha inizio per raggiungere la sua meta finale (Redenzione) con la costruzione del terzo Tempio in Gerusalemme, che sarà una "Casa di preghiera per tutti i popoli della terra" (Isaia 56.7). F.C.
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- Riprendiamo il commento da dove siamo rimasti la volta scorsa.
La terribile crisi del Sinai
Con il suo intervento Mosè è riuscito a far recedere Dio dal suo proposito di sterminare il popolo. Ma la questione resta ancora tutta aperta. Adesso Mosè ha capito la gravità di quanto è accaduto, che non è una semplice disubbidienza, ma la rottura di un patto solennemente concluso poco prima. Al popolo dice: "... ora salirò all'Eterno; forse potrò fare espiazione (cafar, כפר) per il vostro peccato" (Es. 32:30, Nuova Diodati). Molte traduzioni usano qui il verbo "perdonare", ma espiare non è la stessa cosa di perdonare, quindi è meglio tradurre alla lettera.
E' importante il termine "forse", da cui si capisce che in questo momento è ancora tutto in gioco. Mosè adesso deve intraprendere un difficile tentativo di riconciliazione con Dio. Secondo alcune traduzioni, Mosè dice al Signore: "... nondimeno, perdona ora il loro peccato" (Es. 32:32), ma anche questo non è esatto. Mosè non chiede in modo diretto di perdonare, ma presenta al Signore due "se": "SE tu perdoni (lett. sopporti) il loro peccato... (sottinteso: bene), SE NO, cancellami dal tuo libro" . La cosa insomma è messa in forma di aut aut. Il Signore naturalmente lo capisce, ma non si sottopone al dilemma. La sua risposta comunque è enigmatica, aperta a molte interpretazioni. Non cancella Mosè dal libro della vita, perché non è lui che ha peccato, ma quanto al popolo si riserva di decidere quando sarà il momento di punirlo per il suo peccato. In che modo? Non è detto, ma certamente non si può pensare che sia lo sterminio dei tremila idolatri gozzovigliatori avvenuto poco prima: quello è soltanto un segno dell'ira di Dio che incombe su tutto il popolo.
"Andate pure, ma io non vengo"
Nel drammatico confronto fra Dio e Mosè che ha come posta in gioco il destino di Israele, Mosè adesso assume decisamente la parte del popolo. Parte pericolosa, perché un errore nella scelta delle parole potrebbe renderlo complice del popolo, e quindi partecipe della relativa condanna.
Il Signore potrebbe aver detto a Mosè qualcosa del genere: "Tu mi hai ricordato che ho promesso ad Abramo di dare alla sua progenie un paese; va bene, allora va', prendi il popolo che hai tratto dal paese d'Egitto e conducilo nel paese che ho promesso di dargli. Non ti preoccupare, manderò davanti a te un angelo come guida e sconfiggerò i nemici che ti verranno contro, ma io non salirò in mezzo a te". E dicendo "te", il Signore identifica Mosè con il popolo.
Il resto delle parole potrebbe essere immaginato così: "Quindi puoi anche risparmiarti la fatica di costruire il tabernacolo, che doveva servire a far sì che Io potessi abitare in mezzo a te, perché tanto non ci verrò". Dio dunque non cancella il popolo, come Mosè gli aveva chiesto, ma cancella tutto quello che aveva detto a Mosè in quei quaranta giorni e quaranta notti. Tabula rasa. Si riparte da zero.
Mosè riferisce queste parole al popolo e intorno a lui si spande il terrore. L'Eterno però non si commuove, anzi insiste, e incarica Mosè di dire ancora una volta al popolo che è di collo duro, e che devono essere contenti se Lui non va' con loro, perché se lo facesse, dovrebbe distruggerli.
Ma allora, adesso, che succederà? E' certamente il pensiero del popolo. Il Signore risponde con una frase sibillina: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:59). Parole certamente non rassicuranti.
La situazione è tesissima, drammatica, col rischio di finire in tragedia. Mosè però non molla. Non vuole lasciare così le cose. Vuole tentare il tutto per tutto; vuole verificare, come si direbbe oggi, se esiste ancora "uno spazio per il dialogo". Allora, visto che il Signore non vuole avvicinarsi al popolo e non vuole che il popolo si avvicini a Lui, di sua propria iniziativa monta una tenda fuori dell'accampamento e la chiama "Tenda d'incontro". Incontro tra Dio e Mosè, naturalmente, perché in questo momento il popolo è completamente tagliato fuori. Il Signore accetta il dialogo, e in quella tenda s'intrattiene con Mosè parlando con lui "faccia a faccia", come si fa tra uomini. Il popolo osserva in silenzio, timoroso. A distanza segue le severe istruzioni ricevute: alzarsi in piedi quando vedono Mosè andare verso il luogo d'incontro, seguirlo con lo sguardo e non avvicinarsi mai alla tenda. Non è riportato quello che i due si sono detti in quella tenda, ma tutti capiscono che è dall'esito di quei colloqui che dipende la salvezza del popolo.
I secondi quaranta giorni e quaranta notti
Sappiamo dal resoconto del Deuteronomio che Mosè passò altri quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai, a digiuno, a parlare animatamente col Signore. E' in questo tempo che probabilmente si svolse il colloquio riportato sinteticamente in Esodo 33:12-16. E' un colloquio d'importanza eccezionale: si può dire che proprio qui avviene la svolta decisiva che determinerà il futuro d'Israele.
All'inizio della vicenda storica d'Israele, quando il popolo si trovava ancora sotto il giogo del Faraone, si vede Dio che chiama Mosè dal roveto ardente e fa pressioni su di lui affinché accetti di tornare in Egitto per liberare il suo popolo dalla schiavitù e portarglielo al Sinai, dove stringerà con lui un patto di unione. Adesso invece è Mosè che fa pressioni su Dio, cercando argomenti per convincerlo a non staccarsi da quel popolo che ora si trova davanti a Lui.
Lincipit del suo discorso è straordinario. "Vedi, - inizia Mosè con il tono affettuoso di chi vuole portare qualcuno, con grande pazienza, a rendersi conto di quello che in fondo già conosce - tu mi dici: Fa' salire questo popolo". Magistralmente Mosè conduce l'attenzione del Signore non sul popolo, non su se stesso, non su qualche principio di morale universale, ma su quello che Dio stesso ha detto. Questo è di importanza fondamentale nel rapporto dell'uomo con il Dio vivente e vero; con gli idoli invece è tutto un altro discorso. Quando Dio aveva manifestato la volontà distruggere Israele, Mosè gli aveva ricordato quello che aveva detto ad Abramo; adesso, quando Dio minaccia di non voler salire in mezzo al popolo, Mosè gli ricorda quello che ha detto a lui.
In tutto il suo argomentare le parole chiave sono due: "conoscere" (yada, ידע) e "grazia" (khen, חן), che in soli cinque versetti compaiono entrambe quattro volte. Fino a questo momento, il Signore, come diremmo noi oggi, "non aveva ancora scoperto le sue carte". Con l'ermetica frase: "Conosco io quello che ti farò", si era riservato di procedere a modo suo su tutta la faccenda. Lobiettivo di Mosè adesso è di arrivare a conoscere quello che Dio vorrà, e naturalmente di indirizzarlo verso quello che desidera. Cerchiamo allora di immaginare quello che Mosè può aver detto a Dio.
"Tu dici che mi conosci per nome, ma non mi fai conoscere chi verrà con me". La domanda inespressa è: verrai o non verrai? Poi aggiunge: "Tu dici che mi conosci per nome e che ho trovato grazia agli occhi tuoi, ma come farò io a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi se tu non mi fai conoscere le tue intenzioni". E aggiunge: "E considera che questa nazione è popolo tuo".
Dio gli risponde come se pensasse che Mosè sia preoccupato del suo destino personale e gli dice di stare tranquillo: "La mia presenza (lett. faccia) verrà, e io ti darò riposo". La frase non è chiara: Mosè può pensare che Dio voglia rassicurarlo personalmente, senza sbilanciarsi su quello che farà del popolo. Allora si fa ardito e lo mette un'altra volta davanti a una specie di aut aut, in cui accosta sempre "io" e "il tuo popolo":
"Mosè gli disse: «Se la tua presenza non viene, non ci far partire di qui. Perché come si farà a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi, io e il tuo popolo, se tu non vieni con noi? Questo fatto distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra» (Es. 33:15-16).
Un segno di pace
Il Signore acconsente alla richiesta fattagli, con una motivazione che è sempre e soltanto legata alla persona di Mosè: "... perché tu hai trovato grazia agli occhi miei e ti conosco per nome" (Es. 33:17).
A questo punto Mosè diventa ancora più ardito e chiede a Dio di dargli un segno di pace, qualcosa che lo possa rassicurare, che gli dia la certezza che tutto è tornato come prima: gli chiede di farsi vedere nella sua gloria, come era accaduto quando si trovavano gioiosamente insieme con i settanta anziani sul monte Sinai, dopo la firma del patto. Lo chiede umilmente, con timore. Nel testo infatti compare linteriezione na (נא) che alcune traduzioni tralasciano, altre rendono con un ti prego, altre ancora con un antiquato ma più espressivo Deh! Una traduzione efficace potrebbe essere: Su, fammi vedere la tua gloria! che Mosè pronuncia in tono di supplica, perché questa volta teme di non poter essere esaudito. Ed è così. Il Signore risponde che nella stessa forma di prima non è possibile: adesso, dopo quello che è accaduto, neppure Mosè può vedere la faccia di Dio e vivere: la morte è entrata nella storia del popolo. E tuttavia, per dare un segnale che Dio stesso si incaricherà di risolvere il problema di vita o di morte presente nel popolo, acconsente a farsi vedere da dietro.
Questo però non avverrà subito: prima Dio dovrà dare a Mosè nuove istruzioni.
Le nuove tavole
Dio ordina a Mosè di tagliare due tavole di pietra, come quelle di prima, e di portargliele sul monte il giorno dopo, di buon mattino, assolutamente solo (Es. 34:1-4). Su queste tavole Dio scriverà le stesse dieci parole che aveva scritto nelle prime, ma è chiaro che la situazione ora è diversa. Adesso c'è la mano dell'uomo. Questo è qualcosa di meno, rispetto alla volontà originaria di Dio espressa nelle prime tavole, ma è qualcosa di più, rispetto al peccato del popolo, il quale, se non fosse stato per l'opera mediatrice di quell'uomo che ha tagliato le tavole, sarebbe scomparso dalla faccia della terra.
Dopo averle prese in mano, il Signore acconsente alla richiesta di Mosè e si fa vedere da dietro nella sua gloria (Es. 34:5-9). Quello che Mosè sente sono parole di misericordia, benignità, fedeltà di Dio, ma anche di peccato, iniquità, trasgressioni del popolo. E minacce e punizioni. Non è lo stesso linguaggio del primo patto.
Subito dopo Mosè s'inchina a terra, adora e chiede a Dio tre cose: 1) "Venga il Signore in mezzo a noi; 2) "Perdona la nostra iniquità e il nostro peccato"; 3) "Prendici come tua eredità" (Es. 34:8-9).
Possiamo ritenere che il Signore abbia esaudito tutte queste richieste, ma il compimento di questi esaudimenti avverrà lungo un decorso storico secolare. Si discute sui tempi e sui modi in cui questi esaudimenti sono avvenuti o devono ancora avvenire, ma in ogni caso continua ad essere presente nei secoli il segno indiscutibile di un fatto che Mosè è riuscito ad ottenere da Dio: il popolo d'Israele vive.
Un altro patto
"L'Eterno rispose: 'Ecco, io faccio un patto: farò dinanzi a tutto il tuo popolo meraviglie..." (Es. 34:10). Prima di questo versetto, alcune Bibbie scrivono come soprattitolo: "Il patto rinnovato (o confermato)". Questo secondo patto però non è un rinnovo o una conferma del primo, così come il patto con Noè non è un rinnovo o una conferma del patto con Adamo. Questo secondo patto, come il patto con Noè, è conseguenza della rottura di un patto precedente. In entrambi i casi si può parlare di un patto di conservazione dell'esistente in vista di una redenzione futura. In questo "esistente" ci sono segni visibili del peccato avvenuto, ma solo per allusioni e accenni si possono intravedere segni della futura redenzione.
Se si fosse trattato di un rinnovo, non ci sarebbe stato bisogno di riscriverlo; invece, dopo aver ripetuto in forma diversa solo alcune disposizioni del precedente patto, Dio dice a Mosè: "Scrivi queste parole, perché sul fondamento di queste parole, io ho contratto alleanza con te e con Israele" (Es. 34:27). Il popolo qui non parla, a lui non si chiede di prendere impegni, a lui non si chiede neppure di formulare una chiara richiesta di perdono; qui è solo Dio che parla, in risposta alla preghiera di Mosè, sentendosi impegnato soltanto dalla Sua sovrana volontà. Resta dunque valido quello che Dio aveva annunciato al popolo subito dopo la sua rovinosa caduta: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:5). Anche il popolo lo conoscerà, ma solo dopo che Dio avrà fatto tutto quello che aveva deciso di fare.
La storia continua
Dopo la mediazione di Mosè, il rapporto tra Dio e il popolo si ristabilisce, ma il passato non si cancella e non smette di pesare sulle sorti di Israele. Il tabernacolo sarà ricostruito e Dio verrà ad abitarci, ma sarà un'abitazione sempre pericolante, sempre a rischio di crollare da un momento all'altro, come poi è accaduto. La violazione di quel patto di sangue che richiedeva la morte del trasgressore ha fatto gravare sul popolo un debito di sangue che il Signore non ha cancellato immediatamente, ma di cui ha rinviato il momento in cui potrà essere estinto. Questo momento arriverà alla venuta del Messia. Anzi, è già arrivato. M.C.
(Notizie su Israele, 23 marzo 2017)
“Ho molta paura per il mio Paese”
di
Alisa Ashkenasi
Alisa Ashkenasi, fotografa che scrive su Israel Heute |
Un'ombra pesante grava sul nostro amato Paese.Il governo sta agendo in vari modi - alcuni direbbero illegali - per garantire la propria sopravvivenza. Le famiglie degli ostaggi, i caduti e il popolo nel suo complesso chiedono una commissione d'inchiesta governativa. Una commissione che indaghi su tutto ciò che è accaduto in quel giorno maledetto, il 7 ottobre 2023, e prima. Ma il governo e il suo presidente la respingono con varie scuse. Tutti i responsabili dei servizi militari e di intelligence si sono già assunti la responsabilità e hanno annunciato che lasceranno i loro incarichi non appena i combattimenti saranno terminati. Ma questo non è sufficiente per il governo, e così vengono sacrificati uno ad uno. Il primo ad essere licenziato è stato il Ministro della Difesa dello Stato di Israele, Yoav Galant. Nel bel mezzo di una guerra!

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FOTO
Israeliani protestano a Gerusalemme il 19 marzo 2025 contro la decisione di Netanyahu di licenziare il capo dello Shin Bet, Ronen Bar
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Qualche settimana fa tutti i movimenti di protesta hanno iniziato a mobilitarsi con lo slogan “Preparatevi al giorno X”. In questo giorno, volevano marciare verso Gerusalemme per manifestare. Originariamente era stato scelto il 24 marzo, ma quando il primo ministro
Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di licenziare il capo dello Shin Bet Ronen Bar e successivamente il procuratore generale
Gali Baharav-Miara, la data è stata immediatamente anticipata al 19 marzo. Di conseguenza, 100.000 cittadini si sono trovati ieri in marcia verso Gerusalemme. Tutti i movimenti di protesta e le famiglie degli ostaggi si sono uniti in un'azione comune.
I leader della protesta hanno trascorso la notte nei pressi della città, si sono alzati al mattino e hanno iniziato la marcia verso la Città Santa, accompagnati da migliaia di cittadini. Altre migliaia erano già in attesa all'ingresso della città per unirsi alla marcia verso la Knesset.
Anch’io mi sono recata direttamente al complesso della Knesset e lo spettacolo è stato travolgente. Ammetto di essermi commossa. Una delle sensazioni peggiori è quella di sentirsi soli e pensare che solo tu hai paura di ciò che sta accadendo. Folle di persone che portavano bandiere blu e bianche di Israele e degli ostaggi, arrivavano da ogni dove. Alcuni sono arrivati in treno, altri in veicoli privati o in autobus organizzati. I leader della protesta hanno pianificato di manifestare prima davanti alla Knesset e poi di marciare insieme verso Azza Street, dove si trovano sia la casa privata del Primo Ministro che la residenza ufficiale attualmente in ricostruzione, entrambe diventate simbolo del potere. Ironia della sorte, questa strada si chiama Gaza.
Nello stesso momento, la “Guardia 101” era seduta in Piazza Francia, alla fine di Azza Street. Qualche parola su questo gruppo: “Guardia 101” è stata fondata da donne appartenenti a famiglie di ostaggi che temevano per la sorte dei loro cari. È stata fondata quando gli ostaggi nella Striscia di Gaza erano ancora 101; oggi sono 59, di cui 24 ancora vivi. Continuano a partecipare anche le famiglie degli ostaggi che sono già tornati e quelle dei loro cari assassinati, come Carmel Gat, uccisa durante la prigionia. Ai partecipanti viene chiesto di venire vestiti di bianco e di sedersi in silenzio sull'asfalto. Niente discorsi, niente parole: solo silenzio condiviso.
Ieri, 19 marzo, i cittadini hanno protestato davanti alla Knesset contro la politica del governo, la ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza, il fatto che gli ostaggi non siano ancora stati liberati e l'imminente licenziamento di Bar e Baharav-Miara. Allo stesso tempo, donne e uomini sedevano in silenzio in bianco per strada.
Inoltre, gruppi di manifestanti sono entrati in città in auto e si sono divisi in gruppi più piccoli. A ogni gruppo è stata assegnata una destinazione diversa a Gerusalemme. Ogni colonna era composta da circa 30 veicoli che percorrevano lentamente diverse strade per rallentare il traffico. Ad alcuni incroci, i conducenti sono scesi improvvisamente, hanno chiuso le loro auto e sono scomparsi. Questo ha paralizzato il traffico in tutta la città, creando enormi ingorghi e bloccando i trasporti pubblici per diverse ore. La città era bloccata.
Come cittadina preoccupata, partecipo personalmente a tutti i raduni, le marce e le azioni per la restituzione degli ostaggi - soprattutto a Gerusalemme, occasionalmente anche a Tel Aviv. Per me è importante perché voglio essere convinta di aver fatto tutto il possibile per fare la differenza. Per me, rimanere semplicemente a casa non è un'opzione. Le madri, le sorelle, le zie e le cugine hanno bisogno di sentire che non sono sole e che ricevono un sostegno completo. Spesso mi ritrovo a piangere quando riconosco qualcuno e penso ai suoi cari, a quello che stanno passando nei tunnel. Partecipo anche alla veglia delle madri almeno una volta alla settimana. La polizia di solito accompagna queste azioni con comprensione e pazienza. È solo durante le manifestazioni del sabato che gli incontri con la polizia finiscono spesso in modo violento.
Ieri la polizia è stata a lungo tollerante, fino a quando non è arrivato un carro attrezzi per rimuovere una delle auto all'incrocio. I manifestanti hanno cercato di impedirlo, sedendosi sul carro attrezzi e bloccandolo. All'improvviso, un folto gruppo di agenti di polizia e di polizia di frontiera si è unito, gettando i manifestanti sull'asfalto in modo estremamente brutale.
L'operazione è stata tremendamente dura, una donna ha dovuto ricevere cure mediche ed essere portata in ospedale. L'ufficiale di polizia incaricato, uno dei più alti ufficiali sulla scena, non ha mostrato alcuna emozione.
Ora sono seduta a casa e sto cercando di riprendermi da queste scene terribili. Ma fuori ci sono ancora molte persone che non vogliono arrendersi. Alcuni passeranno la notte in tenda. E domani? Domani si andrà avanti..
(Israel Heute, 20 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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USA: si attiva l'unione dei cristiani sostenitori di Israele
WASHINGTON - La rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha dato slancio alle organizzazioni filo-israeliane. Già in precedenza, nel settembre 2024, diversi gruppi cristiani si erano uniti a Washington, D.C. per dare più peso al loro voto.
Secondo Luke Moon, uno dei co-fondatori della “Conferenza dei presidenti delle organizzazioni cristiane a sostegno di Israele”, era già chiaro allora che “misure concrete” sarebbero state prese solo dopo le elezioni americane. Allora “la situazione politica sarebbe stata molto più chiara”. Ora si è tenuto un incontro inaugurale a Gerusalemme.
• La “CoP”
Tra i fondatori della “Conferenza dei Presidenti” (CoP) figurano Mario Bramnick, presidente della Coalizione Latina per Israele, Tony Perkins, presidente del Consiglio per la Ricerca Familiare, l'ex membro del Congresso Michele Bachmann e Luke Moon, direttore del Progetto Philos. All'inizio di marzo 2025 si sono incontrati con i presidenti di altre organizzazioni al Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme.
Bachmann ha spiegato che sostenere Israele dopo il 7 ottobre è un dovere speciale per la comunità cristiana. “Ci troviamo in un momento molto speciale, in cui ho visto più fiorire la comunità cristiana e quella ebraica che mai nella mia vita”, ha detto.
“I nemici dell'Occidente sanno come unirsi”, ha spiegato Bramnick, riferendosi alle alleanze tra la sinistra e gli islamisti negli Stati Uniti e in Europa. Per questo motivo, è un imperativo del momento che i cristiani evangelici si uniscano. ‘Crediamo che una voce comune sarà una voce forte nei confronti dell'amministrazione Trump, sia a livello legislativo che statale’.
Moon ha spiegato la sua motivazione per il progetto con i suoi sforzi dopo il massacro di Hamas: “Ho davvero desiderato spesso di non dover visitare ogni singola organizzazione che conosco e dire: ‘Affrontiamo questo insieme’.”
• Il modello ebraico
I cristiani prendono a modello un'altra “conferenza dei presidenti”, quella delle organizzazioni ebraiche. La “Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations”, guidata da William Daroff, è spesso abbreviata in “CoP”. Bramnick ha viaggiato diverse volte in Israele con il predecessore di Daroff, Malcolm Hoenlein. Dalle conversazioni è nata l'idea della “CoP” cristiana.
“La comunità ebraica rappresenta circa il 2% della popolazione americana”, spiega Bramnick. ‘La comunità cristiana rappresenta circa il 30%. Il potenziale di una tale organizzazione per sostenere con forza uno Stato di Israele sicuro e sovrano è enorme’. Il suo compagno di lotta Moon vede un altro punto a favore della coalizione cristiana rispetto a quella ebraica: “Probabilmente ci sono meno conflitti interni”, dice. Questo perché l'organizzazione ebraica ombrello unisce gruppi politicamente e ideologicamente molto eterogenei, alcuni dei quali hanno una visione critica di Israele.
• Gli obiettivi
La Conferenza cristiana dei presidenti vuole esercitare un'influenza sulla politica statunitense a livello esecutivo, legislativo e statale a favore di Israele. In questo contesto, sottolineano che l'obiettivo non è da ultimo la sovranità israeliana sulla Cisgiordania. Perché tutti gli altri approcci sono falliti. Secondo Bramnick, l'organizzazione vuole “sostenere pienamente tutte le misure” che Israele deve adottare “per bandire il terrorismo dai suoi confini”.
Inoltre, la “CoP” vuole combattere l'antisemitismo negli Stati Uniti. “Il nostro obiettivo è essere un polo opposto alla Columbia University e a tutte queste università d'élite”, dice Bachmann in riferimento alle proteste anti-israeliane che si svolgono lì. “Vogliamo lavorare con scuole e chiese laiche, ebraiche e cristiane e creare una base informativa su Israele, il popolo ebraico e il diritto alla terra”.
• Influenza sul governo Trump
I cristiani evangelici negli Stati Uniti vedono nel presidente Trump uno strumento di Dio a sostegno di Israele. “Ho letteralmente la sensazione che Dio stia dando a Israele un assegno in bianco su cui può scrivere e sognare di nuovo”, dice Bramnick. “La mano di Dio è su Israele!”
Con questo atteggiamento, i cristiani evangelici sono stati un importante blocco di elettori per “il presidente più filoisraeliano di tutti i tempi”. Questo sostegno sarà ora ricambiato dai repubblicani. La “CoP” vuole sfruttare questa finestra di opportunità per fornire a Israele tutto l'aiuto possibile.
(Israelnetz, 20 marzo 2025)
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Gerusalemme: due nuove mostre esplorano la storia, l'arte e il misticismo ebraico
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Il Bible Lands Museum di Gerusalemme
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Fin dalla sua fondazione nel 1992, il Bible Lands Museum di Gerusalemme ha esplorato la cultura dei popoli menzionati nella Bibbia, tra cui gli antichi Egizi, i Cananei, i Filistei, gli Aramei, gli Ittiti, gli Elamiti, i Fenici e i Persiani, con l'obiettivo di collocare questi popoli nel loro contesto storico.
Di recente, il museo di Givat Ram ha inaugurato due nuove mostre che uniscono storia, arte e misticismo ebraico: “Kuma”, che rende omaggio a un artista che fu anche uno dei soldati israeliani uccisi in combattimento a Gaza, e “Lettere che fluttuano nell’aria”, che esplora il profondo simbolismo dell’alfabeto ebraico nella tradizione ebraica.
Kuma presenta un rotolo illustrato lungo tre metri, creato da Eitan Rosenzweig, un soldato israeliano morto in combattimento il 22 novembre 2023 a Gaza.
Prima di essere chiamato al servizio militare, Rosenzweig studiò arte in una yeshiva. Ha creato questo rotolo durante la pandemia di COVID-19, combinando simboli, citazioni e figure della Bibbia, del Talmud e della Cabala con riferimenti alla storia ebraica e alla cultura israeliana contemporanea. L'opera è divisa in tre sezioni: la storia biblica antica, l'Olocausto e Israele moderno.
Il nome deriva dalla frase ebraica "Kuma, Mei-Afatzim Vekankantum", che si riferisce agli ingredienti utilizzati per produrre l'inchiostro nei testi sacri.
La seconda mostra, “Lettere fluttuanti nell’aria”, è stata inaugurata nel febbraio 2025 ed esplora il significato esoterico delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, considerate nella tradizione ebraica i mattoni fondamentali della creazione.
Create dagli artisti russo-israeliani Sergey Bunkov e Tenno Pent Sooster, insieme all'artista digitale Maxim Bunkov, i visitatori possono utilizzare l'app Artivive per vedere le lettere prendere vita nello spazio digitale, un'attrazione particolare per il pubblico più giovane.
(Aurora Israel, 20 marzo 2025)
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Il gioco di scacchi Israele-Siria si muove tra curdi e drusi
di Nina Prenda
Israele in Medio Oriente non ha amici. Al massimo, si può parlare di vicini di casa che non disturbano. Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti negli ultimi anni stanno sembrando tali, ovvero le élite che governano questi Paesi arabi si stanno dimostrando tali. Quanto ai popoli che vi abitano, invece, spesso l’odio contro lo Stato ebraico è diffuso e il malcontento popolare si fa sentire riguardo alla bussola della politica estera; ma poiché non è sempre il popolo a scegliere chi governa bensì la faccenda è in mano a pochi, al momento questo delicato equilibrio sembra reggere. La questione palestinese e la guerra in corso a Gaza – ripresa nella sera del 17 marzo dopo il cessate il fuoco precariamente durevole dal 19 gennaio 2025 e un integrale scambio tra ostaggi e prigionieri fallito – si è rivelata un’ottima miccia per consentire agli animi e alle voci arabe ostili ad Israele di tornare in piazza e farsi sentire, spesso animate da bambini recitanti slogan inneggianti alla morte del nemico.
In questo frammentato e intricato scenario chiamato Medio Oriente, una regione che vive d’incastri politici spesso fortuiti e molti giochi di specchi, un’area di mondo dove niente è come sembra e tutto è il suo contrario, si colloca la Siria di Abu Muhammad al-Jolani. Il Paese esce da un momento estremamente delicato per la sua storia: dopo quasi tre decenni, il dittatore Bashar Al-Assad è caduto al grido di vendetta di Hay’at Tahrir al-Sham (in arabo: Organizzazione della Liberazione del Levante dove per “Levante”, per il momento, si intende l’attuale Stato della Siria). HTS è una formazione armata islamica siriana di orientamento salafita, derivante da una costola di Al-Qaeda insieme alla quale sono confluiti altri gruppi islamici, attiva e coinvolta nella guerra civile siriana, al cui capo c’è Abu Muhammad al-Jolani.
Il cartello islamico è così animato e mai sopito che, dal 2 dicembre 2024, ha iniziato la sua scalata al potere dell’intero Paese marciando verso Aleppo, Hama, Homs, fino alla conquista della capitale Damasco, facendo cadere Bashar al-Assad l’8 dicembre 2024. Al-Jolani è riuscito a far capitolare l’intero Stato – fino a quel momento nelle mani di Assad solo nella forma, giacché importanti erano e rimangono le sacche dell’opposizione – e a conquistare il potere. HTS non si era ufficialmente presentato al mondo come un nuovo ISIS bensì puntava a proporsi come una nuova organizzazione politica inclusiva e perfino rispettosa delle minoranze. Ma appena due mesi dopo la nomina a Presidente di Al-Jolani (che da leader ha cambiato nome e ora si fa chiamare Ahmed Al-Sharaa) gli scontri all’interno della Siria tra il nuovo governo e le minoranze sono ferocissimi. Tra gli alawiti e i curdi si contano già migliaia di morti.
• La Siria di Al-Jolani su Israele
Il giorno dopo la presa di Damasco, il 9 dicembre 2024, la CNN riferiva che Al Jolani aveva voluto rassicurare Stati Uniti e Israele che “la nuova Siria comprende i loro interessi”. L’emittente televisiva sottolineava come, negli anni, Al-Jolani avesse avuto molto tempo a disposizione per affinare la propria strategia comunicativa: per il suo primo discorso a Damasco non a caso ha scelto la Grande moschea degli Omayyadi (non uno studio televisivo né il palazzo presidenziale da cui era fuggito l’oramai ex presidente siriano Assad).
Il 17 dicembre 2024, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Times, Abu Mohammad Al-Jolani sottolineava che la Siria “non verrà utilizzata” come base per attacchi contro Israele o qualsiasi altro Stato, tornando a chiedere la fine agli attacchi aerei israeliani sul territorio siriano. “La giustificazione di Israele era la presenza di Hezbollah e delle milizie iraniane – diceva Al Jolani – e quella giustificazione è venuta meno”.Tutt’oggi continuano gli scontri tra jihadisti sciiti di Hezbollah in Libano e jihadisti sunniti di HTS in Siria.
• Israele, curdi e drusi
La “politica periferica dello Stato ebraico”, ovvero la posizione in politica estera di Israele nella regione che si basa sul guardare oltre il cerchio dei vicini ostili per cercare amici, vede nei drusi e nei curdi alcune risposte. Secondo il Times Of Israel il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar presenta una visione di alleanze con le comunità curde e druse in Medio Oriente, dicendo che le minoranze della regione dovranno stare insieme, nella cerimonia del passaggio di consegne con il ministro uscente Israel Katz. “Il popolo curdo è una grande nazione, una delle grandi nazioni senza indipendenza politica – ha detto Sa’ar. – Sono i nostri alleati naturali”. Chiamando i curdi “vittime dell’oppressione iraniana e turca”, Sa’ar dice che Israele “deve raggiungere e rafforzare i nostri legami con loro”. La regione autonoma del Kurdistan in Iraq è strategicamente situata lungo i confini dell’Iran e della Turchia, il che la rende un potenziale alleato strategicamente potente per Israele.
Per quanto concerne i drusi, la situazione è complessa e coinvolge lo Stato ebraico da vicino poiché questo gruppo etnico-religioso che deriva dall’Islam sciita, abita soprattutto le Alture del Golan (è diffuso tra Israele, Siria, Giordania e Libano). In Israele, i drusi sono circa 150mila e godono della cittadinanza israeliana a pieno titolo, partecipano alla società e, contrariamente alla maggior parte degli arabi con passaporto israeliano, sono soggetti alla leva militare obbligatoria, servendo nell’esercito (Tzahal, IDF) con un forte senso di lealtà verso lo Stato ebraico. È bene sottolineare però che proprio nel Golan, molti drusi non hanno accettato la cittadinanza israeliana e si identificano ancora come siriani. La loro identità è un mix unico formato da una forte appartenenza alla regione araba. Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha recentemente ordinato la consegna di pacchi alimentari contenenti aiuti umanitari per assistere i drusi in Siria. In un’operazione condotta nelle scorse settimane, sono stati consegnati 10mila pacchi di aiuti umanitari ai drusi siriani nelle zone di combattimento. L’operazione è stata condotta in coordinamento e cooperazione con il capo della comunità drusa, lo sceicco Tarif, e in collaborazione con il Consiglio religioso druso, l’esercito israeliano e altri elementi della zona.
I rapporti tra Israele e Siria sono una partita a scacchi che si gioca su più livelli. La tolleranza che prova la nuova Siria può essere definita settaria. Il rapporto che lega il Paese ad Israele, altrettanto. E molto dipenderà dalla leadership al comando dello Stato ebraico e dal rapporto con le minoranze contese che legano i due Stati.
(Bet Magazine Mosaico, 20 marzo 2025)
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Hamas aveva pianificato una nuova invasione di Israele

Il Ministro della Difesa Israel Katz ha recentemente confermato che Hamas si sta “preparando costantemente” per una nuova invasione di Israele.
Secondo un rapporto di Channel 12 News, Hamas sta radunando le forze e preparando piani per un'invasione di terra delle comunità israeliane durante il cessate il fuoco.
Il gabinetto di sicurezza israeliano ha recentemente tenuto una riunione d'emergenza per discutere le indicazioni secondo cui Hamas starebbe pianificando un altro attacco in stile 7 ottobre, che vedrebbe i terroristi infiltrarsi in Israele.
Il rapporto non dettaglia l'intelligence ottenuta da Israele, ma sottolinea che le osservazioni sono abbastanza significative da causare preoccupazione tra i servizi di sicurezza.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha recentemente confermato a un gruppo di residenti delle comunità vicine a Gaza che Hamas si sta “ costantemente preparando” a compiere un'invasione.
Katz ha sottolineato che l'esercito israeliano “ deve colpirli e finire il lavoro completamente in attacco e in difesa” per prevenire un'altra incursione.
Secondo fonti arabe, Hamas ha passato gli ultimi due mesi a riorganizzarsi, in particolare estendendo la sua rete di tunnel, reclutando nuovi agenti per sostituire i terroristi uccisi e consolidando i suoi depositi di armi.
Secondo le stime di Channel 12, Hamas dispone di circa 25.000 uomini armati con un certo livello di addestramento.
L'esercito israeliano ha anche registrato un aumento dei tentativi di attacco alle sue truppe a Gaza da parte di membri di Hamas, suggerendo che potrebbero prepararsi per un altro attacco in stile 7 ottobre.
In una dichiarazione rilasciata martedì, Hamas ha negato di pianificare un attacco contro il sud di Israele e di prendere sempre più di mira i soldati dell'IDF a Gaza.
Le “ affermazioni di Israele secondo cui la resistenza si sarebbe preparata ad attaccare le sue truppe sono pretesti infondati e falsi per giustificare il ritorno alla guerra e l'escalation della sua sanguinosa aggressione”, ha dichiarato Hamas.
“Quando Hamas offre un solo soldato, Edan Alexander, in cambio di un cessate il fuoco di 50 giorni, è chiaro che ha un ottimo senso di stabilità e che Israele non lo sta minacciando", ha dichiarato a Channel 12 il dottor Harel Horev, ricercatore dell'Università di Tel Aviv.
“Dobbiamo rompere e minare questa situazione, anche se vogliamo un accordo sugli ostaggi”, ha aggiunto.
(World Israel News, 19 marzo 2025)
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Gal Gadot è la prima attrice israeliana a ricevere una stella sulla Walk of Fame
di Michelle Zarfati
Da Rosh Ha’ayin alla Walk of Fame di Hollywood: Gal Gadot ha consolidato il suo posto nella storia come prima attrice israeliana a ricevere una stella sull’iconica Walk of Fame. “Per me è surreale e mi sento la donna più fortunata del mondo in questo momento”, ha detto Gadot durante la cerimonia, avvenuta ieri. “Sono solo una ragazza di una piccola città israeliana non avrei mai potuto immaginare un momento del genere”.
Combattendo contro l’emozione del momento, Gadot ha riflettuto sul significato di questo traguardo: “Per me, vale più di qualsiasi altro premio perché possiamo condividerlo con il mondo. La stella mi ricorderà che con duro lavoro, passione e un po’ di fede, tutto è possibile. Non ho raggiunto questo momento da sola, ho così tante persone incredibili da ringraziare, che mi hanno sollevato lungo il cammino. Gadot si è poi rivolta al co-protagonista di Fast & Furious, Vin Diesel, e lo ha ringraziato. “Vin, mi hai accolta con amore nella famiglia di Fast & Furious – ha detto – È stato il mio primo film e la tua fiducia mi ha cambiato completamente la vita. Grazie mille per quello che hai fatto per me, grazie saremo per sempre una famiglia”.
Durante la cerimonia l’attrice si è anche presa un momento per ringraziare i suoi fan, suo marito Jaron, la sua famiglia e le sue figlie, inclusa la più grande, Alma, che ha festeggiato il suo compleanno proprio quel giorno. “Vi amo tutti, siete nel mio cuore”, ha aggiunto in ebraico. Alla cerimonia hanno partecipato membri del team di produzione del prossimo film di Gadot, Snow White, tra cui il regista Marc Webb. Tuttavia, la protagonista Rachel Zegler non era tra i presenti. Tra gli ospiti anche l’attrice israeliana Shira Haas e la regista di Wonder Woman Patty Jenkins.
Diesel ha aperto l’evento, ricordando il momento in cui ha capito che l’attrice sarebbe stata perfetta per il ruolo di Gisele nella saga di successo. “Ho guardato Gal e ho capito: era quella giusta”, ha detto Diesel. “È volata subito a Los Angeles e il resto è storia”. Mentre si svolgeva la cerimonia a Hollywood, nelle vicinanze si è svolta una piccola protesta pro-palestinese, che ha attirato solo una manciata di dimostranti.
(Shalom, 19 marzo 2025)
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Antisemitismo – La Conferenza a Gerusalemme tra rinunce e conferme
Una nuova defezione si è aggiunta alla lista di ospiti che non parteciperanno alla Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo a Gerusalemme, promossa dal ministero israeliano della Diaspora. Dopo il rabbino capo di Gran Bretagna, Ephraim Mirvis, il presidente dello European Jewish Congress, Ariel Muzicant, anche il direttore dell’americana Anti-Defamation League (Adl), Jonathan Greenblatt, ha annunciato che non ci sarà al forum organizzato per il 26 e 27 marzo.
La decisione di Greenblatt arriva come forma di protesta per la partecipazione di esponenti dell’estrema destra europea. Un portavoce dell’Adl ha spiegato: «Alla luce di alcuni dei partecipanti recentemente annunciati alla conferenza del governo israeliano sull’antisemitismo, Greenblatt ha deciso di non partecipare più all’evento». Una scelta per sottolineare l’imbarazzo, condiviso da diversi leader ebraici internazionali, per l’apertura della Conferenza a partiti populisti e nazionalisti europei, alcuni dei quali in passato hanno espresso posizioni controverse sull’antisemitismo e la Shoah.
Muzicant, presidente dell’European Jewish Congress, è stato tra i più critici dell’iniziativa del governo israeliano. Anche Jonathan Arfi, presidente del Crif (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France), ha espresso la sua preoccupazione. «C’è chi immagina che in questo modo si possa alleggerire l’isolamento politico e diplomatico di Israele. Ma in pratica il risultato sarà l’opposto: si intensificherà la demonizzazione di Israele e degli ebrei nel mondo, senza contare che questa scelta è in totale contraddizione con la politica delle organizzazioni ebraiche nei confronti dei partiti populisti europei».
La lista degli ospiti contestati include Jordan Bardella, presidente di Rassemblement National (RN), distaccatosi dalle posizioni di Jean-Marie Le Pen, il politico francese negazionista e antisemita che fondò il Front National, poi trasformatosi in RN, partito più votato in Francia alle ultime elezioni; Marion Maréchal, eurodeputata francese del partito di estrema destra Identity–Liberties e nipote di Le Pen; Hermann Tertsch, eurodeputato spagnolo del partito nazionalista Vox; Charlie Weimers, del partito svedese di estrema destra Democratici Svedesi, parte della coalizione al governo a Stoccolma, e Kinga Gál, del partito ungherese Fidesz, del premier Viktor Orbán.
Per Natan Sharansky, ex dissidente sovietico e statista israeliano, le critiche sono comprensibili, ma è necessario andare oltre. «È importante per la lotta contro l’antisemitismo includere tutti gli schieramenti politici, da sinistra a destra. Coloro che continuano a sostenere posizioni antisemite ovviamente non hanno posto nelle conferenze contro l’antisemitismo. Tuttavia, chi afferma di aver cambiato idea nei confronti degli ebrei merita di essere ascoltato», ha spiegato Sharansky, tra i relatori della Conferenza a Gerusalemme. La due giorni prevede interventi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, del presidente israeliano Isaac Herzog, del ministro Chikli e del presidente argentino Javier Milei.
(moked, 19 marzo 2025)
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La guerra d’Israele
Parla Mordechai Kedar: “Hamas vuole tenersi per sempre alcuni ostaggi ed è pronta a sacrificare tutta Gaza per la sua guerra”. La realtà di Gaza è nel ricatto del gruppo terroristico che, vistosi con le spalle al muro, si comporta esattamente come la Germania nazista: sacrifica tutto quello che ha piuttosto che dichiarare la sconfitta. Israele, per vincere, deve fare una sola cosa: obbligarli alla resa totale.
di Giulio Meotti
ROMA - Nella prima ondata di attacchi dall’inizio del cessate il fuoco il 19 gennaio, martedì mattina Israele ha iniziato a condurre una serie di raid aerei su vasta scala a Gaza contro comandanti di Hamas e alti dirigenti politici del movimento islamico. Ucciso il capo del comitato amministrativo di Gaza, Issam al Da’alis, e altri leader del movimento islamista, così come il portavoce del Jihad islamico, Abu Hamza. Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha detto: “Nelle ultime due settimane e mezza, abbiamo raggiunto un punto morto: senza nostri attacchi né ritorno degli ostaggi, e questa è una cosa che Israele non può accettare. Il ritorno ai combattimenti è una continuazione del nostro impegno per raggiungere gli obiettivi della guerra”.
Hamas ha preso tempo dal primo marzo, quando è terminata la prima fase della tregua, continuando a riarmarsi senza restituire un solo ostaggio, né in vita né deceduto (su 59 ostaggi rimasti a Gaza, si ritiene che 22 siano ancora vivi). Hamas si è rifiutata di rilasciare altri ostaggi il primo marzo, l’8 marzo e di nuovo il 15 (a oggi avrebbe dovuto rilasciarne nove). Nel frattempo, Hamas ha rifiutato le proposte dell’inviato statunitense Steve Witkoff, accettate invece da Israele. L’Hostages and Missing Families Forum accusa il governo di “aver scelto di rinunciare alla vita degli ostaggi”. “La più grande paura delle famiglie, degli ostaggi e dei cittadini israeliani si è realizzata”. Molti kibbutz al confine con Gaza sono di nuovo in corso di evacuazione preventiva.
Gli attacchi aerei sono progettati non solo per spingere Hamas a cedere gli ostaggi, ma anche per degradare le sue capacità militari, dopo che è uscita la stima dell’intelligence secondo cui il gruppo terroristico è tornato a una forza di 25 mila uomini e il Jihad islamico a cinquemila. Elementi noti alle Forze di Difesa israeliane. Ma finché c’era la speranza di arrivare a un accordo sugli ostaggi, Israele si era astenuto da attacchi. Ora la situazione è cambiata. E al governo torna la destra di Itamar Ben-Gvir, che aveva posto come condizione la ripresa della guerra.
Hamas ha riferito di quattrocento morti nei raid, sebbene non c’è modo di verificare i numeri o di distinguere tra terroristi e civili dall’inizio della guerra. L’attacco è stato coordinato con gli Stati Uniti e sincronizzato con gli attacchi aerei americani contro gli houthi dello Yemen. “Siamo tornati a combattere a Gaza alla luce del rifiuto di Hamas di rilasciare i rapiti e delle minacce a soldati e comunità israeliane”, ha detto il ministro della Difesa Israel Katz. “La decisione di attaccare è un accordo tra l’Amministrazione Trump e il governo di Benjamin Netanyahu per sbarazzarsi dei tentacoli della piovra iraniana”, dice al Foglio Mordechai Kedar, accademico, tra i massimi esperti di geopolitica mediorientale e a lungo nelle Forze armate (è ancora colonnello della Riserva). “Gli americani attaccano in Yemen e Israele a Gaza”.
Secondo Kedar, “quando l’Iran sarà privato dei suoi proxies, come in Iraq, Siria e Libano, sarà più facile piegarlo anche nelle sue ambizioni nucleari. Il messaggio da Gaza è rivolto all’Iran: questo accadrà a voi se non vi arrenderete. Israele capisce che Hamas vuole solo prendere tempo per riprendersi dal 7 ottobre e farlo di nuovo. Israele sa che Hamas non può rimanere al potere”. Cosa succederà ora dipende da Hamas: “Se rilascia gli ostaggi, la guerra si ferma di nuovo. Ma non consentiremo a Hamas, che è come al Qaida e Isis, di vivere accanto a noi. Fanno parte della stessa guerra jihadista. Usano la popolazione per proteggere se stessi e non hanno alcuna cura del loro popolo. Tutti quelli di Gaza possono essere uccisi nella guerra a Israele. In occidente non capite che dall’inizio della guerra, Hamas non ha mai dato una lista degli ostaggi, chi è vivo e chi no. Tutti i numeri che girano sono israeliani. La ragione è che Hamas vuole tenere alcuni ostaggi con sé per sempre, in modo che la guerra non riprenderà mai. Si prendono un vantaggio sulla psicologia israeliana, che conoscono molto bene. Lo slogan ‘rilasciate tutti gli ostaggi’ è senza significato. Nessuno qui sa chi sono, se sono vivi o morti”. In occidente però la guerra di Israele è orfana nell’opinione pubblica. “All’occidente dico: quello che succede a Gaza fa parte delle atrocità nel mondo arabo”, conclude Kedar. “Guardate il massacro in Siria con gli alawiti, in Yemen, in Sudan, in Libano, in Iraq. Hamas non ha alcun interesse su Gaza, è la cultura del mondo arabo islamico, ma gli europei non lo capiscono. L’Europa pensa tutto attraverso lenti europee, ovvero diritti e vita umana. Ma qui in medio oriente, diritti e vita sono al fondo delle società e dei loro capi. Sacrificheranno sempre il loro popolo per i loro obiettivi: gli sciiti vogliono dominare il mondo islamico come era fino al VII secolo e i sunniti il resto del mondo. E Israele è un ostacolo sul loro cammino. E se dovesse cadere Israele, l’Europa sarebbe la prossima. Ricordatevelo bene”.
Il Foglio, 19 marzo 2025)
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Arriva la primavera in Israele
E con essa il fiore Italia Valeriana sulle colline di Gerusalemme
La valeriana è un genere di piante da fiore della famiglia delle Caprifoliaceae, i cui membri sono comunemente noti come valeriane. Sono piante erbacee perenni con radici legnose e fiori a forma di cupola.
La valeriana italiana è una specie di questa famiglia, che cresce in Israele ma anche in tutta la regione del Mediterraneo orientale, in Turchia, Bulgaria e Grecia.
Oltre al suo caratteristico stelo singolo e ai fiori rosa, che per la loro forma ricordano a molti i fuochi d'artificio, ciò che davvero contraddistingue questo fiore è il suo profumo.
Sebbene il suo profumo sia intenso e caratteristico, molti lo descrivono come sgradevole. Il suo forte aroma, infatti, ha proprietà stimolanti e, in passato, veniva utilizzato in campo medico: i paramedici erano soliti portare con sé piccole boccette con questo profumo per rianimare le persone svenute, poiché il suo forte profumo le faceva reagire rapidamente e riprendere conoscenza.
Nonostante l'odore, la valeriana italiana ha proprietà medicinali ed è coltivata in Europa per scopi terapeutici.
In Israele la sua presenza si estende a diverse regioni, in particolare sul Monte Carmelo, sul Monte Gilboa, in Galilea e sulle colline di Gerusalemme, dove contribuisce alla diversità floreale della regione.
Con l'arrivo della primavera, uno spettacolo floreale si prepara a stupire chi viaggia attraverso queste regioni nei mesi da febbraio ad aprile.
(Aurora Israel, 19 marzo 2025)
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Benvenuti a Utopia – lo stato ebraico immaginato dal giudice Aharon Barak
23 anni dopo aver posto le basi per un regime in cui viene stabilita la supremazia dei giudici sugli eletti, Aharon Barak può finalmente sorridere. La Corte Suprema, il Procuratore Generale, lo Shin Bet e i vertici dell’IDF hanno creato lo stato che aveva previsto nella sua visione.
di Irit Linur
Nel marzo 2002, nel pieno della seconda Intifada, il presidente della Corte Suprema Aharon Barak tenne un discorso alla Knesset, per commemorare i 30 anni dell’Ufficio del Difensore Civico. Nel suo breve discorso delineò la sua utopia. Riconobbe il terrorismo dilagante ma chiarì: “Spesso la democrazia ha combattuto con una delle sue mani legate dietro la schiena“, e questo è anche il suo consiglio per affrontare l’ondata attuale. Riconobbe che la democrazia è il governo della maggioranza ma si preoccupò di bilanciare: “Non c’è democrazia senza il governo della maggioranza e non c’è democrazia senza diritti per la minoranza e per l’individuo“. Barak si rammaricò del fatto che non abbiamo una costituzione, poiché “non è appropriato che una semplice maggioranza dei membri della Knesset possa introdurre un cambiamento sostanziale nella struttura del nostro sistema di governo“.
Per questo ci sono i tribunali, che devono esercitare il controllo giudiziario sulla legislazione (cioè, approvare, modificare o invalidare le leggi), e spiegò ulteriormente: “Si deve presumere che parte delle controversie pubbliche che ci divideranno nei prossimi anni troveranno la loro strada nei tribunali. Come accade nelle democrazie. Sempre più problemi politici si spogliano della loro forma politica e assumono una forma legale e vengono portati alla decisione dei tribunali“, o in breve: tutto è giudicabile, il tribunale è l’arbitro finale su ogni questione, sia essa legale o che si sia spogliata (o sia stata spogliata) del suo abito politico – cioè, sottratta al pubblico attraverso i suoi rappresentanti eletti e trasferita nelle mani dei giudici.
Perché si dovrebbe espropriare il diritto della maggioranza democratica di decidere su questioni che devono essere rivestite di veste giuridica? La supremazia dei giudici, ovviamente: “In effetti, la magistratura non è un lavoro, è uno stile di vita. Uno stile di vita che non prevede la ricerca di ricchezza materiale, e non c’è ricerca di pubblicità e relazioni pubbliche. È uno stile di vita basato sulla ricchezza spirituale; uno stile di vita che include una ricerca obiettiva e neutrale della verità. (…) Non una decisione secondo le correnti passeggere (diciamo, le elezioni), ma un percorso coerente basato su concezioni profonde e valori fondamentali“. In totale contrasto con i rappresentanti eletti del pubblico, che purtroppo assomigliano al pubblico – cioè, privi di concezioni profonde e valori fondamentali.
La visione utopica di Barak ha tardato a realizzarsi, ma siamo stati fortunati e si è concretizzata. Al controllo giudiziario sulla democrazia – cioè, il diritto all’ultima parola – si è aggiunto anche il controllo militare, il controllo dello Shin Bet, e naturalmente il controllo del Procuratore Generale – che non è un giudice, ma Barak stesso ha conferito a questo ruolo le qualità speciali del giudice.
Ci si sarebbe potuti aspettare che nel corso dei decenni in cui si è consolidata qui l’utopia di Barak, essa avrebbe funzionato senza inutili attriti. La supervisione dello stato affidata a una specie superumana come i giudici dovrebbe garantire ordine, prosperità, democrazia e vittoria in guerra anche con una mano legata dietro la schiena. Purtroppo, i risultati sono un po’ preoccupanti. Soprattutto quando altre istituzioni governative, non elette, hanno seguito la strada di Barak e si sono autonominate al di sopra dei rappresentanti eletti, al di sopra di ciò che viene disgustosamente chiamato “considerazioni politiche”. Gli esempi si accumulano uno dopo l’altro:
Suleiman Maswadeh, reporter della televisione di stato (anche questo non è un lavoro, ma uno stile di vita), ha riferito questa settimana di un “sospetto nel gabinetto: il ministro Smotrich sta utilizzando una talpa all’interno dell’IDF. Fonti di sicurezza e politiche hanno testimoniato che il ministro era solito arrivare alle riunioni con informazioni non precedentemente riportate nel gabinetto“. Il rapporto ha ricevuto reazioni scioccate dai cittadini dell’utopia, come se Smotrich fosse un agente straniero e non uno dei responsabili della gestione dei combattimenti che cerca di svolgere il suo lavoro nel miglior modo possibile, non accontentandosi di dosi misurate di informazioni preparate per lui dall’esercito. È possibile che il ministro abbia saltato le procedure convenzionali (o forse è uno stile di vita che semplicemente conosce persone che servono nell’esercito e ci parla a volte), ma è sorprendente che questo fatto sia molto più scioccante del sospetto non del tutto infondato che l’esercito stia nascondendo informazioni rilevanti al governo.
Anche lo Shin Bet gode della protezione della torre d’avorio della Corte Suprema. Ma non temete, nel suo discorso Barak ha chiarito che “il giudice si trova a volte in una torre d’avorio, ma è una torre nelle montagne di Gerusalemme e non sull’Olimpo greco“. Forse è per questo che sia il reporter di Canale 12 Yaron Avraham che Sima Kadmon di “Yedioth Ahronoth” hanno elogiato il capo dello Shin Bet Ronen Bar per essersi astenuto dal pubblicare informazioni imbarazzanti sul Primo Ministro e sulla sua famiglia. Anche se potrebbe essere che a un certo punto la pazienza di Bar si esaurisca. “Netanyahu“, ha scritto Kadmon, “sta conducendo una campagna molto infame contro Ronen Bar, ma farebbe bene a pensarci due volte prima di rompere i ponti e sollevare contro di lui i capi dello Shin Bet di tutte le generazioni. Dopo tutto, si tratta di persone che sanno una cosa o due su di lui, sul suo sostegno vitale e sul figlio che gli è caro. Queste informazioni personali sensibili sono conservate in una cassaforte virtuale, il che aumenta la probabilità di un equilibrio del terrore nucleare“. Il vice capo dello Shin Bet ed ex membro della Knesset Israel Hasson ha sottolineato il punto: “Ascolti, signor Primo Ministro, lo Shin Bet conosce tutti i suoi segreti. Una parola è trapelata? Se ci fosse stata una giunta, sarebbe rimasto un secondo sulla sua sedia?“. La risposta è “se il governo esiste per grazia del sistema di sicurezza – allora si tratta di una Junta“.
Il Primo Ministro ha l’autorità legale di licenziare il capo dello Shin Bet. Bar, a quanto pare, non è d’accordo. Vuole determinare la data del suo pensionamento (dopo il ritorno dell’ultimo ostaggio) e anche nominare il suo successore. È stato nominato per svolgere un certo lavoro (e ha fallito in questo), e non grazie a informazioni imbarazzanti che lo Shin Bet ha raccolto sul Primo Ministro e sui suoi familiari. E se il Primo Ministro decidesse di licenziarlo – l’ufficio del Procuratore Generale è già pronto a impedire all’abominio che Barak ha chiamato “maggioranza semplice” di realizzare il piano.
In risposta alla richiesta dell’attivista di sinistra Gilad Sher, il vice procuratore generale Gil Limon ha scritto: “Se si considererà tale procedura, il livello politico dovrà sottoporre la questione a un esame preliminare del consulente legale del governo, prima della sua attuazione“. E se il Primo Ministro insistesse per licenziare Bar – si può presumere che la Corte Suprema sia già pronta con un’ordinanza condizionale. È chiaro perché: in un’utopia governata da giudici e non dal pubblico attraverso i suoi rappresentanti eletti – si devono garantire libertà extra anche allo Shin Bet per mantenere il suo potere. Qualcuno deve tenere tutto sotto controllo. Anche la più bella delle utopie ha bisogno di un braccio esecutivo forte.
(da Israel Hayom, 12/3/2025)
(Kolòt - Morashà, 19 marzo 2025)
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Israele riprende gli attacchi a Gaza
Israele ha ripreso i bombardamenti mentre le famiglie dei rapiti accusano il Governo di aver scelto di abbandonare i loro cari
Il fragile cessate il fuoco tra Israele e Hamas è crollato martedì mattina dopo circa due mesi, quando l’IDF ha lanciato decine di attacchi in tutta Gaza dopo aver ricevuto l’ordine dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “agire con la forza” contro il gruppo terroristico a causa di quello che il premier ha definito il suo ripetuto rifiuto di rilasciare gli ostaggi israeliani.
L’ufficio di Netanyahu ha affermato che la decisione di riprendere gli attacchi poco dopo la mezzanotte di martedì “è seguita al ripetuto rifiuto di Hamas di rilasciare i nostri ostaggi, nonché al rifiuto di tutte le proposte ricevute dall’inviato speciale degli Stati Uniti presso l’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff e dai mediatori”.
Hamas ha insistito per attenersi ai termini originali dell’accordo, che avrebbe dovuto entrare nella sua seconda fase all’inizio del mese. Quella fase prevedeva che Israele si ritirasse completamente da Gaza e accettasse di porre fine definitivamente alla guerra in cambio del rilascio degli ostaggi ancora in vita. Mentre Israele ha firmato l’accordo, Netanyahu ha a lungo insistito sul fatto che Israele non porrà fine alla guerra finché le capacità di governo e militari di Hamas non saranno state distrutte.
Di conseguenza, Israele si è rifiutato persino di tenere colloqui sui termini della fase due, che avrebbe dovuto iniziare il 3 febbraio.
Ciononostante, il cessate il fuoco è rimasto in vigore per circa due settimane e mezza dopo la conclusione della prima fase, mentre i mediatori lavoravano per concordare nuove condizioni per l’estensione della tregua.
Accettando l’avversione di Israele alla fase due, Witkoff ha presentato la scorsa settimana una proposta ponte che avrebbe visto la fase uno estesa per diverse settimane durante le quali sarebbero stati rilasciati cinque ostaggi viventi. L’inviato degli Stati Uniti ha affermato domenica che la risposta di Hamas all’offerta era un “non-starter” e ha avvertito delle conseguenze imminenti se il gruppo terroristico non avesse cambiato il suo approccio.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato a Fox News che Israele si è consultato con l’amministrazione Trump prima di lanciare gli attacchi di martedì.
• Lo sgomento del forum degli ostaggi
L’Hostages and Missing Families Forum rilascia una dichiarazione in seguito alla ripresa degli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, accusando il governo di “aver scelto di rinunciare alla vita degli ostaggi”.
“La più grande paura delle famiglie, degli ostaggi e dei cittadini israeliani si è realizzata”, si legge. “Siamo inorriditi, furiosi e spaventati dall’intenzionale interruzione del processo di ritorno dei nostri cari dalla terribile prigionia di Hamas”.
“Il ritorno ai combattimenti prima del ritorno dell’ultimo ostaggio ci costerà i 59 ostaggi che sono ancora a Gaza e che possono ancora essere salvati e riportati indietro”, afferma il forum, aggiungendo che una dichiarazione secondo cui la mossa mira a riportare indietro gli ostaggi è “un completo depistaggio” poiché “la pressione militare mette in pericolo ostaggi e soldati”.
Dei 59, si ritiene che solo 24 siano ancora vivi. Le famiglie degli altri stanno cercando di far tornare i loro cari per poterli salutare e seppellire come si deve.
“Il cessate il fuoco deve essere ripreso. Molte vite sono in gioco”, conclude il forum, chiedendo al presidente degli Stati Uniti Donald Trump di continuare a lavorare per la liberazione di tutti i rapiti. “Non ci sarà sicurezza, nessuna vittoria e nessuna redenzione finché l’ultimo ostaggio non tornerà a casa”.
(Rights Reporter, 18 marzo 2025)
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Benvenuti all'inferno?
L'attacco aereo israeliano ha colpito la Striscia di Gaza all'improvviso, nel bel mezzo del Ramadan.
di Aviel Schneider
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Fumo innalzato dopo un attacco aereo israeliano a Gaza City, 18 marzo 2025.
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GERUSALEMME - L'aviazione israeliana sta effettuando attacchi massicci in tutta la Striscia di Gaza. I vertici della sicurezza sottolineano che si tratta di un'operazione aerea su larga scala, pianificata in anticipo e approvata dai vertici militari e politici. Allo stesso tempo, le truppe di terra sono pronte per un'eventuale operazione. Nella Striscia di Gaza sono stati attaccati numerosi obiettivi, tra cui comandanti di alto livello di Hamas, attivisti dell'organizzazione terroristica, sistemi di tunnel e depositi di armi. L'operazione è complessa e progettata per colpire il maggior numero possibile di obiettivi strategici contemporaneamente, al fine di indebolire l'efficacia di Hamas. Secondo i resoconti palestinesi, più di 300 persone sono state uccise finora dagli attacchi dell'IDF. Nelle reti e nei media palestinesi, Trump è accusato di aver “aperto le porte dell'inferno”. Un palestinese in fuga dalle bombe israeliane ha commentato: “Avrebbe dovuto almeno aspettare fino a dopo il Ramadan”.
Il cessate il fuoco è finito. I palestinesi stanno fuggendo dalle aree contese. Le Forze di Difesa israeliane hanno emesso un ordine di evacuazione urgente per i residenti del nord della Striscia di Gaza per cercare sicurezza dagli attacchi mirati. L'evacuazione dell'area lungo il confine con Israele indica una possibile espansione della zona di sicurezza (zona rossa) che Israele sta pianificando nella Striscia di Gaza. Il valico di Rafah verso il confine egiziano è stato chiuso all'uscita di malati e feriti dopo essere stato aperto per circa 40 giorni. Ciò significa che i palestinesi stanno perdendo la presunta pace del Ramadan - un risultato diretto della politica di Hamas.
Il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha dichiarato all'emittente araba Al-Arabi: “Israele ha ripreso la guerra di annientamento e questo avrà grandi conseguenze. Non solleviamo il governo degli Stati Uniti dalle sue responsabilità e crediamo che il presidente americano Donald Trump sia personalmente coinvolto nell'escalation - soprattutto dopo la dichiarazione ufficiale della Casa Bianca secondo cui ci sono state consultazioni sugli attacchi a Gaza in precedenza”. Hamas ha anche minacciato di giustiziare gli ostaggi israeliani se Israele avesse continuato ad attaccare la Striscia di Gaza.
L'inaspettato attacco alla Striscia di Gaza ha lasciato le famiglie degli ostaggi in preda alla paura. I loro cari sono ancora detenuti a Gaza e il massiccio bombardamento potrebbe mettere a repentaglio le loro vite. Le famiglie temono che le possibilità di restituire tutti i 59 ostaggi, vivi e morti, detenuti a Gaza da 529 giorni, stiano diminuendo. Un post emotivo di Lishi Miran-Lavi, moglie del rapito Omri Miran, su X (ex Twitter) ha fatto scalpore: Ha condiviso un'emoji con il cuore spezzato in risposta a un post del fratello Moshe Emilio Lavi, che aveva usato lo stesso segno. Le famiglie stanno ora cercando disperatamente un dialogo con la leadership politica di Gerusalemme. La situazione è insopportabile per loro e per i loro parenti in cattività.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha sottolineato che:
"Se Hamas non rilascerà tutti gli ostaggi, le porte dell'inferno si apriranno sulla Striscia di Gaza e gli assassini e gli stupratori di Hamas si troveranno ad affrontare una potenza di fuoco mai vista prima. Non smetteremo di combattere finché non saranno restituiti tutti gli ostaggi e non saranno raggiunti tutti gli obiettivi di guerra”.
Tuttavia, parole così concise rischiano di suscitare aspettative che potrebbero non essere soddisfatte.
Gli ambienti della sicurezza hanno annunciato che i nuovi attacchi alla Striscia di Gaza non sono limitati nel tempo. “D'ora in poi Israele agirà contro Hamas con una forza militare sempre maggiore”, hanno dichiarato gli ambienti governativi. La ripresa dell'offensiva coincide con gli attacchi militari statunitensi contro obiettivi Houthi in Yemen. Tra l'altro, gli Houthi sono responsabili del terzo attacco a una portaerei americana. Questo avviene nonostante le minacce di Trump. Ignorando gli avvertimenti pubblici del Presidente Trump e del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, gli Houthi affermano apertamente di aver colpito la USS Harry S. Truman con due missili e due droni come rappresaglia per gli attacchi statunitensi a Sanaa. Hanno anche attaccato un cacciatorpediniere americano con un missile da crociera e quattro droni.
Israele si sta preparando a possibili attacchi degli Houthi con missili balistici e droni, soprattutto dopo la ripresa degli attacchi aerei alle postazioni di Hamas. La palla è ora nel campo di Trump: ha annunciato che sarà l'Iran a pagarne le conseguenze se gli Houthi continueranno a colpire obiettivi israeliani e americani. Come sappiamo, le minacce di Trump non sono parole vuote e questo potrebbe essere un segnale importante anche per Israele.
L'ultima escalation ha spinto anche il Segretario di Stato americano Marco Rubio a lanciare un chiaro avvertimento: “Gli Houthi esistono nello Yemen e controllano parti del Paese. Sostengono di essere il governo legittimo, ma non lo sono. Negli ultimi 18 mesi, gli Houthi hanno compiuto 174 attacchi a navi militari. Non sarebbero in grado di farlo senza il sostegno dell'Iran. L'Iran fornisce agli Houthi tecnologia sofisticata per i droni e sostegno finanziario. Senza l'aiuto di Teheran, non sarebbero una seria minaccia. L'Iran ha creato questo mostro e ora deve assumersene la responsabilità”.
L'intensificarsi delle minacce del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro l'Iran e il dispiegamento di forze navali americane in Medio Oriente stanno causando disordini a livello internazionale, soprattutto a Teheran. “Nessuno deve essere ingannato: Qualsiasi ulteriore attacco da parte degli Huthi sarà accolto con grande violenza, e non c'è alcuna garanzia che questa violenza si fermi”, ha avvertito Trump in una dichiarazione tagliente sulla sua piattaforma Truth Social.
L'esperto di Iran Benny Sabti dell'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS) ha spiegato ai media israeliani: “Gli iraniani sono sorpresi dalla velocità con cui Trump sta agendo. Si aspettavano minacce, ma non l'immediato dispiegamento di truppe e pattuglie di droni sulle coste iraniane. Se questo sviluppo continua, potrebbe cambiare in modo permanente il Medio Oriente”.
(Israel Heute, 18 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Fine dello stallo?
Il raid aereo compiuto dall’IDF stanotte a Gaza dopo circa due mesi di tregua, sigla la sua fine e certifica ciò che era palese fin da prima; che Hamas è ancora pienamente operativo all’interno della Striscia e in grado di controllare il territorio nonostante quindici mesi di guerra. Con la tregua finalizzata alla liberazione degli ostaggi ancora detenuti ha acquisito solo tempo per ricompattarsi.
Certifica ulteriormente che la strategia di guerra condotta fino ad oggi non ha raggiunto lo scopo prefissato e molteplici volte dichiarato da Netanyahu, lo smantellamento operativo dell’organizzazione terroristica e dei suoi addentellati.
A gennaio, Steven Witkoff, l’inviato per il Medio Oriente scelto da Donald Trump, aveva sostanzialmente imposto a Netanyahu di accettare un accordo con Hamas finalizzato alla liberazione degli ostaggi. Quell’accordo, che ha fruttato il rilascio di altri ostaggi liberati nel contesto di orrendi spettacoli inscenati da Hamas, non ha e non poteva che lasciare accantonato il problema principale, la presenza di quest’ultimo a Gaza e il futuro dell’enclave.
Appare chiaro che non esistono soluzioni che possano conciliare la liberazione di tutti gli ostaggi rapiti da Hamas durante l’eccidio del 7 ottobre 2023 e la sua eliminazione.
Fin dal principio Hamas ha utilizzato gli ostaggi come sua principale salvaguardia e arma di ricatto nei confronti di Israele. Se la priorità del governo israeliano e dell’appartato militare è quella di sconfiggere Hamas, non resta che prendere atto, come è stato evidente fin dal principio, che la sorte degli ostaggi, dolorosamente, diventa secondaria, altresì, la situazione non può che perdurare in questo modo.
I fatti ci dicono che la guerra contro Hamas cominciata nell’ottobre del 2023, Israele non l’ha ancora vinta. Hamas non ha alcuna intenzione di lasciare Gaza, e il suoi effettivi, pur essendo stati fortemente diminuiti, si sono rimpinguati. Secondo i Servizi americani le nuove reclute di Hamas ammonterebbero tra i dieci e i quindicimila effettivi.
Per vincere la guerra Israele ha bisogno dell’appoggio fermo e risoluto dell’Amministrazione Trump. In questo senso la dichiarazione del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes, secondo il quale “Hamas avrebbe potuto rilasciare gli ostaggi per estendere il cessate il fuoco, invece ha scelto il rifiuto e la guerra”, va nella direzione giusta. Bisognerà, tuttavia, vedere fino a che punto Washington sarà disposta ad appoggiare Israele e fino a che punto Israele vorrà andare avanti, modificare la propria strategia, dandosi come obiettivo definitivo la sconfitta di Hamas, se no, nel secondo anniversario del 7 ottobre, ci troveremo ancora in uno stallo.
(L'informale, 18 marzo 2025)
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Un pericoloso braccio di ferro nella politica israeliana – Bar contro Bibi
di Ugo Volli
• La guerra continua
Anche se al momento non si combattono grandi battaglie, Israele si trova sempre in guerra, con pericoli gravi provenienti da tutte le direzioni. Le trattative per prolungare la tregua sono fallite (parola di Hamas) e il momento della ripresa della guerra a Gaza sembra sempre più vicino; gli Houti ricominciano a cercare di bombardare Israele dallo Yemen; il caos infuria fra Siria e Libano; l’Iran corre verso l’armamento atomico; in Giudea e Samaria i terroristi cercano di riorganizzarsi e sono necessarie continue operazioni militari per evitare che si impadroniscano del territorio.
• Una crisi politica paradossale
Ma la politica israeliana non riesce a tenere l’unità nazionale necessaria per la guerra e rischia seriamente di piombare in una nuova crisi paragonabile a quella provocata nell’anno precedente al 7 ottobre dall’opposizione violenta e senza compromessi alla riforma giudiziaria: una spaccatura verticale della società così profonda da paralizzare l’istinto di sopravvivenza. L’occasione dello scontro è molto paradossale: l’opposizione politica e sociale si sta mobilitando con manifestazioni di piazza, ricorsi alla corte suprema, scioperi dei rettori delle università, scuole chiuse dai presidi per favorire le manifestazioni, per impedire al governo di licenziare Ronen Bar, il direttore del servizio segreto interno, lo Shin Bet (o Shabak come vocalizzano la sigla gli israeliani). Bisogna dire che lo Shin Bet è del tutto diverso dal Mossad che ha invece competenza sulle operazioni all’estero e che non ha responsabilità per il 7 ottobre, ma anzi è stato fondamentale in questa guerra, eliminando i quadri di Hezbollah e Hamas con i cercapersone esplosivi o direttamente.
• Il fallimento e le dimissioni
Il paradosso sta nel fatto che non solo la legge che regola il servizio preveda esplicitamente la possibilità che il governo sfiduci il suo capo, ma che lo stesso Shabak in un’inchiesta interna resa pubblica nei giorni scorsi, ha ammesso il suo gravissimo fallimento fra le cause immediate dell’incapacità di Israele di prevedere l’attacco terrorista del 7 ottobre e di difendersene subito, ma che lo stesso Bar ha annunciato l’intenzione di dare le dimissioni per questa sua pesantissima responsabilità. Sennonché poi ha posto pubbliche condizioni a queste sue dimissioni. Per andarsene Bar vuole scegliere lui stesso il suo successore (cosa che nessun funzionario pubblico al mondo ha mai potuto fare, figuriamoci il responsabile fallito di un servizio segreto), Vuole inoltre che per accertare le responsabilità del 7 ottobre, oltre all’inchiesta del controllore pubblico, che in Israele è una figura importante e rispettata, a quella della sua commissione e a quelle di altri corpi militari, che nelle ultime settimane hanno portato alle dimissioni di ufficiali molto meno responsabili di lui, dal capo di stato maggiore delle forze armate al capo della sua divisione meridionale, a quello dei servizi militari fino al portavoce dell’esercito, ci sia un’indagine complessiva (che naturalmente contestualizzerebbe la sua responsabilità fra i tanti errori che hanno reso possibile l’attacco terrorista). È ovviamente una richiesta giusta, anche se non si vede perché si permetta di farlo uno dei principali responsabili del disastro.
• L’attacco al governo
Bar pretende però che si nomini non una commissione parlamentare come propone il governo, neutrale perché costituita con membri scelti da maggioranza e opposizione, ma una “commissione di Stato” una formula di inchiesta usata qualche volta in passato, i cui membri sono tradizionalmente scelti dal presidente della Corte Suprema. Ora si dà il caso che questo presidente, Isaac Amit, sia stato appena nominato con un colpo di mano contro il parere del governo, che lo riteneva improponibile in quanto portatore di un conflitto di interessi e di comportamenti scorretti, tanto che Netanyahu e il ministro della Giustizia Levin hanno rifiutato di partecipare alla cerimonia della sua presa di servizio. Volerlo rendere arbitro di una commissione di inchiesta significa invitarlo a vendicarsi, cioè cercare di scaricare tutte le responsabilità sul governo. Del resto un intero paragrafo della relazione preparata da Bar sulle responsabilità del suo istituto non riguardava l’indagine di quel che era successo nei giorni e nelle ore precedenti all’attacco terrorista. Esso cercava di attribuire le responsabilità del disastro non ai fallimenti informativi, all’impreparazione dell’esercito, alla lentezza delle reazioni militari, alla censura sugli indizi dell’operazione terroristica denunciati invano anche da molti dipendenti di Bar, ma di scaricarli sulle politiche generali da lungo tempo attuate da Israele (e condivise dal governo attuale ma anche da quello precedente gestito dall’attuale opposizione, oltre che dai servizi di informazione e dalle forze armate) che certamente avevano sottovalutato il pericolo di Hamas ed erano cadute nella finzione buonista dei terroristi.
• Le reazioni di Bar
Insomma, il capo dei servizi segreti competenti per il territorio di Israele e per Gaza, quando la guerra era ancora aperta, sembrava dedicarsi più che al tentativo di individuare i rapiti e di eliminare i terroristi, alla caccia ai suoi nemici interni ad Israele, in sostanza il governo e Netanyahu. Bisogna aggiungere una serie di soffiate provenienti dallo Shabak per esempio sulle trattative con i mediatori, che in diverse occasioni hanno messo in difficoltà il governo. O altre che nelle ultime settimane, quando Bar era già in odor di licenziamento, insinuavano alla stampa che lo Shabak stesse indagando su innominati “collaboratori del primo ministro”, bizzarramente sospettati di aver ricevuto doni addirittura dal Qatar. Quando Bar era rimasto l’unico dei responsabili prossimi del fallimento del 7 ottobre in servizio, Netanyahu gli ha chiesto formalmente di dimettersi, di fronte al suo rifiuto (di nuovo reso pubblico con un attacco politico al governo), ha annunciato di aver iniziato la procedure per licenziarlo, che dovrebbe concludersi con un voto del gabinetto, mercoledì.
• Il fronte contro il governo
A questo punto è partito uno strano coro di soccorsi a Bar. Si è fatto intervistare in TV il suo predecessore Nadav Argaman minacciando di “ rivelare tutto quel che sa e che finora ha tenuto per sé” sui rapporti con Netanyahu; un avvertimento che lo stesso Netanyahu ha qualificato come “mafioso” arrivando a denunciare Argaman alla polizia. Ha parlato naturalmente anche il capo dell’opposizione Lapid, che nell’ultimo anno e mezzo ha rifiutato costantemente la politica di unità nazionale che è nella tradizione di Israele durante la guerra. Si è pronunciata anche con una lettera formale il procuratore generale e consulente legale del governo Gali Baharav-Miara, cercando di proibire a Netanyahu di procedere al licenziamento. Ma anche lei si trova in conflitto di interessi, non solo perché a sua volta soggetta a una procedura di impeachment parlamentare essendo in conflitto costante ed esplicito con la linea politica del governo, ma anche per il fatto di essere, lei e soprattutto suo marito, stretti amici di Bar. E mercoledì in tutto Israele vi saranno manifestazioni organizzate secondo il modello e l’ideologia delle agitazioni contro la riforma della giustizia, compreso un assedio programmato alla sede del governo e alla residenza di Netanyahu, in concomitanza con la votazione del governo su Bar.
(Shalom, 18 marzo 2025)
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Etica in tempo di guerra, voci a confronto
di Adam Smulevich
Viene prima la vittoria contro Hamas o la liberazione degli ostaggi?
L’interrogativo attraversa la società israeliana da mesi e si è riaffacciato con forza in queste ore con la fine della tregua a Gaza. «È il dilemma etico forse più lacerante di questo periodo storico», conferma Michael Ascoli, rabbino e ingegnere nato a Roma ma residente ad Haifa dal 2010. La sera di mercoledì 19 marzo ne parlerà a partire dalle 20 al Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma, dove è in programma un incontro su “etica ebraica in tempo di guerra”. Al suo fianco ci saranno Yonathan Bassi del kibbutz Maale Gilboa e il giornalista Massimo Lomonaco, ex corrispondente dell’Ansa da Israele. L’iniziativa è parte del ciclo di conferenze “I tanti volti di Israele” promosso dal Pitigliani insieme all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e risponde, secondo Ascoli, «al bisogno molto forte che c’è oggi di ascoltare, intervenire e confrontarsi su temi che investono non soltanto Israele in modo diretto ma anche la diaspora in senso ampio; anche perché l’ebreo diasporico si sente in qualche modo un rappresentante d’Israele verso il mondo esterno e tiene talvolta a questo compito molto più di quanto facciano le istituzioni israeliane».
• La scelta del rabbino Mirvis
Temi sui quali discutere certo non mancano. «È di ieri», sottolinea Ascoli, «la notizia che il rabbino capo del Regno Unito Ephraim Mirvis non parteciperà a una conferenza sull’antisemitismo organizzata dal governo israeliano per via della presenza di alcuni politici di estrema destra tra i relatori». Per Ascoli questa presa di posizione «molto forte» da parte del rabbino Mirvis è «un ottimo esempio delle titubanze proprie di una parte dell’ebraismo europeo a rivolgersi verso quel tipo di destra, anche per via del ricordo della Shoah». Altro tema etico sensibile riguarda le modalità di svolgimento della guerra. «La tradizione ebraica afferma dei principi alti, anche nel rapporto con il nemico, principi però non sempre semplici da applicare dal punto di vista sia emotivo che pratico». Secondo Ascoli, «l’esercito israeliano si è finora distinto per esserci riuscito piuttosto bene». Allo stesso tempo «i massacri del 7 ottobre e il tremendo appoggio internazionale di cui Hamas ha goduto hanno fatto sì che, anche in Israele, guadagnasse consenso la posizione di chi vuole scrollarsi di dosso il “fardello” di essere sempre bravi e morali». Chi si fa latore di questa istanza, prosegue il rav, «interpreta un sentimento istintivo e ha gioco facile in una società sottoposta a un trauma prolungato». E così l’idea «fa breccia, rompendo anche i muri dell’elettorato tradizionale di questi politici; lo si vede ad esempio sul tema della possibile espulsione dei gazawi per la ricostruzione della Striscia; un tema che gode di ampio consenso, malgrado i problemi etici molto grandi che pone».
(moked, 18 marzo 2025)
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Hamas, Iran e Hezbollah. I piani segreti per una guerra totale contro Israele rivelati da documenti trafugati
I documenti evidenziano comunicazioni tra Yahya Sinwar, leader di Hamas, e figure di spicco in Iran e Hezbollah, mirate a coordinare un attacco su più fronti con il sostegno di forze filo-iraniane. Il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, noto anche come ITIC, è un gruppo di ricerca con sede in Israele e ha stretti legami con le Forze di difesa israeliane.
di Nina Deutsch
Immaginate un mosaico di documenti segreti, frammenti di un piano oscuro, scoperti tra le macerie di Gaza. Questi documenti, rinvenuti dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), rivelano una strategia meticolosamente orchestrata da Hamas per infliggere un colpo devastante al cuore di Israele. Come riferisce il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, emergono sempre nuovi dettagli su attacchi su larga scala pianificati da anni per una guerra totale contro lo Stato ebraico.
I documenti evidenziano comunicazioni tra Yahya Sinwar, leader di Hamas, e figure di spicco in Iran e Hezbollah, mirate a coordinare un attacco su più fronti con il sostegno di forze filo-iraniane. Il Centro di informazione sull’Intelligence e il terrorismo Meir Amit, noto anche come ITIC, è un gruppo di ricerca con sede in Israele e ha stretti legami con le Forze di difesa israeliane.
Dopo la campagna della Spada di Al-Quds (Operazione “Guardiano dei muri”) nel maggio 2021, è iniziato un cambiamento nell’approccio di Hamas, poiché ha preso forma il riconoscimento che la distruzione di Israele era diventata un obiettivo raggiungibile nel breve termine. Il cambiamento è evidente anche in una serie di dichiarazioni pubbliche dei leader di Hamas, che secondo i documenti rinvenuti, avrebbero potuto essere percepite dalla parte israeliana (ed è probabile che siano state percepite in questo modo) come false vanterie.
Già negli anni scorsi sono emerse notizie su queste strategie mirate alla distruzione dello Stato ebraico, ossia di carte che rivelano che Yahya Sinwar, leader di Hamas, aveva delineato tre scenari per annientare Israele, coinvolgendo Hezbollah e milizie provenienti da Iraq, Yemen e Siria. L’obiettivo era un attacco sincronizzato su più fronti, sfruttando momenti di vulnerabilità come le festività ebraiche, considerate detonatori di tensione nella regione. In una lettera del giugno 2022, Sinwar descriveva dettagliatamente questi piani, evidenziando una collaborazione strategica con le forze filo-iraniane, come riportato dal Wall Street Journal.
Un documento del luglio 2022 indica che Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, aveva approvato la strategia, sollecitando ulteriori discussioni con i vertici iraniani. Comunicazioni intercettate nell’aprile 2023 tra Sinwar e un comandante di Hezbollah confermano che Hamas percepiva l’esercito israeliano come «esausto» e incapace di rispondere con forza a un’offensiva improvvisa, secondo quanto riportato sempre dal Wall Street Journal.
Ma le ambizioni di Hamas non si fermavano qui. Come rivelato dal giornale tedesco Die Welt, il gruppo aveva pianificato attacchi su larga scala, tra cui l’occupazione di edifici governativi a Gerusalemme e grattacieli a Tel Aviv, nel tentativo di provocare un collasso interno di Israele.
Inoltre, secondo quanto rivelato da The Sun, Hamas avrebbe addirittura progettato un attacco in stile 11 settembre, con l’obiettivo di far esplodere grattacieli israeliani.
È inquietante pensare come, mentre la vita quotidiana scorreva apparentemente tranquilla, nelle ombre si tessessero trame così minacciose. Questi piani, se attuati tutti quanti, avrebbero potuto portare a una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, con un bilancio di vittime e una destabilizzazione regionale senza precedenti.
Il documento integrale
(Bet Magazine Mosaico, 17 marzo 2025)
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La “Conceptzia”: un difetto fatale di pensiero che continua a vivere
Alla luce dei passi falsi del 7 ottobre, l'approccio del nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF dovrebbe essere accolto con favore. Ma il coro degli opinionisti si rifiuta di cambiare tono.
di Ruthie Blum
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Attivisti israeliani di sinistra protestano contro la guerra, la crisi umanitaria a Gaza e le operazioni dell'IDF in Giudea e Samaria, Gerusalemme, 12 marzo 2025
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La reazione del movimento di protesta e dei suoi rappresentanti nello Stato ombra alla nomina del tenente generale Eyal Zamir a comandante in capo delle Forze di difesa israeliane era prevedibile. Chiunque sia stato approvato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu per sostituire Herzi Halevi è stato screditato fin dall'inizio - come una scelta politicamente motivata - indipendentemente dalle sue eccellenti qualifiche professionali.
Questo fa parte della campagna riflessiva contro il governo in generale e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu in particolare, che tiene in vita l'élite d'opinione di sinistra - così come alcuni ex funzionari della sicurezza. E non solo in senso figurato. Purtroppo, gli orrori del 7 ottobre 2023 non hanno rallentato le ruote della macchina della disinformazione. Al contrario.
Tuttavia, l'atteggiamento nei confronti di Zamir non solo non sorprende, ma è anche allarmante se si guarda al quadro generale. Invece di sostenere la missione dichiarata del nuovo Capo di Stato Maggiore dell'IDF - rivedere l'indagine finora inadeguata sulla serie di errori incomprensibili commessi in quel giorno mortale e servire come arma di attacco contro qualsiasi nemico che si sollevi contro Israele - i critici accusano ogni sua parola di essere una macchia.
Data la portata del fallimento di Israele nel prevedere e prevenire il massacro di Hamas di oltre 17 mesi fa, l'approccio di Zamire dovrebbe essere accolto con favore, se non a braccia aperte. Ma il coro degli opinionisti si rifiuta di cambiare tono.
Il che ci porta alla cosiddetta “ conceptzia”. La corruzione ebraica del termine inglese conception è meglio traducibile come pregiudizio di conferma.
Questo fenomeno psicologico è stato descritto da varie fonti nel corso della storia, tra cui il filosofo e scienziato inglese Francis Bacon.
“La comprensione umana, quando si è formata un'opinione“, scrisse nel 1620, ”dispone tutto il resto in modo da sostenerla e concordare con essa. E anche quando sono presenti un maggior numero e peso di prove contrarie, queste vengono ignorate, disprezzate o in qualche modo messe da parte o respinte”.
Questa è una descrizione perfetta della cecità israeliana che ha permesso ad Hamas di pianificare ed eseguire le peggiori atrocità contro gli ebrei dai tempi della Shoah. E questo in uno Stato ebraico sovrano, con un esercito ammirato in lungo e in largo.
Riconoscere questo triste fatto è necessario per correggerlo. Ma purtroppo non basta.
Un'intervista approfondita con Ofer Grosbard, ex capo del dipartimento di ricerca dell'IDF Intelligence Directorate (Aman), pubblicata sulla rivista N12 nel fine settimana, è rivelatrice. Grosbard, psicologo con un dottorato in analisi e risoluzione dei conflitti conseguito presso la George Mason University in Virginia, ha assunto l'incarico nell'agosto del 2021.
Sei mesi dopo è stato licenziato perché ha osato esprimere opinioni in contrasto con Conceptzia. Naturalmente, all'epoca nessuno chiamava così l'opinione consolidata di Aman. Ma era presente in tutto il suo arrogante splendore.
Ironia della sorte, Grosbard era stato assunto proprio per le competenze per le quali è stato poi licenziato: dopo l'operazione militare “Guardians of the Walls” contro Hamas, avrebbe dovuto fornire “una prospettiva originale sulla mentalità del nemico”.
“L'Aman, come l'intero esercito, è strutturato gerarchicamente in modo da limitare il pensiero aperto, critico e creativo”, ha dichiarato a N12. “I comandanti vogliono salire nei ranghi, quindi non si permettono di esprimere liberamente le proprie opinioni. Questi elementi sono particolarmente critici nel lavoro di intelligence, che dovrebbe essere il cervello dell'esercito e dello Stato”.
Un esempio lampante è la percezione che la comunità di intelligence ha del leader di Hamas Yahya Sinwar.
“Ho incontrato persone che hanno osservato da vicino il comportamento di Sinwar per anni e lo hanno studiato nei dettagli”, ha riferito. “Ho chiesto loro di esprimere i loro sentimenti su di lui. Alcuni hanno detto di rispettarlo; uno era dispiaciuto per lui; un altro lo vedeva come un padre caloroso; un altro ancora ha ammesso di odiarlo”.
Grosbard ha riconosciuto che le sue raccomandazioni, sebbene razionali, erano fortemente influenzate dalle emozioni: coloro che vedevano Sinwar come una “figura paterna” erano meno propensi a suggerirlo come obiettivo per l'assassinio. Chi lo odiava era favorevole alla sua eliminazione.
“Prendono un paio di psicologi clinici e dicono loro: “Scrivi una relazione su Sinwar”. Dal loro punto di vista, Sinwar è fondamentalmente 'ashkenazita'”, ha detto Grosbard. “Escono dai loro uffici, tracciano un profilo e concludono che è uno psicopatico. Ma non si può etichettare un'intera cultura come psicopatica. Anche nel DSM, il nostro manuale diagnostico dell'Associazione Psichiatrica Americana, è chiaro che un comportamento deviante può essere considerato patologico solo se si verifica in una certa percentuale della popolazione - non in tutti i residenti di Gaza o in tutti i terroristi di Nukhba”.
E ha continuato: “Questo è un ottimo modo per evitare di capire come pensa l'altra parte. Se si definisce Sinwar come uno psicopatico, ci si assolve dalla necessità di capirlo. Ma se si dice che ha un pensiero messianico, combinato con una comprovata capacità di eseguire i suoi piani per anni, e che intende ogni parola che dice, allora la questione è completamente diversa”.
Ha anche ricordato una conversazione con l'assistente dell'allora direttore dell'Aman Aharon Haliva, che giustamente si è dimesso in disgrazia l'anno scorso. Il vice di Haliva, ha detto Grosbard, “ha respinto ogni possibilità di generalizzare sulle culture, sostenendo che si trattava di sciocchezze - tutti la pensavamo allo stesso modo”.
Grosbard ha esteso la sua critica allo Stato di Israele nel suo complesso.
“Senza un'introspezione emotiva, siamo sulla strada della distruzione”, ha sottolineato. “Stiamo parlando di due fonti di errore: Una è l'incapacità di comprendere il modo di pensare del nemico, l'altra è la nostra stessa repressione - la repressione di un'intera nazione”.
E ha continuato: “C'è qualcosa di incredibilmente potente nella repressione collettiva. Gli esseri umani tendono a reprimere i pericoli, soprattutto quando esistono per lungo tempo. Non siamo progettati per essere in uno stato costante di alta tensione. A un certo punto ci si stanca, si desidera la pace e si reprime il pericolo”.
Questa dinamica, ha aggiunto, non è tipica solo di Israele.
“L'Occidente è così narcisista nella sua percezione culturale che trova difficile capire che qualcuno gli sta mentendo”, ha detto.
Speriamo che Eyal Zamir riesca a colmare questo divario.
(Israel Heute, 17 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Netanyahu vuole licenziare il capo dello Shabak
Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha annunciato l'intenzione di licenziare il capo dell'intelligence interna Ronen Bar. Il motivo è la mancanza di fiducia.
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu intende licenziare il capo del servizio di intelligence nazionale Shabak, Ronen Bar. Il leader del Likud ha dato l'annuncio domenica in un discorso video. In esso ha spiegato di non avere più fiducia nel suo capo dello Shabak. La sua sfiducia nei confronti di Bar ha continuato a crescere negli ultimi mesi. Questa situazione è inaccettabile in vista della guerra. Con il licenziamento di Bar, Netanyahu ha detto di voler anche evitare un nuovo 7 ottobre. Questo perché Netanyahu incolpa ampiamente lo Shabak per il massacro terroristico di Hamas.
Come riporta il quotidiano online “Times of Israel”, Netanyahu ha convocato il capo dei servizi segreti nel suo ufficio domenica e lo ha informato della sua decisione. Netanyahu aveva recentemente rimosso Bar dalla squadra di negoziatori per il rilascio degli ostaggi israeliani.
Appena quindici giorni fa, lo Shabak, responsabile del monitoraggio dei terroristi palestinesi, ha ammesso di aver commesso gravi mancanze nel corso dell'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023. Quando quindici giorni fa è stato pubblicato il relativo rapporto investigativo, Bar ha dichiarato: “Se lo Shabak avesse agito diversamente (...), il massacro avrebbe potuto essere evitato”. Allo stesso tempo, il rapporto attribuisce parte della colpa alla politica israeliana. La “politica della calma” ha permesso ad Hamas di costruire il suo arsenale di armi. Il rapporto critica anche i pagamenti del Qatar ad Hamas autorizzati dal governo israeliano.
L'esercito aveva precedentemente ammesso il suo “completo fallimento”. Subito dopo la pubblicazione del rapporto dello Shabak, l'ufficio di Netanyahu ha criticato duramente i risultati dell'indagine. Questo perché Netanyahu vede l'esercito e le autorità di sicurezza come responsabili del 7 ottobre, non i politici.
• Dimissioni sì, ma...
Secondo i media israeliani, il gabinetto deciderà su Bar in una riunione speciale mercoledì. Tuttavia, al momento non è chiaro se ciò avverrà. Il procuratore generale Gali Baharav-Miara ha dichiarato domenica sera che non è possibile avviare alcuna procedura di licenziamento nei confronti di Bar fino a quando non sarà stata esaminata la “base fattuale e legale”, al fine di escludere la possibilità che l'azione sia stata influenzata da conflitti di interesse. Ha inoltre affermato che “la posizione di capo dello Shabak non è una posizione di fiducia personale al servizio del primo ministro”.
Lo stesso Bar ha annunciato che si dimetterà 'anno prossimo, prima della fine del suo mandato avuto nel 2021. Ha citato come motivo il suo fallimento nel prevenire l'attacco di Hamas. Tuttavia, non ha voluto dimettersi immediatamente, ma sarebbe rimasto in carica fino a quando non fossero stati compiuti progressi sul rilascio degli ostaggi israeliani. Vuole inoltre portare avanti le indagini sulle presunte relazioni illegali tra i confidenti di Netanyahu e il Qatar. L'accusa: i confidenti avrebbero ricevuto denaro dal Qatar per migliorare l'immagine dell'emirato. A causa della natura esplosiva e della portata della questione, è lo Shabak e non la polizia a indagare sulla vicenda.
I media israeliani ipotizzano che queste indagini si basino su un conflitto di interessi che rende giuridicamente difficile per Netanyahu licenziare Bar. L'ex primo ministro Yair Lapid (Yesh Atid) ritiene che questo sia il motivo del previsto licenziamento. Il ministro della Giustizia, Yariv Levin (Likud), e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotritsch (Sionismo religioso), hanno invece accolto l'annuncio di Netanyahu come un “passo necessario”.
(Israelnetz, 17 marzo 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Valsesia, la “Terra Promessa” in provincia di Vercelli, è la nuova casa degli israeliani in fuga dal conflitto
In un territorio a rischio di desertificazione demografica, un ebreo italiano residente in Israele ha sviluppato il progetto Baita per accogliere i tanti israeliani che stanno lasciando il Paese. Nel 2024 più di 80 famiglie si sono trasferite e 400 di loro sono soci del Progetto. Un esempio di iniziativa e integrazione con la gente della zona, che apprezza questa novità.
di Pietro Baragiola
L’incertezza e la tensione generate dal conflitto in Medio Oriente ha spinto sempre più israeliani a lasciare le proprie dimore in cerca di una nuova casa.
Per rispondere a questa esigenza è nato il Progetto Baita, l’associazione senza scopi di lucro che intende proporre come meta prescelta l’area verdeggiante di Valsesia, incastonata nel cuore delle alpi.
“Tutti si innamorano della Valsesia, affascinati dalla bellezza del suo paesaggio e dall’accoglienza dei suoi abitanti” ha affermato Ugo Luzzati, fondatore del progetto, nella sua intervista rilasciata a La Stampa. “Vediamo arrivare sempre più famiglie che decidono di trasferirsi e investire nel nostro territorio in cerca di una vita tranquilla e serena, lontana dai pericoli della guerra.”
• La creazione del Progetto Baita
Originario di Genova, Ugo Luzzati ha vissuto gran parte della sua vita in Israele, dove si è sposato ed ha avuto cinque figli.
“Durante le vacanze la mia famiglia ed io venivamo spesso in Valsesia, ma ad un certo punto ho iniziato a trascorrerci sempre più tempo fino a decidere di trasferirmici definitivamente” ha raccontato Luzzati. “Israele sta cambiando, sento che si è rotto qualcosa.”
L’idea di aprire l’invito a tutti gli israeliani è nata da una conversazione con una maestra del comune di Valsesia che si lamentava di continuo con lui di come le scuole fossero quasi sempre vuote in quanto c’erano sempre meno studenti.
“È stata quella conversazione a darmi un’illuminazione: portiamo le famiglie israeliane in Valsesia” ha affermato Luzzati che nel 2022 ha ufficialmente fondato Progetto Baita con l’obiettivo di seguire passo dopo passo gli immigrati israeliani per aiutarli ad inserirsi e ad ambientarsi nella nuova realtà.
Il nome dell’associazione deriva dalla parola ebraica “bait” che significa “casa”.
Oggi a causa della guerra con Hamas sempre più cittadini israeliani si sono trasferiti nel comune della zona che si estende da Borgosesia passando per Varallo, Cravagliana, Civiasco, Balmuccia e Scopello, fino a Rimasco.
“Dal 7 ottobre in poi la nostra associazione ha avuto un ruolo fondamentale” ha affermato Luzzati, spiegando che entro la fine del 2024 più di 80 famiglie si sono trasferite nell’area e 400 di loro sono soci del Progetto Baita.
• Gli israeliani della Valsesia
Come precisato da Luzzati, quasi tutti i nuovi arrivati sono laureati e ricoprono posizioni di rilievo: medici, ingegneri, informatici e farmacisti.
“Durante gli ultimi convegni sulla sanità si è iniziato a parlare della possibilità di coinvolgere questi professionisti nelle strutture locali” ha raccontato il fondatore di Progetto Baita.
In modo da agevolare la propria transizione molti israeliani hanno scelto di frequentare corsi di lingua italiana prima dell’arrivo a Valsesia e chi ha già dimostrato dimestichezza con il nuovo idioma si è inserito velocemente trovando subito lavoro.
Come affermato su Il Foglio da Gianni Tognotti, ex sindaco di Rimasco e vicepresidente del Progetto Baita, i nuovi arrivati prediligono terreni e case indipendenti in pietra, tipiche della zona, ‘comode e sicure ma con la possibilità di dotarsi di collegamenti a internet’.
“È ammirevole la volontà di queste persone di integrarsi a pieno nel territorio. Molti in età pensionabile hanno chiesto di poter aiutare le associazioni locali come volontari” ha spiegato l’ex sindaco sottolineando che persino le scuole hanno raggiunto un indice di produttività e presenza che non si vedeva dagli anni ’60.
A Varallo la pronipote del premio Nobel per la letteratura Shmuel Yosef Agnon ha aperto un corso di ebraico riservato a classi di 30 italiani per agevolare la comunicazione con i nuovi arrivati. Questa cultura di integrazione è stata molto apprezzata anche sui social, aggiudicandosi diversi commenti di approvazione.
“Prima del loro arrivo il nostro era un territorio a rischio di desertificazione demografica. Oggi siamo rinati e, insieme, possiamo rendere ancora più bella la nostra comunità” ha concluso Tognotti.
(Bet Magazine Mosaico, 16 marzo 2025)
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